1.

«Cassiere al Sette!» e via, di nuovo tra le casse, a scaricare i carrelli, le mele tre per ottantanove, gli ananas a pezzetti in offerta speciale, mezzo gallone al due per cento, settantacinque, quattro e uno fa cinque, grazie, dalle dieci alle sei per sei giorni la settimana; e lui se la cavava bene. Il direttore, un uomo di limatura di ferro e di bile, si complimentava per la sua efficienza. Gli altri cassieri, più anziani, sposati, parlavano di baseball, di football americano, d’ipoteche, di ortodontisti. Lo chiamavano tutti Rodge, tranne Donna, che lo chiamava Buck. I clienti, nelle ore di punta, erano mani che porgevano denaro e ritiravano denaro. Nei momenti morti, i vecchi e le vecchie amavano parlare, e non aveva molta importanza quello che rispondevi, tanto non ti ascoltavano. L’efficienza gli permetteva di destreggiarsi bene nel suo lavoro, giorno per giorno, ma non oltre. Otto ore al giorno di tagliolini in brodo, due per sessantanove, cibo per cani in offerta speciale, mezza pinta di Derry Wip, novantacinque, uno, e cinque fa quaranta. Tornava indietro a piedi fino a Oak Valley Road e cenava insieme a sua madre, guardava un po’ la televisione e poi andava a dormire. Qualche volta si domandava che cosa avrebbe fatto se Sam’s Thrift-E-Mart fosse stato dall’altra parte della superstrada, perché non c’erano passaggi pedonali per quattro isolati da una parte e per sei dall’altra, e lui non ci sarebbe mai arrivato. Invece c’era andato in macchina per fare rifornimento il giorno dopo il trasloco, aveva visto il cartello CERCASI CASSIERE, appeso lì da mezz’ora soltanto. Se non fosse incappato in quel lavoro avrebbe comperato una macchina per poter andare a lavorare nel centro della città, come aveva progettato. Ma non sarebbe stata una gran macchina, mentre adesso stava mettendo da parte una somma sufficiente per acquistarne una decente, quando fosse venuto il momento. Lui avrebbe preferito vivere in città e fare a meno della macchina, ma a sua madre le città facevano paura. Guardava le macchine, mentre tornava a casa a piedi, e si domandava quale avrebbe potuto acquistare, quando fosse venuto quel tale momento. Le automobili non gli interessavano molto; ma dato che aveva rinunciato all’idea di proseguire gli studi, avrebbe finito per spendere il denaro per qualche cosa, alla fine, e la sua mente ricadeva sempre nella stessa abitudine, quando lui ritornava a casa a piedi; era stanco, e per tutto il giorno aveva maneggiato roba in vendita e il denaro che la pagava, fino a quando nella sua mente non c’era posto per nient’altro, perché le sue mani non stringevano mai nient’altro, eppure non trattenevano mai nulla.

All’inizio della primavera, quando si erano appena trasferiti lì, il cielo sopra i tetti brillava di un verde freddo e d’oro, mentre lui ritornava a casa. Adesso, in estate, le strade prive d’alberi erano ancora luminose e caldissime alle sette. Gli aerei che decollavano dall’aeroporto, dieci miglia più a sud, tagliavano quel cielo pesante e abbacinante, trascinandosi dietro il rombo e la loro ombra; le altalene rotte dei campi giochi scricchiolavano lungo i viali. Quel quartiere residenziale si chiamava Kensington Heights. Per raggiungere Oak Valley Road, lui attraversava Loma Linda Drive, Raleigh Drive, Pine View Place, svoltava in Kensington Avenue, attraversava Chelsea Oaks Road. Non c’erano alture, né valli, né Raleigh, né querce. Su Oak Valley Road le case erano palazzine a due piani esafamiliari, dipinte di marrone e di bianco. Fra un garage e l’altro c’erano piccoli tratti a prato, bordati di pietre bianche frantumate e piantati a ginepri. Gli incarti della gomma da masticare, le lattine delle bevande analcoliche, i coperchi di plastica, i gusci e gli scheletri indistruttibili delle merci deperibili che lui maneggiava alla cassa del supermarket giacevano fra le pietre bianche e le piante scure. Su Raleigh Drive e Pine View Place le case erano bifamiliari e su Loma Linda Drive erano unifamiliari, ognuna con il suo vialetto, il suo garage, il suo prato, le pietre bianche e i ginepri. I marciapiedi erano pianeggianti, le strade livellate, il terreno piatto. La città vecchia, il centro, sorgeva sulle colline al disopra di un fiume, ma tutti i sobborghi a est e a nord erano piatti. L’unica vista che lui avesse mai avuto, lì, l’aveva veduta il giorno in cui erano arrivati dall’est con l’U-Haul. Poco prima del cartello che indicava i limiti della città c’era una specie di viadotto della superstrada, e da lassù vedevi i campi sottostanti. Più oltre, c’era la città, avvolta in una foschia dorata. Campi, prati immersi in quella luce tenue della sera, e le ombre degli alberi. Poi una fabbrica di vernici con l’insegna multicolore rivolta verso la superstrada, e quindi incominciavano i quartieri residenziali.

Una sera, dopo il lavoro, una sera afosa, lui attraversò il grande parcheggio di Sam’s Thrift-E-Mart e salì la rampa che portava alla stretta banchina pedonale della superstrada, per scoprire se poteva ritornare indietro, verso la campagna, nei campi che aveva visto: ma era impossibile. Pezzi di carta e di metallo e di plastica per terra, l’aria sferzata e sconvolta dai risucchi e il suolo che tremava ogni volta che un camion si avvicinava e passava oltre, i timpani aggrediti dal chiasso, e nient’altro da respirare che gomma bruciata e vapori di nafta. Dopo mezz’ora desistette e cercò di lasciare la superstrada; ma le vie suburbane erano divise dalla scarpata della grande arteria per mezzo di una recinzione. Doveva ritornare indietro e riattraversare il parcheggio del Thrift-E-Mart per arrivare a Kensington Avenue. Quella sconfitta lo lasciò tremante e irritato, come se fosse stato vittima di un’aggressione. L’automobile di sua madre non era nel posto macchina. Quando entrò, il telefono squillava.

— Eccoti, finalmente! È un pezzo che ti sto chiamando. Dov’eri andato? Ho già chiamato altre due volte. Resterò qui fin verso le dieci. Da Durbina. In frigo c’è il tacchino per la cena. Non usare i pranzi pronti Orientai Menu, sono per mercoledì. C’è un Mixon’s Turkey Dinner. — Un dollaro e ventinove, squillò qualcosa nella sua testa, grazie. — Mi perderò l’inizio del film sul Canale Sei, guardalo tu per me fino al mio ritorno.

— D’accordo.

— Allora ciao.

— Ciao.

— Hugh?

— Sì.

— Come mai hai fatto così tardi?

— Sono tornato a casa per un’altra strada.

— Mi sembri così irritato.

— Non so.

— Prendi un’aspirina. E fai una doccia fredda. È così caldo. Piacerebbe anche a me. Ma non tornerò tardi. Sii prudente. Non esci, vero?

— No.

Lei esitò, non disse nulla, ma non riattaccò. Lui disse: — Ciao — e riattaccò, e rimase accanto al tavolino del telefono. Si sentiva pesante; un animale pesante, massiccio e grinzoso, con il labro inferiore penzolante e i piedi come pneumatici di camion. Perché sei in ritardo di un quarto d’ora, perché sei irritato, stai attento a non mangiare l’Oriental Menu, non uscire. D’accordo. Stai attento, stai attento. Andò a mettere in forno il Mixon’s Turkey Dinner, anche se non aveva preriscaldato il forno come dicevano le istruzioni, e regolò il segnatempo. Aveva fame. Aveva sempre fame. O meglio, non aveva sempre fame, esattamente, ma aveva sempre voglia di mangiare. C’era un sacchetto di noccioline nell’armadietto; lo portò in soggiorno e accese la televisione e sedette in poltrona. La poltrona tremò e scricchiolò sotto il suo peso. Si alzò di scatto, lasciando cadere il sacchetto di noccioline che aveva appena aperto. Era troppo: l’elefante che mangiava noccioline. Sentiva che aveva la bocca aperta, perché gli sembrava di non riuscire a riempirsi d’aria i polmoni. Aveva la gola chiusa da qualcosa che cercava di uscirne. Rimase ritto accanto alla poltrona, scosso da brividi convulsi, e la cosa che gli ostruiva la gola uscì sotto forma di parole. — Non posso, non posso — disse a voce alta.

