3.

Spezzò il cartello, calpestò i pezzi schiacciandoli nel fango, e rimase lì, con la camicia e i jeans infradiciati dal momento in cui aveva inciampato nel ruscello, con le scarpe piene d’acqua. — Bastardi — disse, ed erano le prime parole che avesse mai pronunciato a voce alta nel luogo del crepuscolo. — Subdoli bastardi!

Gli alti cespugli scricchiolarono e si agitarono. Qualcuno uscì da quel nascondiglio, un ragazzo dai capelli neri che lo fissava. — Vattene — disse il ragazzo. — Sgombra. Questa è proprietà privata.

— D’accordo. Dov’è la mia roba? — Hugh avanzò d’un passo. — Mi è costata una settimana di stipendio. Che cosa ne hai fatto?

— È su nel bosco. Non riportarla qui. Non tornare. Vattene!

Il ragazzo si fece avanti, sdegnato, irridente, pieno d’odio. Hugh non riuscì a reprimere un tremito. — D’accordo — disse, — non è necessario che… — Era inutile. Si voltò, ridiscese la riva e attraversò il ruscello, scivolando e recuperando l’equilibrio. Si diresse verso la porta. Doveva andarsene. Se ne sarebbe andato, e non sarebbe più ritornato: era finita. La sua roba era su, nel bosco, e lui avrebbe varcato la porta e avrebbe ripreso la sua roba e non sarebbe ritornato mai più.

Ma aveva già varcato la porta.

Quando si voltò indietro, vide dietro di lui il crepuscolo, e il turbinare dell’acqua e le rocce che l’infrangevano, e davanti a lui scorse il crepuscolo e il sentiero che proseguiva tra gli alberi.

Aveva perduto la strada. La strada non c’era.

Continuò per qualche passo, poi si fermò; restò immobile; poi tornò indietro, passando fra gli alti cespugli e il pino dalla corteccia rossa, nel luogo dell’inizio.

L’altro, lo sconosciuto, era ancora fermo sull’altra sponda. Non era un ragazzo ma una donna, con i jeans e la camicetta bianca, una macchia indistinta di capelli neri, un viso bianco e intento a fissarlo.

— Non posso uscire — disse Hugh. — La strada non c’è.

Le voci sonore e dolci dell’acqua scorrevano tra loro. Hugh era profondamente spaventato. Disse: — Se conosci questo posto, se vivi qui, dimmi come posso uscire!

La donna si fece avanti bruscamente, attraversò il ruscello, passando agile e leggera da una pietra all’altra. Si fermò accanto alla sporgenza di roccia e indicò la porta. — Là.

Lui scosse il capo.

— Quella è la porta.

— Lo so.

— Vai!

— È cambiata — disse lui. Si voltò e attraversò la radura, passò fra i cespugli e il pino e proseguì. La via non diventava più buia ed erta sotto gli arbusti e i rovi, e più avanti non c’era la luce del sole. Gli alberi erano fitti e indistinti nel crepuscolo senza vento, e non c’era altro suono che la musica del ruscello, dietro di lui. Alla fine si voltò e vide la donna ferma accanto all’acqua, intenta a fissarlo.

Tornò indietro. Lei gli andò incontro, sull’erba.

— Il sentiero prosegue — disse la donna, in un sussurro. — Non ho mai visto una cosa simile. Non è mai stata chiusa da questa parte… Vieni! — Passò oltre Hugh, svelta e irosa, avviandosi verso la porta. Lui l’accompagnò. Il ruvido tronco rossiccio del pino gli sfiorò la spalla. Sul sentiero buio, un ramo di rovo gli si impigliò ai capelli. Scorgeva appena la donna che lo precedeva. Un uccellino cinguettò in toni secchi, dall’alto. L’aria aveva un odore di fumo, di gomma, di benzina, d’aghi di pino riscaldati dal sole. Il terreno era arido, sotto i suoi passi. — Ecco là la tua roba — disse la donna. Lo zaino e il sacco a pelo giacevano nell’erba ispida accanto ai cespugli.

Hugh li guardò, come per controllare che ci fosse tutto. Non osò voltarsi indietro. Temeva che, se avesse guardato dietro di sé, il crepuscolo si sarebbe levato per accompagnarlo. La donna, una ragazza della sua età, era ferma sul sentiero: capelli neri, occhi neri, viso bianco.

— Che luogo è questo? — le chiese. — Lo sai?

Lei non rispose subito, e Hugh pensò che non intendesse farlo. — Se fosse il tuo posto, lo sapresti — disse invece la ragazza con quella sua voce esile e aspra.

— Io devo… — Hugh non riuscì a pronunciare le parole. Perché restava lì immobile, a lasciare che lei lo svergognasse? Si sentiva il viso accaldato e irrigidito: aveva pianto? Si strofinò la mano sulla mascella, nascondendo la bocca, per nascondere la vergogna.

