7.

L’erba era alta, folta, aggrovigliata, e non mostrava alcun sentiero. La ragazza si avviò a passo sicuro, tagliando di sbieco verso le balze lontane, attraverso la grande terrazza d’erba. Non c’era bisogno di procedere uno dietro l’altra, lì, come sugli stretti viottoli della foresta. Hugh le camminava al fianco, ma a un paio di metri di distanza, perché lei aveva fatto capire chiaramente che non lo voleva vicino. L’erba fitta gli si aggrovigliava intorno alle caviglie, e lui stava imparando a posare direttamente il piede a ogni passo, come per camminare sulla neve. La spada ingombrante gli batteva contro la coscia, ma era piacevole poter andare a un passo ritmico e allungato, invece di brancolare e di inerpicarsi. Ed era piacevole e raro, in quella terra di foreste, avere in vista la destinazione, vedere le vette che lentamente torreggiavano più alte.

Dopo un lungo tempo, Hugh parlò. — Ora continuo a pensare che sia mattina.

La ragazza annuì. — Perché quassù è più chiaro, credo. Non ci sono alberi.

— Ed è aperto verso est.

Continuarono a camminare, in silenzio. In quell’immensa prateria vuota, sembrava naturale che non vi fosse altro suono che il lieve fruscio sferzante dell’erba contro le loro gambe e talvolta il mormorio del vento negli orecchi. Una blanda esultanza pervase il corpo e la mente di Hugh, un ritmo euforico intonato al suo passo. Stava facendo ciò che era venuto per fare, andava dove doveva andare. Aveva guadagnato il diritto di stare lì, il diritto di amare Allia.

Non aveva importanza che lei non conoscesse la lingua in cui le aveva detto «Ti amo». Non aveva importanza se non si fossero incontrati mai più. Era il suo amore che contava, che lo portava avanti, senza angoscia e senza paura. Non poteva aver paura. La morte è la sorella dell’amore, la sorella dal volto velato.

Mentre procedevano e, lentamente, la parete di roccia torreggiava più alta, e le pieghe e le cicatrici e i piani inclinati della sua superficie si rivelavano, e l’erba selvatica frusciava sferzante al ritmo del suo passo, e le profondità del cielo si stendevano come acque sopra di lui, Hugh sentì ancora una volta che sarebbe stato felice di continuare a camminare per sempre in silenzio attraverso quell’altopiano. Ora non c’era stanchezza in lui. Non si sarebbe stancato mai. Avrebbe potuto continuare così per sempre, volgendo le spalle a tutto.

La ragazza stava dicendo il suo nome. Lo aveva pronunciato più di una volta. Lui non voleva fermarsi. Non c’era nulla per cui valesse la pena di fermarsi. Ma la voce di lei risuonava esile, come il richiamo lamentoso di un uccello marino, e Hugh si fermò e si voltò indietro.

Un po’ prima erano arrivati direttamente sotto le pareti a strapiombo, e da quel momento avevano camminato verso nord, sull’erba più bassa, a fianco di enormi frane e cascate di roccia frantumata, invase per metà da erbe e saggina. La ragazza era parecchio più indietro di lui, alla piega esterna di una fenditura nella base delle pareti, e quando Hugh tornò indietro vide che era l’accesso di un sentiero. Appariva stretto e buio.

— Questa è la via per arrivare al Gradino Alto — disse lei.

Hugh guardò il sentiero con scarso entusiasmo.

— Voglio fare una sosta prima di cominciare a salire. È ripido — disse lei. Sedette sull’erba, che lì era secca e bassa, dorata e consunta. — Hai fame?

— Non molta. — Hugh non voleva perdere tempo a mangiare, anche se, ripensandoci, sapeva che avevano percorsa molta strada, avevano camminato a lungo, che la via scura dove s’era fermata Allia era molto lontana, dietro di lui, laggiù. Voleva proseguire. Ma la ragazza aveva ragione di fermarsi, e aveva l’aria stanca, il viso contratto e aggrondato. Hugh lasciò cadere la giubba e la cintura e la spada e lo zaino accanto a lei, e andò a orinare dietro una distesa di enormi macigni caduti; tornò indietro, piacevolmente conscio del calore e dell’elasticità del proprio corpo, non stanco ma lieto di poter riposare un po’; e si issò su un macigno rossastro accanto alla ragazza seduta sull’erba. Lei stava mangiando. Gli porse una striscia di carne secca e alcuni frutti secchi; e avevano un buon sapore.

C’era un unico suono: il vento che fischiava tra l’erba bassa, o tra le pietre sparse, un esile pigolio freddo, rasente al suolo.

La ragazza avvolse di nuovo i viveri.

— Va meglio? — chiese Hugh.

— Sì — disse lei, e sospirò. Lui vide il volto rotondo e olivastro volgersi verso il sentiero oscuro.

— Ascolta — le disse. Avrebbe voluto chiamarla per nome. — Non è necessario che tu prosegua.

