4.

Nella luce del giorno lui non sembrava più così grande e grosso, ed era più giovane di quanto Irene avesse immaginato, aveva la sua età o anche meno, un ragazzo pesante, con le spalle curve e la faccia bianca. Era stupido, e non capiva nulla di quello che lei diceva. — Devo ritornare — diceva, come se le chiedesse il permesso, come se lei potesse o volesse accordarglielo. — Sto cercando di avvertirti — disse lei; ma lui non comprese, e Irene non lo sopportò più. Aveva camminato dalla Città della Montagna fino alla porta, ed era stanca per questo e per la collera e il terrore del confronto con lo sconosciuto, e doveva proseguire e andare a casa, pulire, mangiare, andare al lavoro (Patsi avrebbe chiesto dove aveva passato la notte) ed era giorno fatto, mercoledì, e lei aveva promesso di portare la roba di sua madre alla lavanderia a secco. Lui stava lì, con il carbone del cartello che gli chiazzava la faccia, ed era il nemico spregevole, e lei doveva lasciarlo e andare, senza sapere se avrebbe trovato la strada aperta, quando fosse tornata.

Era più presto di quanto avesse pensato. Arrivò all’appartamento poco dopo le sei. Rick e Patsi non si parlavano più da un paio di giorni, e lei era inclusa nel loro mutismo vendicativo, perciò non le chiesero dove aveva passato la notte. Quando rientrò dal lavoro quella sera, Patsi continuò a interpretare la sua assenza notturna come un segno di slealtà, e l’ignorò alteramente; Rick vi alluse soltanto per i propri scopi… — Merda, e chi ha voglia di dormire qui?

Lei era stata contenta di andare a stare con Rick e Patsi, l’autunno precedente. Erano generosi senza esagerare la partecipazione, e amavano che l’appartamento fosse abbastanza pulito per viverci, ma non tanto da fare ammattire. Il fatto che lei pagasse un terzo dell’affitto era importante, per loro, dato che Rick non lavorava. Era stata una buona sistemazione, e la sarebbe stata ancora adesso, ma Rick e Patsi stavano per rompere, e quindi nessuna sistemazione che li includesse come coppia poteva essere buona. La cosa peggiore, adesso, era che Rick intendesse servirsi di lei contro Patsi, e il fatto che fosse rimasta fuori una notte e non desse spiegazioni lo aveva convinto che sarebbe stata forse disponibile per qualcosa di più d’un approccio fasullo. Le sarebbe bastato dire che aveva passato la notte in casa di sua madre, ma non voleva abbassarsi a mentirgli; Rick non meritava più l’onore di una bugia. Continuava a cercare di venire nella sua camera per parlare. Giovedì sera insistette; era una cosa seria, disse, dovevano discutere del futuro, Patsi non era disposta a parlare sul serio, ma qualcuno doveva pur farlo. Io no, pensò Irene. Rick, un giovane magro di venticinque anni, coperto di pelo ricciuto e rossiccio come un orsacchiotto sciupato, restava con pigra perseveranza fra lei e la porta della sua camera. Indossava solo un paio di jeans, con le ginocchia consunte e bizzarramente spalancate. Le dita dei piedi erano lunghissime ed esili. — Non ho voglia di parlare di qualcosa di particolare — disse Irene, ma Rick continuò, affermando che lì qualcuno doveva pur decidersi a parlare, e che voleva spiegare certe cose, di sé e di Patsi, che Irene doveva sapere.

— Stasera no — disse Irene, sbattendo un cassetto della cucina, e gli passò davanti in fretta, entrò in camera sua e chiuse la porta. Rick indugiò per un poco in cucina, imprecando, e poi uscì dall’appartamento sbattendo la porta. Patsi, nell’altra camera da letto, non sbatté nulla, e mantenne un virtuoso silenzio.

Irene sedette sul bordo del letto, con le spalle incurvate in avanti e le mani tra le ginocchia e pensò: Così non può andare avanti. Alla fine del mese finirà. E poi… dove?

Era stata fortunata, perché aveva potuto stare lì, vicino a sua madre, pagando solo un terzo dell’affitto. Aveva potuto finire di pagare la macchina, dalla quale dipendeva il suo lavoro per la Mott Zerming, e pagare la riparazione dei freni e due pneumatici nuovi. Poteva permettersi un affitto superiore, ma non quanto sarebbe venuto a costare un appartamento decente, da quelle parti. La cosa migliore sarebbe stata trasferirsi in città, in centro, e pagare circa la metà, ma allora sua madre si sarebbe preoccupata, avrebbe temuto che lei venisse assalita e violentata; e ci sarebbero voluti mezz’ora o quaranta minuti per arrivare lì, e quindi sarebbe stata lei a preoccuparsi per sua madre. Se almeno l’avesse chiamata, quando Victor si ubriacava. Ma non la chiamava.

Irene si alzò e uscì, sbattendo un po’ la porta, e andò a trovare sua madre.

Era una notte calda, senza un filo di vento. C’era in giro molta gente. Chelsea Gardens Avenue era tutta un rombo di macchine che acceleravano, andavano al minimo, correvano e procedevano lentamente. Alla fattoria, Victor aveva montato un riflettore per poter lavorare sulla sua automobile, sull’aia. Non aveva nessun motivo di farlo la sera, aveva tutta la giornata a disposizione e del resto non era bravo a riparare le macchine; Irene aveva studiato un po’ e in quanto a motori ne sapeva il doppio di lui; ma a Victor piaceva stare sotto il riflettore. Aveva una chiave inglese in una mano e una lattina di birra nell’altra, e stava urlando ai bambini: — Giù quelle mani di merda da quegli utensili, piccoli bastardi! — Due o tre dei suoi figli, fratellastri di Irene, le passarono accanto correndo attraverso il bagliore e il buio dell’aia. Non fecero caso al suo arrivo; ma i cani le prestarono attenzione, i tre cagnolini le abbaiarono istericamente intorno alle caviglie, e il doberman pazzo che Victor teneva incatenato soffocò il suo latrato terribile balzando al limite della catena. La madre di Irene era nella cucina enorme, con Treese, quattro anni. Treese era a tavola e mangiava cereali alla cioccolata direttamente dalla scatola, mentre sua madre si aggirava lentamente, raccogliendo i piatti della cena per lavarli. Erano le nove. — Ciao, Irena, tesoro mio — disse Mrs. Hanson con un lento sorriso di felicità. Si abbracciarono.

Mary Hanson aveva trentanove anni, e aveva avuto tre aborti e sei gravidanze portate a termine. Michael e Irene erano i figli del primo marito, Nick Pannis, morto di leucemia tre mesi dopo la nascita di Michael. La zia di Nick s’era presa in casa la giovane vedova e i due piccini. Era proprietaria della fattoria e di una parte del vivaio dall’altra parte della strada, dove lavorava. Quando si era ritirata e aveva portato i suoi risparmi in una motorhome in Florida, aveva lasciato la fattoria con un mezzo acro di terreno a Mary. Poco dopo, era arrivato Victor Hanson, aveva sposato Mary e aveva generato Wayne, poi Dalton, poi David, poi Treese, e c’erano stati anche gli aborti. Victor aveva le sue teorie a proposito di molte cose, incluso il sesso, e ci teneva a spiegarle agli altri: — Vedi, se un uomo non si libera del materiale fertile, capisci quel che voglio dire, le cellule fertili, quelle tornano indietro e causano la ghiandola prostata. Quel materiale deve essere liberato regolarmente, altrimenti diventa veleno, come tutto quello che non viene eliminato in modo regolare. Come gli intestini puliti, o il fatto di soffiarti il naso, se non ti soffi il naso ti viene la sinusite. — Victor era un uomo grande e grosso, bello, ben fatto, molto preoccupato del proprio corpo, e delle sue funzioni e del suo aspetto, una realtà centrale di cui il resto del mondo e l’altra gente erano soltanto riflessi privi di sostanza: la preoccupazione dell’atleta o dell’invalido, sebbene lui non fosse né l’uno né l’altro, perché era sano e inattivo. Aveva lavorato per una ditta di rivestimenti d’alluminio, ma dopo un po’ di tempo aveva perso il posto. Qualche volta lavorava per un amico che vendeva automobili usate. Qualche volta se ne andava in giro con amici che si chiamavano Don e Fred, o Dwight e Roy, e riparavano televisori o commerciavano in pezzi di ricambio per auto; tornava con un po’ di denaro, sempre in contanti. Di tanto in tanto, una partita di biciclette veniva immagazzinata nel vecchio capanno del trattore, che Victor teneva chiuso con un lucchetto. I bambini smaniavano dalla voglia di mettere le mani su quelle bici, molto belle e nuove, a dieci marce, ma una volta Victor aveva dato a Dalton una sberla che l’aveva sbattuto dall’altra parte della stanza, solo perché aveva parlato delle biciclette che lui teneva lì per fare un favore al suo amico Dwight.