— Non è un campeggio per giovani esploratori — disse lei. — Non è fatto perché tu ci porti la tua robaccia e ti ci accampi e… Non è un parco statale. Tu non ne sai niente. Non conosci le regole. Non parli la lingua, non conosci le loro… Non è il tuo posto. Non è fatto per te. Non è sicuro.

La collera non affiorava per liberarlo dalla vergogna. Doveva restare lì e ascoltare quello che lei diceva, e poi ripetere l’unica cosa che aveva da dire: — Io devo tornare. — La sua voce era un mormorio. — Non lascerò niente là.

La ragazza tremò di rabbia come un frammento di giornale squassato dal vento, un pezzo di carta in fiamme.

— Ti avverto!

Ciò che gli aveva detto prima stava incominciando a imprimersi nella mente di Hugh. — C’è… c’è gente che vive qui?

Dopo una lunga pausa, lei disse: — Sì.

Gli occhi della ragazza lampeggiarono stranamente nella luce irrequieta.

— Ti stanno aspettando — disse poi, con quella voce soffocata e irridente, e all’improvviso avanzò e passò oltre Hugh, non tornò indietro, come lui si aspettava, scendendo il sentiero verso quella terra crepuscolare, ma lo superò, brusca, svelta, concreta, e continuò a procedere nel mattino. Dopo poco più di un metro la massa dei cespugli la nascose, e dopo un altro momento anche il suono lieve dei suoi passi svanì.

Hugh rimase sbalordito e svuotato nell’aria tepida e leggermente polverosa del bosco, continuamente scossa dalla vibrazione di macchine lontane. Una chiazza di luce solare filtrava tra le foglie e danzava sull’involucro marrone del suo sacco a pelo, in un movimento incessante.

E adesso dove andrò? Non ho nessun posto dove andare.

Era stanco, esausto dalle emozioni… collera, paura, angoscia. Si sedette sul bordo del sentiero, con una mano sullo zaino, per proteggerlo, o forse per cercare sicurezza. La spaventosa sofferenza della privazione non l’abbandonava, non diminuiva.

Forse lo sente anche lei, pensò. È come se io glielo avessi tolto.

Ma non posso farne a meno. Devo ritornare. Non ho nessun altro posto dove andare. Lei non ha il diritto… Quella non era la parola più appropriata, ma Hugh non sapeva come esprimersi altrimenti.

Tornerò. Non lascerò qui la mia roba. Almeno, non nella radura della porta. Potrei andare oltre… risalire il ruscello per un tratto. Lei non può andare dovunque. Non c’è ragione perché dobbiamo incontrarci mai più.

A meno che io non possa più uscire.

Quel pensiero passò lieve attraverso la sua mente. Il terrore panico che l’aveva dominato quando la porta aveva condotto soltanto nel proseguimento del crepuscolo era già sprofondato dentro di lui, troppo per riemergere facilmente. Se è ancora così, posso aspettare, si disse, e passare con lei, quando verrà.

Lei è come me; viene da qui. Ma ha detto che qui c’è gente che ci vive.

Ma la sua mente si scostò anche da quel pensiero. Non è necessario che io li incontri. Non c’è mai stato nessuno, nel luogo in riva al ruscello. E adesso lei se ne è andata. Tornerò…

Spinse la sua roba sotto i cespugli impolverati e spinosi, si alzò, e ridiscese il sentiero verso la soglia, entrò nel crepuscolo, giunse all’acqua limpida dove, finalmente, s’inginocchiò e bevve. L’acqua gli lavò la faccia e le mani, portò via la vergogna e la paura. — Questa è la mia patria — disse alla terra e alle rocce e agli alberi, e con le labbra quasi a contatto dell’acqua, bisbigliò: — Io sono te. Io sono te.


Arrivò a Sam’s Thrift-E-Mart alle dieci, e alle dieci e cinque aprì la Cassa Sette. Donna alzò la testa dal registratore della Sei. — Stai bene, Buck?

Per Hugh erano trascorsi due giorni e tre notti da quando aveva lasciato il lavoro con un’ora d’anticipo, ieri pomeriggio; non ricordava perché Donna poteva pensare che lui non stesse bene.

Lei lo squadrò dalla testa ai piedi con un’espressione curiosa, cinica e tuttavia ammirata. — Non stavi affatto male — gli disse. — Avevi qualcosa di meglio da fare. — Poi batté il prezzo d’una confezione di cola da sei e un pacchetto di salatini al formaggio per un vecchio tremulo e con la barba ispida, dicendo a lui e a Hugh: — Non è meraviglioso essere giovani? Ma io non vorrei passarci di nuovo neppure se mi pagaste.