Spaventato, atterrito, andò alla porta d’ingresso, la spalancò, uscì prima che la cosa potesse continuare a parlare. La calda luce del sole al tramonto brillava cruda sulle pietre, i posti macchina, le automobili, i muri, i dondoli, le antenne televisive. Lui restò lì, tremando, muovendo la mascella: la cosa cercava di aprirgli a forza la bocca e di parlare ancora. Lui non si dominò più e corse via.

A destra, lungo Oak Valley Road, a sinistra su Pine View Place, di nuovo a destra… non sapeva, non riusciva a leggere le targhe. Non correva spesso, e neppure con facilità. I suoi piedi battevano a tonfi pesanti sul terreno. Automobili, posti macchina, case, tutto confuso in una cecità martellante e luminosa che, mentre lui correva, si arrossava e si oscurava. Dietro i suoi occhi c’erano parole che dicevano: Stai esaurendo la luce del giorno. L’aria penetrava nella sua gola e nei suoi polmoni, acre e bruciante, il suo respiro aveva il suono della carta lacerata. L’oscurità si coagulava come sangue. Gli scossoni dei suoi passi diventarono ancora più violenti: e lui stava correndo, in discesa. Cercò di fermarsi, di rallentare, mentre sentiva il mondo sdrucciolare e disgregarsi sotto i suoi piedi, e tanti tocchi lievi che gli sfioravano il volto. Vedeva (o ne sentiva l’odore) foglie, foglie scure, rami, terriccio, sfagno, e attraverso il martellare del cuore e del respiro udiva una musica sonora, incessante. Mosse qualche passo malfermo, strascicato, cadde in avanti sulle mani e sulle ginocchia, e poi giù, bocconi, lungo disteso sulla terra e sulle pietre, in riva all’acqua corrente.


Quando, finalmente, si sollevò a sedere, non ebbe la sensazione di aver dormito; e tuttavia era come destarsi, destarsi da un sonno profondo nel silenzio, quando l’identità appartiene interamente all’identità e nulla può smuoverla fino a quando ci si sveglia un poco di più. Alla radice della quiete c’era la musica dell’acqua. Fino a che la sua mano scivolò sulla pietra. Mentre si sollevava a sedere sentì l’aria che gli penetrava agevolmente nei polmoni, un’aria fresca che odorava di terra e di foglie imputridite e di foglie appena spuntate, e di tutte le specie diverse di erbe e di piante e di arbusti e di alberi, l’odore freddo dell’acqua, il sentore scuro del suolo, un aroma dolce e pungente che gli era familiare sebbene non sapesse dargli un nome, e tutti gli erano frammisti e tuttavia distinti, come i fili di un tessuto, e dimostravano che la parte olfattiva del suo cervello era viva e immensa, e aveva la possibilità di concedere lo spazio, se non il nome, a ogni profumo, aroma, sentore e lezzo che formavano quell’immenso, scuro, profondamente strano e familiare odore d’una riva di fiume nella tarda sera d’estate, in campagna.

Perché era in campagna. Non sapeva immaginare fin dove fosse giunto nella sua corsa, non aveva idea di quanto fosse lungo un miglio; ma sapeva che la sua corsa l’aveva portato lontano dalle vie, lontano dalle case, lontano dall’orlo del mondo lastricato e asfaltato, sul terriccio. Scuro, un po’ umido, irregolare, e complesso, incredibilmente complesso… muovendo un dito, toccò granelli di sabbia e di humus, foglie putrefatte, ciottoli, una pietra più grossa, semisepolta, radici. Era rimasto a giacere con il volto contro quel terriccio, in quel terriccio. La testa gli girava un po’. Trasse un respiro profondo e premette le mani aperte sul terreno.

Non era ancora buio. I suoi occhi si erano assuefatti, e poteva vedere chiaramente, sebbene i colori più scuri e tutti i punti in ombra fossero prossimi al limitare della notte. Il cielo, tra i rami neri che spiccavano nitidi sopra la sua testa, era incolore, e non c’erano variazioni di luminosità a indicare dove era tramontato il sole. Le stelle non erano ancora spuntate. Il fiumicello, largo sei, nove metri e cosparso di macigni, sembrava un frammento più vivace del cielo, e luccicava e scintillava girando intorno alle rocce. Le rive sabbiose e scoperte, sui due lati, erano chiare; solo più a valle, dove gli alberi crescevano più fitti, il crepuscolo si addensava, confondendo i dettagli.

Si ripulì il viso e i capelli dalla sabbia e dalle foglie morte e dalle ragnatele, e sentì sotto un occhio la lieve trafittura d’un taglietto causato da un ramo. Si sporse in avanti, puntellandosi su un gomito, intento, e toccò l’acqua del fiumicello con le dita della mano sinistra: dapprima molto leggermente, con la mano piatta, come se sfiorasse la pelle di un animale; poi la immerse nell’acqua, e sentì la muscolatura della corrente premergli contro il palmo. Poi si sporse ancora di più, abbassò la testa e, appoggiandosi con le mani nell’acqua poco profonda, al bordo della sabbia, bevve.

L’acqua era fredda e aveva il sapore del cielo.

Hugh rimase accovacciato sulla sabbia un po’ fangosa, ancora a testa china, con il sapore che non era un sapore sulle labbra e nella bocca. Lentamente, raddrizzò la schiena fino a quando fu in ginocchio, con la testa eretta, le mani sulle ginocchia, immoto. Ciò che la sua mente non sapeva descrivere a parole, il suo corpo lo comprendeva interamente, agevolmente, e lo apprezzava.

Quando quell’intensità che lui interpretava come una preghiera si attenuò, defluì e si dissolse nuovamente in un vigile, molteplice piacere, Hugh sedette sui talloni, guardandosi intorno più attentamente e metodicamente di quanto avesse fatto in un primo momento.

Dove fosse il nord era impossibile dirlo, sotto quel cielo egualmente incolore; ma lui era certo che i sobborghi, la superstrada e la città fossero direttamente alle sue spalle. Il sentiero che aveva percorso sfociava lì, tra un grosso pino dalla corteccia rossiccia e una massa di alti arbusti dalle grandi foglie. Più indietro, il sentiero proseguiva, scosceso, e si smarriva nella densa semioscurità, sotto gli alberi.

Il fiumicello scorreva direttamente attraverso l’asse del sentiero, da destra a sinistra. Hugh poteva vedere per un lungo tratto, verso monte, lungo la riva opposta che si snodava tra gli alberi e i macigni e cominciava a salire rispetto al livello dell’acqua. Verso valle, i boschi sprofondavano in un’oscurità crescente, interrotta soltanto dallo sfuggente luccichio del fiumicello. Sulla riva, ai due Iati, molto vicino, gli argini salivano e poi si spianavano in una radura priva d’alberi, quasi un praticello, erboso e inframmezzato da arbusti e cespugli.

L’odore familiare al quale non sapeva dare un nome era divenuto più intenso, e la sua mano l’aveva assorbito… menta, ecco che cos’era. Il tratto d’erba, sull’orlo dell’acqua, dove lui aveva appoggiato le mani, doveva essere menta selvatica. Staccò una foglia e la fiutò, poi l’addentò, immaginando che fosse dolce come una caramella alla menta. Era pungente, un po’ pelosa, fredda e carica del sapore della terra.

È un bel posto, pensò Hugh. E ci sono arrivato. Finalmente sono arrivato in qualche posto. Ce l’ho fatta.