Michael, a quattordici anni, aveva scoperto che il patrigno faceva il piccolo spacciatore di droga, e teneva le sue scorte nel cassettone di Mary. Michael e Irene avevano discusso l’eventualità di denunciarlo alla polizia. Alla fine, avevano buttato la roba nel gabinetto e non avevano detto niente a nessuno. Come potevano parlare con i poliziotti, quando non potevano parlare neppure con la loro madre? Era impossibile capire cosa sapeva e cosa non sapeva; la parola «sapere», in quella situazione, era difficile da definire. L’unico fatto certo era che lei era molto leale. Victor era suo marito. Qualunque cosa facesse, a lei andava bene.

Michael era il suo primo figlio maschio, e a lei andava bene anche tutto quello che faceva lui. Ma Michael non lo accettava. Era immorale. Se fosse rimasta fedele al marito morto, allora la lealtà verso di lui sarebbe stata importante. Ma si era risposata… A diciassette anni, Michael se ne era andato: aveva trovato lavoro presso una ditta di costruzioni dall’altra parte della città. Irene l’aveva visto due volte soltanto, in quei due anni.

Da bambini lei e Michael, separati da una differenza di età inferiore ai due anni, erano stati molto vicini, e avevano condiviso completamente il loro mondo. Verso gli undici anni, Michael aveva incominciato a staccarsi da lei, e questo le sembrava giusto o inevitabile, e quindi era stata una perdita, ma non un grande dolore; quando invece era arrivato all’adolescenza, il rifiuto nei confronti della sorella era diventato assoluto. Passava il tempo con una cricca di altri maschi, adottando i loro modi e la retorica del disprezzo per le femmine, e senza risparmiare neppure lei. Questo, che Irene poteva interpretare solo come un tradimento, era accaduto all’incirca quando il suo patrigno aveva cominciato a diventare davvero insistente, e le tendeva agguati lungo il percorso per andare in bagno, al piano di sopra, le si strusciava addosso quando le passava accanto in cucina, entrava nella sua stanza senza bussare, cercava di infilarle la mano sotto la gonna. Una volta l’aveva sorpresa dietro la baracca del trattore, e lei aveva cercato di buttarla in scherzo, perché non poteva credere che facesse sul serio, fino a quando le si era gettato addosso all’improvviso, pesante come un materasso, soffocante e brutale, e lei gli era sfuggita con un momento di fortuna e un polso slogato. Da quella volta, aveva saputo che non doveva mai restare sola in casa con lui, e non doveva mai andare nel cortile dietro casa. Era dura, doversene preoccupare sempre. Avrebbe voluto dirlo a Michael, e ottenere il suo appoggio, un po’ d’aiuto. Ma adesso non poteva dirglielo. Lui l’avrebbe disprezzata perché provocava Victor ad assalirla. Già la disprezzava perché era una donna, quindi oggetto di libidine e perciò impura.

Finché Michael viveva in casa, se lei avesse gridato per chiedere aiuto, sarebbe accorso. Ma se avesse gridato, sua madre avrebbe saputo, e lei non voleva che sua madre sapesse. La vita di Mary era costruita sul suo amore e sulla sua lealtà, sulla sua famiglia. Spezzare quei legami sarebbe stato come annientarla. Se avesse dovuto scegliere, se fosse stata costretta, probabilmente si sarebbe schierata dalla parte della figlia contro il marito; e allora Victor avrebbe avuto tutti i possibili pretesti per punirla. Quando Michael se ne era andato, l’unica cosa che Irene poteva fare era andarsene a sua volta. Ma non poteva sloggiare, come Michael, arrivederci, è stato un piacere conoscervi. Sua madre aveva bisogno di aver vicino qualcuno su cui contare. Aveva avuto quattro gravidanze negli ultimi cinque anni, e tre si erano concluse con un aborto. Adesso prendeva la pillola, ma Victor non lo sapeva, perché credeva che la contraccezione «bloccasse il materiale fertile su nelle ghiandole», e le proibiva di usare i contraccettivi, e probabilmente lei non li avrebbe usati se non ci fosse stata Irene a incoraggiarla, facendone una congiura femminile. Mary soffriva di disturbi circolatori; aveva la piorrea e aveva avuto bisogno di grossi interventi dentistici che avrebbe potuto ottenere a poco prezzo presso la Scuola di Odontoiatria, ma solo se qualcuno era disposto ad accompagnarla fin là in macchina tutti i sabati. Victor la picchiava, quando era ubriaco, finora in modo non troppo pericoloso, anche se una volta le aveva slogato una spalla. Quasi sempre, con lei non c’erano altri che i bambini, e se si fosse sentita molto male per qualunque ragione, nessuno avrebbe fatto qualcosa.

Mary chiedeva alla figlia, con quella tenerezza che tra loro doveva sostituire la sincerità: — Tesoro, perché continui a stare nei dintorni di questa vecchia bicocca? Dovresti cercarti una stanza in centro, dove lavori, e frequentare una compagnia di giovani simpatici. Una volta, qui, si stava bene, ma adesso, con questi sobborghi, questi quartieri nuovi, che schifo!

Irene difendeva la sua sistemazione presso Patsi e Rick.

— Patsi Sobotny, e tu la chiami un’amica!

Mary disapprovava Patsi nel modo più assoluto perché viveva con Rick senza averlo sposato. Una volta, esasperata, Irene le aveva gridato: — Cosa c’è di tanto bello nel matrimonio, secondo te? — Mary aveva accusato il colpo, senza difendersi. Era rimasta in silenzio per un minuto, nella cucina buia, fissando la finestra, e poi aveva risposto: — Non lo so, Irene. Io sono all’antica, penso come pensava la gente una volta, è vero. Ma tuo padre, vedi. Nick. Era… con lui, capisci, il sesso, era bello, capisci, non so come dirlo, ma era soltanto una parte. C’era tutto quanto. Tutto il resto, tutta la tua vita, il mondo, capisci, è una parte, è come una parte di te, essere marito e moglie, così. Non so come spiegarlo. Una volta che sai com’è, che è così, una volta che lo hai provato, tutto il resto non fa molta differenza.

Irene tacque, scorgendo sul volto della madre un riflesso di quel fulgore fondamentale, e scorgendo anche una realtà spaventosa… che il fulgore può spuntare e tramontare all’età di ventidue anni, e dopo si può vivere per venti, trenta, cinquant’anni, e lavorare e sposarsi, e mettere al mondo figli e tutto il resto, senza una ragione particolare per farlo, senza desiderio.

Io sono figlia di un fantasma, pensò Irene.

Quella sera, mentre aiutava sua madre a pulire la cucina, le raccontò che Patsi e Rick stavano per rompere. — E allora buttate fuori a calci quel poco di buono di Rick, e tu e Patsi trovatevi una simpatica ragazza che venga a stare con voi — suggerì Mary, schierandosi prontamente dalla parte delle donne.

— Non credo che Patsi sia d’accordo. E neppure io ci tengo molto a continuare a dividere l’appartamento con lei.

— Sempre meglio che niente — disse Mary. — Tu stai troppo sola, non ti diverti mai, bambina mia. Andare a far passeggiate in campagna tutta sola! Dovresti andare a ballare, non a passeggiare. O almeno, iscriviti a qualche circolo sportivo dove ci sia gente giovane e simpatica.

— Tu hai proprio in testa la gente giovane e simpatica, mamma.

— Qualcuno deve pure avere un po’ di testa — disse Mary, con calma soddisfazione. Andò alle spalle di Irene, che stava all’acquaio, e le accarezzò delicatamente i capelli, mutandoli in una criniera disordinata e nebulosa. — Che capelli terribili hai. Capelli greci, proprio come me. Dovresti trasferirti in centro. Questa è una zona spaventosa.

— Ma tu ci vivi.

— Per me va bene. Per te no.

