CAPITOLO 4 SOLITAIRE ASPETTAVA

Non so mai in quale momento del giorno mi faccio un amico.

DEMETRIOS.


Demetrios si avviò lentamente; uscì dal parco e si diresse verso il settore della periferia della Città Esterna dove Redcurtain Street occupa un tratto dell’arco; e la perplessità lo accompagnava come un nugolo di moscerini. Non era più ciò che era stato prima di incontrare Angus. Nella loro conversazione non avevano mai parlato di quel poliziotto, ma nella solitudine di Demetrios quell’immagine incombeva anche troppo grande. Angus, che fin dall’infanzia era abituato a considerare un poliziotto della Città Esterna come un subordinato, probabilmente non dava importanza all’episodio. E Demetrios aveva dimenticato Joe Park, affascinato com’era dalla presenza di Angus. Il passato era stato nitido, prima dell’ora appena trascorsa; adesso era il presente a riempire l’orizzonte; eppure Demetrios non era neppure certo di amare quel ragazzo.

Angus apparteneva alla società moderna, come non poteva appartenervi il vecchio Demetrios del ventesimo secolo. Tre ore fa non lo conoscevo neppure. La fede non muove le montagne se non nella mente del pio sognatore; l’amore è più forte, non è costretto, come la fede, a nutrirsi d’illusioni… può farlo, certo, e così facendo si avvelena, ma non è costretto a farlo.

Svoltò in un vicoletto squallido, una scorciatoia che portava a Redcurtain Street. Lì le case erano state raffazzonate con legname di scarto negli anni precedenti all’assassinio di Simon Bridgeman, quando i profughi avevano incominciato a non essere più tanto i benvenuti nella città-stato di Nuber; e si piegavano assurdamente l’una verso l’altra, come vecchie megere pettegole. Simon Bridgeman, figlio dell’era della plastica, non era mai riuscito a realizzare una segheria efficiente. Questo era spettato a Brian I, il quale capiva anche l’arco e le frecce, le picche e il tomahawk. Oggi imbrigliano i corsi d’acqua che si gettano nel mare di Hudson e nell’enorme Delaware, e c’è una cava, dietro Mount Orlook, dove si ricavano buone mole. Nel vicolo, Demetrios si guardò intorno, per vedere se c’erano maiali in cerca di cibo, sudiciume sparso, cani randagi feroci come donnole, e ubriachi. Nell’anno 47 Nuber non era afflitta da molte attività criminose violente; e quel po’ di malavita che c’era si annidava, come un ragno, in budelli come quello.

Demetrios avanzò a passo vivace, agitando il bastone di noce, e tenendolo bene in vista nell’ultima luce del giorno. Qualche volta, il vecchio entrava in vicoli come quello senza alcuna necessità, e riconosceva la stoltezza di quel comportamento. Sfidava il ragno nero ad assalirlo, e dopo si sentiva… no, non più giovane, ma forse più vivo.

(C’è gente che abita ancora nelle regioni desolate oltre Katskil e altri centri, gente selvaggia ma non demoniaca come molti immaginano. Costoro vivono là per libera scelta. Potrebbero abbandonare i loro costumi ferini e accettare il riparo offerto dalle città-stato… Katskil, Moha, Penn. Ma non lo fanno. Ecco, adesso smetto di nuovo.)

Demetrios uscì sano e salvo dal vicolo in Redcurtain Street, dove la polizia non permette che succeda mai niente di spiacevole. I potenti della Città Interna l’hanno sempre favorita, anche per amore delle percentuali, naturalmente; quelli dalle tuniche bianche amano i marciapiedi puliti, alle ore più adatte. L’usanza locale impone di seppellire i rifiuti nei giardini dietro le case, in modo che i maiali e i cani non vadano a rovistare. Demetrios era fiero dei fiori e delle verdure che coltivava per l’istituzione di Madam Estelle, sebbene questo non rientrasse, a stretto rigore, nei suoi compiti di Portinaio. Molte case di Redcurtain Street hanno grandi vetrate e balconi dove le ragazze si mettono in mostra, spartendo quei comodi promontori con gatti addormentati. Una strada incantevole, almeno nell’Anno 47.