Alle sue spalle, la cena nel forno, con il contaminuti regolato, e il televisore che parlava a una stanza vuota. La porta d’ingresso non era chiusa a chiave. Forse era addirittura spalancata. Per quanto tempo?

E la mamma che sarebbe tornata a casa alle dieci.

Dove sei stato, Hugh? Fuori, a fare una passeggiata. Ma non eri a casa quando sono arrivata a casa io lo sai quanto ci tengo Sì sono arrivato più tardi di quanto immaginassi scusami Ma tu non eri a casa…

Era già in piedi. Ma aveva la foglia di menta in bocca, le mani erano umide, la camicia e i jeans erano impiastricciati di foglie e di sabbia fangosa, e il suo cuore non era turbato. Ho trovato il posto, e quindi potrò ritornarci, si disse.

Restò immobile ancora per un minuto, ad ascoltare il mormorio dell’acqua sulle pietre e a guardare i rami immobili contro il cielo serotino; e poi si avviò per tornare indietro, lungo lo stesso percorso da cui era arrivato, su per il sentiero fra gli alti arbusti e il pino. Il sentiero era scosceso e buio, all’inizio; poi divenne pianeggiante, fra i boschi radi. Era facile seguirlo, anche se le braccia spinose delle piante di more lo fecero incespicare un paio di volte, nell’oscurità che si infittiva rapidamente. Un vecchio fosso, invaso dall’erba, poco più di un corrugamento o una grinza nel terreno, segnava il limitare del bosco; più oltre c’erano i campi. E al di là dei campi, in lontananza, c’erano i rapidi, bizzarri guizzi luminosi dei fari delle macchine, sulla superstrada. Sulla destra c’erano luci stazionarie. Hugh si avviò in quella direzione, attraverso i campi d’erba arida e di zolle dure, e finalmente arrivò su un’altura, sulla quale correva una strada di ghiaia. C’era un grande edificio illuminato, sulla sinistra presso la superstrada; più avanti, nell’altra direzione, c’erano due fattorie, o almeno sembrava. Nell’aia d’una fattoria c’era un riflettore, e Hugh si avviò da quella parte, sentendosi sicuro che era di là che doveva andare: lungo quella strada che passava tra le fattorie. Al di là dei cimiteri delle macchine e dei cani che abbaiavano c’era un tratto buio di filari d’alberi, e poi il primo lampione, l’estremità di Chelsea Gardens Place, che portava a Chelsea Garden Avenue, e poi nel cuore del quartiere residenziale. Hugh seguì il ricordo inconscio della direzione che aveva percorso correndo, e via dopo via ritornò infallibilmente a Kensington Heights, a Pine View Place, a Oak Valley Road, e alla porta del numero 14067 1/2 — C Oak Valley Road: che era chiusa.

Il televisore vibrava di risate artificiali. Hugh lo spense, poi sentì squillare il contaminuti e corse in cucina per spegnere il forno. L’orologio della cucina segnava le nove meno cinque. Il tacchino era raggrinzito nella piccola bara d’alluminio. Lui cercò di mangiarlo, ma sembrava di pietra. Bevve un litro di latte e mangiò quattro fette di pane imburrato, mezzo litro di yogurt ai mirtilli e due mele; raccolse il sacchetto di noccioline dal pavimento del soggiorno, le sgusciò e le mangiò, seduto al tavolo di cucina, riflettendo. La camminata per ritornare a casa era stata lunga. Non aveva guardato l’orologio, ma doveva aver impiegato quasi un’ora. E senza dubbio aveva trascorso un’ora o più in riva al fiumicello; e aveva impiegato altro tempo per arrivare fin là, anche correndo: non era il tipo che copriva il miglio in quattro minuti, lui. Avrebbe giurato che fossero le dieci o addirittura le undici, se l’orologio della cucina e il suo orologio da polso non l’avessero contraddetto all’unanimità.

Non aveva mai amato le discussioni, quindi desistette. Finì le noccioline, andò in soggiorno, spense la lampada, accese il televisore, tornò a spegnerlo immediatamente e sedette in poltrona. La poltrona tremò e scricchiolò, ma questa volta lui pensò che fosse dovuto più all’inefficienza della poltrona che al suo peso. Si sentiva bene, dopo quella corsa. Provava quasi un senso di compassione per quella povera poltrona malconcia, più che irritazione verso se stesso. Perché era fuggito? Beh, non c’era bisogno di pensarci. Non aveva mai fatto altro in tutta la sua vita. Fuggire e nascondersi. Ma era una cosa nuova, essere arrivato in qualche posto. Non era mai arrivato in nessun posto, prima, un posto dove nascondersi, un posto dove esistere. E poi, cadere lungo disteso in un luogo come quello, un luogo selvaggio e segreto. Come se tutti i sobborghi, il quartiere le case bifamiliari le roulotte il supermarket il parcheggio le macchine usate i posti macchina i dondoli le pietre bianche i ginepri il bacon a fette in offerta speciale gli incarti di gomma da masticare fossero rimasti nei cinque stati diversi in cui era vissuto durante quegli ultimi sette anni, come se tutto fosse in fondo senza importanza, impermanente, diverso da come doveva essere la vita, perché appena oltre, appena al di là del suo limitare, c’erano il silenzio, la solitudine, l’acqua che scorreva nel crepuscolo, il sapore di menta.

Non avresti dovuto bere quell’acqua. Inquinamento. Febbre tifoidea. Colera… No! Quella era la prima acqua purissima che avessi mai bevuto. Tornerò là a bere ogni volta che ne avrò voglia.

Il ruscello. Fiumicello, l’avrebbero chiamato negli stati dove lui aveva frequentato le medie superiori, ma la parola «ruscello» gli venne in mente dall’oscurità profonda del ricordo, una parola crepuscolare, adatta a quell’acqua nel crepuscolo, la corrente rapida e il baluginio che gli riempivano la mente. Le pareti della stanza in cui si trovava risuonavano debolmente dei rumori di un programma trasmesso dalla televisione nell’appartamento al piano di sopra, ed erano striate dalla luce che filtrava dal lampione attraverso le tendine di pizzo, qualche volta dal fioco vorticare dei fari d’una macchina di passaggio. Lì dentro, sotto quella mezza luce irrequieta e non silenziosa, c’era il luogo tranquillo, il ruscello. Da quel ricordo, la sua mente fluì alla deriva su vecchie correnti del pensiero: Se andassi dove voglio andare, se andassi all’università, qui, e parlassi con la gente, forse ci sarebbero prestiti per studenti, per la scuola per bibliotecari, oppure, se risparmiassi abbastanza e cominciassi e magari ottenessi una borsa di studio… e via, via, avanti, come una barca che andasse alla deriva oltre le isole in vista della costa, addentrandosi in un futuro più lontano, sognato nel passato, un edificio dall’ampia, affollata gradinata, le scalinate all’interno e sale grandiose e alte finestre, e gente che lavorava in silenzio, a suo agio tra gli interminabili scaffali carichi di libri, come i pensieri sono a loro agio nella mente, la Biblioteca Civica durante una gita della quinta classe in occasione della Settimana Nazionale del Libro, la meta e il rifugio dei suoi desideri.

— Cosa ci fai lì seduto al buio? Senza il televisore acceso? E la porta d’ingresso non è chiusa a chiave? Perché non hai acceso le luci? Credevo che non ci fosse nessuno. — E quando sua madre ebbe finito di parlarne trovò il tacchino, che lui non aveva nascosto abbastanza bene nel portaimmondizie sotto il lavello. — Che cos’hai mangiato? Cos’aveva che non andava? Non sei capace di leggere le istruzioni? Devi avere un principio d’influenza, faresti bene a prendere un’aspirina. Davvero, Hugh, non sei capace di badare a te stesso, non sai fare neanche le cose più semplici. Come posso stare tranquilla, quando esco dopo il lavoro per stare un po’ con le mie amiche, se tu sei così irresponsabile? Dov’è il sacchetto di noccioline che avevo comprato per portare domani da Durbina? — E sebbene in un primo momento lui la vedesse, come la poltrona, semplicemente inefficiente e impegnata a svolgere una funzione cui non era adatta, non seppe trattenersi dal vederla da quel suo luogo tranquillo, ma venne ritrascinato indietro e imprigionato, fino a quando tutto ciò che poté fare fu non ascoltare, e dire — Sta bene — e dopo che sua madre ebbe acceso il televisore che trasmetteva l’ultima pubblicità dopo il film che avrebbe voluto vedere, — Buonanotte, mamma. — E fuggì a nascondersi nel letto.