Lei scrollò le spalle. Si alzò, assestandosi lo zaino grossolano, un rotolo di lana rossa.

— Il posto dove devo andare è in cima a quel sentiero?

Lei annuì.

— Bene. Nessun problema.

La ragazza si alzò con quella sua aria cupa e poi, sorprendendolo, lo guardò e sorrise. — Ti perderesti — gli disse. — Continui a perderti. Hai bisogno di un navigatore.

— Non posso perdermi su un sentiero largo poco più di mezzo metro…

— Lo hai fatto, quando siamo venuti, hai lasciato la strada del sud. — Il sorriso si allargò in una risata, brevissima. — Quando io mi spavento, tu ti perdi. Si direbbe che vada così.

— E adesso hai paura?

— Un po’ — disse lei. — Sta ricominciando. — Ma la risata non era svanita del tutto.

— Allora non dovresti continuare. Non è necessario. Me ne sento responsabile. Se non fosse per me, non lo faresti.

Ma lei s’era già avviata per il sentiero. Hugh la seguì subito, assestandosi frettolosamente lo zaino sulle spalle. Entrarono nella fenditura, una scabra cicatrice verticale nella parete della montagna. Alte, asciutte muraglie di roccia rossa e brunonerastra si chiusero sopra le loro teste. Il percorso era pietroso, e immediatamente scosceso.

— Tu non sei responsabile di quello che faccio — disse lei, girando la testa.

— Allora tu non hai la responsabilità d’impedirmi di perdere la strada.

— Ma dobbiamo arrivare là — disse lei.

Continuarono a salire. Il sentiero svoltava bruscamente, avanti e indietro. Dovettero inerpicarsi per un tratto, dove le rocce erano franate. Hugh guardò la mano della ragazza, mentre si aggrappava a un macigno tagliente. Era una mano piccola, esile e scura, e le mezzelune delle unghie erano bianche.

— Ascoltami — le disse. — Voglio… Non ho mai capito il tuo nome.

Lei si voltò a guardarlo. — Irena — disse chiaramente, e lo scandì lettera per lettera.

Hugh lo ripeté, e ancora una volta l’ampio, dolce, segreto sorriso passò sul volto di lei mentre lo guardava dall’alto, tenendosi salda tra le aspre rovine della terra e della roccia. Poi prosegui, leggera.

In quel tratto, la spada lo intralciava continuamente, il pesante fodero di cuoio lo faceva incespicare o gli batteva con violenza sulla coscia o gli si piantava sotto il braccio come una gruccia; alla fine riuscì a fissarlo nell’angolo giusto, rispetto alla cintura, ma per farlo rimase molto indietro rispetto alla ragazza. Mentre proseguiva, sentì un suono d’acqua corrente. Voltò a uno degli innumerevoli, bruschi gomiti del sentiero e vide un ruscelletto che sgusciava trasparente dalla fonte tra le rocce, e piombava in un bacino d’erbe verdi e di felci. Irena gli stava inginocchiata accanto, e attendeva che lui la raggiungesse: aveva il viso e le mani bagnate e infangate. Anche Hugh s’inginocchiò e bevve, affondando le mani nel minuscolo acquitrino accanto al rivoletto. L’acqua sapeva di ferro o di ottone, come il sangue, ma era freddissima.

Il percorso era sempre stretto, sempre ripido, e seguiva le fessure nella parete di pietra. Dove c’era polvere, al suolo, era segnato da tracce di fango secco, con le strette orme degli zoccoli delle ultime pecore che erano state condotte giù dalla montagna. La fascia del cielo, lassù, era alta e remota. Sul sentiero non calava molta luce, tranne dove seguiva per un tratto il fianco di un canalone che si allargava. Quando le pareti si restrinsero nuovamente, Hugh sentì che stava conducendo nelle viscere della montagna. I suoi stivali scivolavano sulla pietra; il suo passo era incerto. Invidiava la ragazza, che saliva come un’ombra la ripida via tortuosa davanti a lui.

Lei si fermò ai piedi di un lungo tratto diritto. Hugh la raggiunse e chiese, mormorando a causa del profondo silenzio: — Tutto bene?

— Sono soltanto sfiatata. — Come lui, stava ansando.

— Continua ancora per molto?

Le rocce che sovrastavano il sentiero erano modellate stranamente, bulbose, come se l’acqua le avesse smussate molto tempo prima. Sembravano animali parzialmente formati, tumori, enormi intestini di pietra.

— Non so. Con le pecore ci voleva tutto il giorno.

Gli occhi di lei, in quella penombra appesantita dalle rocce, sembravano scuri e spaventati.

— Vai più piano — disse lui. — Non c’è fretta.

— Voglio uscire di qui.