I tre maschietti fecero irruzione nella cucina e subito fecero piangere Treese strappandole la scatola dei cereali e riempiendosi la bocca. Erano così catastrofici, presi in gruppo, che era sempre sorprendente scoprire che, isolatamente, ognuno era un bambinetto timido dalla voce impacciata e mormorante. Mary non riusciva a controllare quel che facevano fuori casa, e stavano diventando selvatici e scatenati; in casa, il suo senso del decoro aveva la meglio sullo spensierato disordine della loro esistenza, e le obbedivano. Li spedì subito a guardare la televisione, e si rivolse di nuovo alla primogenita. Sorrideva, il lento sorriso felice che metteva in mostra le gengive e i denti rovinati. Diede la bella notizia, la notizia troppo bella per confidarla subito, troppo bella per rimandarne ancora la rivelazione: — Ha telefonato Michael.

— Che cos’ha detto?

— Ha detto solo che sta bene, e ha chiesto di tutti, di te e di tutti. Anche lui si è fatto la macchina.

— E perché non viene qui a trovarci?

— Lavora tanto — disse la madre, voltandosi per chiudere gli sportelli dell’armadietto dei piatti.

Anche se lavora tanto, pensò Irene, potrebbe venire a trovare sua madre almeno una volta l’anno. Ma telefonare è già un gran favore, da parte del Signor Uomo. E la madre del Signor Uomo va in estasi e ringrazia…

Non lo sopporto, davvero, non lo sopporto più. Adesso ho ferito mamma, chiedendo perché Michael non viene qui a trovarci. Tutti coloro che conosco si fanno male a vicenda. Sempre. Devo andarmene. Non posso continuare a venire a casa. La prima volta che Victor cerca di palparmi o semplicemente mi tocca o la tratta come se fosse una merda, esploderò, non ce la farò più a tacere, e questo servirà solo a peggiorare la situazione e la farà soffrire di più, e io non posso far nulla, e non lo sopporto. Amore! A che serve l’amore? Io le voglio bene. Voglio bene a Michael, proprio come lei. E con questo? Dio mi aiuti, non mi innamorerò mai, mai, non amerò mai nessuno. Amore è soltanto una parola elegante per indicare il modo di far male a qualcuno. Voglio andarmene. Andar via, via, via.


Quella sera, quando lasciò sua madre, non si avviò per la strada che portava a Chelsea Gardens, ma svoltò a sinistra della casa, percorrendo la strada di ghiaia fino a quando uscì dal bagliore del riflettore di Victor, e poi tagliò di nuovo a sinistra, attraverso i campi. Era spiacevole camminare nel buio, perché il terreno era duro e accidentato sotto l’erba aggrovigliata, e lei non aveva preso una lampada tascabile, per timore di attirare l’attenzione d’un branco di teppisti o della banda di coatti suburbani che qualche volta ronzava intorno alla fattoria. Era la stessa, stupida paura che le rovinava tutte le passeggiate da sola, dopo che la sua compagna di scuola, Doris, era stata violentata da una banda in un cantiere di Chelsea Gardens, la stupida paura che incombeva dovunque, eccettuata la dolce desolazione del vecchio territorio.

Ma nei boschi, il sentiero non conduceva giù, fra gli allori e il pino, nella chiara sera eterna. Era caldo, buio; i grilli cantavano piano e forte, lontano e vicino; e sotto quel canto c’era un pesante suono continuo, o una vibrazione, forse le macchine che correvano sulla superstrada, o il suono dell’intera città, il cui riflesso luminoso sul pesante cielo notturno rendeva possibile camminare, persino lì nei boschi. Ma non c’era il suono dell’acqua corrente. Irene percorse qualche passo, oltre il punto dove avrebbe dovuto esserci la soglia, e poi ritornò indietro. La strada non c’era.

Allora ricordò che aveva visto lui varcare la porta, la soglia, lo sconosciuto massiccio, e lui aveva continuato a camminare e il crepuscolo era fluito davanti a lui come un’ondata. Era stato spaventoso: preferiva non pensarci. Era stata colpa di quell’uomo. Era accaduto a lui, non a lei. Lei poteva sempre tornare indietro. Lo aveva ricondotto indietro. Era da questa parte che non sempre le era possibile passare.

Lui poteva farlo? Adesso era là, dove lei non poteva andare?

Ostinatamente, Irene ritornò al bosco di Pincus il pomeriggio seguente, dopo il lavoro, e ogni due o tre giorni per una settimana, due settimane, come se fosse una sfida da vincere con la forza di volontà, il rifiuto di arrendersi. Alla fine della seconda settimana cominciò ad andare in macchina ogni pomeriggio, dopo il lavoro, prima fino al parcheggio della fabbrica di vernici, lasciando lì la macchina per attraversare a piedi i campi, fino al bosco. Si accorse che stava tracciando un sentiero nell’arida erba agostana, e cambiò percorso, deviando ogni volta da una parte o dall’altra, per non lasciare una traccia che gli altri, quell’altro, potessero seguire. Ma non c’era nulla da nascondere. I boschi; i roveti; un sentiero; un fosso; dopo un po’, una recinzione di filo spinato che si estendeva irregolarmente ai piedi di una collinetta, fra gli alberi. Due passeri che cinguettavano, il rombo sommesso delle macchine sulla superstrada, e il suolo della città, come il respiro di un animale lungo trenta miglia, così enorme che non si udiva neppure. Il tardo sole afoso e la dolce aria azzurrina. Di solito, Irene sostava per un minuto nel punto dove il sentiero scendeva, dove avrebbe dovuto esservi la soglia, e poi si voltava, riattraversava a passo stanco i campi, fino alla macchina, e ritornava al suo appartamento, qualche isolato a ovest di Chelsea Gardens Avenue.

Tra Patsi e Rick c’era stata una frenetica riconciliazione sessuale, l’ultima vampata. Un sabato sera, dopo una visita a sua madre, Irene rientrò durante il litigio più grosso che avessero mai avuto. Non poté starsene fuori. Lei faceva parte della famiglia. Quando Patsi accusò Rick di andare a letto con Irene, dovette difendere lui e se stessa; quando Rick accusò Patsi di non dividere onestamente le spese, dovette schierarsi dalla parte di Patsi, che poi se la prese con lei dicendo che pretendeva di comandare a tutti. Dopo ore e ore di quelle scene, si rese conto che l’unica cosa da fare (e avrebbe dovuto farlo subito) era prendere la sua roba e andarsene.

Patsi e Rick rimasero storditi, cupi. Patsi fece una divisione meticolosamente equa delle consèrve di lampone che avevano preparato insieme il mese prima, e insistette che Irene si prendesse esattamente la metà dei barattoli; continuò a piangere, con le lacrime che le rotolavano lentamente sulle guance, ma non disse addio. Rick aiutò Irene a portare la sua roba alla macchina, ripetendo: — Ah, merda. Beh, merda. — Irene se ne andò domenica mattina, dopo le otto. Guidò la macchina, carica dei suoi averi terreni contenuti in due scatoloni e in una valigia senza manico, per Chelsea Gardens Avenue e Chelsea Gardens Place, fino alla fattoria. I tre cagnolini cominciarono ad abbaiare, il doberman a latrare al rumore della macchina nel silenzio della domenica mattina. Esclusi i cani, la fattoria, circondata da carcasse di automobili sventrate, sembrava abbandonata. Irene uscì a retromarcia dall’aia, svoltò a destra sulla strada di ghiaia, arrivò al parcheggio sotto la fabbrica di vernici e la lasciò lì. Chiuse a chiave le portiere e si incamminò ancora una volta attraverso i campi incolti che già sobbollivano nel caldo di quella che prometteva di diventare una giornata afosa. Se la via è chiusa attenderò là, pensò. Mi metterò a sedere e attenderò finché si aprirà. Non m’importa se anche ci vorrà un mese… Era stravolta dall’interminabile nottata di litigi, discussioni, spiegazioni, recriminazioni, giustificazioni. Non aveva fatto colazione, anche se fra le quattro e le cinque del mattino aveva mangiato un po’ di pretzel e bevuto un litro di latte, mentre Rick diceva a Patsi che faceva la prepotente, e Patsi rinfacciava a Rick di essere un maschilista… Dormirò lì, davanti alla soglia, e ogni tanto mi sveglierò per vedere se si è aperta, si disse Irene. Apriti, apriti, apriti: quella parola le squassava la mente come ogni passo squassava il suo corpo. L’ardente luce del giorno l’abbagliava. Apritevi, occhi. Apriti, porta. Ecco i boschi, ecco la via che conduce nei boschi. Ecco il fossato, ecco il tratto coperto d’edera. Ecco il macchione, ecco il sentiero che scende, il pino con il tronco rosso, la soglia e la porta, la porta aperta, la via del mio paese, il mio paese, la patria del mio cuore.