Hugh non esplorò molto avanti, verso valle. La gola del ruscello diventava più profonda; sembrava sempre più buio in quella direzione. Verso monte, rispetto alla radura della porta, il sottobosco era meno fitto, e in molti punti le rive del ruscello erano sgombre, ampie e sabbiose. Giunse in un luogo dove il ruscello, sotto un filare di grandi salici, veniva strozzato da uno sperone di roccia rossa che tagliava obliquamente il suo corso in gradini e ripiani. Al disopra dell’acqua bianca c’era uno specchio profondo e allungato. Le rive erano sovrastate dagli alberi, ma il minuscolo laghetto era scoperto, sotto il cielo. Quel luogo aveva un’atmosfera remota, racchiusa: nessun altro sarebbe venuto lì.

Hugh preparò un nascondiglio per la sua roba nella biforcazione di un albero basso, così avviluppato da un rampicante a foglie minute che restò celato persino al suo sguardo fino a quando non vi mise le mani. Raccolse un po’ di legna da ardere, quasi tutti rami di un vicino albero morto, e scavò un focolare nella sabbia della riva riparata, appena al disopra della barriera di roccia rossa. Preparò il fuoco. Poi si tolse la camicia e i jeans e in silenzio, eretto, si immerse nel laghetto immobile. Accanto alla barriera di roccia, l’acqua era più alta di lui. Nuotò, con una gioia silenziosa e intensa, fino a quando non sopportò più il freddo, e si diresse verso la riva, rabbrividendo e intormentito dai crampi, e accese il fuoco.

Le fiamme erano bellissime nel crepuscolo limpido. Si accovacciò nudo perché il calore gli penetrasse nella pelle, nelle ossa. Alla fine si vestì e si preparò una tazza del miscuglio dolce, caffè-cioccolato, che aveva comprato in offerta speciale, e sedette a berlo, in pace. Quando il fuoco si fu consumato, ne coprì ogni traccia con la sabbia, rimise le scarpe, e si incamminò per esplorare ancora più avanti, verso monte.

Ormai ci veniva tutti i giorni. Metà della sua vita la trascorreva nella terra crepuscolare. Quando era lì, persino il ritmo del suo respiro era diverso, più profondo. Quando si svegliava dal sonno che dormiva lì, un sonno più profondo del sogno, oscuro e irresistibile come le correnti del ruscello, rimaneva disteso per un po’, pigramente, ascoltando lo scorrere dell’acqua e il fruscio delle foglie, pensando: Resterò qui… resterò ancora un poco… Non lo faceva mai. Quando era al lavoro, nel supermercato, o quando era a casa, non pensava molto alla terra crepuscolare. Esisteva: non aveva bisogno di sapere altro, mentre batteva un conto di sessanta dollari o calmava sua madre, dopo una giornata faticosa alla società di prestiti dove lei lavorava. Esisteva, e lui poteva tornarvi, tornare al silenzio che dava significato alle parole, al centro che dava forma al mondo.

Non aveva più trovato la porta chiusa, e aveva pensato ben poco a quella possibilità. In un certo senso, la causa doveva essere stata la ragazza. Era accaduto perché lei era lì, e per questo lei aveva potuto annullarlo, passando insieme a lui dall’altra parte. Di tanto in tanto pensava a lei, con apprensione eppure con rimpianto. Se non fosse stata così piena d’odio e di rabbia, forse avrebbero potuto parlare. Aveva lasciato che la ragazza gli desse ordini, era stata colpa sua. Lei avrebbe potuto dirgli qualcosa di quella terra. A quanto sembrava, la conosceva da più tempo e meglio di lui. Se anche non viveva lì, conosceva coloro che ci vivevano.

Se quegli altri esistevano davvero. Hugh vi pensava spesso, durante le soste silenziose nel luogo dei salici. Tutto quello che la ragazza aveva detto era qualcosa come «Tu non conosci la lingua,» e poi, quando lui aveva chiesto se c’era gente che viveva lì, aveva detto di sì, ma dopo aver esitato, e con un tono falso o forzato. Aveva cercato di spaventarlo. E l’idea era minacciosa. Essere lì solo era la gioia più grande. Essere solo, non essere costretto a cercare di tenere a bada gli altri, le loro esigenze, le loro pretese, i loro comandi.

Ma coloro che vivevano lì, come potevano essere? Che lingua parlavano? Lì nulla parlava. Nessun uccello cantava mai. Dovevano esserci animali nei boschi, ma erano sfuggenti, silenziosi. Lì non c’era bisogno che qualcuno desse fastidio a qualcun altro.

