12

Avanzarono in mezzo alla nebbia fredda e umida. La scarsa visibilità, comunque, non impedì loro di procedere celermente. Camminavano come se si trovassero alla piena luce del giorno. In fondo al cortile, molto oltre la porta che avevano aperto per entrare nel castello, c’era uno stretto voltone di pietra con una lanterna appesa al centro. Di ottone smaltato, ricca di fregi ornamentali, la lanterna penzolava innocentemente e proiettava un tenue ventaglio di luce invisibile su una serie di cellule microscopiche incassate nel gradino sotto l’arcata.

La sirena continuava a lanciare il suo lugubre ululato, mentre Raven cercava di rintracciare il circuito che azionava quel sistema di sicurezza così ben mascherato. Infine superò l’arcata, seguito da Charles. Un attimo dopo la sirena ammutolì con una specie di rantolo.

L’improvviso silenzio fu rotto da un coro di voci rabbiose e da un’orda di pensieri altrettanto furenti.

— Pensavo di dover impiegare più tempo — disse Raven. — I fili corrono per quasi tutto il castello e terminano a un grande pannello di comando. Comunque, sono stato fortunato.

— In che senso?

— Quando ho interrotto il contatto si è accesa una spia luminosa… e nessuno ci ha fatto caso. Sembra che tutti al castello siano in preda al panico. Continuano a scambiarsi ordini a vicenda senza concludere niente.

Si sporse un poco oltre l’angolo per guardare verso il cancello. Si sentì il rumore di molti piedi in corsa; poi dalla porta sbucarono diversi uomini che si lanciarono verso l’uscita. Ci fu un confuso incrociarsi di voci che cercavano di dominarsi a vicenda.

Era molto più facile ascoltare i pensieri.

“Troppo tardi. Il cancello è aperto, e Jesmond è tramortito.”

“Voi tre eravate nella stanza delle guardie. Cosa stavate facendo? Giocavate a jimbo? Ma guarda che roba! Due anormali escono tranquillamente dal castello, e loro continuano a giocare!”

“Vi siete mossi soltanto quando è suonato l’allarme! Be’, avevate ormai un’ora di ritardo!”

“Basta con le discussioni! Non stiamo facendo un’inchiesta! I due fuggitivi non posso essersi allontanati troppo. Inseguiamoli.”

“In che modo? Avanzando a tastoni come i ciechi? Non siamo mica dei radiosensitivi, sai!”

“Chiudi il becco! Anche loro si trovano nelle nostre stesse condizioni.”

“Niente affatto. Ti dico che quelli hanno qualità speciali, e sono pronto a scommettere che in questo momento stanno correndo in mezzo alla nebbia come se non esistesse.”

— Se fossi uno di loro, odierei a morte la gente come noi — disse Charles.

— Infatti ci odiano. E non posso biasimarli — disse Raven, e fece un gesto per imporre il silenzio. — Ascolta.

“Voi fate come volete, io li inseguo. Non possono correre senza fare rumore, e io sparerò in direzione di qualsiasi rumore dovessi sentire. Vieni con me, Sweeny?”

“Sì, certo.”

Un rumore di passi crepitò sulla ghiaia oltre il cancello e si allontanò con cautela nella notte.

“E se fossero telecinetici? Possono evitare di farsi sentire.”

“Un telecinetico non può rimanere sospeso in aria per sempre. Per me, il vero superdotato è chi può digerire un confetto di piombo.”

“Piantala, Sweeny. Come facciamo a sentirli se continui a chiacchierare?”

Continuarono ad allontanarsi mentre le loro menti si concentravano soltanto nell’ascolto degli eventuali rumori fatti dai fuggitivi. Gli uomini rimasti al cancello continuavano a rimproverare le guardie per quella partita a jimbo che le aveva distolte dal servizio, e nello stesso tempo cercavano di rianimare il povero Jesmond.

Un’onda di onde neurali giungeva invece dall’interno del castello.

“Niente indica cosa l’ha ucciso. Sembra che sia stato colpito da un attacco di cuore. Vi dico che si tratta di una disgraziata coincidenza. Nessun ipnotico può servirsi dei propri poteri attraverso uno schermo, né tantomeno può uccidere una persona a distanza.”