Attorcendosi e affondando nelle gole, il sentiero saliva implacabile. Si fermarono ancora due volte per riprendere respiro. L’ultimo tratto era così ripido che s’inerpicarono come se fosse una scala a pioli, usando le mani. Quando, all’improvviso, il suolo divenne pianeggiante e non vi furono più pareti di roccia, Hugh era carponi. Si alzò e poi, con la testa che gli girava, ricadde in ginocchio. Il sentiero sfociava al limitare di un secondo prato alpino, stretto, un gradino verde. Trecento, seicento metri più in basso, il grande pascolo dal quale erano saliti si estendeva velato dalla distanza, verde come muschio. Hugh non sapeva misurare l’altezza e le miglia; ma erano molto in alto, perché l’inclinazione enorme del fianco della montagna adesso era percettibile, sopra quel prato e più sotto, come la direzione principale di quella parte della terra, assoluta come l’orizzonte, il quale a sua volta era così alto e lontano da perdersi nello spessore dell’atmosfera crepuscolare. Sopra di loro e a nord e a est della montagna s’inarcava il cielo calmo, libero.

Irena s’era seduta sull’erba, più vicina al ciglio di quanto piacesse a lui. Guardava verso nord, al disopra delle terre più basse. Hugh guardò verso est: giù per i pendii, dapprima, chiedendosi se da lì si potevano scorgere i bagliori delle luci della Città della Montagna; ma ancora una volta, guardare in basso gli diede le vertigini. Guardò davanti a sé, attraverso l’abisso d’aria, in direzione delle montagne orientali. Dietro quei profili indistinti che sembravano tracciati con una matita grigia sulla carta grigia, c’era un accenno di colore, un ravvivarsi? Guardò a lungo, ma non poté esserne certo. Quando seguì lo sguardo di Irena verso il nord, non scorse luci di cittadine, né il fioco chiarore ammassato che avrebbe potuto essere la lontana Città del Re. Era tutto grigiazzurro, indistinto, silenzioso, immenso.

Finalmente lei si alzò, si scostò dal ciglio dell’abisso, camminando cautamente. — Questo è il Gradino Alto — disse, quasi mormorando. — Ho le gambe molli per la salita.

Hugh si sentiva girare la testa nel vederla tra sé e quell’immensità d’aria vuota. Si alzò, e si girò verso il prato. Attraverso l’erba, che lassù era corta, e vivida, come quella d’un giardino, tra l’orlo del baratro e la muraglia della montagna che s’innalzava, c’era una sporgenza di roccia, una specie d’isola nell’erba. Si avviò da quella parte. Era una massa di grandi macigni grigi, coperti di licheni, screpolati, rassicuranti per la loro grandezza e la loro solidità in quello strano posto così in alto. Era piacevole mettersi la roccia alle spalle. Sedettero entrambi con la schiena contro il macigno più grande, alto cinque, sei metri.

— È stata una tappa lunga — disse Hugh. Irena si limitò ad annuire. Lui tirò fuori i viveri dallo zaino, e se li divisero in silenzio. Il profilo di lei era minuto e severo, come una moneta di bronzo, contro il cielo.

— Irena.

— Cosa?

— Se vuoi dormire, starò io di guardia.

— D’accordo — disse lei, e senza aggiungere altro si raggomitolò contro la roccia, con il rosso fardello arrotolato come cuscino.

Hugh mangiò un altro panino (duro, granuloso, a forma di nodo, dal sapore gradevole) e un pezzo di formaggio di capra: non gli piaceva, ma aveva abbastanza fame per mangiarlo. Dopo aver riflettuto, mangiò un altro panino, imbottito con un pezzo di carne affumicata, e poi rimise i viveri nello zaino. Avrebbe voluto mangiare ancora, ma così sarebbe bastato. Adesso si sentiva molto meglio. Era trascorso molto tempo e avevano fatto molta strada da quando avevano lasciato la cittadina, e lui era stanco, ma non esausto. Se fosse rimasto lì seduto, con la schiena comodamente appoggiata alla roccia, si sarebbe addormentato, come lei. Avrebbe dovuto montare di guardia. Si alzò e cominciò a camminare a passo tranquillo, avanti e indietro, accanto all’isola di roccia.

Nel chiarore della luce d’alta montagna, più una trasparenza che un crepuscolo, un’onnipresenza della luce senza sorgente, il colore dell’erba era intenso: scuro e chiaro come uno smeraldo. Le foreste che chiudevano alle due estremità il prato (vicino, a sud, lontano, a nord) apparivano ruvide e nere. Sopra le pareti a strapiombo che incombevano sul prato, il prossimo gradino di quella scala enorme, torreggiava lo stesso ruvido nereggiare degli alberi, ripido e remoto; più sopra, la roccia nuda, le vette. In quel mondo d’aria e di pietra e di foreste non c’era altro colore che quel gemmeo verde scuro. Neppure un fiore sbocciava nell’erba alpina. Nessun fiore poteva schiudersi sui prati quando nessuna stella si schiudeva nel cielo. Questo, a Hugh, appariva chiaro; poi concluse che la sua mente si stava offuscando. Per svegliarsi, cambiò il percorso, girando in parte intorno all’isola di roccia, non completamente. Non voleva perdere di vista la ragazza addormentata.