Hugh pensava a queste cose mentre stava seduto in silenzio accanto al fuocherello vivace in riva all’acqua, sotto i salici. Lì, un pensiero poteva occupare la sua mente per lungo tempo, trovare lo spazio per espandersi ed esaurirsi. Hugh non aveva mai ritenuto di essere particolarmente stupido, e a scuola s’era fatto abbastanza onore nelle materie che gli piacevano, ma sapeva che la gente lo giudicava stupido perché non era svelto. La sua mente non funzionava affrettatamente, precipitosamente. Poteva venire lì e pensare con calma, e questo giustificava in gran parte il senso di libertà che provava. L’alternanza tra due vite completamente diverse, l’attraversamento ripetuto della soglia tra Kensington Heights e la terra crepuscolare, avrebbero potuto confonderlo e sfinirlo, se non fosse stato per la forza che acquisiva nelle soste in riva al ruscello. Se ne stava tranquillo, semplicemente e completamente preso dalle sue attività, camminare, nuotare, dormire, pensare, usare i sensi; e quella quiete totale sostituiva la sensazione di venire sospinto precipitosamente attraverso la vita, senza il tempo di chiedere cosa stava facendo o dove avrebbe dovuto essere, senza il tempo di vedere che c’erano possibilità di scelta, e di scegliere. Anche là, se si aggrappava alla quiete che trovava qui, anche là riusciva a pensare un poco.

Da quando aveva detto che sua madre era malata, e aveva sentito la propria voce pronunciare quella parola, era stato costretto ad affrontare l’idea anziché fuggire e nascondersi; costretto a cercare di considerare con fermezza quanto lei era malata, e quale era la sua malattia.

E questo era difficile. Comportava una comparazione: come se lei non fosse stata sua madre, ma una donna qualunque, chiunque. Chiunque fosse malato.

Durante la frequenza delle ultime due scuole superiori, Hugh aveva conosciuto ragazzi avviati fino in fondo sulla strada delle droghe dure. E in decima classe (non era un ricordo che lui amava riesumare) la ragazza che qualche volta copiava i suoi compiti d’inglese, non ne ricordava il nome… lo faceva sempre sentire colpevole perché era così umile… si chiamava Cheryl, e un giorno, la settimana prima della fine delle scuole, si era chiusa nel gabinetto delle ragazze e aveva cercato di infilarsi dentro a una toeletta. Lui aveva sentito le urla, e aveva visto nel corridoio una ragazza che rideva in modo orribile e convulso, e poi aveva visto portar fuori Cheryl, piegata in due, con l’acqua rossastra che le sgocciolava dai capelli, urlante con una voce alta e acuta, e lui e tutti gli altri ragazzi erano rimasti lì a guardare, mentre la gente saliva correndo le scale per vedere. Nessuno aveva saputo come parlarne, dopo; nessuno di coloro che avevano sentito le urla. Quella era la cosa peggiore che gli fosse mai capitata; ma lavorando in un supermercato vedevi tanta gente che inveiva contro i funghi, e pazzi come il taccheggiatore che cercava di cavarsela con un tentativo di corruzione, o il tizio che aveva minacciato Donna con un coltello quando lei aveva rifiutato di accettargli un assegno senza vedere la sua carta d’identità; e persone che facevano cose che potevano avere una ragione ma sembravano molto strane, come acquistare quarantotto boccette di spray germicida e una scatola di castagne d’acqua. Tutto ciò che quegli individui avevano in comune, a quanto poteva capire lui, era una specie di sfasamento, di discronia. Il motore faceva rumore, ma l’energia non arrivava alle ruote. Erano bloccati. Non approdavano a niente. Negli ultimi sette anni, sua madre aveva cambiato casa tredici volte, era vissuta in cinque stati diversi; e più spesso si muove, pensava Hugh, e più non approda a niente.

Eppure, anche se era come quelli che inveivano contro i funghi e come quelli che compravano lo spray germicida, sua madre non era ridotta come i drogati o Cheryl. Era bloccata, ma non impantanata. La società dei prestiti, un’azienda enorme che aveva filiali in tutto il paese, le aveva già concesso due trasferimenti, e le dava anche aumenti di stipendio. Lei si lamentava molto del lavoro, ma non mancava mai un giorno. E in quell’ufficio s’era fatta finalmente un’amica, Durbina, e aveva trovato un interesse nuovo, quella faccenda delle vite anteriori, che la stava affascinando. Era pazzesco? Hugh non voleva giudicarlo, in un senso o nell’altro. Quello che gli diceva sua madre gli sembrava piuttosto sciocco. Ricordavano sempre di essere state principesse o somme sacerdotesse, nelle vite precedenti; e lui si domandava chi aveva lavorato, allora, nelle società di prestiti e nei supermercati dell’antico Egitto. Ma no, senza dubbio c’era la tendenza a ricordare le cose più importanti. Era un’eccentricità, ma non più della maggior parte delle cose cui s’interessava la gente: i risultati del baseball, il futuro dell’alluminio, gli antichi vasi da farmacia, la proliferazione nucleare, Gesù, la politica, i cibi della salute, il violino. La gente faceva cose molto strane. La gente era estremamente strana. Lo erano tutti. Non potevi giudicare la malattia mentale dalla stranezza, altrimenti sarebbero stati tutti malati. Si era malati quando si guidava la macchina tenendola in folle. Il luogo da cui sua madre non poteva allontanarsi era la casa, e più la lasciava e più era bloccata; non sopportava di essere sola in casa, non poteva rientrare di sera e trovare la casa vuota, viveva nel terrore di svegliarsi la notte e di non trovare nessuno. E questa tendenza era peggiorata. Sua madre era peggiorata… Ma io lo so, pensò Hugh. A che serve saperlo? Non posso far nulla. Lei non ha altri che me. E devi avere qualcuno, anche se nessuno dei due può far nulla. Non c’è nessun altro. Lui.