“No? Allora perché Thorstern ha spalancato loro la porta e ha ordinato alle guardie di aprire il cancello? L’hanno ipnotizzato, ne sono sicuro, e attraverso lo schermo. Quei due hanno un potere che nessun essere umano dovrebbe possedere.”

— Sei stato in gamba — disse Charles. — Guardando lo schermo al momento giusto, li hai indirizzati sulla pista sbagliata. Danno tutta la colpa a te, pensano che in qualche modo tu sia riuscito a farlo coi tuoi begli occhi.

— Non vorrei che scoprissero la verità.

— Già. Almeno ci fosse il modo di raccontare loro qualcosa sulla verità, ma senza tirare in ballo i Deneb.

— Non c’è. Nel modo più assoluto.

— Lo so. Ed è un vero peccato.

Rimasero in silenzio ad ascoltare le menti.

“Hai avvisato Plain City?”

“Sì. Stanno arrivando in forze. Un paio di telepatici per localizzarli con la mente, se ci riescono, una mezza dozzina di ipnotici, un pirotico e un tale con una muta di gatti selvatici. Una combriccola di fenomeni da circo capaci di camminare sulla corda e di fare altre cose del genere.”

“Al capo verrà un colpo quando vedrà cos’è successo.”

“Credo che un insettivoco con una scatola dei suoi insetti potrebbe fare molto di più che…”

— Hai sentito? — disse Raven facendo un piccolo cenno al compagno. — Proprio quello che volevamo sapere. Thorstern non era al castello, ma lo stanno aspettando. Infatti l’uomo nella sala di trasmissione, quando l’ho visto cadere a terra, non somigliava minimamente a Thorstern. Doveva essere un malleabile.

— Io me ne sono accorto nel momento in cui sono entrato in contatto — disse Charles. — Recitava molto bene, e non avevo avuto il minimo sospetto. È stata una sorpresa… Ma non certo paragonabile a quella che ha provato lui grazie a me.

— Ormai ha finito di restare sorpreso! La morte mette fine a tutto, vero?

Charles ignorò la domanda, perché la risposta era ovvia.

— La sala di trasmissione era protetta da schermi d’argento per evitare penetrazioni mentali dall’esterno. Si chiamava Greatorex. Ed era uno dei tre mutanti che avevano libero accesso al castello.

— Per motivi speciali.

— Sì. L’avevano addestrato a impersonare Thorstern, e Thorstern era diventato il suo secondo io. Ecco perché diceva di essere invulnerabile. Lui parlava a nome di due persone. Il vero grande capo era invulnerabile soltanto perché non si trovava in quella stanza. — Charles rimase un attimo in silenzio. — I tre mutanti fanno il loro servizio e turni al castello ogni volta che Sua Eccellenza, lo richiede.

— Dove sono gli altri due? Ha detto qualcosa la sua mente?

— Sono da qualche parte in città, in attesa di essere chiamati in servizio.

— Puoi capire cosa significa. Se stanno aspettando Thorstern, e lui non sa ancora cos’è successo, può darsi che arrivi di persona. A meno che non riescano ad avvisarlo e lui non ci mandi una seconda copia di se stesso. Gli conviene gettarci un’altra esca perché non potremo rifiutarci di abboccare.

— Ma non riuscirà a prenderci.

— Però nemmeno noi prenderemo lui… Ecco cosa mi preoccupa. — Corrugò la fronte, poi rivolse improvvisamente l’attenzione altrove. — Ascolta… comincia a rendersi conto di qualcosa, questo tipo.

I pensieri giungevano da una delle stanze del castello.

“D’accordo, il cancello era aperto e una delle guardie era stesa a terra. Significa proprio che sono fuggiti? O vogliono soltanto farcelo credere? Forse non sono fuggiti. Forse si stanno ancora aggirando per il castello. Se fossi una volpe mi vestirei da cacciatore e mi metterei in groppa a un cavallo. Vivrei più a lungo. Non importa che possano leggere nella mia mente… sono sempre in grado di pensare. Io dico che bisogna cercare all’interno del castello, al più presto possibile.”