Intorno al lato a nord, verso le pareti di roccia, c’era un tratto spelato in mezzo all’erba. La seconda volta che arrivò a quell’estremità della sua ronda semicircolare, si avvicinò di più, per vedere perché lì il terreno era nudo. Non era terreno, era pietra, una distesa di roccia a forma di scudo, una scapola della montagna che spumava attraverso la pelle. La superficie lievemente incurvata era spezzata in molti punti: Hugh si avvicinò ancora di più per guardare. C’erano anelli di ferro inchiavardati alla pietra, quattro, e formavano un rettangolo lungo più di due metri. La ruggine aveva macchiato la pietra e il lichene, intorno ai fori dei cavicchi metallici. Lui salì sulla roccia piatta e tirò uno degli anelli, ma quello non cedette. Una cinghia di cuoio non conciato, annodata intorno all’anello e spezzata al nodo, s’era accartocciata intorno al metallo fino a sembrarne un’escrescenza. Era tutto orribile, i grossi anelli incrostati di ruggine fissati alla pietra, tra le alte pareti e l’abisso, un luogo orribile. La ragazza dormiva lì, oltre i macigni, dal lato scoperto, indifesa. Così non andava. Era sbagliato essere lì. Quello era il posto sbagliato. Hugh voltò le spalle alla pietra piatta e in quel momento udì il grido nella foresta.

Un grido, un suono distante che era un sibilo e un singulto, appena più forte del battito improvviso del suo cuore.

Corse. La sensazione della presenza dell’abisso d’aria oltre il ciglio del baratro gli faceva girare la testa. La ragazza dormiva; la scosse, dicendo: — Svegliati, svegliati.

— Cosa c’è? — mormorò lei, confusa, facendo una smorfia, e poi spalancò gli occhi quando udì la voce, già molto più forte e più vicina, che ululava e singhiozzava nelle foreste all’estremità settentrionale del prato.

— Vieni — disse Hugh, trascinandola in piedi. Irena afferrò il fardello arrotolato e lo seguì, ansimante, silenziosa. Lui non le lasciò il braccio, perché all’inizio lei quasi non riusciva a muoversi, indebolita dal sonno o dal terrore. La trascinò per qualche passo; e poi, con un sussulto improvviso, lei si svincolò dalla sua mano e cominciò a correre. Si diressero verso la foresta, all’estremità più vicina del pascolo, fuggendo lontano dalla voce. Nessuno dei due aveva preso una decisione consapevole. Correvano. La voce divenne più forte dietro di loro, un ululato singhiozzante che martellava e martellava nei loro orecchi. Raggiunsero la foresta che aveva offerto un nascondiglio e adesso torreggiava come un labirinto di sentieri bui dove si sarebbero sperduti. — Aspetta! — Hugh tentò di gridare ma il respiro si bruciò nei suoi polmoni, lasciandolo senza voce, e lei non poteva udirla, perché il mostruoso, desolato ululare riempiva il mondo. Lei incespicò, e deviò dal tronco di un albero, e urtò contro Hugh, aggrappandosi ciecamente a lui, con la bocca aperta in uno strano varco quadrato. Lo strappò via dal sentiero che stavano seguendo. Hugh si lanciò con lei, giù per il declivio, fra i tronchi degli alberi e i macchioni, tra le foglie e i rami che sferzavano la faccia e gli occhi. Il terreno divenne più scosceso, sdrucciolevole, e inciamparono e scivolarono giù per il declivio per una quindicina di metri o più, per afferrarsi al baluardo di un albero semi-imputridito dove, senza fiato, paralizzati, si rannicchiarono. La voce scacciava ogni pensiero dalla mente, ancora più forte, orribile e desolata, enorme, famelica. Hugh alzò gli occhi, e l’essere che emetteva la voce era là, sul sentiero sopra di loro, e i macchioni tremavano e si agitavano mentre passava, bianco, grinzoso, alto il doppio di un uomo, trascinando la sua mole faticosamente e con terribile rapidità, la bocca tonda spalancata nell’ululato sibilante di fame e di sofferenza insaziabile, e cieco.

Passò. Passò oltre, trascinandosi dietro quel suono orribile.

Hugh giaceva con le spalle contro l’albero caduto, lottando per respirare, per riempirsi d’aria i polmoni. Il mondo scivolò e sbiancò intorno a lui. Quando riacquistò solidità, quando il dolore al petto diminuì, Hugh sentì il calore e il peso contro di lui, contro il fianco e il braccio sinistro. — Irena — disse in un sussurro muto, dando a quel calore un nome, ricomponendosi in quel nome, quella presenza. Lei era accovacciata, piegata in due, con la faccia nascosta. — Tutto bene — le disse.

— È andato — disse lei. — È andato.

— È andato?

— È passato oltre.

— Non piangere.

Lei s’era sollevata a sedere, ma il suo calore era ancora vicino a lui, e Hugh girò la faccia contro la sua spalla, in lacrime.