Stava aspettando Hugh all’angolo, di fronte alla scuola. — Andiamo a vedere le gare d’atletica al campo d’allenamento dell’università — disse, e Hugh, tredici anni, con la camicia verde che aveva ricevuto in dono per il compleanno il giorno prima, si accorse che gli altri ragazzi notavano suo padre, un uomo grande e grosso e biondo, alto, con il petto ampio, bello in una giacca di tela jeans sbiancata alle cuciture. Era venuto lì con il camion Ford, ed erano andati al campo dell’università a vedere i velocisti, i saltatori in lungo, i saltatori con l’asta nella foschia dorata del pomeriggio d’aprile. Parlarono delle ultime Olimpiadi, delle tecniche del salto con l’asta. Suo padre gli batté gentilmente la mano sulla spalla e disse: — Sai, Hughie, ho molta fiducia in te. Lo sai? Su te posso contare. Sei più solido di tanti uomini fatti che conosco. Continua così. Tua madre ha bisogno di qualcuno su cui contare. Può contare su di te. Per me, saperlo è molto importante. — Hugh non poteva baciare la grossa mano coperta da una peluria dorata; l’unico modo in cui gli uomini potevano toccarsi era colpirsi. Non poteva neppure sfiorare il polsino sfrangiato della giacca di tela jeans. Restò seduto nell’improvvisa, esaltante luce solare di quella lode. Il giorno dopo, quando tornò a casa da scuola, in cucina c’era Joanna, la loro vicina, con le labbra contratte. La madre di Hugh era sdraiata, e dormiva sotto l’effetto dei sedativi; suo padre se ne era andato con il camion Ford e aveva lasciato un biglietto per dire che aveva trovato un lavoro in Canada e che secondo lui era venuto il momento buono per rompere.

Hugh non vide mai il biglietto, sebbene Joanna avesse ripetuto un paio di frasi del testo, come «il momento buono per rompere», e lui sapesse che sua madre lo teneva insieme alle carte e alle fotografie in una cassettina.

Lui aveva preso brutti voti, per il resto di quel semestre, perché sua madre aveva usato tutti i mezzi per impedirgli di andare a scuola, di solito facendosi venire una crisi di pianto a colazione. — Tornerò, vado solo a scuola. Tornerò alle tre e mezzo — prometteva lui. Sua madre piangeva e l’implorava di restare con lei. Quando restava, non sapeva cosa fare per passare il tempo, se non leggere vecchi album a fumetti; aveva paura di uscire e aveva paura di rispondere al telefono, nell’eventualità che fosse l’ispettore scolastico; e sua madre non sembrava mai contenta di averlo vicino. Quell’estate avevano traslocato per la prima volta, e lei s’era trovata un lavoro. Le cose andavano sempre meglio, per un po’, nei posti nuovi.

Quando sua madre aveva incominciato a lavorare era riuscita a cavarsela bene, durante il giorno, e Hugh aveva finito la scuola senza problemi. Era la notte, l’oscurità, che lei non riusciva ancora ad affrontare: restare sola al buio. Finché sapeva che c’era lui, tutto andava bene. Su chi altro poteva contare?

E che altro aveva, lui, tranne la fidatezza? Tutto ciò che poteva aver creduto di essere o di valere, suo padre l’aveva svalutato andandosene. Nessuno abbandona le cose necessarie, o le cose preziose. Ma sebbene Hugh comprendesse abbastanza bene ciò che aveva provato Cheryl, la sensazione d’essere una merda, di doversi togliere di mezzo, non avrebbe fatto nulla, diversamente da Cheryl, perché sotto un certo punto di vista lui era prezioso, utile, persino necessario: poteva essere lì quando sua madre aveva bisogno di aver vicino qualcuno. Poteva prendere il posto di suo padre. In un certo senso.