Rispose una seconda mente più agitata. “Tu hai la testa piena di se, di ma e di forse. Se non avessi di meglio da fare, saprei dedurre le stesse cose. Potrei pensare alla possibilità che siano dei supermalleabili. E allora? Dovremmo preoccuparci non soltanto di scoprire dove sono, ma anche di sapere chi sono. Ti rendi conto che uno di loro potrebbe essersi fatto uscire sangue dal naso e essersi sdraiato vicino al cancello fingendo di essere Jesmond? Fece una pausa. Di questo passo, come fate a sapere che io sono proprio io?”

“In questo caso non avresti molto da vivere. Dalla città stanno arrivando alcuni telepati in grado di scoprire rapidamente chi sei. Io ripeto che dobbiamo setacciare il castello. Il capo andrà su tutte le furie se non lo facciamo.”

“D’accordo. Facciamo come vuoi, Signor Agitato. Ordinerò di cominciare le ricerche. Sarà inutile, ma lo faremo. Dirò anche che si armino e sparino a qualsiasi ombra sospetta.”

— Certi mancano totalmente di buon senso — borbottò Raven. — Perché non ci lasciano in pace?

— Senti chi parla! — disse Charles sorridendo.

Raven studiò le pareti del castello. — La caccia è cominciata. Dobbiamo cercare di tenerli a bada fino all’arrivo di Thorstern o di uno dei sosia.

Tenerli a bada non fu difficile. Andarono a sedersi su un bastione avvolto dalla nebbia e alto una quindicina di metri. Un gatto selvatico li avrebbe potuti scoprire, un supersonico li avrebbe potuti localizzare con l’eco, e un levitante li avrebbe saputi scorgere per quel suo istinto di curiosare nei punti che gli esseri normali trascuravano.

Ma quelli che stavano dando loro la caccia erano esseri normali, con tutte le limitazioni imposte alle normali forme di vita.

Così i due rimasero appollaiati in cima alla muraglia, come due gufi, a scrutare gli esseri inferiori che strisciavano con le armi in pugno attorno alla rocca di basalto nei cortili, pronti a far fuoco, e scossi dalla paura dell’ignoto.

Per le loro povere menti normali, il mutante era un essere che aveva sviluppato manie di grandezza, sempre pronto a ridurre in schiavitù i normali esseri umani. Un mutante con più poteri doveva essere qualcosa di infinitamente peggiore. Forse era una creatura non umana, camuffata da uomo e capace di tutto.

Il pensiero di trovarsi improvvisamente di fronte a una mostruosità biologica quale poteva essere un tele-piro-ipnotico e chissà che altro, e di doversi difendere con semplici pallottole, era addirittura insostenibile per alcuni degli uomini impegnati nelle ricerche.

Un uomo passò sotto l’arcata puntando una lampada portatile particolare sulle cellule per non disattivarle. Cercò invano nei paraggi, gli occhi spalancati, i peli ritti, e passò un paio di volte proprio sotto i piedi della preda, prima di arrendersi e tornare sui suoi passi.

Nel medesimo istante un secondo uomo emerse dalla porta del cortile, percepì dei rumori furtivi provenienti dall’arcata e fissò in quella direzione. Le armi in pugno, i due avanzarono in punta di piedi… Videro una forma vaga stagliarsi nella nebbia.

— Chi va là? — gridarono insieme, e fecero fuoco.

Uno venne mancato di pochi centimetri, l’altro fu ferito a un braccio. Lontano, oltre il cancello, qualcuno sparò in aria a un immaginario levitante, centrando un banco di nebbia.

Raven guardò verso il basso per osservare quello che stava succedendo nel cortile. Charles invece alzò di scatto la testa.

— Sento qualcosa. Non te ne sei accorto?

— Sì. Sta arrivando qualcuno. Ho la sensazione che sia il nostro uomo.

Si udiva il rumore delle grosse eliche di un elicottero che volava a considerevole altezza: stava arrivando da est, e volava sopra la coltre di nebbia.

Un sottile raggio di luce arancione partì da una delle torri del castello e rimase fisso nella notte. L’elicottero cominciò a scendere verso il faro e il rumore delle eliche diventò assordante. Infine l’apparecchio venne a trovarsi sopra il castello.