Sui gradini della Casa di Madam Estelle, il Professore stava meditando, solo con il suo liuto, quando Demetrios sopraggiunse. Alzò un dito bruno in atto di saluto, senza dimenticare una sola nota della scala che svolazzava su e giù come un uccellino. — È stata una bella giornata, — disse Demetrios.

Il Professore annuì, spandendo dal liuto altra polvere diamantina di suoni. Normalmente, gli si facevano solo domande cui potesse rispondere con un sì o un no, perché era muto. — Una bella giornata calda. Mi sono fatto un nuovo amico, e forse sono felice. — Un arpeggio splendente riconobbe la possibilità della felicità. Gli occhi del Professore erano insondabilmente dolci, pieni di luci d’oro. Aveva la pelle abbronzata, i capelli corti e ricciuti. Demetrios pensava che avesse anche del sangue negro nelle vene, ma, come molti di coloro che vivevano nella città-stato di Nuber, non ammetteva di avere un passato. Erano amici da anni. Spesso il Professore, quando Madam non aveva bisogno di lui nel Salotto, se ne andava in giro per la città insieme a Demetrios; la sua presenza e il suo liuto potevano condurre a dimensioni nuove le storie raccontate agli angoli delle strade. Questo, e il fatto che dividevano il letto di Solitaire, creavano legami d’affetto.

— Ormai le ragazze si staranno alzando. — Il Professore annuì, mentre guardava volar via la musica. Sorrideva di rado, se non spirava il vento del sud; e quel giorno, il vento veniva dall’est. Per un attimo, Demetrios scoprì qualcosa di Garth nella bocca lussureggiante del Professore, e nell’inclinazione del capo, qualcosa di Solitaire nella grazia delle mani lunghe e sottili… non è strano che coloro che amiamo abbiano in comune qualche tratto del loro aspetto. — Non so mai in quale momento del giorno mi faccio un amico. — Il Professore giudicò il Tempo meritevole d’una rispettosa scrollata di spalle. — Fra poco torno da te, paisà. — Nel 47 quella parola d’origine italiana si era aggiunta ad altre espressioni affettuose dell’inglese, questo Mississippi delle lingue. Demetrios strinse la spalla del Professore ed entrò nella Casa del Sesso di Madam Estelle.

La Madam si stava godendo il tè in compagnia della graziosa Glorie e dell’olivastra Fran, servendosi distrattamente di una tozza teiera rosa che era Woolworth autentica, e condendo, il suo tè, distrattamente, con il fuoco di una bottiglia di whiskey di granturco. Come usava dirle stizzita Babette (gliel’aveva detto almeno trenta volte) doveva aver bevuto abbastanza tè di Penn da farci galleggiare l’intera flotta di Katskil… quattro battellini a una sola vela e un ketch. Era quel momento del pomeriggio in cui una foschia protettiva avvolgeva Madam Estelle, che abbandonava la casa a se stessa: il che voleva dire che era Babette a mandarla avanti. — Madam, ti dichiaro, sì, proprio a te, che questi bicipiti mi sono venuti a forza di sollevare quel maledetto bricco per farti il tè e il tè e poi ancora il tè. — Ma non era il tè che preoccupava il buon cuore di Babette.

— Prova a perdere trenta libbre, — disse dolcemente Madam Estelle, — e forse il tuo braccio sarà abbastanza magro perché io possa vedere il bicipite. — La bionda Glorie ridacchiò; le labbra di Fran si mossero, come se provassero qualche passaggio del Libro delle Posizioni. Fran era una ragazza dolce e seria; andare a letto con lei era come acquisire titoli accademici.

La robusta Babette, che era la tuttofare da dieci anni, di solito aveva la peggio in tutte le discussioni. Salutò Demetrios con affetto disinvolto (qualche volta andavano a letto assieme) e disse: — La ragazza ha finito di lavorare, uomo Demetrios. È di sopra. — Estelle sospirò, forse impegnata, nella foschia dello spirito di granturco, con gli orari di lavoro e con la fatica rugginosa e cigolante di vivere.