Quando si era dedicato all’atletica, in primavera, durante la decima classe, s’era fratturato la caviglia saltando con l’asta, il primo giorno. Nello sport non era mai riuscito. Era diventato grande e grosso, ma pesante, con i muscoli molli e la pelle molle.


— Ehi, mi comprerò una di quelle tute rosse così carine e comincerò anch’io a correre su e giù per la strada — disse Donna. — Dov’è finita la tua gomma di scorta, Buck? — Lui abbassò gli occhi sul proprio ventre, vergognandosi, ma vide che forse andava un po’ meglio del solito. Non c’era da meravigliarsene, perché ogni mattina, prima di andare al lavoro, si faceva una lunga, svelta camminata, più qualcosa come dieci o dodici ore di marcia e di nuoto, senza mangiare molto. Portare viveri a sufficienza nella terra crepuscolare era un problema che lui risolveva soprattutto sopportando la fame.

Le prime esplorazioni verso monte, lungo il ruscello, erano state incerte e brevi. Hugh aveva paura di smarrirsi. Acquistò una bussola, e poi scoprì che non poteva servirsene. L’ago tremolava e deviava a ogni passo, e sebbene quasi sempre sembrasse indicare che il nord era oltre il ruscello (se il nord era l’estremità azzurra dell’ago), lui avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più preciso, per ritornare alla radura della soglia, se si fosse addentrato tra le colline. Non c’erano sole e stelle che lo aiutassero a orientarsi. Che cosa significava «nord», lì? Gli alberi crescevano così vicini che era possibile camminare in linea retta per un lungo tratto, e Hugh non trovava mai una visuale spaziosa, nessuna possibilità di farsi un’idea dell’aspetto del territorio. Perciò esplorava i sentieri e i macchioni, le depressioni, le radure, le vallette laterali, le fonti sui fianchi dei colli, i meandri della foresta, su entrambe le sponde del ruscello, salendo dal luogo dove crescevano i salici. Imparava a conoscere quella terra selvaggia. Aveva molto da imparare. Non sapeva nulla delle zone selvagge, della vita nei boschi, delle piante. Gli alberi con le pigne erano pini. Gli alberi con i rami esili e splendenti erano salici. Hugh conosceva le quercie (c’era stata una quercia enorme nel campo giochi d’una delle scuole medie-superiori che aveva frequentato) ma nessuno degli alberi in quella foresta le somigliava. Comprò un libro sugli alberi più comuni e riuscì a identificarne parecchi: frassino, acero, ontano, abete. Tutto ciò che vedeva, tutto ciò che gli capitava sottomano lo interessava e lo teneva occupato, lì. E inoltre, pensava a ciò che non conosceva e che non aveva visto. Fin dove si estendeva il territorio selvaggio, la foresta? Aveva una fine? Ormai aveva percorso parecchie miglia lungo il ruscello e non c’erano cambiamenti, non c’era la minima traccia, il minimo segno della presenza umana. Persino gli uccelli e i mammiferi erano invisibili; Hugh seguiva le piste indistinte aperte dai cervi, ma non ne vedeva mai uno, a volte trovava un vecchio nido d’uccelli caduto al suolo, ma nella stagione immutabile e nel clima senza cambiamenti, non udiva mai il grido di un animale o il canto di un uccello.

Il ruscello, suo compagno e sua guida: che poteva pensarne? Doveva gettarsi in un fiume o diventare un fiume, più a valle, e grande o piccolo che fosse doveva finire per raggiungere il mare.

Hugh trattenne il respiro. Fissò stordito il suo fuoco, con la mente pervasa da quel pensiero: il mare che si estendeva oltre le coste della sera. L’oscurità verso la quale correva quell’acqua viva. Frangenti bianchi nell’ultimo crepuscolo, e al di là di quelli, gli abissi, la notte. La notte, e tutte le stelle.

Quella visione era così immensa e tenebrosa, il pensiero delle stelle era così terribile che quando lo abbandonò e Hugh tornò a guardare le solite rocce, le barene di sabbia, gli alberi, i rami, gli intrichi di foglie del luogo dov’era accampato, tutto gli parve piccolo e fragile, come un ninnolo, e il cielo piatto e chiaro era stranissimo.

Spesso, mentalmente, chiamava quel luogo «la terra della sera», a causa del crepuscolo eterno; ma ora pensava che quel nome fosse inesatto. La sera è il tempo del mutamento, la soglia della notte.

Il vento dolce che spirava lungo la valle del ruscello smosse la superficie del minuscolo lago. La visione lo sfiorò di nuovo: l’ampio gradino semibuio, la terra che era una soglia, e quel ruscello argenteo che l’attraversava e discendeva nella tenebra da chissà quali altezze, da quali monti orientali di un giorno inimmaginabile.