Nel piccolo supermercato dell’ultima città, dove Hugh era stato promosso per la prima volta da fattorino a cassiere, la vita era stata tranquilla, con tanto tempo per chiacchierare ed oziare nei magazzini, ma da Sam’s c’era molto da fare, e ogni lavoro era specializzato, e senza possibilità di sostituzioni. Magari avevi l’impressione che la coda davanti alla tua cassa dovesse finire con il prossimo cliente, ma ne arrivava sempre qualcun altro. Hugh aveva imparato a pensare a frammenti; non era un buon metodo, ma era l’unico disponibile. In una giornata lavorativa riusciva a pensare abbastanza, se continuava a ritornare sull’argomento; un pensiero lo attendeva, come un cane paziente, fino al suo ritorno. Quel giorno, quando si svegliò, il suo cane lo stava aspettando; e andò al lavoro con lui, dimenando la coda: voleva ritornare al ruscello, al luogo in riva al ruscello, e avere il tempo per restarci un po’. Alle dieci e mezzo, dopo aver sbrigato la vecchia con una scarpa ortopedica, quella che spiegava sempre che una volta il salmone in scatola costava dieci cents ma adesso era scandalosamente caro perché veniva spedito tutto all’estero in conto dei prestiti ai paesi socialisti, mentre pagava il pane e la margarina con i tagliandi dell’assistenza pubblica, Hugh aveva già deciso che il momento migliore per andare in riva al ruscello sarebbe stato il mattino, non la sera.

Sua madre e la sua nuova amica, Durbina, stavano studiando insieme una sorta di occultismo; e ultimamente sua madre aveva preso l’abitudine di andare da Durbina almeno una volta la settimana, dopo il lavoro. Così, lui aveva una serata libera, ma una sola per settimana, e non sapeva mai in anticipo quale sera fosse, e poi avrebbe dovuto fare in modo di tornare a casa prima di sua madre.

A lei non dispiaceva rientrare a casa per prima, di giorno; ma se si aspettava di trovarlo e non lo trovava, o se al ritorno trovava la casa vuota, non le andava più bene. E da un po’ di tempo non le andava più bene neppure restare in casa da sola quando veniva buio. Quindi era inutile pensare di uscire di sera: era come la scuola serale, proprio non c’era neppure da pensarci.

Ma la mattina lei usciva alle otto per andare al lavoro. Allora lui avrebbe potuto andare al luogo in riva al ruscello. Aveva a disposizione due ore, comunque. Di giorno poteva esserci gente, pensò (nel pomeriggio, quando Bill badava alla cassa numero Sette per dargli il cambio), poteva esserci altra gente, o cartelli che annunciavano «proprietà privata — divieto d’accesso»; ma avrebbe corso quel rischio. Non gli sembrava un posto dove andavano in molti.

Arrivò a casa all’ora solita, un quarto alle sette, quella sera, ma sua madre non arrivò e non telefonò. Oziò, leggendo il giornale, e rimpiangendo di non avere qualcosa da mangiare, come le noccioline, le noccioline che aveva mangiato la sera prima e che sua madre avrebbe voluto portare da Durbina l’indomani, cioè quella sera. Oh, diavolo, pensò, avrei potuto andare al luogo in riva al ruscello, dopotutto. Si alzò per uscire; ma non poteva andare proprio adesso, perché non sapeva quando sarebbe rientrata sua madre. Andò in cucina per prepararsi la cena, ma non trovò niente di appetitoso; mangiucchiò qualcosa, e bevve una lattina di succo d’arancio ghiacciato. Aveva il mal di testa. Avrebbe voluto avere un libro da leggere e pensò: Perché non compro una macchina? Così potrei andare in centro, in Biblioteca. Perché non vado mai in nessun posto, perché non ho una macchina? Ma a cosa serviva una macchina, se lui lavorava dalle dieci alle sei e la sera doveva restare a casa? Guardò l’attualità alla televisione per chiuder fuori il cane della sua mente, che gli si ribellava e ringhiava e mostrava i denti. Squillò il telefono. La voce di sua madre era brusca. — Volevo essere sicura, questa volta, prima di tornare a casa — disse lei, e riattaccò.

Quella sera, a letto, Hugh cercò di evocare immagini consolanti, ma divennero tormentose; alla fine ripiegò su una fantasia di molti anni fa, una cameriera che frequentava quando aveva quindici anni. Immaginò di succhiarle i seni, e così portò la masturbazione al culmine, e dopo rimase disteso, immerso nella desolazione.

La mattina dopo si alzò alle sette anziché alle otto. Non aveva detto a sua madre che intendeva alzarsi presto. A lei non piacevano i cambiamenti. Era seduta in soggiorno, con il caffè e una sigaretta, e guardava il telegiornale del mattino, con le sopracciglia tinte di nero e un po’ aggrondate. Per colazione non prendeva mai altro che un caffè. A Hugh piaceva far colazione: gli piacevano le uova, il bacon, il prosciutto, il toast, i panini, le patate, le salsicce, il pompelmo, il succo d’arancia, le focacce, lo yogurt, i cereali, tutto; e metteva latte e zucchero nel caffè. A sua madre la vista, i rumori e gli odori dei suoi preparativi davano la nausea. In quell’appartamento non c’era una porta che divideva la zona cucina dal soggiorno. Hugh cercò di muoversi senza far rumore. Sua madre lasciò cadere tazza e piattino nel lavello d’acciaio e disse: — Vado al lavoro. — Lui sentì in quella voce il terribile tono teso, tagliente, pensò (non lo disse), come la lama di un coltello. — Bene — disse senza voltarsi, sforzandosi di dare alla propria voce un suono sommesso, neutro e neutrale; perché sapeva che erano la sua voce profonda, la sua statura, i piedi grossi e le dita tozze, il suo corpo pesante e sessuale che lei non riusciva a sopportare, che le davano ai nervi.

Sua madre uscì subito, sebbene fossero soltanto le sette e trentacinque. Lui sentì il motore avviarsi, vide l’azzurra macchina giapponese passare davanti alla finestra panoramica, in fretta.

Quando andò all’acquaio, vide che il piattino di sua madre era incrinato, e il manico della tazza era staccato. Quella piccola testimonianza di violenza gli rivoltò lo stomaco. Restò immobile, con le mani sul bordo del lavello, a bocca aperta, dondolandosi un po’ su un piede e sull’altro, com’era sua abitudine quand’era angosciato. Lentamente tese la mano, girò il rubinetto dell’acqua fredda, la fece scorrere. Guardò il getto limpido e precipitoso che riempiva la tazza rotta e ne traboccava.

Lavò i piatti, chiuse a chiave la porta e se ne andò. A destra su Oak Valley, a sinistra su Pine View, e avanti. Camminare era piacevole, l’aria era dolce: il coperchio della giornata afosa non s’era ancora abbassato. Hugh si avviò a passo elastico, e dopo dieci o dodici isolati si liberò dell’influsso del malumore di sua madre. Ma mentre proseguiva, consultando l’orologio, cominciò a dubitare di poter arrivare al luogo del ruscello prima di dover tornare verso Sam’s, per essere al lavoro alle dieci. Come aveva fatto ad arrivare al ruscello, e a sostare e poi a tornare indietro, l’altra sera, in due ore soltanto? Forse adesso era fuori rotta, e non stava seguendo il percorso più breve, o forse aveva sbagliato completamente direzione. La parte della sua mente che pensava senza bisogno delle parole ignorò quei dubbi e quelle preoccupazioni, guidandolo da una strada all’altra, attraverso cinque miglia, Kensington Heights e Sylvan Dell e Chelsea Gardens, fino alla strada di ghiaia, sopra i campi.