Un anno prima Demetrios aveva trovato Solitaire che vagava nei boschi intorno alla città. Era stata violentata da una banda di teppisti, aveva detto, e poi si era nascosta e aveva sofferto la fame per qualche giorno. Non ricordava chi fosse. Egli l’aveva portata al rifugio di Madam Estelle, come caso speciale. Poteva aiutare a tener pulita la casa, dividendo il letto soltanto con lui e con il Professore. Non doveva venire toccata dai clienti, altrimenti tutti e tre se ne sarebbero andati. — Un vecchio amico non ha bisogno di ricattarmi, — aveva detto la Madam. — Anch’io le voglio bene.

Estelle faceva conto su di lui. Chi altri avrebbe badato ai fuochi e avrebbe coltivato l’orto per un salario così modesto, e avrebbe intrattenuto gli ospiti nel Salotto con le sue storie solo per il gusto di farlo? E dove poteva trovare uno come il Professore, il cui liuto ti dava il suono delle risate infantili e dei cuori che si spezzano? Madam Estelle non era mai stata troppo avida di danaro, né malvagia. Presto aveva cominciato a provare e a dimostrare una speciale tenerezza per Solitaire… che ancora adesso non ricordava la propria identità. Probabilmente la grazia eccentrica della ragazza era ricordata nel grosso librone chiuso a chiave, il Diario, che Demetrios riconosceva come il cuore, lento ma vitale, dell’esistenza di Madam Estelle. Madam Estelle era timidamente fiera della sua capacità di leggere e di scrivere, una dote del Tempo Antico. Nessun altro vedeva mai il Diario: ella era meno vanitosa di molti autori, e aveva un sistema migliore per guadagnarsi da vivere.

Solitaire era sottile e dolce e minuta, e in un suo modo sottile, dolce e minuto, era completamente pazza.

Demetrios salì le scale e percorse il lungo corridoio, ricambiando i pigri saluti delle ragazze che si preparavano per la cena e per la nottata di lavoro, e raggiunse la grande, bella stanza in fondo alla casa, che divideva con il Professore e Solitaire. Da quella stanza poteva affacciarsi sull’orto e compiacersi della superiorità di questo nei confronti degli orti dei vicini; e poteva anche seguire quello che i vicini facevano, se ne aveva voglia… talvolta raccontava a Solitaire storie scatenate sul loro conto, completamente inventate da lui. Ella era seduta sul grande letto, e come Demetrios aveva previsto portava addosso gli stracci sporchi della giornata di lavoro; aveva i capelli raccolti in una stretta crocchia sotto un fazzolettone, e le guance macchiate. L’abbandono dell’avvilimento e della vecchiaia prematura… anche quello lo portava come un indumento. Era orribile vederla così, ma Demetrios conosceva le compensazioni di quella mascherata, di quel mimetismo protettivo che le permetteva di aggirarsi per la casa svolgendo le sue faccende come un topolino, senza che nessuno le badasse. Qualche volta attirava l’attenzione, per quell’esilità e quella grazia che non poteva nascondere, ma sapeva essere in modo molto convincente una schiava scialba.

In quel momento era perduta nella contemplazione del pianeta che continua ad esistere al di là di tutte le nostre finestre. Girò lentamente la testa bruna quando Demetrios chiuse la porta, e nei suoi occhi scuri (durante il giorno erano stati coperti dalle palpebre abbassate, per nascondere i fuochi della notte) fiorì la luce del riconoscimento; come un pesce colorato esce guizzando all’improvviso dall’oscurità d’una vasca, in un fulgore dorato.

— Solitaire aspettava Demetrios. — Egli non l’aveva mai sentita adoperare il pronome «Io», alla cui rigidità di pilastro molti di noi si appoggiano tutto il giorno e quasi tutta la notte; e non liberava mai la breve, robusta lama dell’altro prodigioso pronome che fa rima con blu. Nel rifugio della terza persona, Solitaire rimaneva chiusa per ragioni sue, e lì la potevi trovare se l’amavi come l’amavano Demetrios e il Professore. — Solitaire ha cinque cuori. — E alzò la mano aperta. — Uno per lei, uno che hanno divorato i cani e uno per Gesù e uno per il Professore e uno per Demetrios. — Comunque, non pareva una delle sue notti peggiori.