— Tutto a posto, Hugh. Adesso è tutto a posto.

Dopo un lungo tempo, il respiro di Hugh ridivenne normale. Alzò la testa e si mise a sedere. Irena si ritrasse un po’ e cercò di togliersi dai capelli le foglie e il terriccio, con le dita, e si massaggiò le guance bagnate.

— E adesso? — chiese con un filo di voce roca.

— Non so. Ti sei fatta niente?

Nessuno dei due s’era ferito, rotolando giù per il pendio, sebbene le scalfitture lasciate dai rami che avevano sferzato il viso di Irena spiccassero come linee tracciate da una penna rossa. Ma Hugh si sentiva ammaccato, esausto, oppresso dalla stanchezza mortale che l’aveva assalito sulla strada, oltre la porta; e Irena sembrava condividerla, mentre restava seduta con gli occhi semichiusi, la testa china.

— Non ce la faccio ad andare avanti, adesso — disse lei.

— Anch’io. Ma dovremmo nasconderci. — Era uno sforzo persino parlare.

Strisciarono e sdrucciolarono carponi per qualche metro, più in giù lungo il pendio sempre più ripido. Una grande macchia di rododendri aveva formato una nicchia per le sue radici. Sotto gli alti, vecchi cespugli, la muffa delle foglie era profonda, e aveva un lieve sentore amaro. Irena si insinuò in quella nicchia, e seduta lì, aggobbita come una bambina, cominciò a svolgere il fardello di lana che aveva tenuto stretto sotto il braccio sinistro fino a quel momento. Hugh si infilò un po’ più addentro negli arbusti fino a quando poté sdraiarsi bocconi. Avrebbe voluto slacciarsi la cintura per liberarsi della spada, ma era troppo stanco. Appoggiò la testa sul braccio.


Lei era seduta con le gambe allungate, sotto i rami più esterni dei rododendri. Si voltò, quando lo sentì muovere. Hugh si calò accanto a lei, e incurvò le spalle per liberarle dalla stanchezza. Aveva dormito così pesantemente che il suo corpo era ancora molle, e quasi non riusciva a chiudere la mano. Le scalfitture sul volto di Irena adesso erano nere, graffi d’inchiostro: ma non era più il volto-teschio del terrore e dello sfinimento; era rotondo, morbido, triste.

— Tutto bene?

Lei annuì.

— Chissà se c’è un ruscello, laggiù — disse dopo un po’.

Anche lui aveva sete. Nessuno dei due aveva voglia di mangiare i viveri secchi del fardello di Irena, fino a quando non avrebbero potuto bere. Ma nessuno dei due si mosse per andare a cercare l’acqua. Quella nicchia, recinta e riparata dai vecchi cespugli scuri, sembrava protetta, protettrice. Lì avevano trovato rifugio. Era difficile abbandonarla.

— Non so che fare — disse Hugh.

Parlavano tutti e due sommessamente, senza bisbigliare, ma sottovoce. La foresta montana era quieta, ma non del tutto silenziosa: un lieve movimento del vento spezzava il silenzio.

— Lo so — disse Irena, per spiegare che neppure lei lo sapeva.

Dopo un po’, lui chiese: — Vuoi tornare indietro?

— Indietro?

— Alla città.

— No.

— Neanch’io. Ma non posso… Che altro si può fare?

Lei non disse nulla.

— Devo riportare a loro quella maledetta spada. E dirglielo.

— Dire cosa?

— Che non posso farlo. — Hugh si strofinò le mani sulla faccia, sentì la barba ispida e dolente sul mento e sul labbro. — Che quando l’ho visto mi sono buttato a terra e ho pianto — disse.

— Su, avanti — disse lei, di scatto, balbettando. — Cosa potevi fare? Nessuno poteva far niente. Che cosa si aspettavano?

— Il coraggio.

— Ma è stupido! Tu l’hai visto!

— Sì. — Hugh la guardò. Avrebbe voluto chiederle che cosa aveva visto, perché non poteva né dimenticare né credere all’immagine nei propri occhi. Ma non era capace di parlare direttamente di quella cosa.

— Sarebbe stupido cercare di affrontarlo — disse lei. — Non sarebbe coraggio, solo stupidità. — La sua voce era esile. — Mi dà la nausea solo pensarci.

Dopo una pausa, con la voce che gli si incrinava nella gola, lui disse: — È… ha gli occhi?

— Gli occhi? — Irena rifletté. — Non ho visto.

— Se fosse cieco… Si comportava come se fosse cieco. Il modo in cui correva.

— Può darsi.

— Allora potresti prepararti. Se è cieco.

— Prepararti! — esclamò lei, sarcastica.

— È quel suono. Quel maledetto suono — disse lui, disperato.

— È la paura — disse lei. — Voglio dire, è come quello che succede quando hai paura… senti quella voce. Io l’ho sentita, una volta, mentre dormivo. È come se ti spegnesse la mente. È che… non posso far nulla, Hugh. Non posso esserti d’aiuto. Se tornerà, fuggirò ancora. O forse non riuscirò neppure a fuggire.