Guidato dagli strumenti di bordo o da istruzioni radio impartite da terra, l’elicottero s’immerse nella nebbia e toccò terra nello spiazzo di fronte al cancello. Il faro arancione si spense. Poi tre o quattro persone attraversarono di corsa il cortile per andare incontro ai nuovi arrivati.

— Raggiungiamo il comitato di ricevimento — disse Raven.

Si sporse dal muro e si lasciò cadere nel cortile. Ma non andò giù come avrebbe fatto un levitante. Scese alla stessa maniera con cui era piombato nella foresta. Una caduta normale, e un’improvvisa decelerazione a pochi centimetri dal suolo.

Charles lo seguì imperturbabile.

Attorno all’elicottero, si agitavano una decina di persone che cercavano di parlare tutte contemporaneamente. Quelli di guardia al cancello stavano scrutando nella nebbia, in direzione dell’apparecchio, e non fecero caso ai due che varcarono di corsa il passaggio per poi sparire.

I due fecero soltanto pochi passi in direzione dell’elicottero, il tanto necessario per togliersi alla vista di quelli fermi al cancello, poi descrissero un ampio giro per andare dietro l’elicottero. Nessuno fece caso a loro. La foschia era molto fitta e la discussione assorbiva troppo il gruppo.

Un uomo era fermo in cima alla scaletta dell’apparecchio e ascoltava cupo quello che urlavano gli uomini a terra. Sembrava il gemello dello sventurato Greatorex.

Le menti di quelli radunati ai piedi della scaletta rivelavano una curiosa situazione. Nessuno sapeva con certezza se il vero Thorstern era morto e se loro stavano parlando con uno dei sosia, o se era morto un sosia e loro si trovavano di fronte a Thorstern in persona… o se riferivano i fatti a un altro dei sosia.

Con autoritaria abilità, l’aspirante dittatore del mondo aveva condizionato i suoi uomini a rispettare la sua quadruplicità e a considerare ogni suo sosia come il vero Thorstern. Si erano tanto abituati a questa idea che per loro il vero Thorstern e i tre malleabili erano diventati una sola persona con tanti corpi. Era un grande tributo all’uomo che li comandava e un tributo ancora più grande ai tre sosia.

Il trucco riusciva a essere di utilità estrema. Nessuno scrutacervelli avversario poteva stabilire le sostituzioni che avvenivano nella camera protetta dagli schermi. Sarebbe stato necessario trovarsi in presenza diretta di Thorstern per poterlo identificare… se fosse stato possibile trovarlo.

Nessuno dei subalterni di Thorstern aveva mai accarezzato l’idea di commettere un attentato, sia perché le possibilità erano tre contro una, sia per timore delle rappresaglie che sarebbero seguite. All’interno dell’organizzazione, per quella esistenza dei sosia, era venuto a crearsi uno stato di dubbio che scoraggiava chiunque avesse voluto tentare una scalata al potere mediante il tradimento.

Ma, una volta tanto, nonostante le precauzioni, l’uomo che si trovava in cima alla scala era stato colto di sorpresa. Nessuno schermo d’argento proteggeva il segreto dei suoi pensieri. Si trovava allo scoperto ed era preoccupato di comprendere con la massima rapidità che cos’era successo. Poi avrebbe deciso se gli conveniva restare lì.

La sua mente ammetteva che si trattava di Emmanuel Thorstern e nessun altro, circostanza che avrebbe fatto felice il gruppo vociante di uomini che lo attorniava, se tra loro ci fosse stato un telepatico. Thorstern stava già pensando di tornare a Plain City a intensificare la caccia, mandando al castello un sosia nel caso avessero deciso di sferrare un secondo colpo contro la sua persona.

— Allora questo tale l’ha fissato negli occhi come per dire spero che tu possa cadere stecchito - continuò quello più vicino a lui. — Ed è stato proprio così! Lasciate che ve lo dica, capo, non è una cosa naturale. Quei due saprebbero mettere lo scompiglio in un intero gruppo di paranormali, figuratevi quindi con gente normale come noi. — Sputò a terra con rabbia. — Quando due esseri che non sono normali possono entrare tranquillamente…

— Superando il cancello e i sistemi di allarme — lo interruppe un secondo — come se non esistessero. Poi sono usciti da una sala chiusa da serrature complicatissime.