— Tutti miei. Ed è stata una bella giornata, — disse ancora Demetrios. — Bella e brutta. Mi sono fatto un amico; ma d’altra parte, un poliziotto mi ha detto che devo procurarmi una licenza per raccontare le storie.

— Licenza? Puah! — Ella non rise; faceva presto a vedere le possibilità di una bruttura. Solitaire aveva paura del buio, voleva sempre una lampada tenuta bassa o un mozzicone di candela acceso, anche quando giaceva tranquilla in letto tra Demetrios e il Professore. Una volta aveva detto che vivere era come camminare nella giungla, ma che qualche volta c’erano degli amici. — Ah, e quanto costerà, uomo Demetrios?

— Il poliziotto non ha voluto dirmelo, anche se credo che lo sapesse. — Demetrios sprofondò nel lusso della sua poltrona. Solitaire sorrise. — Un certo rituale non poteva incominciare fino a quando egli non era lì, dopo la fine di quella parte della giornata che glielo sottraeva. Ella non aveva mai approvato che se ne andasse in giro a sciorinare le sue storie davanti alla gente per un po’ di danaro, quando sarebbe potuto restare in casa, al sicuro. Una volta, in una giornata di pioggia, l’aveva sorpresa alla finestra, a benedire le nubi. Ma lei non diceva mai a Demetrios (o a chiunque altro) ciò che doveva fare. — Domani andrò in Comune e sentirò.

Ella sbadigliò, con un suono argentino. Con una scrollata di capo liquidò il Comune e tutte le assurdità del domani. Si levò il fazzoletto dalla testa e lo buttò sul pavimento. Stava portando un tavolino e una sedia al centro della stanza quando entrò il Professore, e sorrise anche a lui.

Il Professore tirò il paletto della porta e sedette a gambe incrociate sul pavimento, accanto alla poltrona di Demetrios. Il suo liuto parlava come se facesse parte del corpo snello e minuto, e parlava cortese, amorosamente.

Solitaire prese la sua scatoletta con esca e acciarino (nessuno doveva mai adoperarla o toccarla, altrimenti lei si arrabbiava e piangeva) e accese le candele nelle loro bugie, mettendone una ad ogni estremità del tavolino. Poi, da una cassapanca vicino al letto, tirò fuori una striscia di stoffa rossa, un paio di forbici, una pezzuola per lavarsi, un pezzo di sapone, una catinella e uno specchio a mano. Riempì la bacinella con l’acqua della caraffa che stava accanto al letto.

Solitaire si lavò la faccia.

Ci sono cento modi per farlo: sbrigativo, superficiale, trascurato, meticoloso, straziato. Solitaire prese la pezzuola bagnata e la saponetta delicata (che Demetrios e il Professore avevano comprata a caro prezzo in un negozio frequentato quasi esclusivamente da clienti dalle tuniche bianche; ma il costo non era chiaramente comprensibile a Solitaire, anche se se ne informava, diligentemente; l’addizione era un mistero, la sottrazione era sconosciuta, e il danaro era qualcosa che di solito avevano gli altri) e si tolse il sudiciume dal viso e dalle mani.

Quasi tutto se lo era messo addosso apposta, per mimetizzarsi. Sebbene lavorasse con impegno, onestamente, per Madam Estelle, aveva cura della sua carnagione, perché i suoi amanti ci tenevano; e forse perché ci teneva anche lei? Chissà? La Madam cercava di affidarle solo i lavori come rifare i letti, spazzare, spolverare, che non la esponevano alla fuliggine e al grasso e alle macchie, e di solito c’era sempre in giro Babette, pronta a intervenire con rumorosa competenza se Solitaire aveva bisogno di aiuto; e per questa ragione Solitaire non piangeva e non si arrabbiava quasi mai in loro presenza.

Lo specchio a mano era doppio: un manufatto del Tempo Antico, e perfetto. Da una delle due parti ingrandiva, per una magia che a Solitaire sembrava meravigliosa. Amava quell’oggetto perché glielo aveva trovato il Professore, egli non poteva dire dove. Solitaire si spazzolò i capelli neri, fra crepitii e scintille e luccichii, con un altro tesoro del Tempo Antico, una spazzola di vera plastica, dalla linea ariosa, leggerissima. Dicono che il Tempo Antico non tornerà più.