Neppure a fuggire: quelle parole gli si impressero nella mente. Vide la pietra piatta in mezzo all’erba. Gli anelli di ferro piantati nella pietra. Il nodo di pelle non conciata attraverso l’anello. Gli si mozzò il respiro, e la saliva fredda gli sgorgò nella bocca inaridita.

— Che cosa avevano detto di fare? — chiese. — Avevano detto molte cose che tu non hai tradotto. Mi hanno dato la spada, ci hanno mandati quassù, in quel prato…

— Il Nobile Horn non aveva detto niente. Sark aveva detto di andare alla pietra piatta. Immagino che alludesse a quel mucchio di rocce accanto alle quali ci siamo seduti.

— No — disse Hugh, ma non spiegò.

— Immagino sapessero che se andavamo là saremmo… quello sarebbe venuto… — Irena rimase per un po’ in silenzio poi disse, con un filo di voce. — L’esca.

Lui non disse nulla.

— Li ho amati — disse lei. — Per tanto tempo. Credevo…

— Hanno fatto quel che dovevano fare. E noi… noi non siamo venuti qui per caso.

— Siamo venuti qui fuggendo.

— Sì. Ma siamo venuti qui. Siamo arrivati qui.

Questa volta lei non rispose.

Dopo un po’ Hugh disse: — Sento che dovevo essere qui. Persino ora. Ma tu hai fatto quel che avevi promesso. Ora dovresti proseguire, scendere e tornare alla porta.

— Sola?

— Non potrei difenderti se fossi con te.

— Non si tratta di questo!

— È pericoloso per te, star qui. Non ho bisogno di te, adesso. Se fossi solo, potrei… potrei agire liberamente.

— Ti ho già detto che non sei responsabile per me.

— Non posso farne a meno. Due persone, in un certo senso, sono sempre responsabili l’una per l’altra.

Lei restò seduta in silenzio, stringendosi le ginocchia con le braccia. Quando parlò, lo fece senza toni di sfida. — Hugh. Che cosa potresti far meglio, solo? Se non farti uccidere?

— Non so — disse lui.

Dopo un po’ lei disse: — Dovremmo mangiare qualcosa — e s’insinuò di nuovo sotto i rododendri per prendere il suo fardello. Estrasse i pacchetti dei viveri e li fissò.

— Il mio zaino è rimasto vicino a quelle rocce — disse lui.

— Non voglio tornare là!

— No. Questo basterà.

— Beh, potrebbe bastare per un paio di giorni. Se staremo attenti.

— Basterà. — Non aveva importanza. Nulla aveva importanza. Hugh si sentiva sconfitto. Era fuggito e si era nascosto, ancora una volta, ed era in salvo, e sarebbe stato sempre in salvo, mai libero. — Andiamo — disse. — Non ho fame.

— Andar dove?

— Giù, alla porta. E andarcene di qui.

Lei levò gli occhi per guardarlo, mentre lui si alzava. Aveva un’espressione triste, indecisa. Hugh affibbiò di nuovo la cintura, si assestò la giubba di pelle sulle spalle. Aveva i muscoli indolenziti, si sentiva oppresso dal malessere e dalla pesantezza. — Andiamo — ripeté.

lrena arrotolò il suo fardello rosso e lo legò, ma tenne da parte una striscia di carne affumicata, che si mise fra i denti mentre infilava le braccia nelle cinghie. Hugh si avviò, risalendo il ripido pendio fittamente alberato che avevano disceso, fino a quando raggiunse il sentiero che entrava nella foresta dal Gradino Alto. E svoltò sulla sinistra.

Raggiungendolo tra un considerevole fruscio di foglie e lo scricchiolio dei ramoscelli, lrena disse: — Dove stai andando?

— Alla porta. — Lui indicò, con sicurezza, un po’ a sinistra rispetto alla direzione del sentiero. — È laggiù.

— Sì, ma questo sentiero…

Hugh sapeva che lei pensava, e non voleva dirlo, che era il sentiero percorso, creato dalla bianca cosa urlante.

— Va nella direzione giusta. Quando smetterà di andare nella direzione giusta, taglieremo attraverso la campagna, verso l’asse del sentiero, la strada del sud.

Lei non ribatté. Sembrava ancora preoccupata, ma era inutile preoccuparsi, non contava affatto come procedessero o dove andassero. Proseguì, e lei gli andò dietro.