Entrò nel crepuscolo. Bevve al ruscello, poi l’attraversò e lo risalì per un breve tratto, fino a un angoletto riparato da due grandi cespugli di sambuco dove, anni prima, lei dormiva spesso. Si sdraiò, emise un piccolo singulto gemente per la stanchezza e lo sbalordimento del desiderio esaudito; e si addormentò.


Nel vecchio paese il sonno era così profondo che non aveva sogni. Io sono il sogno, pensò insonnolita, il sogno sono io. Non c’è neppure la notte. Cos’è stato (e Irene si destò di colpo, si sollevò di scatto a sedere, con il cuore che martellava, perché era stato un suono che l’aveva destata, un grido acuto e lontano nei boschi) c’era stato un rumore?

Null’altro che il suono dell’acqua corrente e il sospiro del vento tra le cime degli alberi. Il cielo era quieto. Nulla si muoveva nella foresta.

Dopo un po’ si alzò cautamente, si guardò intorno cercando ogni eventuale segno di cambiamento, di pericolo. È colpa sua, pensò, quella faccia grassa, quel lumacone. Lui ha cambiato tutto. Non è più come una volta. Era un sollievo poter dare una causa alla propria inquietudine, una causa odiosa. Ma mentre si guardava intorno, cercando le tracce dell’intruso, il suo focolare, il suo zaino, e non vedeva nulla, non si sentiva affatto liberata dalla paura. Il cuore continuava a martellare, e aveva il respiro corto. Di che cosa ho paura? si chiese, irritata. Qui, proprio qui? È lo stesso posto di sempre, il luogo sicuro. Devo aver fatto un sogno, un brutto sogno. Voglio andare a Tembreabrezi. Vorrei esserci già adesso, nella locanda. Ho fame. Ecco che cos’ho che non va: ho fame.

Bevve ancora, a lungo, profondamente, per riempirsi lo stomaco, e colse qualche stelo di menta per masticarlo in cammino, e si avviò verso la Città della Montagna. Procedeva a passo leggero come sempre, più leggero e più svelto che mai, perché la fame la incalzava, e la paura la incalzava, e non poteva permettersi di fermarsi e di pensare all’una o all’altra, perché se l’avesse fatto sarebbero diventate intollerabili. Finché continuava a camminare non aveva bisogno di pensare, e la foresta crepuscolare fluiva intorno a lei come l’acqua dei ruscelli; procedeva così leggera e svelta che nulla avrebbe udito i suoi passi, nulla l’avrebbe notata, nulla si sarebbe levato davanti a lei sul sentiero, per sbarrarle la strada con le braccia bianche e grinzose.

C’erano candele accese alle finestre della locanda, come se la stessero aspettando. Per la via non c’era nessuno. Doveva essere tardi, almeno l’ora di cena. Al pensiero della cena, minestra, pane, stufato, zuppa di cereali, qualunque cosa di commestibile, Irene si sentì girare la testa; e quando Sofir le aprì la porta della locanda e lei trovò il tepore e la luce e il profumo dei cibi e il suono della voce profonda, le fu difficile continuare a reggersi in piedi. — Oh, Sofir — disse, — ho tanta fame!

Nel sentirla parlare arrivò Palizot, e sebbene non fosse una donna molto prodiga di gesti, baciò Irene e la tenne abbracciata per un momento.

— Avevamo paura per te — disse Sofir. La guidò a sedersi accanto al fuoco. Era veramente tardi; i soliti frequentatori della locanda erano tornati tutti a casa, il fuoco era basso. Sofír e Palizot cominciarono a trafficare per prepararle l’acqua calda per lavarsi, e qualcosa da mangiare, continuando a parlare. — E sai chi è venuto? — disse Palizot, e Irene l’interrogò: — Chi è venuto?

I due volti conosciuti e amati si girarono verso di lei nella luce giubilante delle fiamme; Palizot guardò Sofir sorridendo, indicandogli di parlare per entrambi. — È lui — disse Sofir. Ora è qui. Adesso le cose andranno meglio! — Lo disse con tanto calore e tanto piacere, con tanta certezza che Irene l’avrebbe condiviso, che lei non seppe che dire. — Ecco, è bollente — disse Palizot, presentandole un piatto; e nel vederlo, Irene rinunciò a preoccuparsi d’ogni altra cosa. Mangiò, immersa nella beatitudine del cibo e del riposo e della luce del fuoco e dell’amicizia; e poi Sofir le preparò la sua stanza, la camera affacciata sullo strapiombo scuro e la distesa delle foreste fino alla catena orientale.

Sofir era fuori, e Palizot era occupata, quindi Irene fece colazione da sola. Non era una colazione molto abbondante: un po’ di latte magro, un barattolo di formaggio e una pagnotta così dura e piccola, in confronto ai rotondi splendori bruniti che Sofir aveva tolto dal forno in altri tempi, che lei quasi non aveva il cuore di tagliare una fetta da quella povera cosa raggrinzita. Evidentemente, i mercanti della Città del Re non avevano più portato grano lì sulla montagna.

Al risveglio, aveva pensato che quando Sofir e Palizot, la sera prima, avevano detto «lui», «è venuto», si riferissero al Re. Poi, un po’ più sveglia, aveva pensato che non intendessero proprio il Re, ma un suo messaggero, qualcuno che era stato inviato con il potere di aprire le strade. Quando s’era destata completamente, aveva compreso che non era a questo che avevano alluso.

— Andrai alla casa del Padrone — disse Palizot, entrando in cucina con una bracciata d’indumenti appena tolti dalla corda del bucato. — Ho dato una rinfrescata al tuo abito rosso: si riempie di grinze, a stare nella cassapanca. Hai un paio di calze pulite? Guarda, queste ti piacciono?

— Immagino che lui sia là — disse Irene. Poiché «lui» non stava alla locanda, doveva essere stato invitato (come a lei non era mai accaduto) a installarsi nella casa del Padrone. La sua sofferenza, acuta anche se la causa era meschina, e la sua decisione di non tradirla, la preoccuparono tanto che per un minuto Irene non assimilò la risposta di Palizot: — Lui? Oh, no, è al maniero. Ma il Padrone ci ha chiesto, molto tempo fa, di mandarti a parlargli al più presto, appena fossi arrivata.

Questo era un balsamo. «Lui» poteva starsene al maniero quanto voleva.

— Sono bellissime — disse, ammirando le calze a righe finissime che Palizot le mostrava sul mucchio d’indumenti. — Le hai fatte tu?

— Con la lana ancora buona di quattro vecchie paia che ho disfatto — disse Palizot, con la soddisfazione dell’abile artigiana. — Mettile oggi, levadja. Sono per te.

Con le belle calze e l’abito rosso, Irene uscì nel crepuscolo della via, e salì i gradini singultanti fino alla casa del Padrone. Le oche nel recinto presso il muro meridionale, grandi e grosse, con i colli e i corpi bianchi vaghi e quasi luminosi, si agitarono e soffiarono; una batté le ali per un istante. Irene aveva sempre avuto un po’ paura delle oche. Bussò alla porta dai dodici pannelli e Fimol, calma come sempre, la fece entrare e la condusse attraverso la sala, tra lo sguardo lugubre dell’antenata e la smorfia dell’avo con il braccio storpio, fino alla soglia dell’ufficio del Padrone. — È arrivata Irena — annunciò Fimol con quella sua voce chiara e sommessa. Lui voltò le spalle allo scrittoio, tendendo le mani con gioia evidente: — Irena, Irenadja! Benvenuta! Quanto ci sei mancata!

Anche tu mi sei mancato, avrebbe voluto dire Irene; ma non poteva. La sua lingua non le obbediva mai, in presenza del Padrone. Obbediva a lui.

— Vieni, siediti — disse lui. Il sorriso lo faceva sembrare giovane. La voce era gentile. — Dimmi, com’è stato il tuo viaggio? La via era sgombra? Ti è stato faticoso? — Lo sguardo degli occhi scuri era posato su di lei. — Temevo che non avresti potuto venire — disse, parlando a voce più bassa, in fretta, e distolse lo sguardo.

— La porta era chiusa… fino a ieri sera. Volevo… ho cercato di venire!

Lui annuì, grave e gentile.

Irene cercò le parole adatte. — Non ho visto nulla, quando la strada si è aperta… nulla era diverso. Ma ho sentito… C’è stato un rumore, forse non l’ho udito veramente. C’era qualcosa che so di non avere veduto…

Mentre parlava, adesso, in quella stanza tranquilla, il terrore che si era vietata di riconoscere ieri, mentre traversava le foreste sul fianco della montagna, pervase il suo corpo in una lunga, fredda ondata: si rattrappì e rabbrividì, sulla sedia. La sua voce divenne esile e secca. — Prima non avevo mai avuto paura nella foresta!