Una terza voce espose proprio quello che stava passando nella mente dell’uomo in cima alla scala. — Io sono preoccupato per questo… se l’hanno fatto una volta possono farlo ancora, e ancora, e ancora…

Thorstern fece un mezzo passo indietro. — Avete setacciato il castello? Bene?

— Centimetro per centimetro, capo. E non abbiamo trovato traccia di nessuno dei due. Ora aspettiamo una muta di gatti selvatici e un gruppo di superdotati, richiesti in città. Il fuoco si combatte con il fuoco.

Quasi a conferma di quanto era stato detto si sentì in lontananza il rabbioso miagolìo dei gatti selvatici.

— Non serviranno a niente — dichiarò con pessimismo il primo uomo. — A meno che non si imbattano per caso in Raven e in quel suo socio panciuto. Ormai hanno troppo vantaggio. Sweeny e i suoi ragazzi non li intercetteranno più, e nemmeno le squadre di città… E neppure io, se posso evitarlo.

Thorstern decise improvvisamente di aver ascoltato abbastanza. — Tutto considerato è meglio che io torni in città. Ordinerò alle autorità di prendere decisioni drastiche. Non mi manca certo l’influenza per farlo.

— Certo, capo. Certo.

— Tornerò non appena mi sarò reso conto che viene fatto tutto il possibile. Fra due o tre ore al massimo.

Lo disse sapendo benissimo che non sarebbe tornato fino a quando la situazione poteva rappresentare un pericolo per la sua persona: avrebbe mandato uno dei sosia.

— Se qualcun altro mi viene a cercare, dite che sono partito e che non sapete dove ero diretto. Se chi mi cerca è Raven, o se gli somiglia, o se parla e agisce come lui, o se vi nasce il sospetto che abbia le sue stesse idee, non state a discutere. Sparate. E sparate bene. Nel caso di un errore di persona, io mi assumerò tutte le responsabilità.

Al che Thorstern scomparve all’interno dell’elicottero. Si comportava come una persona sicura di sé, ma internamente era scosso dal desiderio di allontanarsi il più presto possibile.

Qualcuno non si era lasciato ingannare dall’opinione diffusa che fosse Wollencott il capo del movimento, anche se poi aveva finito col trovarsi di fronte a Greatorex. Qualcuno aveva faticosamente seguito i fili nascosti e aveva trovato che portavano a Thorstern. Qualcuno aveva molto più potere di lui e una crudeltà quasi identica. Qualcuno aveva deciso di rovesciarlo dalla posizione che si era tortuosamente costruito e, nonostante il primo insuccesso, aveva dimostrato di poterlo fare con estrema facilità.

— Andiamo — borbottò al pilota, e si lasciò cadere nella sua poltroncina.

Le eliche girarono, l’apparecchio ebbe un lieve sobbalzo, si inclinò leggermente e cominciò a sollevarsi. Raven e il compagno raggiunsero di corsa l’apparecchio e si misero a sedere sui pattini di atterraggio. Fino a un attimo prima, erano rimasti nascosti dietro la grossa mole dell’elicottero, ma ora diventarono perfettamente visibili. Un gruppo di facce sorprese si levò a guardarli per due o tre secondi, fino a quando l’apparecchio non scomparve nella nebbia. Poi ci fu una reazione rabbiosa e confusa.

“Dammi il fucile, presto!”

“Sei pazzo? Vuoi sparare alla cieca? Ormai non puoi più vederli!”

“Calma, Meaghan, potresti colpire il capo.”

“O il pilota. Vuoi farci cadere addosso l’apparecchio?”

“Ma dobbiamo fare qualcosa. Maledetti paranormali! Dipendesse da me, li ucciderei non appena nascono. Avremmo una vita tranquilla.”

“Telefoniamo in città. Li uccideranno non appena l’apparecchio tocca terra.”

“Sarebbero utili due levitanti bene armati. Perché non…”

“Sta’ zitto, Dillworth. Forse il pilota si è accorto di qualcosa e sta tornando verso il castello.” Tese l’orecchio, ma il rumore delle eliche si stava allontanando. “No, continua verso la città. Io vado.”

“Dove?”

“Dentro. Voglio mettermi in contatto radio con il capo e avvisarlo.”