Hugh sedette di nuovo, frastornato, nel crepuscolo, certo di aver compreso per un momento perché considerava sacra quell’acqua.

— Dovrei proseguire — disse sottovoce. Ogni tanto parlava da solo, a mezza voce, una parola o una frase soltanto ad ogni visita.

Aveva incominciato a radersi, e continuò a farlo. Quel che lì sembrava durare un giorno e una notte poteva essere meno di un’ora nel mondo della luce diurna; ma la sua barba seguiva il suo tempo, non quello dell’orologio. Gli avrebbe semplificato la vita, lasciarla crescere (anche se a diciotto anni se ne era preoccupato, perché era folta, vigorosa, di colore bronzeo, e sua madre diceva continuamente che doveva radersi) ma i dipendenti di Sam’s Thrift-E-Mart non erano autorizzati a portare la barba. Aveva già dovuto discutere abbastanza per poter tenere i capelli come piaceva a lui, lunghi fino al colletto. Perciò l’ultimo rito nel luogo dei salici, prima di riporre la sua roba e di nasconderla, era radersi. Qualche volta scaldava l’acqua, ma se il fuoco s’era spento usava l’acqua fredda, stringeva i denti e si radeva; anche allora il contatto dell’acqua era gentile.

Sabato sera, disse a sua madre che sarebbe rimasto assente tutta la mattinata di domenica, per fare una lunga passeggiata «in campagna». Lei si lamentò ancora del chiasso che lui faceva quando si alzava presto, ma non mostrò altro interesse. Hugh uscì alle cinque del mattino, tenendo sotto il braccio un pacco di costosi viveri liofilizzati e congelati da trasferire nello zaino. Aveva intenzione di restare un po’ nella terra crepuscolare, di lasciare le zone che conosceva, di andare più oltre.

Aveva trovato un unico sentiero che sembrava una vera strada: quello che conduceva fuori dal luogo dell’inizio, nella direzione direttamente opposta alla porta. Passò da una pietra all’altra, al guado, superò i cespugli scuri dai quali era uscita la ragazza, molto tempo prima, settimane prima, e incominciò a salire il pendio, lasciando la valle del ruscello. Il sentiero saliva, piuttosto tortuosamente, ma mantenendosi sull’asse perpendicolare al ruscello, la direzione che Hugh sperava di poter mantenere. Aveva scoperto che, anche quando si sentiva momentaneamente disorientato nei boschi, verso monte, se si fermava e lasciava che la sensazione giungesse fino a lui, intuiva in modo generico dov’era la porta… dietro di lui, sulla sinistra, oltre quel dosso, o altrove; e quel senso non l’aveva ancora tradito. Adesso non aveva altra intenzione che tenere la porta direttamente dietro di sé, se poteva, e andare avanti fino a quando si fosse stancato.

Sulla cresta del dorsale, l’aria sembrava più leggera. Sull’altro versante gli alberi erano alti e sparsi, e il terreno in mezzo era sgombro, senza sottobosco. Appena accennato, ma abbastanza visibile all’occhio attento, il sentiero continuava a scendere. Quando lo seguì, oltre la cresta, perse per la prima volta il suono del ruscello, la voce che benediceva il suo sonno.

Camminò a lungo, con regolarità e con una certa ostinazione, traendo motivo d’orgoglio e di piacere dalla pronta resistenza del suo corpo. Il sentiero non diventò più nitido, ma neppure meno nitido. Altri viottoli se ne diramavano, probabilmente piste aperte dai cervi, ma quello principale restava sempre inconfondibile. Hugh sapeva che se fosse ritornato indietro, quel viottolo l’avrebbe ricondotto diritto al luogo dell’inizio. La sensazione dell’ubicazione della porta sembrava quasi acuirsi via via che se ne allontanava, come se la sua legge psichica di gravità fosse l’opposto di quella fisica.

Dopo aver attraversato un ruscello un po’ più piccolo di quello accanto alla porta, sedette in riva all’acqua rumorosa e mangiò un boccone; e quando proseguì si sentiva allegro, deciso a fidarsi della sua fortuna.