Scrutò il volto olivastro del Padrone, cercando la sicurezza della sua forza. Per un po’ lui non disse nulla; e poi, finalmente, ancora con voce smorzata: — Eppure sei venuta.

— Qualcun altro… l’ha detto Sofir… è venuto qualcun altro, un uomo…

Il Padrone annuì. Le nascondeva qualcosa, o era oppresso da un’emozione intensa. Finalmente pronunciò una parola o un nome che Irene non conosceva, hiuradja, e incontrò di nuovo il suo sguardo, intenso, interrogativo.

— È venuto dal nord… dalla Città? — chiese Irene, sebbene conoscesse già la risposta.

— Dal sud. Come te. Lungo la strada del sud. Come venisti tu la prima volta, senza conoscere questa terra e la lingua.

La curiosità, il desiderio di conoscere la piena crudezza della verità, erano più forti della delusione e del risentimento. — È… — Non conosceva la parola per «biondo», o «chiaro di carnagione»; lì erano tutti scuri di pelle e di capelli. — Ha i capelli color paglia, ed è grasso?

Il Padrone annuì, brevemente.

— Siamo stati convocati al maniero per incontrarci con lui — disse, e qualcosa nella sua voce allarmò Irene: una sfumatura d’ironia, di collera… risentimento? — Vieni.

— Adesso?

— Al più presto possibile, ha detto il Nobile Horn. — Di nuovo quella sfumatura di bruschezza, o di sarcasmo; ma il Padrone non scambiò con lei un’occhiata di complicità, e impenetrabile come sempre la condusse fuori dalla casa, attraverso la via, fino all’alto, delicato cancello spalancato del maniero. Non parlò mentre procedevano tra i prati e i boschetti. Sulla destra, salivano le pendici della montagna, ammantate di cupe foreste, che lasciavano intravvedere appena le oblique pareti rocciose della vetta lontana. Davanti a loro stava la grande casa, costruita di pietra lionata.

Un vecchio li fece entrare, li guidò attraverso stanze fredde e maestose, arredate con pochi mobili, e su per una scala, in una galleria dalle molte finestre. Le finestre erano rivolte a est, sul grande declivio che scendeva fino alla lontana catena orientale, nitida contro il cielo. Il fuoco divampava in un camino marmoreo in fondo alla galleria, e là stavano il Nobile Horn e sua figlia, insieme allo straniero.

Era lui, naturalmente: la faccia molle, le mani pesanti.

Irene lanciò un’occhiata all’uomo che le stava al fianco: il profilo fine, duro, controllato e vigoroso. Il Padrone non disse nulla, non fece neppure un gesto, ma Irene riconobbe il suo odio chiaramente, come conosceva il proprio.

Il Nobile Horn s’era fatto avanti per accoglierli con quel suo passo lento e impettito. La figlia sorrideva pallidamente. Era bionda, e questo Irene l’aveva dimenticato; non erano tutti scuri di capelli, dopotutto. La chioma della ragazza era pallida e lanosa come il vello di una pecora.

— Irena, nostra amica — disse il Nobile Horn. — Il nostro ospite, tuo compatriota, credo. Si chiama Hiuradjas.

Irene vide che lui la riconosceva… come un bagliore: sbigottimento, poi sorpresa e quindi speranza, come nella mimica di una commedia televisiva. L’uomo si fece avanti con pesante premura e disse, in inglese, farfugliando: — Ciao, io… mi dispiace che… non conosco la loro lingua, come avevi detto tu.

Lei indietreggiò di un passo, mantenendo la distanza.

— Nobile Horn — disse, — quando sono qui, io parlo la lingua del luogo. — L’intruso e la ragazza dal viso di madonna sdolcinata sgranarono gli occhi, e il Padrone divenne vigile come un falco, e Irene lo comprese dal movimento della testa; ma Horn non disse nulla; guardò, lentamente come sempre, il Padrone. Vi fu un silenzio strano, difficile da sopportare.

— Lui non sa parlare la nostra lingua — disse il vecchio. — Ci aiuterai tu?

Il Padrone non si mosse. La gravità del vecchio nobile era impressionante. Svogliatamente, sgarbatamente, Irene si voltò verso l’intruso; non guardò lui, ma il pavimento lucido davanti ai suoi piedi… scarpe da tennis, larghe, lunghe e sporche. — Vogliono che traduca per te. Continua.

— So che non ti va che io sia qui — disse la voce del giovane. — Questo non è il mio posto, credo. Non so. Mi chiamo Hugh Rogers. Se gli riferisci quello che dico, di’ loro che li ringrazio. Sono stati molto buoni con me.

Quando la voce s’interruppe, Irene la sentì incrinarsi.

— Dice che è capitato qui per errore — disse, volgendosi verso il Nobile Horn, ma senza alzare lo sguardo. — Desidera ringraziarvi per la vostra bontà. — Mantenne un tono neutro, da macchina.

— Per noi è il benvenuto, tre volte benvenuto.

— Ha detto che sei il benvenuto — disse Irene in inglese, con voce inespressiva.

— Chi è? Non conosco neppure i loro nomi. Tu sei Rayna?

Quelle parole la sbilanciarono per un momento. L’avrebbe chiamata Irene. Nessuno, tranne sua madre e la gente della Città della Montagna, la chiamava Irena. Ma lui aveva sentito il nome dagli altri, naturalmente. Comunque, la cosa non lo riguardava. — Quello è Aur Horn… il Nobile Horn. Quello è Dou Sark, il Padrone Sark, il Padrone di Tembreabrezi. E quella è la figlia di Horn. Non so il suo nome.

— Allia — disse inaspettatamente la ragazza, con un’affettazione vezzosa, rivolgendosi non a Irene ma a Hugh Rogers. Il giovane girò lo sguardo intimidito verso di lei, poi di nuovo verso Irene.

— Credo che mi abbiano scambiato per qualcuno che non sono — disse.

Irene non lo aiutò.

— Puoi dirgli che questo non è il mio posto… che vengo da… lo sai, da un altro luogo, e che c’è un equivoco.

— Posso dirlo. Ma non cambierà niente.

Il suo disprezzo lo aveva punto, finalmente. Il giovane raddrizzò le spalle aggobbite e aggrottò la fronte. — Senti — le disse, — quando sono arrivato qui, sembrava che mi aspettassero. Si comportano come se sapessero chi sono. Ma io non li conosco, e non riesco a fargli capire che mi hanno confuso con qualcun altro.

— Tu non sai chi sei, qui.

— Loro non lo sanno, io sì — disse il giovane, con inaspettata fermezza.

— È il modo in cui sei venuto.

— Non sono venuto, sono arrivato qui, ecco tutto. Non sapevo che ci fosse una città, ho soltanto seguito un sentiero.

— Nessuno di loro può percorrere quel sentiero. Nessuno, qui. Solo quelli che vengono… attraverso la porta.

Lui non comprese. — Non puoi dirgli che, chiunque stiano aspettando, non sono io?

Irene si rivolse al Nobile Horn e disse: — Mi ha detto di riferire che non è l’uomo che aspettate.

— Sappiamo benissimo chi è — disse quietamente il vecchio. C’erano doppi significati nelle parole che aveva usato. Irene le tradusse esitando in inglese: — Il Nobile Horn dice che sei chi dici di essere, per quel che li riguarda.

— Sembra che io sia quello che loro dicono che sono.

— E cosa c’è che non va? — chiese lei, sprezzante.

— Io devo tornare indietro presto. Lo sanno?

— Non te lo impediranno.

— Tu mi avevi avvertito… alla porta… quella volta. Perché? Sono pericolosi? Sono in pericolo?

— Sì.

— A quale delle due domande hai risposto? Che tipo di pericolo?

— L’una e l’altra. Perché dovrei dirtelo? Ti devo qualcosa? Tu stesso hai detto che questo non è il tuo posto. Sei tu, il pericolo, sei tu quello che non va: è incominciato quando sei venuto. Questo è il mio posto. Sei convinto che te lo cederò perché sei un uomo e quindi puoi avere tutto. Bene, qui non è così!

— Irena — disse il Padrone, che le stava accanto. — Cosa c’è? Che cosa ha detto?

— Niente! È uno sciocco. Questo non è il suo posto, non dovrebbe essere qui. Dovete mandarlo via e vietargli di ritornare!

— Che cosa? — disse il Nobile Horn, lentamente come sempre. — Non conosci quest’uomo, Irena?