Il grande edificio presso la superstrada era la fabbrica di vernici: da quel punto si vedeva la parte posteriore della grande insegna multicolore. Hugh arrivò fino alla recinzione intorno al parcheggio, e guardò giù, cercando di scorgere i campi dorati dal tramonto che aveva visto dalla macchina. Nella luce del mattino non avevano nessun incanto. Erano pieni d’erbacce, un tempo coltivati, ma ormai non venivano più arati, nessuna bestia ci pascolava; erano abbandonati. In attesa che qualcuno ci costruisse. Un cartello, VIETATA LA DISCARICA DEI RIFIUTI, affiorava da un fosso pieno di cardi, accanto alla carcassa arrugginita di un’automobile. Lontano, sui campi, macchioni d’alberi gettavano verso ovest le loro ombre; più oltre c’erano i boschi, che emergevano azzurri nell’aria nebbiosa e assolata. Erano le otto e mezzo passate, e cominciava a far caldo.

Hugh si tolse la giacca di tela jeans e si asciugò il sudore dalla fronte e dalle guance. Per un minuto rimase fermo a guardare il bosco. Se avesse proseguito, anche se non avesse fatto nulla di più che bere al ruscello per andarsene subito, probabilmente sarebbe arrivato in ritardo al lavoro. Imprecò a voce alta, rabbiosamente, girò sui tacchi, e tornò indietro lungo la strada ghiaiata che passava accanto alle fattorie malridotte e al vivaio degli alberi di Natale o quello che era, tagliò verso Chelsea Gardens Place, e procedendo a passo sostenuto lungo le vie curvilinee e prive d’alberi, fra prati, posti macchina, case, prati, posti macchina, case, arrivò a Sam’s Thrift-E-Mart alle dieci meno dieci. Era rosso in faccia e sudato, e Donna, nel magazzino, disse: — Hai dormito fino a tardi, Buck.

Donna aveva quarantacinque anni, più o meno. Aveva una quantità di capelli rossoscuri, che da un po’ di tempo si acconciava, secondo la moda, in una criniera di riccioli e viticci che le dava l’aspetto di una ventenne, vista di spalle, e di una sessantenne vista di fronte. Aveva una bella figura, brutti denti, un figlio disgraziato che beveva, e un bravo figlio che faceva il pilota degli stock-cars. Provava simpatia per Hugh, e chiacchierava con lui quando ne aveva l’occasione, e gli parlava (qualche volta da cassa a cassa, fra i carrelli e i clienti) dei suoi denti e dei suoi figli, e del cancro di sua suocera, della gravidanza della sua cagna e delle relative complicazioni; gli offriva i cuccioli; e si raccontavano vicendevolmente le trame dei film e degli sceneggiati televisivi. Donna l’aveva soprannominato Buck fin dal primo giorno. — Buck Rogers nel ventunesimo secolo, scommetto che sei troppo giovane per ricordartelo. — E aveva riso di quel paradosso. Quella mattina disse: — Hai dormito fino a tardi, Buck. Vergogna.

— Mi sono alzato alle sette — ribatté lui.

— E allora perché hai corso? Lanci nuvolette di vapore!

Hugh si fermò, senza sapere cosa dire, poi represse un’esclamazione. — Correre — disse. — Sai, dicono che fa bene.

— Sicuro, hanno anche pubblicato un libro di successo, no? È come il jogging, ma molto più impegnativo. Tu cosa fai, dieci volte il giro dell’isolato di corsa? Oppure vai in palestra o qualcosa del genere?

— Corro, così — disse Hugh, avvilito all’idea di rispondere con una menzogna all’interesse premuroso della donna; ma non gli passò per la mente di cercare di parlarle del luogo che aveva scoperto in riva al ruscello. — Sono un po’ grasso. Ho pensato di provare con questo sistema.

— Sì, forse pesi un po’ troppo per la tua età. Ma a me sembra che vada benone così — disse Donna, squadrandolo. Hugh si sentì profondamente compiaciuto.

— Sono grasso — disse, battendosi la mano sul ventre.

— Un po’ cicciosetto, forse. Ma pensa a tutte le ossa che hai per portare il tuo peso. Dove le hai prese? Tua madre è così minuta, così esile che quasi non riesco a crederci, quando viene qui a far spesa. Tuo padre doveva essere grande e grosso, eh: hai preso da lui.

— Già — disse Hugh, girandosi per mettere il grembiule.

— È morto, Hugh? — chiese Donna, e nella sua domanda c’era un’autorità materna che lui non poteva ignorare o eludere; ma non poteva rispondere adeguatamente. Scrollò la testa.

— Divorziato — disse Donna, pronunciando la parola, come se fosse normalissima, e certamente preferibile alla morte; Hugh, dato che per sua madre quella parola era un’oscenità impronunciabile, avrebbe annuito con sollievo, ma dovette scrollare di nuovo il capo. — Se ne è andato — disse. — Devo aiutare Bill a spostare le casse. — E se ne andò. Andò via, fuggì, si nascose. Fra le casse, tra le fettine di surrogato di bacon e il verde ammiccare dei registratori di cassa: dovunque, potevi nasconderti dovunque, e nessun posto era meglio di un altro.

Ma di tanto in tanto, durante quella giornata di lavoro, pensò all’acqua del ruscello nella sua bocca e sulle sue labbra. Smaniava dal desiderio di bere di nuovo quell’acqua.

Si portò a casa l’idea che gli aveva dato Donna.

— Ho pensato di alzarmi presto la mattina e di fare un po’ di jogging — disse, a cena. Mangiavano sui vassoi, davanti al televisore. — Perciò mi sono alzato presto, questa mattina. Per provare. Ma sarebbe meglio se mi alzassi prima, credo. Magari alle cinque o alle sei. Quando non ci sono macchine in giro. E fa più fresco. E così non ti darò fastidio mentre ti prepari per andare al lavoro. — Sua madre cominciava a scrutarlo insospettita. — Se non ti dispiace che esca prima di te. Non mi sento in forma. Stare sempre alla cassa non è granché come esercizio, direi.

— Sempre più che se fossi seduto tutto il giorno dietro una scrivania — disse sua madre, e questo lo sorprese come un attacco ai fianchi. Da mesi non parlava più della scuola per bibliotecari e del lavoro in biblioteca, fin da prima che lasciassero l’ultima città. Forse lei si riferiva al lavoro d’ufficio, come il suo. La voce non aveva quel tono tagliente, sebbene fosse piuttosto brusca.

— Ti dispiacerebbe se mi alzassi presto e uscissi per un paio d’ore? Potrei essere di ritorno quando esci tu, e prepararmi la colazione dopo che sei andata al lavoro.

— Perché dovrebbe dispiacermi? — disse lei, abbassando lo sguardo sulle spalle scarne per assestarsi le spalline dell’abito estivo. Accese una sigaretta e guardò il teleschermo, dove un giornalista stava descrivendo un incidente aereo. — Sei liberissimo di andare e venire, hai vent’anni, quasi ventuno, dopotutto. Non devi consultarmi per tutte le piccole cose che vuoi fare. Non posso decidere io per te. L’unica cosa che chiedo è che non lasci la casa vuota di sera. È stato un colpo tremendo, l’altra notte, quando sono arrivata e tutte le luci erano spente. È solo questione di buon senso e di un po’ di riguardo. Siamo arrivati al punto che non si può stare al sicuro neppure in casa propria. — Lei aveva cominciato a parlare con voce tesa, e a battere l’unghia del pollice sul filtro della sigaretta. Hugh era innervosito, e temeva quello che sarebbe venuto poi; ma sua madre non disse altro, e continuò a guardare attentamente la televisione. Lui non osò insistere. Andò a letto senza che nessuno dei due avesse detto altro. Normalmente, avrebbe dato ascolto alla minaccia di una crisi isterica e non avrebbe fatto quel che voleva fare: ma questa volta era deciso. Aveva sete, doveva bere. Si svegliò alle cinque, e balzò dal letto infilando la camicia prima ancora di essere completamente sveglio.