“Ottima idea. Una scarica di proiettili attraverso il pavimento della cabina li farà cadere dal loro trespolo.”

L’apparecchio emerse dal banco di nebbia e proseguì il viaggio sotto un cielo di stelle lucenti. All’orizzonte, le Sawtooths si stagliavano contro lo sfondo dei punti luminosi. Più vicino, ovattato dalla nebbia, il bagliore delle luci di Plain City con il raggio arancione di un faro che puntava verso il cielo. Lontano, verso sud, si poteva distinguere il leggerissimo bagliore delle luci di Big Mines. Il pilota puntò verso il faro di Plain City e si mantenne una trentina di metri sopra il banco di nebbia. Non era necessario salire a una altezza maggiore per un viaggio tanto breve. Era piegato sui comandi, gli occhi fissi sulla luce del faro. Nel subconscio sentiva che l’apparecchio era più pesante, più lento, di un’ora prima, ma non se ne preoccupò. Durante la notte il contenuto di ossigeno dell’atmosfera variava da un’ora all’altra, e i motori sembravano subirne l’influenza.

Quando l’apparecchio fu quasi sopra la città, la spia della radio si accese, e il pilota allungò il braccio per premere l’interruttore. Nello stesso istante la porta della cabina si aprì a Raven avanzò all’interno.

— Buona sera — disse rivolgendosi a Thorstern.

Con la mano sospesa a mezz’aria, il pilota diede una rapida occhiata fuori dal finestrino per accertarsi che stavano ancora volando, poi sbottò: — Ma come diavolo…

— Clandestino a rapporto, signore — disse Raven sogghignando. — E ce n’è un altro appollaiato sul pattino, più grosso di me. — Rivolse la sua attenzione a Thorstern e vide che stava guardando con insistenza un piccolo scomparto. — Non lo farei se fossi in voi — lo ammonì Raven con un tono di voce tanto normale da risultare estremamente minaccioso.

Il pilota decise che poteva rispondere alla radio e premette il pulsante. — Qui Corry.

Dal piccolo altoparlante uscì una voce squillante. — Dite al signor Thorstern di prendere la pistola e sparare attraverso il pavimento. I due che cerchiamo sono attaccati ai pattini di atterraggio.

— Lo sa — rispose il pilota.

— Lo sa?

— Proprio così!

— Mio Dio! — La voce parve rivolgersi a delle persone che gli stavano accanto. — Dice che il capo lo sa. — Tornò a parlare al microfono. — Cos’ha intenzione di fare?

— Niente — rispose il pilota.

— Niente? Com’è possibile?

— Non chiedetelo a me. Io sono il pilota.

— Non vorrete… — La voce si interruppe all’improvviso, poi si sentì lo scatto della radio che veniva spenta.

— È giunto a una conclusione — disse Raven. — Ha pensato che voi e il signor Corry foste legati saldamente… che fossi io alla radio.

— Voi, chi siete? — chiese Corry con il tono di chi considera vagabondi tutti quelli che saltano a bordo di velivoli in moto.

Thorstern fece finalmente udire la sua voce. — Lasciate perdere… non potete fare niente.

Il suo cervello preoccupato espose un interessante esempio di come i pensieri incongruenti aumentino a volte nei momenti di crisi. Thorstern era assolutamente sconvolto. Giudicando da quanto era successo al castello, lui si trovava in una posizione pericolosa, aveva ottimi motivi per credere che la sua vita fosse in pericolo e che quanto prima avrebbe raggiunto il povero Greatorex. A tutto questo doveva aggiungere una specie di senso di colpa per essere andato a cercare i guai e per non potersi quindi lamentare, di averli trovati.

In quel momento, invece, Thorstern pensava ad altre cose.

“Un taxi antigravitazionale può portare un carico massimo di duecentocinquanta chili. Un elicottero, invece, può trasportare una tonnellata. Se avessi preso un taxi non mi troverei in questa situazione: non si sarebbe potuto sollevare con due persone a bordo e due appese all’esterno. Questa è l’ultima volta che prendo un elicottero… a meno che non venga accompagnato da una scorta.”

— Ma voi avete una scorta… Avete me e il mio amico — disse Raven. Poi aprì lo sportello. — Venite. Dobbiamo scendere.