— No. Non lo conosco, non voglio conoscerlo!

Allia parlò al padre con quella sua voce lieve e calma: — Irena dice così perché ha paura per noi.

Il Nobile Horn guardò la figlia, Sark, Irene. I suoi occhi, gli occhi quasi incolori di un vecchio, si fissarono nei suoi.

— Noi ti chiamiamo amica — disse Horn.

— Sono vostra amica — ribatté lei, accalorandosi.

— Lo sei. E anche lui è nostro amico. Nessun male giunge mai per quella strada, la tua strada, Irena. Tu sei venuta qui per parlare la nostra lingua, lui per servirci nel bisogno: e questo è come deve essere. L’una e l’altro, l’altro e l’una. Sono due che percorrono quella strada.

Lei rimase per un po’ in silenzio, spaventata.

— Io la percorro sola — mormorò.

Poi le sciocche lacrime le salirono agli occhi, e dovette volgere le spalle fino a quando fu in grado di dominarsi, e si fu asciugata il naso e gli occhi con il fazzoletto che Palizot le aveva messo nella tasca del vestito. Era duro, doversi girare e fronteggiarli. Lo fece, con il volto avvampato.

— Cercherò di fare ciò che mi chiedi — disse. — Che cosa vuoi che gli dica?

— Ciò che ti sembra meglio — rispose il Nobile Horn con quel suo tono smorzato e fermo. — Tu parli per noi.

Con grande stupore di Irene, indietreggiò per lasciar posto ad Allia e al cupo Sark, e con un lievissimo, rigido cenno di saluto a lei e a Hugh Rogers li seguì fuori dalla stanza. Irene rimase di fronte allo straniero.

Il giovane sedette su uno scranno troppo stretto, poi si alzò, impacciato, e andò a fermarsi davanti alle alte finestre.

— Mi dispiace — disse.

La luce dell’oriente era fredda. Irene si avvicinò al fuoco. La crisi di pianto l’aveva lasciata raggelata e intontita. Doveva fare ciò che aveva promesso.

— Ecco ciò che vogliono che io ti dica, a quanto ho compreso. Qui c’è qualcosa che non va; c’è qualche ragione che impedisce loro di lasciare la cittadina. Nessuno può camminare per le strade di campagna. Eccettuati noi, che veniamo dal sud. Hanno paura di qualcosa, e sembra che la situazione peggiori. Fino al tuo arrivo; credono che questo la cambierà, in qualche modo.

— Cambiare che cosa?

— Questa paura.

— Quale paura? È proprio qui che non ho paura. — Lui si scostò dalla finestra. — Qui non capisco nulla, la lingua, perché non è mai notte o giorno, ma non mi ha mai spaventato. Cosa c’è, di cui aver paura?

— Non so. Non parlo tanto bene la lingua. Loro non vogliono parlarne, o io non capisco, quando lo fanno. Dicono soltanto che non possono lasciare la città e che nessuno può venire qui dalle pianure.

— Le pianure — ripeté lui.

— Verso nord, oltre la montagna. La strada attraversa le pianure e arriva a una vera città.

Irene lo guardò e vide gli occhi, grigiazzurri o azzurri, sgranati nel volto bianco, pesante, ansioso. S’era voltato verso di lei ma non la vedeva; stava guardando nella propria mente attraverso le pianure del crepuscolo.

— Tu ci sei stata?

Lei scosse la testa.

— Da che parte è il mare?

— Non so. Non conosco la parola che significa mare.

— Tutti i ruscelli scorrono verso ovest — disse lui, a voce bassa. La guardò con quella sua espressione ansiosa e frastornata, bovina, la fronte e i capelli ricci, la faccia ottusa, l’occhio preoccupato. Irene aveva visto l’immagine sulla copertina di un libro, molto tempo prima; un uomo dalla testa di toro in piedi in una minuscola stanza. L’aveva rivista molte volte, nell’oscurità che precede il sonno: il corpo dell’uomo e la terribile testa pesante.

— Sai dove siamo? — chiese lui, e lei rispose: — No.

Dopo un po’, lui disse: — Devo andarmene presto. Ho paura di far tardi, a tornare. Il prossimo weekend potrò venire e restare la notte, è il lungo weekend. Se vogliono che io faccia qualcosa. Posso tentare… Restare la notte secondo l’orologio, voglio dire. Tu… tu credi che un’ora d’orologio corrisponda più o meno a un giorno, qui, voglio dire un giorno e una notte, se…

— Se ci fossero giorno e notte — confermò Irene. Era molto strano, parlarne con un’altra persona, sentirne parlare. — Come sei passato attraverso la porta, la prima volta? — gli chiese per pura curiosità, e mentre lo chiedeva comprese che aveva esaurito tutto il suo furore, aveva accettato il fatto che lui fosse lì e glielo lasciava capire.

— Stavo… — Lui batté le palpebre. La voce gli si incrinò nella gola. — Stavo scappando. Da… non so. Vedi, sono incastrato. Non faccio quello che vorrei fare.

— Cosa vorresti fare?

— Niente. D’importante. — La risposta giunse in due frasi staccate. — Solo, vorrei andare a scuola, ma non ci riesco.

— Che genere di scuola?

— Per bibliotecari. Non è molto importante.

— Bene, se questo è ciò che vuoi nella vita, non c’è niente da dire. Che cosa fai?

— Sono cassiere in un supermarket.

— Già.

— Lo stipendio è buono. È un buon lavoro, sai. Tu come sei arrivata qui la prima volta?

— Scappavo. Anch’io.

Ma Irene si sentì la gola inaridita. Non poteva parlarne. Doris violentata, e il suo patrigno a casa, e tutto quanto, ormai era passato tanto tempo ed era inutile parlarne. Era fuggita. Era venuta lì. Lì tutto quello non esisteva. Lì c’era la pace, e il silenzio, e nulla cambiava mai, era sempre lo stesso. Li non facevi domande. Venivi a casa. Lui non poteva capirlo, era uno straniero. Irene non poteva dirgli che veniva lì perché lì c’era il suo amore. Il suo amore, il suo Padrone. Nessuno lo avrebbe mai saputo, nessuno l’avrebbe mai compreso, il centro e il segreto della sua vita, quel silenzio. Nella sua età, nella sua autorità, nella sua estraneità, persino nella sua durezza, in tutto ciò che li divideva, nella distanza che li separava, c’era spazio per il desiderio senza terrore, c’era spazio e tempo per l’amore senza effetto, senza punizioni e senza sofferenze. L’unico prezzo era il silenzio.

E lei taceva.

Lo straniero, massiccio contro la luce della finestra, era voltato a mezzo e guardava fuori.

— Vorrei poter restare — disse a mezza voce.

Ma si scostò dalla finestra, risolutamente; e andò a congedarsi dai suoi ospiti. Irene rimase solo per riferire la promessa che sarebbe ritornato al Nobile Horn, il quale accettò senza discutere la partenza e la promessa di ritornare; e poi lasciò il maniero. Mentre si avviava fra i campi verso la cancellata, Irene pensò al viaggio di ritorno che anche lei avrebbe dovuto compiere presto. Guardò il fianco scuro della montagna, il grigio remoto delle pareti di roccia. Il silenzio della montagna era pesante, come un coperchio abbassato su un suono, un suono sempre presente. Strinse le braccia contro i fianchi con un brivido, e proseguì. Perché ritornare? Lui doveva ritornare, ma per lei non aveva importanza. Perché compiere quella lunga camminata attraverso i boschi bui, fino alla porta, perché non restare lì, nel vecchio paese?

Lo aveva sempre detto a se stessa, mentre era a letto, nell’alta camera silenziosa della locanda: Perché non restare qui, e non tornare mai indietro… Ma non aveva mai immaginato cosa avrebbe fatto se fosse rimasta, e come avrebbe potuto inserirsi nella vita della cittadina, già completa senza di lei. Veniva, bisognosa d’aiuto e pronta ad aiutare, e imparava a filare e a cardare dalle donne, e saliva al Prato Lungo con i bambini, e scendeva a Tre Fontane con i mercanti, e faceva ridere la gente con i suoi errori, quando parlava, e poi ripartiva. Quella non era la sua patria, ma lei non aveva patria; stava alla locanda, e né lì né altrove c’era un posto veramente suo.

Si fermò, sotto il cancello di ferro, con le mani contratte.

— Irena.

Si voltò, e vide che lui le sorrideva.

— Vieni a casa mia — le disse. Andò con lui senza parlare.