L’appartamento sembrava diverso, in quella luce nuova, il crepuscolo dell’alba. Hugh non calzò le scarpe prima di essere arrivato sui gradini, davanti alla casa. I raggi del sole erano orizzontali e invadevano le strade laterali, dietro le palazzine. Oak Valley Road era immersa in una fresca ombra azzurra. Lui non aveva messo la giacca, e rabbrividiva. Nella fretta, allacciò male la scarpa, e dovette lottare con il nodo, come un bambino che teme d’arrivare tardi a scuola; poi si avviò. Al trotto del jogging. Non gli piaceva mentire. Aveva detto che avrebbe praticato il jogging, e quindi lo praticava.

Impiegò un po’ meno di un’ora, procedendo al passo quando restava senza fiato e imponendosi con crescente difficoltà di riprendere il ritmo del jogging, per raggiungere i boschi al di là dei campi abbandonati. Poi si soffermò, sotto le prime fronde del bosco, e consultò l’orologio. Erano le sei meno cinque.

Sebbene gli alberi non fossero molto fitti, il bosco era un luogo completamente diverso dai campi scoperti, diverso come stare all’aperto era diverso dallo stare al chiuso. Dopo pochi metri, l’ardente, fulgida luce del primo mattino venne esclusa, eccettuati i pochi barbagli dispersi sulle foglie e sul suolo. Hugh non aveva più visto nessuno, da quando aveva lasciate le vie dei sobborghi. Non c’erano staccionate che fungevano da confine, anche se al limitare del bosco c’era una fila di pali imputriditi e di fili di ferro aggrovigliati. Più d’un sentiero indistinto si diramava fra gli alberi e il sottobosco: ma lui ritrovò senza esitare il suo percorso. Notò un piccolo frammento di stagnola sotto i rami unghiuti dei cespugli di more accanto al sentiero: ma non c’erano etichette di birra, lattine di bevande analcoliche, preservativi, fazzolettini di carta usati, incarti di caramelle. Lì non ci veniva quasi nessuno. Il sentiero svoltava verso sinistra. Hugh cercò con gli occhi l’alto pino dal ruvido tronco rossastro, e ne scorse i rami più alti, scuri contro il cielo. Il viottolo si restrinse, scese, oscurandosi, mentre il terreno diventava più molle. Hugh passò fra il pino e gli alti cespugli, la porta del luogo in riva al ruscello: e c’erano le radure sulle due sponde, la più vicina e la più lontana, il movimento e il canto dell’acqua, e l’aria fresca, e il fresco, dolce, limpido crepuscolo della sera inoltrata.

Indugiò sulla soglia, sovrastato dagli alberi scuri. Se guardassi indietro, pensò, vedrei la luce del sole tra gli alberi. Non guardò indietro. Avanzò, a passo lento.

Sull’orlo dell’acqua si soffermò per togliersi l’orologio. La lancetta dei secondi non si muoveva, l’orologio era bloccato sulle sei meno due minuti. Lo scosse, poi l’infilò nella tasca dei jeans, rimboccò sopra i gomiti le maniche della camicia, e si piegò su entrambe le ginocchia. Con voluta lentezza si chinò in avanti, abbassando la testa, affondando le mani nella sabbia fangosa del bordo e bevve l’acqua corrente.

Un paio di metri più a monte, un macigno piatto si sporgeva sul ruscello. Andò a sedersi, e poco dopo si sporse per immergere le mani nell’acqua. Si passò più volte le mani bagnate sul volto e sui capelli. Aveva la pelle chiara, e l’acqua era fredda; notò con piacere che i polsi e le mani, nell’acqua, assumevano il color rosso del salmone in scatola. L’acqua era scura ma limpida, come un cristallo affumicato. Nelle piccole lanche sabbiose, al riparo del macigno, c’erano sciami di ciottoli, e i loro colori e le loro screziature erano intensificati dall’acqua. Hugh li guardò, guardò i riccioli trasparenti della corrente che li coprivano, poi si raddrizzò a sedere sulla roccia sporgente e levò gli occhi verso il cielo incolore. Non vi era nulla che si muovesse, lassù. Accanto alla nera punta aguzza di un pino, sul dosso oltre il ruscello, gli sembrava di scorgere una stella con la coda dell’occhio, ma quando la cercava direttamente con lo sguardo non era visibile. Restò immobile a lungo, con le braccia strette intorno alle ginocchia, nel fruscio e nella musica dell’acqua.

Il freddo della brezza che spirava sopra il ruscello penetrò in lui mentre stava così immoto. Finalmente si alzò, massaggiandosi le costole, e si avviò a passo vivace verso valle, tenendosi sulla riva appena un poco più sopra del bordo sabbioso del ruscello. Guardava ogni cosa con pigra, tranquilla attenzione, appena sfumata di prudenza, studiando il suolo, le pietre, gli arbusti e gli alberi, il bosco più scuro al di là dell’acqua. Il terreno era meno umido e coperto di detriti di foglie, nella parte della radura più verso valle, dove l’erba ispida cresceva fitta fra i cespugli alti poco più di un metro. Gli arbusti erano piuttosto spaziati, e i tratti erbosi, nel mezzo, erano come giardinetti o stanze scoperchiate. Ci si poteva accampare, in uno di quelli, pensò Hugh. Se avevi una tenda… ma che bisogno c’era d’una tenda, in estate? Un sacco a pelo sarebbe bastato. E qualcosa per cucinare. E qualche fiammifero. Il focolare poteva essere lì, sulla sabbia, sulla spiaggia, sotto lo scosceso argine roccioso. Chissà se si poteva accendere un fuoco? Non era veramente necessario, a meno che volessi cucinare: ma avrebbe offerto una sorta di centro, un calore… e poi potevi dormire, trascorrere tutta la notte sotto il cielo, accanto al suono dell’acqua… Hugh continuò a camminare, girando intorno alla radura, soffermandosi spesso a guardare e a riflettere. Lì i movimenti del suo corpo erano ampi, lenti e liberi, e c’era sempre quel lieve, piacevole elemento di prudenza, perché quella era una zona sconosciuta, selvaggia. Quando finalmente ritornò alla roccia sporgente s’inginocchiò di nuovo a bere, e poi si alzò, si avviò risolutamente verso il varco tra gli alti cespugli e il pino, si voltò indietro a guardare, una volta soltanto, e lasciò quel luogo.

Il sentiero era ripido, indistinto, difficile da seguire. I rami gli sferzavano il volto; doveva girare la testa, chiudere gli occhi. Arrivato in alto, sbagliò a svoltare, e attraversò un tratto di bosco che non aveva visto, una depressione piena d’erbacce, dove gli alberi esili crescevano a gruppi. Uscì al limitare dei campi, passando per una parte più profonda del fosso invaso di rifiuti e di steli morti, e si trovò di fronte al fulgore del sole a oriente, alle lance splendenti della luce del giorno. Si strofinò la fronte che bruciava un po’ per la puntura d’un ramo di rovo, e si frugò nella tasca per prendere l’orologio. Aveva ripreso a funzionare, e segnava le 6 e 8 minuti. Naturalmente era più tardi, perché non aveva funzionato per tutto il tempo che lui era rimasto in riva al ruscello; ma probabilmente sarebbe riuscito egualmente ad arrivare a casa prima delle otto. Si avviò, non al ritmo del jogging, perché non se la sentiva di sforzarsi e di ansimare, ma a un passo svelto e regolare. La sua mente era ancora nella quiete del luogo in riva al ruscello, svuotata dalle ansie e dalle spiegazioni. Soddisfatto e vigile, attraverso i campi abbandonati, salì il pendio, tra le fattorie malconce, sulla strada di ghiaia, oltre il vivaio, fino all’angolo di Chelsea Gardens Place e poi, di via in via, fino al 14067 1/2-C di Oak Valley Road. Entrò, e trovò sua madre avvolta nella vestaglia di chinz che lo fissò; si era appena alzata. L’orologio della cucina segnava le sette meno cinque. Il suo orologio segnava le sette meno quattro.