Thorstern si alzò lentamente.

— Mi romperò il collo.

— Andrà tutto bene. Ci siamo noi a sostenervi.

— Potreste cambiare idea e lasciarmi precipitare, no?

— No.

Il pilota intervenne nella discussione. — Se siete dei levitanti vi devo avvisare che è contro la legge saltare da un apparecchio in volo sopra una città.

Raven non gli fece caso e continuò a parlare con Thorstern.

— Comunque, avete altre alternative. Potete tentare di prendere la pistola che c’è nel cassetto e vedere cosa succede. Oppure potete tentare la fuga balzando dall’apparecchio in volo e scoprire a che altezza sapete rimbalzare. O far precipitare l’elicottero e trasformarlo in un rogo. Se invece scendete con noi, toccherete terra incolume.

“Mi può ipnotizzare e costringere a fare quello che vuole, anche a morire, come ha fatto con Greatorex. Sarebbe meglio agire di testa mia. Ma conviene guadagnare tempo. Ora vincono loro… poi verrà anche il mio turno. In circostanze diverse anche le mie opportunità saranno diverse.”

— Questo si chiama usare il buonsenso — disse Raven. — Restate con noi fino a quando non faremo un passo falso. Poi ci potrete sbranare.

— So che siete un telepate e che potete leggere i miei pensieri — disse Thorstern avvicinandosi allo sportello. — So che potete fare anche molto di più. Sono impotente di fronte a voi… per ora…

Chiamò a raccolta tutto il suo coraggio. In quel momento Raven lo prese per un braccio e Charles gli afferrò l’altro. Come i levitanti hanno la mente condizionata da questa loro particolare abilità, così gli altri sono condizionati dalle loro limitazioni.

Thorstern aveva il cervello e il coraggio di una belva, tuttavia la sua natura si ribellava con tutte le forze a un salto nel vuoto. Con un paracadute o una cintura antigravità non avrebbe esitato un attimo. Stretto tra le mani di quei due avversari si sentiva invece terrorizzato.

Nel momento in cui si staccarono dall’elicottero, Thorstern chiuse gli occhi e trattenne il respiro. Sentì un vuoto alla bocca dello stomaco e l’aria cominciò a fischiargli attorno alle orecchie.

Ebbe la momentanea visione di un tetto che saliva vertiginosamente per fracassargli le gambe e il corpo. Poi un energico strattone rallentò la sua caduta. Tenne gli occhi chiusi finché non sentì il terreno sotto i piedi. Erano scesi in mezzo a una strada.

In alto, nel cielo, il pilota aveva afferrato il microfono. — Due tipi lo hanno preso e lo hanno costretto a saltare con loro da oltre seicento metri. Ero convinto che fossero levitanti, invece li ho visti cadere come sassi. Come? No, non ha opposto resistenza né mi ha dato ordini. Per quanto posso dire, io penso che siano caduti nel Settore Nove, nei paraggi di Reece Avenue. — Ci fu una breve pausa. — No, se lo conosco bene. È stato molto strano. Non voleva saltare dall’elicottero, ma l’ha fatto.

— Il vostro pilota sta chiedendo aiuto alla polizia — disse Raven.

— Non credo che possa servire — rispose Thorstern, guardandosi disperatamente attorno nella nebbia per scoprire dove si trovavano. — Ma non ha importanza.

— State diventando fatalista?

— Accetto temporaneamente le situazioni che non posso cambiare. Al gioco non si può vincere sempre. — Prese un fazzoletto e si asciugò il sudore. — È sempre l’ultima mossa quella che conta.

L’affermazione venne detta senza tono di vanto. Era la voce dell’esperienza, la considerazione di un uomo abituato a vedere i propri piani ostacolati e costretto spesso a rimandarli di una settimana, di un mese, di un anno. Sapeva armarsi d’infinita pazienza, quando se ne presentava la necessità. Ma era l’uomo che non perdeva mai di vista la meta, pronto a riprendere la marcia non appena fosse stato possibile.

Ammetteva di essere stato battuto quella notte, ma ammoniva gli avversari che ci sarebbe sempre stato un domani, un altro giorno. Era un modo di sfidarli, di mostrare i denti. In quel momento non poteva fare altro.

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