La pista era vaga ma chiara, senza piste laterali o attraversamenti che la confondessero. Procedeva piuttosto pianeggiante, e la direzione era sud, sebbene si snodasse a destra e a sinistra in curve a u e a v, seguendo gli avvallamenti e la muscolatura del fianco della montagna. Gli alberi erano esili, vicini e alti. Spesso c’erano formazioni rocciose, sporgenze di granito pallido, e di tanto in tanto un nudo declivio di pietra, più in alto del sentiero. Dove il suolo era molle, sotto gli alberi, gli aghi degli abeti in certi punti erano stati spazzati via dal sentiero e il terriccio era sconvolto e segnato. Quando lo notò, Hugh pensò alle pesanti gambe pallide e grinzose, al corpo che si trascinava. Correva ritto, come un uomo. Ma era molto più grosso di un uomo e correva pesantemente ma molto svelto, trascinandosi e gridando come se soffrisse. Da quando la lasciò entrare nella sua mente, quell’immagine non l’abbandonò più. Gli sembrava che nell’aria, lungo il sentiero, ci fosse un odore vagamente familiare, no, intimamente familiare, ma non sapeva dargli un nome. C’erano i fiori bianchi di un arbusto, in estate, che avevano quell’odore, come il seme, ecco, l’odore dolce e spento. Lui continuava e continuava a camminare, e non aveva nella mente null’altro che l’interminabile momento in cui aveva intravvisto la cosa bianca che correva, più in alto di lui, su quel sentiero.

Un ruscelletto attraversava il percorso; nasceva da sorgente più in alto, sulla montagna. Hugh si fermò a bere, perché aveva molta sete. La ragazza lo raggiunse. Per lungo tempo, aveva dimenticato che era là, dietro di lui, e lo seguiva. Lo scintillio dell’acqua e la forma del viso di lei si frapposero tra lui e l’immagine della cosa bianca. Dopo aver bevuto, Irena si lavò la faccia, ripulendola dal terriccio, dal sale, dal sangue, facendosi scorrere l’acqua sulle braccia e sulla parte posteriore del collo. Hugh la imitò, e il contatto dell’acqua lo svegliò un poco, sebbene la sua mente lavorasse con lentezza e tutto gli sembrasse opaco e indistinto, senza significato e senza differenze.

Lei stava dicendo qualcosa.

— Non so — rispose lui, a caso.

Per un momento vide gli occhi della ragazza, scuri e luminosi nel crepuscolo informe sotto gli alberi.

— Se siamo ancora sul fianco orientale della montagna, allora il sud è là — disse lei, tendendo il braccio. Hugh annuì. — La porta. Ma il sentiero è così tortuoso. Mi confonde. Se dobbiamo abbandonarlo, forse è meglio che lo facciamo subito, finché ho ancora il senso di… dell’ubicazione della porta. — Lo guardò di nuovo.

— Dobbiamo restare sul sentiero — disse lui.

— Sei sicuro? — chiese lei in tono di sollievo.

Hugh annuì e si alzò. Attraversò il ruscelletto, e proseguirono. Era buio sotto gli alberi fitti e scuri. Non c’erano distanze, non c’era scelta, non c’era il tempo. Continuarono a camminare. La pista, adesso, scendeva gradualmente. Tutte le curve deviavano sempre più sulla destra che sulla sinistra, mentre li conducevano intorno alla massa possente della montagna, verso ovest. Diventerà più buio, se continueremo verso ovest, pensò Hugh.

Irena lo tirò per il braccio: voleva che si fermasse. Lui si fermò. Lei voleva che sedesse e dividesse i viveri. Lui non aveva fame e non poteva restare lì a lungo, ma era piacevole riposare un poco. Si alzò, e proseguirono. Ruscelli scoscesi attraversavano il sentiero, di tanto in tanto, nelle pieghe scure dei canaloni, e Hugh s’inginocchiava per bere a ognuno di essi, perché aveva sempre sete, e l’acqua lo scuoteva per un minuto. Alzava lo sguardo e vedeva il cielo fra i rami neri e sfrangiati, e poi lo girava sul quieto, dolce, severo volto della ragazza inginocchiata accanto a lui sul bordo del ruscello; sentiva il fruscio del vento, sopra e sotto di loro, sul fianco della montagna. Si accorgeva di queste cose, e magari delle piccole felci e delle piante acquatiche vicine alle sue mani. Poi si alzava e riprendeva a camminare.

C’era un posto dove l’aria era più leggera, un filare di alberi dal tronco pallido e dalle foglie rotonde. Lì la pista si biforcava. Un ramo svoltava a sinistra, scendendo il declivio; un altro proseguiva diritto.

— Quello potrebbe scendere alla strada del sud — disse Irena, ma quando lei pronunciò la parola «quello», lui comprese che non era veramente quello giusto.

— Dovremmo continuare su questo.

— Va diritto. Ormai dobbiamo andare verso ovest. Forse gira intorno alla montagna ed esce di nuovo al Gradino Alto. Continua all’infinito.

— È quello giusto — disse lui.

— Sono stanca, Hugh.

Era passato meno di un attimo, era passato molto tempo da quando s’erano fermati per riposare o per mangiare. Lui voleva proseguire, ma sedette e attese, lì alla biforcazione del sentiero sotto gli alberi pallidi, mentre Irena mangiava. Proseguirono. Quando giunsero a un ruscello, bevvero, e proseguirono.