Hugh sedette a tavola, con una grossa ciotola di fiocchi di cereali e due nectarines, e mangiò, perché aveva fame; mentre percorreva gli ultimi venti isolati aveva pensato soprattutto alla colazione. Ma mentre mangiava, non pensava alla colazione. Come aveva potuto impiegare un’ora per raggiungere il ruscello, e poi un’ora là, e un’ora per ritornare, fra le cinque e le sette? Ed era…

La sua mente s’impuntò. Hugh aggobbì le spalle, abbassò la testa, sentì il petto contrarsi, ma si fece forza e affrontò quelle parole: Era sera, là, in riva al ruscello. Sera inoltrata, crepuscolo. Le stelle spuntavano. Era arrivato là alle sei del mattino, nel sole, e ne era uscito alle sei del mattino, nel sole, e durante la sua sosta là era stata sera inoltrata. La sera di quale giorno?

— Vuoi una tazza di caffè? — chiese sua madre. La voce strideva per il sonno, ma non era brusca.

— Sicuro — disse Hugh, continuando a riflettere.

Riempì ancora la ciotola di fiocchi di cereali, perché non voleva cucinare finché sua madre era lì, anzi non voleva affatto prendersi la briga di cucinare. Restò lì seduto, con il cucchiaio in mano, rimuginando.

Sua madre gli mise davanti una tazza di caffè, con un gesto un po’ caricato. — Ecco, vostra maestà!

— ’Azie — disse lui, nel linguaggio della colazione per «grazie», e continuò a mangiare, con gli occhi fissi e sgranati.

— Quando sei uscito? — Sua madre sedette dall’altra parte del tavolo di formica, con la sua tazza di caffè.

— Verso le cinque.

— E hai fatto il jogging per due ore?

— Non lo so. Mi sono fermato per sedermi un po’.

— Non devi esagerare, all’inizio. Comincia adagio, e poi aumenta la durata. Due ore, per cominciare, sono troppe. Potrebbe farti male al cuore. Come quando la gente spala la neve, d’inverno, alla prima nevicata, e ogni volta ne muoiono centinaia, sul vialetto. Devi cominciare con calma.

— Tutti sullo stesso vialetto? — mormorò Hugh, con l’aria di svegliarsi vagamente.

— E poi, dove sei andato a correre? Sempre in tondo? Dev’essere un po’ ridicolo.

— Oh, un po’ in giro. Ci sono tante strade deserte. — Hugh si alzò. — Vado a rifarmi il letto e a rimettere in ordine — disse. Sbadigliò spalancando la bocca. — Non sono abituato ad alzarmi così presto. — Guardò sua madre, dall’alto. Era così minuta ed esile, così tesa e nervosa, che lui avrebbe potuto batterle una mano sulla spalla o darle un bacio sui capelli, ma lei detestava essere toccata, e del resto lui sbagliava, qualunque cosa facesse.

— Non hai toccato il tuo caffè.

Hugh abbassò gli occhi sulla tazza piena; la vuotò, obbediente, in un paio di lunghe sorsate, e si avviò di soppiatto verso la sua stanza. — Ti auguro buona giornata — disse.


Non sarebbe ritornato, se non fosse stato per il sapore dell’acqua. Quella era l’acqua che doveva bere; nessun’altra placava la sua sete. Altrimenti, si diceva, sarebbe rimasto lontano, perché là succedeva qualcosa di pazzesco. Là il suo orologio non funzionava. O era ammattito lui, oppure stava succedendo qualcosa d’inspiegabile, una strana manomissione del tempo, il genere di cose che interessavano a sua madre e all’amica occultista, e che a lui non interessavano per nulla: non sapeva che farsene. Già le cose normali erano abbastanza strane senza bisogno che venissero pasticciate ancora di più, e la vita non aveva necessità di altre complicazioni. Ma la verità era che l’unico luogo dove la sua vita non sembrava complicata era il luogo in riva al ruscello, e lui doveva ritornare là per stare tranquillo e pensare e rimanere solo; per bere quell’acqua, per nuotare in quell’acqua.

Durante la terza visita, decise di tentare il guado. Si sfilò le scarpe. Il ruscello sembrava poco profondo. Hugh mise il piede in una fossa e si bagnò fino a metà coscia; tornò a riva fra gli spruzzi, si tolse i jeans, la camicia, le mutande, e tornò a immergersi, nudo, nell’acqua fredda e rumorosa. Nel punto più profondo non gli saliva oltre le costole, ma c’era un punto nel quale lui poteva nuotare per qualche bracciata. Andò sott’acqua, spinto dalle correnti forti, con i capelli che ondeggiavano sciolti nell’oscuro chiarore. Nuotò, si scalfì le ginocchia contro le pietre nascoste, posò le mani e i piedi su molli superfici invisibili, lottò con l’urlante acqua bianca fra i macigni, dove tumultuava la corrente. Uscì dall’acqua come un bisonte lanciato alla carica, scrollandosi e pestando i piedi per il freddo, con energia, e si asciugò con la camicia. Dopo quella volta, nuotò sempre, ogni volta che ritornò lì.

Poiché veniva al luogo del ruscello soltanto al mattino presto, continuava a pensare che non avrebbe potuto trascorrere lì la notte, come aveva immaginato di fare. E infatti, lì non poteva passare la notte, perché lì non era mai notte. Non era mai diverso. Non cambiava mai. Era sera inoltrata. Qualche volta gli sembrava che fosse un po’ più buio, oppure un po’ più chiaro della volta precedente; ma non ne era mai sicuro. Non aveva mai visto direttamente la stella sopra l’alto pino, ma era certo che ogni volta fosse lì, nello stesso punto. Ma lì il suo orologio non funzionava. Il tempo non si muoveva. Era come un’isola, e il tempo le scorreva intorno come l’acqua di un fiume, come le maree intorno a una pietra nella sabbia. Potevi andar lì, e restarci, e uscivi sempre nello stesso momento in cui eri entrato. O quasi. Quando Hugh aveva l’impressione di essere rimasto lì un’ora o più, il suo orologio sembrava indicare che erano trascorsi alcuni minuti, quando ritornava nella luce del sole. Forse non si fermava, forse lì funzionava molto lentamente, lì il tempo era diverso: entrando nella radura entravi in un tempo diverso, un tempo più lento. Era assurdo, non era neppure il caso di pensarci.

La quarta volta, o la quinta, Hugh restò molto a lungo nel luogo del ruscello, nuotò, accese un fuoco e vi rimase seduto accanto; di primo pomeriggio, mentre lavorava da Sam’s, si sentì stordito, semiaddormentato. Se si fosse fermato e se avesse dormito nel luogo del ruscello, non sarebbe stato costretto a star sveglio per venti ore consecutive. Avrebbe vissuto due vite. Anzi, avrebbe vissuto due vite nello spazio di una, il doppio nella stessa durata di tempo. Stava sistemando il sedano nel banco espositore quando ci pensò. Rise, e si accorse che gli tremavano le mani. Un cliente che stava esaminando le verdure, un vecchio ossuto, guardò cupamente i funghi a $ 2,24 e disse: — Quei pazzi che parlano di droghe psicologiche avrebbero bisogno di una lezione. — Hugh non capì se il vecchio parlava di lui o dei funghi o di qualche altra cosa.