Nella sala dai due camini, lei si fermò, e lui si fermò e si girò a guardarla.

— Lascia che vada a nord per te — disse Irene. — Alla Città. Il Nobile Horn non mi manderà. Manderà l’uomo. Lascia che vada per te.

Mentre parlava, vedeva le lunghe strade attraverso la pianura crepuscolare, le torri luccicanti, le porte, le belle vie grige che salivano verso il palazzo. Vedeva se stessa, la messaggera, percorrere quelle vie. Non lo credeva, eppure lo vedeva.

— Con me — disse il Padrone. — Tu verrai con me.

Irene sgranò gli occhi, completamente sbalordita.

— L’uomo parte stanotte. Domani, aspettami al mattino presso il cortile di Gahiar.

— Tu puoi… Possiamo andare insieme?

Lui annuì. Il suo volto era serio, cupo, ma l’incredula beatitudine che cresceva dentro di lei cantava: O mio Padrone, mio amore, insieme! Ma in silenzio; sempre in silenzio.

Sark la precedette di qualche passo. — Io sarò il signore — disse sommessamente, con voce leggera e secca. — Non lui, e non lui, ma io. — Si voltò a guardare Irene con uno strano sorriso. — Non hai paura? — chiese con la vecchia ironia.

Lei scosse il capo.


Dopo aver fatto colazione presto, Irene lasciò la locanda; dove la strada del sud si congiungeva alla via della piccola città svoltò a sinistra, passando davanti alla bottega di Venno il carpentiere e alla casetta della vecchia Geba. Camminava svelta, e le scarpe robuste scostavano la gonna ad ogni passo, lasciando intravvedere le calze a righe. Teneva le mani chiuse e le labbra strette. La strada non lastricata costeggiava il cortile del tagliapietre, deserto. Attese lì, dapprima irrequieta, camminando fra i cedri e i blocchi di pietra appena sgrezzata, e poi sprofondò nella passività dell’attesa, così che quando finalmente lo vide arrivare non provò sollievo e neppure una grande comprensione. I suoi sentimenti sembravano distaccati dalla sua mente e dai suoi sensi. Lo guardò avvicinarsi, magro, agile, scuro, con un bel volto scuro, ed era come se non l’avesse mai veduto prima e non lo conoscesse. Lui camminava svelto, un po’ rigido, e non si fermò quando passò davanti al cortile del tagliapietre. Parve che non la guardasse. — Vieni — disse. Irene lo raggiunse sulla strada. Lui aveva l’aspetto solito, ma portava una giubba di stoffa pesante e un coltello o pugnale nel fodero, appeso alla cintura, come facevano un tempo i mercanti quando scendevano dalla montagna, eppure c’era un cambiamento, in lui; aveva sempre lo stesso aspetto, ma lei non lo conosceva.

La strada girava leggermente. Ora volgevano le spalle alla città, e alla soglia che era molto più indietro. La strada incominciava a discendere in una gola fra alti argini rossicci di terra.

— Vieni! — ripeté lui. Irene aveva soltanto rallentato il passo per restare con lui.

Prosegui per un breve tratto.

— Padrone — disse, voltandosi. Lui s’era fermato. La fissava. Gli occhi e il viso erano stranissimi. Venne avanti, camminando direttamente verso di lei come se fosse cieco. Irene ebbe paura di lui.

— Aspetta — disse il Padrone; la sua voce era esile, e lei vide che gli tremava il mento. — Aspetta. Io… — S’era fermato di nuovo. Si guardò intorno, girando la testa con un gesto tremulo, guardando le scarpate della gola, e la strada, oltre lei. Avanzò di un altro passo e poi con un grido sibilante e lamentoso cercò di voltarsi e le ginocchia gli cedettero; si accasciò sulle mani e sulle ginocchia e poi, barcollando, si precipitò, risalendo la strada. Non avevano percorso più di cento metri dopo il cortile del tagliapietre. Irene lo raggiunse là. — Padrone — disse, — non fare così, va tutto bene… — Cercò di prendergli il braccio. Lui la respinse con la forza cieca del panico, scagliandola attraverso la strada, e continuò a correre verso la città, emettendo quell’esile grido sibilante.

Irene si rialzò: le girava la testa e si era scalfito un avambraccio sulla pietra. Si spolverò la gonna e rimase per un po’ ferma, stordita. Si avvicinò lentamente a un blocco di granito sgrezzato e vi sedette, con le braccia premute contro il ventre, la testa affondata sulle spalle. Sentiva un po’ di nausea, e l’impulso di urinare; alla fine, andò al fosso sotto i vecchi cedri e si accoccolò lì. Più in alto, accanto alla casetta di Geba, due capre magre belavano sommessamente. Irene ritornò alla pietra e si fermò a fissarla, a guardare i segni dello scalpello e le incisioni nel granito.

Non avevo paura, si disse, ma non sapeva se era vero o falso; la paura di lui l’aveva dominata e assorbita.

Non mi perdonerà mai di averlo visto così, pensò; e sapeva che era vero, e non poteva sopportare quella certezza.

Lasciò il cortile del tagliapietre, passò lentamente davanti alla casetta di Geba e alla bottega di Venno.

Potrei andare, potrei proseguire fino alla Città, se non fosse per lui, disse a se stessa, vendicativamente, rabbiosamente; ma sapeva che questo era falso. Né con lui, né sola, sarebbe giunta alla Città. Era tutto falso, tutto menzogne e vanterie e stupide fantasticherie. Non c’era nessun modo di arrivarci.


Irene rimase ancora per quel giorno soltanto, e la notte. Ormai non desiderava molto restare. Lì, adesso, era tutto rovinato. E aveva lasciato tutto in sospeso dall’altra parte. Si sarebbe trovata un posto dove vivere e così via, e poi sarebbe ritornata lì; forse; se ne avesse avuto voglia. Non era al servizio di nessuno. Avrebbe fatto ciò che le pareva.

Il cuore le batteva forte, quando si avviò sulla strada del sud, ma era la paura della paura, niente di più; continuò a procedere con passo fermo.

Non si voltò indietro. Non ci si volta indietro. Questo l’aveva imparato molto tempo prima, quand’era una bambina e aveva paura del buio, di notte, tra i bizzarri filari del vivaio, e correva. Se ti volti indietro, ti prenderà. Tiri avanti e non ti volti a guardare. La discesa era ripida, i boschi molto fitti; lei non s’era mai accorta che i tronchi fossero così affollati, che le reti dei rami fossero così dense. Cercò di camminare in silenzio e poi cercò di non camminare in silenzio, perché quella era paura. Finalmente udì, più avanti, il mormorio dell’acqua, il Terzo Fiume, il ruscello ai piedi della montagna. Era bellissimo, il suono dell’acqua corrente, l’unica musica del suo paese. Perché non vedevi quasi mai gli uccelli, e non cantavano mai, e non cantava mai neppure la gente di Tembreabrezi, nemmeno i bambini. Il vento sussurrava o ruggiva solitario tra i rami alti, ma solo l’acqua cantava sonoramente, perché ascendeva da luoghi più profondi della paura. Arrivò al fiumicello, ampio e poco profondo al guado, luccicante e occhieggiante sotto i vecchi ontani inclinati e coperti di muschio, litigando allegramente con ogni macigno del suo corso. L’attraversò, poi si voltò e s’inginocchiò a bere. Ora l’acqua scorreva tra lei e la montagna, e il suo cuore era più tranquillo.

Si muoveva nella semi-trance abituale dell’andatura costante, con il corpo vigile e la mente occupata da pensieri così lunghi e lenti che era impossibile tradurre in parole, poiché non vi erano parole o frasi abbastanza lunghe, quando il suo corpo, cautamente ma senza preavviso, la fece arrestare, e solo quando rimase immobile, in ascolto, la sua mente chiese: Che cos’è stato?

Il rumore era venuto da un punto più avanti. Ciò che Irene temeva era dietro di lei… ma là! La mole bianca che si muoveva accanto alla svolta, là, avanti… Strinse il ramo che aveva raccattato sulla montagna per farsene un bastone da passeggio (l’aveva chiamato così, tra sé) e lo fece mulinare davanti a sé, in una furia di terrore, e colpì. Il colpo era diretto alla faccia di lui, ma lui teneva il braccio alzato, nell’uscire dal macchione, e parò il bastone con quello. Si fermò, con la testa un po’ ripiegata all’indietro, la bocca aperta, il respiro rumoroso. I suoi occhi erano gli occhi del toro dal corpo umano nella piccola stanza. La mano con cui Irene stringeva il ramo spezzato era intorpidita. Indietreggiò di un passo sul sentiero, di due passi, senza distogliere gli occhi da lui.