Adesso il sentiero risaliva. Quelle erano le sole direzioni: destra e sinistra, verso l’alto e verso il basso. Il senso dell’asse era ormai andato perduto da tempo, non aveva più significato. La porta non c’era. Il sentiero divenne molto erto, zigzagando fra i burroni che sfregiavano la mole della montagna, sempre verso l’alto.

— Hugh!

Il nome che lui odiava giungeva da una grande distanza, nel silenzio. Il vento aveva smesso di soffiare. Non c’era il minimo suono. Taci, pensò lui, con un cupo fremito d’ansia, ora devi tacere. Si fermò, controvoglia, e si voltò. Per un po’, non vide neppure la ragazza. Era molto più giù, sul sentiero dietro di lui, sul lungo, buio, ripido sentiero sotto gli alberi fitti, e il suo viso era una macchia bianca. Se lui avesse percorso solo qualche altro passo, si sarebbero perduti di vista. Così sarebbe stato meglio. Ma si fermò e attese. Lei lo raggiunse molto lentamente, salendo faticosamente l’erta, e quella era una parola presa dai libri, faticosamente, era faticoso percorrere quella strada. Lei era stanca. Lui non sentiva la stanchezza; solo quando si fermava e doveva restare immobile, come ora, era faticoso. Se avesse potuto continuare, sarebbe riuscito a camminare per sempre.

— Non puoi continuare così — disse lei in un aspro mormorio ansimante quando finalmente lo raggiunse.

Per lui, parlare fu un grande sforzo. — Non è molto lontano.

— Che cosa?

Non parlare, avrebbe voluto dirle. Riuscì a sussurrarlo: — Non parlare. — Si voltò per procedere.

— Hugh, aspetta!

C’era l’angoscia della paura, in quel grido bisbigliato. Hugh si voltò verso di lei. Non sapeva che cosa dirle. — Tutto a posto — disse. — Aspetta qui per un po’.

— No — disse lei, fissandolo. — No, se tu continui. — Gli passò davanti, sullo stretto sentiero, di slancio, camminando con un’andatura sussultante, ossessiva. Lui le andò dietro. Il sentiero svoltava e saliva e svoltava, sotto gli abeti scuri, sotto le pareti di roccia. Girarono intorno a un angolo che sporgeva sopra le immense, scure foreste digradanti, e videro tutta la terra del crepuscolo, sotto di loro, scurirsi verso il lontano occidente. Non si fermarono, ma proseguirono, entrando tra gli alberi, fronde e rami, nella montagna, sotto la roccia. A destra, le pareti della vetta erano aggettate. Gli alberi, tra i picchi sfregiati e i macigni, crescevano bassi e stenti. Adesso il suolo era roccioso, e il sentiero era pianeggiante.

Il passo pesante e sussultante di Irena si spezzò. Lei si fermò. Avanzò ancora un poco e si fermò di nuovo. — Là.

Erano di fronte a una parete di roccia, intorno alla quale la pista passava all’esterno, restringendosi. Hugh percorse quei pochi passi, e svoltando l’angolo vide la curva interna della parete di roccia, sovrastata da cespugli quasi privi di fogliame. Nella roccia c’era l’imboccatura di una grotta. Era quello, naturalmente: quello era il luogo. Restò a guardarla, senza paura e senza emozione. Era lì. Finalmente. Di nuovo. Aveva continuato a venire lì tutta la sua vita, e non aveva mai desistito all’inizio.

Gli restava solo da percorrere quei pochi passi, giù fino allo spiazzo pietroso e pianeggiante davanti alla grotta, ed entrare. Nella grotta era buio. Non il crepuscolo: la tenebra. Dall’inizio del tempo fino alla fine.

Si mosse.

Lei lo precedette, correndo, spingendosi avanti sullo stretto sentiero, e scese e attraversò lo spiazzo pianeggiante, verso l’imboccatura della grotta, ma non entrò. Si chinò e raccattò una pietra e la scagliò entro l’imboccatura buia, urlando con voce esile come quella di un uccello: — E va bene, vieni fuori! Vieni fuori! Vieni fuori!

— Stai indietro — disse Hugh, raggiungendola in tre passi. Stringendo il fodero con la mano sinistra sguainò la spada con la destra, perché non c’era altro da fare. L’alito freddo uscì sospirando dalla grotta, e dalla tenebra fredda, risvegliata, venne la voce enorme, l’ululato avido. E la faccia che non era una faccia, priva d’occhi, si sporgeva, bianca e cieca, si calava brancolando verso di lui. Stringendo l’elsa della spada con entrambe le mani, Hugh spinse la lama verso l’alto, nel bianco ventre grinzoso, e l’abbassò con tutte le sue forze. Il singulto sibilante divenne un urlo. In un fiotto di sangue pallido e d’intestini lucenti, l’essere s’impennò contorcendosi, strappandogli la spada dalle mani, e poi gli crollò addosso, schiacciandolo mentre cercava, troppo tardi, di buttarsi a lato per evitarlo.

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