Durante l’ora di pranzo andò al negozio d’articoli sportivi a prezzi scontati, nel centro commerciale dall’altra parte della superstrada. Spese quasi tutta la paga settimanale per un sacco a pelo, una scorta di viveri da campeggio, un robusto coltello a serramanico bilama, e un completo per cucina d’acciaio, irresistibilmente compatto. Mentre si avviava verso la cassa tornò indietro e aggiunse uno zaino d’occasione, un residuato militare. Mentre riponeva le confezioni dei viveri nello zaino si rese conto che non avrebbe potuto portarlo a casa. Quella sera, sua madre non sarebbe uscita. Sarebbe stata là, al suo arrivo. Cos’è tutta quella roba, Hugh, perché hai comprato uno zaino, un sacco a pelo, ma per comprarne uno che valga davvero qualcosa bisogna spendere un patrimonio, e quando credi che userai tutti questi oggetti costosi? Era stato uno sciocco a comprare tutto quanto. Cosa credeva di fare? Portò il materiale, nell’afa, a Sam’s Thrift-E-Mart, lo chiuse nel frigorifero del magazzino in fondo, e andò dal direttore, a chiedere il permesso di uscire un’ora prima.

— Perché? — chiese quello in tono acido, acquattato nell’ufficio pieno di scatoloni vuoti, odoroso di vecchio yogurt e di sigari.

— Mia madre sta male — disse Hugh.

Mentre pronunciava quelle parole impallidì, e il sudore cominciò a coprirgli il volto.

Il direttore lo guardò, forse impressionato, forse indifferente. Dopo averlo fissato a lungo in silenzio, disse: — Va bene — e gli voltò le spalle.

Hugh lasciò l’ufficio del direttore: sentiva il pavimento e le pareti sussultare e ondeggiare. Il mondo divenne bianco e piccolo come un albume d’uovo, come la sclerotica di un occhio. Hugh stava male. Sua madre stava male, sì, stava male, e aveva bisogno di aiuto.

E io l’aiuto. Mio Dio, cosa posso fare, ancora, più di quello che faccio? Non vado mai in nessun posto, non conosco nessuno, non frequento una scuola, lavoro vicino a casa, dove lei sa sempre dove sono, rientro a casa tutte le sere, passo con lei i weekend, faccio tutto quello che vuole… cosa posso fare, più di quel che faccio?

Quell’autocritica era ingiusta, e lo sapeva, e non importava che fosse giusta o ingiusta, era il giudizio, e lui non poteva sottrarvisi. Si sentiva le viscere sconvolte ed era ancora un po’ stordito. Continuò il suo lavoro, goffamente, commettendo continui errori stupidi alla cassa. Era venerdì, un pomeriggio pesante. Non riuscì a chiudere la sua cassa fino alle cinque e dieci, e ce la fece solo perché pregò Donna di sostituirlo. — Ti senti male, caro? — gli chiese lei, quando le passò la chiave del registratore. Lui non osò ripetere la menzogna perché non divorasse di nuovo la verità. — Non so — disse.

— Ma abbiti cura, Buck.

— Certo.

Si avviò verso il fondo del supermercato, impacciato, fra le corsie affollate. Tirò fuori il sacco a pelo e lo zaino dalla cella frigorifera e si avviò per la strada, verso est e non verso ovest, in direzione della fabbrica di vernici, dei campi abbandonati, della porta. Doveva andare là. Tutto sarebbe andato bene, quando fosse arrivato là. Era il suo posto. Là stava bene.

I campi erano caldi come fornaci. Fradicio di sudore e con la bocca arida come l’intonaco, Hugh si addentrò nei boschi, si lasciò indietro l’afa e la luce viva del giorno, via via che il sentiero scendeva e attraversava la soglia del crepuscolo. Depose il suo carico e, come sempre, andò diritto alla riva del ruscello, s’inginocchiò e bevve. Il suo respiro si spezzò in un «ah!» d’estasi dolorante, nel sentire il freddo dell’acqua, la pressione e la forza turbinosa della corrente, la superficie granulosa delle pietre sotto i suoi piedi, contro le palme delle mani. Scivolò nella lanca profonda, s’immerse, lasciò che l’acqua s’impadronisse di lui, e l’acqua era in lui e lui era nell’acqua, in un’unica gioia oscura. Tutto il resto era dimenticato.

Riaffiorò, accecato dai capelli, galleggiò per un poco sotto il cerchio del cielo senza colore e senza nuvole; e poi, alla fine, quando il freddo dell’acqua gli arrivò alle ossa, toccò il fondo e risalì sguazzando a riva. S’immergeva sempre in silenzio, con reverenza, e ne usciva rumorosamente, pieno di vita. Si massaggiò, infilò i jeans, e sedette accanto allo zaino, per aprirlo con molta solennità. Avrebbe preparato il campo; avrebbe cucinato la cena. Avrebbe disposto il suo letto lì, al riparo degli arbusti, fra l’erba alta, e si sarebbe sdraiato, per dormire accanto all’acqua corrente.

Si svegliò sotto gli alberi scuri, con la testa pervasa dall’odore della menta e dell’erba. Il vento lieve gli toccava il viso e i capelli come una mano scura e trasparente.

Fu uno strano, lento risveglio. Non aveva sognato, eppure sentiva che stava sognando. Era pieno di una fiducia totale, d’una sicurezza assoluta. S’era sdraiato e aveva dormito su quel terreno, e quindi gli apparteneva. Non gli sarebbe accaduto nulla di male. Quello era il suo paese.

Si alzò, si lavò al ruscello; s’inginocchiò sopra la pietra sporgente e guardò l’erba pallida della radura, dall’altra parte, le masse scure di arbusti e di fogliame, la limpidezza del cielo sopra gli alberi. Poi si alzò, e si avviò attraverso il ruscello, a piedi nudi, questa volta senza immergersi nell’acqua, ma passando di pietra in pietra fino a quando l’ultimo, lungo passo lo portò sulla sabbia dell’altra sponda. Anche da quella parte, sulla proda erbosa, cresceva la menta. Hugh ne prese una foglia, come se fosse un rito, e la masticò. La menta dell’altra riva aveva lo stesso sapore. Non c’erano confini. Era tutto territorio suo. Ma per questa volta s’era già spinto abbastanza lontano; non sarebbe andato oltre. In parte, il piacere di essere lì era motivato dal fatto che poteva ascoltare e obbedire a tutti gli impulsi e i comandi che venivano da dentro di lui, incontaminati dalle pressioni e dalle pulsioni esterne. In quell’obbedienza, per la prima volta dall’infanzia, sentiva l’euforia della libertà, la serenità del potere. Ora aveva deciso di non andare oltre. Quando avesse deciso di andare oltre l’avrebbe fatto. Masticando la foglia di menta, riattraversò il ruscello con lunghi passi regolari.

Si vestì, arrotolò con cura il sacco a pelo e lo nascose scrupolosamente nella cavità sotto un cespuglio, sistemò lo zaino con i viveri sulla biforcazione di un albero (aveva letto che bisognava far così, per proteggerlo da qualcosa… orsi, formiche, formichieri? comunque, sembrava meglio che lasciarlo abbandonato a terra) poi s’inginocchiò per bere di nuovo al ruscello e se ne andò.


Arrivò a Oak Valley Road alle sette della sera in cui aveva lasciato il lavoro alle cinque e un quarto. Sua madre non aveva preparato la cena; era troppo caldo per cucinare, gli disse; andarono a un ristorante per mangiare un hamburger, e poi al cinema.

Hugh credeva che sarebbe rimasto sveglio tutta la notte, perché aveva dormito nel luogo del ruscello, ma dormì profondamente nel suo letto; solo, si svegliò prima e più facilmente del solito, alle quattro e mezzo, prima del levar del sole, nell’altro crepuscolo, il primo, il crepuscolo del mattino. Quando raggiunse i boschi, il sole era sorto nel fulgido, immane splendore dell’estate. Hugh lo abbandonò, scendendo nella terra serotina, tranquillo e deciso, pronto ad attraversare l’acqua e ad esplorare, a imparare a conoscere quel regno che trascendeva la ragione e il dubbio, il suo luogo, il suo territorio. S’inginocchiò accanto all’acqua scura e limpida per bere. Alzò la testa per vedere dove sarebbe andato e vide di fronte a lui, al di là del movimento continuo, scintillante e sinuoso del ruscello, sull’altra riva, un cartello quadrato inchiodato a una tavola piantata per terra, nero su bianco: VIETATO L’ACCESSO.

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