Era come se fosse sola, a prepararsi per uno svago serale, o semplicemente a osservare la sua bellezza, se pure era possibile farlo con distacco. Si calò il camice da schiava sui fianchi e si accarezzò i seni — rotondi, immaturi come boccioli, con un’ombra calda intorno al capezzolo — sollevandoli nella luce delle candele.

Tagliò un segmento a forma di rombo dalla stoffa rossa, esaminandolo teneramente come se fosse una creatura viva, poi lo sbatté sul tavolino e lo trapassò con un affondo brutale delle forbici, in modo che il metallo rimanesse piantato eretto nel legno. Socchiuse gli occhi per la sofferenza, allargò le mani, per dire: Ecco com’è stato… se vi interessa. Poi silenziosamente, da buona massaia, muovendosi senz’altro addosso che le rozze mutandine, spinse di nuovo il tavolino contro la parete, con le forbici ancora piantate. (Durante la notte — una delle sue notti buone — sarebbe sgattaiolata da sola giù dal letto e avrebbe finito di rimettere ordine, riponendo le forbici e gettando il pezzo di stoffa trafitto nel cestino.) Aprì l’armadio, appese le mutandine e contemplò il suo guardaroba.

Il liuto del Professore restò in silenzio fino a quando lei scelse, tra i cinque o sei vestiti, una lunga vestaglia rossocupo, con la cintura e la bordatura gialla, e splendidi bottoni d’osso, d’un candore di panna. Demetrios e il Professore avevano unito i guadagni di oltre un mese per comprarglielo. Degli altri abiti, uno solo era da passeggio: un paio di calzoni e giacca, color foglia secca, che l’avrebbero fatta sembrare un ragazzo, se non fosse stato per il suo modo di camminare. Il liuto esultò. Era una delle notti buone di Solitaire, ed era il momento di far l’amore prima di cena.

Lei rimase in piedi, nuda, perché i suoi amanti potessero conoscerla con gli occhi, con il braccio sinistro che sottolineava i seni, la mano destra protesa per avvertire che non era ancora il momento. Demetrios guardava lo stelo snello delle gambe allargarsi nell’anfora dei fianchi, il busto, il triangolo di mezzanotte, e quell’improvviso fiore di rosa e di oscurità, in cima, che era la sua faccia saggia e triste. Lì la ragione dimorava insieme alla follia, ed entrambe erano Solitaire.

Il vento del temporale soffiava dalla finestra aperta. Con un movimento della mano, il Professore si offrì di chiuderla, ma Solitaire scosse il capo. Infilò la vestaglia lasciandola aperta sulla carne calda e lucente. Disse a Demetrios: — Solitaire è qui.

Egli la sollevò sul letto e la prese con la lentezza e la delicatezza necessarie. Sopra la casa e la città turbata, oltre il casalingo, giubilante sforzo del suo corpo, udiva il precipitarsi desiderato del vento e della pioggia.

Spettava a Solitaire di scegliere quale dei suoi amanti poteva entrare in lei, e quando. Per lei il temporale era così intenso e sconvolgente — certe ombre ributtanti che si radunavano come porci selvatici al limitare di una foresta — che lo sopportava di rado. Demetrios pensava al proprio corpo come a una struttura protettiva per il fuoco centrale. Il liuto del Professore mormorava, tenero e rassicurante. Solitaire protese una mano per toccare il braccio del Professore, perché quando faceva così (aveva detto lei una volta), un po’ della forza che guidava la sua musica sulle corde fluiva in lei e cambiava il turbamento in un canto.

Ella gridò nell’eccesso del piacere-sofferenza, e rimase distesa, serena. Dopo un po’ disse (perché, da quella bambina che non era, Solitaire amava sempre di più una storia quando la sentiva ripetere, e si infastidiva se c’erano cambiamenti, anche nelle minime parole): — Adesso Demetrios racconterà al Professore e a Solitaire la storia di Anya, la Guardiana d’Oche.

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