Tutti i corrugamenti del terreno erano situati trasversalmente al suo percorso. Le valli erano semibuie; nel profondo della semioscurità c’era sempre la voce di una sorgente o di un ruscello. Non era difficile salire i pendii, ma diventavano sempre più imponenti e più alti, via via che lui avanzava, e le ascese erano sempre più lunghe dei declivi, come se tutto il terreno fosse inclinato. Quando giunse al terzo grande ruscello, si fermò per fare una nuotata; e dopo aver nuotato decise di concedersi un giorno di vacanza. Quella frase gli piacque. Era assolutamente esatta. Poteva prendere qualunque segmento di tempo volesse e chiamarlo un giorno; un altro segmento e chiamarlo notte, e dormire. Non aveva mai fatto l’esperienza del tempo, prima, pensò mentre sedeva accanto alle braci del fuoco di arbusti, sulla riva del ruscello. Aveva lasciato che lo facessero gli orologi, per lui. Erano gli orologi che facevano funzionare tutto, là dall’altra parte: le ore di lavoro, i semafori, gli orari degli aerei, gli appuntamenti degli innamorati, gli incontri al vertice, le guerre mondiali… era impossibile andare avanti senza orologi; ma il tempo degli orologi stava più o meno al tempo senza orologi come una tavoletta di legno o una scatola di stuzzicadenti stava a un abete. Lì era inutile chiedere: — Che ora è? — perché non c’era nulla che ti rispondesse, non c’era il sole che dicesse — Mezzogiorno — non c’erano orologi che dicessero — Le sette e trentotto e quarantadue secondi. — Dovevi rispondere tu stesso alla domanda, e la risposta era: — Adesso.

Hugh dormì, e non sognò nulla, e si svegliò lentamente, così rilassato che in un primo momento non riuscì quasi ad alzare la mano.

A partire da quel terzo ruscello, il terreno divenne più accidentato. Era inclinato interamente verso l’alto, e adesso i rii minuscoli scendevano accanto al sentiero, o l’attraversavano. Il sentiero era nitido. Chiunque l’avesse aperto, in qualunque momento fosse stato aperto, non c’erano rifiuti, né tracce di un passaggio recente; ma il percorso era inequivocabile, saliva agevolmente e con decisione, svoltando avanti e indietro sui pendii ma puntando sempre nella stessa direzione generale. La finalità del sentiero era tutto ciò che Hugh aveva: e lasciava che lo guidasse. La foresta era diventata più fitta, massicci filari di abeti, dove il crepuscolo era pesante. Non c’era altro suono che il fruscio del vento tra gli abeti, un suono immenso e quieto. Hugh attraversava le piste minuscole dei conigli o dei topi o di altri timidi abitatori dei boschi, e a un certo punto scorse accanto al sentiero un piccolo cranio frantumato; ma non vedeva esseri viventi. Era come se ognuno, lì, serbasse la propria solitudine. E il senso della sua solitudine lo assalì mentre saliva i lunghi pendii indistinti nella quiete immutabile. Vedeva se stesso, piccolissimo, che camminava in quel territorio selvaggio, e andava da nessun posto a nessun posto, solo. Avrebbe potuto continuare a camminare per sempre. Perché il tempo, al di là degli orologi, era sempre il presente, e la via per l’eternità è il presente.

La fame spezzò la trance e il suo passo. Si fermò per mangiare; quando proseguì si sentì meno sognante, più vigile. Ora il sentiero diventava in certi punti così scosceso che lui si appoggiava sulle mani protese in avanti per riposare, e sentiva la montagna premere contro le sue palme, la mole e la profondità e la forza della terra, la sua pelle granulosa irruvidita dalle pietre e dalle radici. Da molto tempo, il sentiero aveva alquanto deviato verso la sinistra dell’asse della porta. Ora ritornò verso quell’asse e divenne pianeggiante. Hugh poteva tenersi eretto e camminare liberamente, e quel ritmo più agevole era un sollievo. Gli abeti si affollavano fitti, alti e scuri, e sotto i loro rami anche l’aria era scura; ma guardando davanti a sé, Hugh vedeva l’ampiezza sgombra della pista, che lì era quasi una strada. E nell’aria secca percepì una volta, e poi una volta ancora, l’odore lieve del fumo di legna.

Adesso procedeva con fermezza, vigile, intento.

La strada disegnò una lunga curva ascendente, avanti e avanti. I pendii sottostanti, a destra, divennero più scoscesi e cominciarono a scendere così bruscamente che gli alberi sotto la strada non ostruivano più la visuale. Per la prima volta, in quella terra, Hugh poteva vedere lontano. Vedeva che era sul fianco di una montagna. Sulla destra e più avanti, oltre la distesa digradante delle cime degli alberi, il profilo d’una montagna più lontana spiccava scuro contro il chiarore del cielo. Hugh continuò a camminare più lentamente, un po’ stordito, con la sensazione di aleggiare tra le immense valli oscure e gli abissi immani del cielo. Guardò lungo la strada, quando svoltò di nuovo, e vide annidati contro il dosso della montagna i tetti e i comignoli di una piccola città, il bagliore di una finestra illuminata nella semioscurità fredda. Quella era la sua patria; e si avviò da quella parte, e percorse la via tra le finestre rischiarate dalle lampade, e sentì una voce di bambino gridare parole che lui non comprendeva.

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