La bocca di lui si chiuse, si aprì. — Non posso — disse con voce faticosa e ansimante, e scrollò la testa. — Non posso uscire.

Poi sedette, lasciandosi cadere pesantemente, tremando, sul bordo erboso del sentiero. Sedette con la testa china e le braccia appoggiate sulle ginocchia, la posa semplice e pesante dello sfinimento. Gli tremavano le gambe per i postumi del trauma. Irene sedette, a gambe incrociate, a una certa distanza da lui, depose il ramo spezzato, e si massaggiò la mano destra indolenzita.

— Ti sei perduto?

Lui annuì. Il suo petto si alzò e si abbassò. — Oltre la porta.

— Hai lasciato la città due giorni fa.

— Il sentiero prosegue.

— Hai continuato a seguirlo? Oltre la… dove avrebbe dovuto esserci la porta?

— Pensavo che dovesse arrivare da qualche parte.

— Sei pazzo — mormorò lei, sprezzante, ammirando quel coraggio ostinato.

— È stata una stupidaggine — disse lui, con quella sua voce pesante e rauca. — Alla fine sono tornato indietro. Ma credevo di aver perso il sentiero. — Si massaggiava automaticamente il braccio che aveva parato il colpo. Era il bianco della sua camicia che lei aveva visto nel macchione. Non era tanto bianco, visto da vicino, striato di polvere e di sudore.

Irene aprì la borsa che portava alla cintura ed estrasse il pane che le aveva dato Sofir (aveva mangiato tutto il formaggio, ma solo metà della dura pagnotta bruna al Terzo Fiume) e lo porse, attraverso il sentiero.

Lui alzò gli occhi; lo prese lentamente, e lo mangiò come lei non aveva mai visto nessuno mangiare il pane: tenendolo con entrambe le mani e accostando la testa, come se bevesse o pregasse. Ben presto lo finì. Allora rialzò la testa e la ringraziò.

— Vieni — disse Irene, e lui si alzò subito. Lei provò il fremito interiore della pietà, la cieca compassione fisica per i feriti, vedendo quella pesante obbedienza e la faccia pallida e stanca. — Andiamo — insistette, come avrebbe detto a un bambino, e si avviò precedendolo sul sentiero.

Dopo il Fiume di Mezzo gli chiese se voleva riposare; era già in ritardo, disse lui; proseguirono.

Scesero l’ultimo pendio, attraversarono quell’acqua amata, e giunsero nel luogo dell’inizio. Lei non si fermò, perché la paura di lui la spronava. Lo condusse diritto attraverso la radura, fra l’alto pino e gli allori, oltre la soglia.

Alla sommità del sentiero, nel caldo e nella luce del giorno fatto e nel suono di un aereo a reazione che si spegneva a est e il fetore della gomma che bruciava oltre la collina, Irene si fermò e lasciò che lui la raggiungesse. — Tutto bene? — chiese, con una sensazione di trionfo.

— Tutto bene — disse lui. Era grigio e rugoso come un uomo di cinquant’anni, un vagabondo con la barba lunga di due giorni, un ubriaco o un drogato, curvo e tremante.

— Oh, caspita — disse lei, sgomenta. — Hai un aspetto orribile.

— Ho bisogno di mangiare qualcosa — disse lui.

Poiché erano giunti insieme fin lì, proseguirono insieme.

— Vieni tutte le settimane? — chiese Irene.

— Tutte le mattine.

Per un po’, lei continuò a pensare a quella risposta.

— Puoi sempre entrare? La porta c’è sempre?

Lui annuì.

Dopo un po’, Irene disse: — Io posso uscire sempre.

Uscirono dal bosco di Pincus. La luce sui pascoli abbandonati era così fulgida che li arrestò. Un banco di smog si estendeva traslucido sulla città, verso ovest. Il sole ardeva attraverso la foschia con una luminosità accecante, e tutta l’aria era velata dallo smog e bruciava di luce. Ogni filo d’erba gettava la sua ombra. Il frinire penetrante di una cicala crebbe e si spense e un uccello lanciò un secco richiamo, nel bosco dietro di loro. Avevano gli occhi che bruciavano, e c’era già sudore sui loro volti.

— Senti — disse lui. — Per il tuo cartello. Ti chiedo scusa. Ma non posso stare lontano.

— Sta bene. Lo so.

Irene incurvò le spalle e guardò, oltre i campi, la superstrada lontana. Il metallico filo mobile delle macchine rimandava a guizzi il bagliore del sole. — Non appartiene a me, quel posto. Spesso non riesco più neppure a entrare.

Si incamminarono attraverso i campi.

— Io vengo qui verso le cinque e mezzo del mattino, di solito — disse lui.

Lei tacque.

— Ma non posso arrivare alla città sulla montagna e ritornare prima che cominci il lavoro… — Lui stava pensando a voce alta, lentamente. — Il prossimo weekend. La festa del lavoro. Ho la domenica e il lunedì liberi. Allora potrò venire. Loro… Mi sembrava che mi chiedessero di ritornare.

— Infatti.

— Bene. Così potrei venire allora e restare a lungo. — Lui mormorò di nuovo nel silenzio, poi disse all’improvviso: — Quindi, se vuoi.

Dopo quindici o venti passi, lui riprese: — Tu mi hai aiutato a uscire.

Irene si schiarì la gola e disse: — D’accordo. Quando?

— Ti va bene alle sei del mattino? Domenica.

— Benissimo.

Quando arrivarono alla banchina, sotto la strada di ghiaia, lui svoltò verso destra.

— La mia macchina è parcheggiata da questa parte.

— Bene. Allora arrivederci.

— Ehi!

Lui continuò a camminare.

— Ehi, Hugh!

Lui si voltò.

— Vuoi un passaggio? Hai detto che sei in ritardo. Dove abiti, del resto?

— A Kensington Heights.

— Bene.

Mentre si avviavano verso la fabbrica di vernici, lei disse: — Deve essere una lunga camminata, da qui. Non hai la macchina?

— L’affitto di quello schifoso appartamento costa troppo — rispose lui con improvvisa, lucida violenza.

— Il mio patrigno potrebbe venderti una macchina per cinquanta dollari.

— Davvero?

— Funzionerebbe per una settimana intera.

Lui non afferrò lo scherzo. Era intontito dalla stanchezza. In macchina, sedette aggobbito accanto al posto di guida. Era più grande e grosso di chiunque altro avesse viaggiato in macchina con lei, e la riempiva. Aveva l’odore del sudore prosciugato, il sudore acre della paura. I peli sul dorso delle grosse mani bianche erano d’oro bronzeo. Le cosce avevano uno spessore enorme. Irene non gli disse niente, mentre guidava; parlò solo per chiedergli indicazioni. Lo fece scendere davanti alla palazzina esafamiliare che lui le indicò, e se ne andò, sollevata all’idea d’essersi liberata di quella mole, di quella presenza ingombrante. Non gli aveva detto dove abitava, sebbene fossero passati con la macchina davanti alla fattoria. Lei viveva lì? Al momento non viveva in nessun altro posto. Per quel che ne poteva sapere, Rick e Patsi avevano rifatto pace, a quest’ora, ma andassero al diavolo. A sua madre non sarebbe dispiaciuto riaverla a casa per un po’, e sarebbe andato tutto bene, se fosse riuscita a stare alla larga da Vic, in modo che non ci fossero guai. Avrebbe dormito con Treese, e questo avrebbe potuto scoraggiarlo. O forse no. Comunque, non sapeva dove andare, fino a quando non avesse trovato un posto tutto suo. Magari in centro. Sua madre aveva davvero bisogno di averla vicina, oppure era lei che si aggrappava a sua madre? Avrebbe dovuto provare. Se almeno ci fosse stato qualcuno disposto a dividere un appartamento in centro. A un semaforo, si voltò a prendere la sveglia che aveva lasciato sopra la sua roba, nello scatolone sul sedile posteriore. Erano le due e un quarto. Poteva andare a casa e scaricare la roba, lavarsi e mangiare qualcosa, e poi cominciare a cercarsi un appartamento. Forse ce ne sarebbe stato uno che lei poteva permettersi di pagare, tutta da sola. I giornali della domenica erano pieni di offerte d’appartamenti, e lei avrebbe avuto ancora il tempo di andare a vedere. Forse avrebbe trovato un posto dove vivere quel giorno stesso, e non avrebbe dovuto dormire alla fattoria, se avesse avuto fortuna.

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