Un singolare assortimento di apparecchi era sparso in diversi punti dello spazioporto. Mezzi antigravità, elicotteri piccoli e grandi, diversi vecchi autogiro che appartenevano a irsuti cercatori di metalli preziosi, due eleganti astronavi del servizio diplomatico del Consiglio Mondiale, un pallone con motori ausiliari che veniva usato da un gruppo di scienziati addetti alle ricerche sui virus, una carcassa marziana che portava il nome Phodeimos, due astronavi passeggeri, una in attesa della posta e l’altra in cantiere di riparazione, e infine un vecchio trespolo arrugginito, mezzo giro e mezzo motocicletta, abbandonato da qualche inventore estroso.
Le lampade al sodio diffondevano una luce fredda su tutta la raccolta dei mezzi meccanici. La nebbia si era alquanto diradata, ed entro un’ora, con lo spuntare del sole all’orizzonte, sarebbe completamente scomparsa.
L’intera zona dello spazioporto era sorvegliata da un folto numero di guardie. Ma in modo inefficiente. Un gruppo stava chiacchierando accanto ai serbatoi del carburante, altri si erano fermati vicino all’officina delle riparazioni. Alcuni uomini isolati camminavano distrattamente lungo il perimetro dell’astroporto e attorno agli scafi. Nessuno di loro era mentalmente vigile. Annoiati dalla lunga notte trascorsa senza incidenti, a mezz’ora dal cambio della guardia, tutti pensavano solo ai minuti che li separavano dalla colazione e dal letto.
Raven fu grato dello stato mentale di quegli uomini. Creava uno stato psicologico a suo favore. La scelta di tempo è un fattore importante per il successo in ogni cosa, e l’orologio è il più grande autocrate che esista. Nel tentare un’impresa difficile si può fallire quando le lancette si trovano in una posizione e riuscire quando si trovano in un’altra.
Giunto a un centinaio di metri dal perimetro, cominciò ad avanzare con cautela. Senza dubbio le guardie dovevano aver ricevuto l’ordine di intercettarlo. La resa di Thorstern non poteva certo aver fatto revocare l’ordine di cattura.
La maggior parte delle guardie erano uomini normali, privi di qualsiasi facoltà. Alcuni dovevano essere seguaci di Thorstern o di Wollencott, e potevano aver ricevuto ordini particolari a riguardo di Raven nel caso fosse comparso all’astroporto. Ma non c’era modo di scoprire quali fossero, perché tutti stavano pensando al termine del servizio di ronda e alle piacevoli occupazioni che sarebbero seguite.
Il tizio che si stava avvicinando aveva nella mente la chiara immagine di un piatto di uova e prosciutto. Non aveva un punto fisso del campo da sorvegliare ed era un levitante.
Dopo averlo osservato per qualche tempo, Raven scoprì che il giovanotto era libero di andare dove voleva, e che compiva un giro irregolare in mezzo alle astronavi. Lo vide fermarsi due o tre volte, sollevarsi nell’aria e scavalcare quegli scafi ai quali non aveva voglia di girare attorno. Le altre guardie, tutti uomini che non si potevano staccare da terra, osservavano con annoiata indifferenza i voli del compagno. Il dieci per cento di loro aveva differenti particolari capacità, e tutti si consideravano superiori agli altri.
Attirato da quello che considerava un semplice impulso, senza motivo di dover sospettare qualcosa, la guardia si avviò al ripostiglio dietro cui Raven stava aspettando. Per un identico impulso, proveniente dalla stessa fonte, il giovane sollevò il mento per portarlo a un angolo adatto. Era parecchio cooperante, e Raven si rammaricò di doverlo ricompensare troppo sgarbatamente: lo colpì al mento, mentre il giovane stava ancora pensando al suo piatto di uova e prosciutto. Indossò berretto e impermeabile della guardia abbattuta, fece il giro dell’edificio e si addentrò nel campo. La sua vittima era bassa di statura, e l’impermeabile gli arrivava a stento alle ginocchia. Ma nessuno se ne accorse. Le guardie più vicine si trovavano a duecento metri, e i guai potevano venire soltanto da un telepatico. Se qualcuno avesse cercato di leggergli i pensieri avrebbe trovato il vuoto assoluto e avrebbe capito subito che si trattava di qualcosa di diverso da un semplice levitante… allora, sarebbe cominciata la musica a pieno ritmo.
Raven piegò il braccio per tenere l’arma nello stesso modo in cui l’aveva tenuta l’altro e giunse indisturbato nelle vicinanze dell’astronave passeggeri in attesa della posta. Era la Star Wraith, un modello recente, completamente rifornita di carburante e pronta per partire. Non c’era ancora nessuno a bordo. Raven si sollevò lentamente da terra e passò dall’altra parte dello scafo.
Nonostante il grande numero di scafi che si trovavano sul campo, dovendo scegliere un mezzo per la fuga, Raven aveva una scelta molto limitata. I giro, gli elicotteri e i mezzi antigravità potevano soltanto servire per spostamenti locali sul pianeta. Di mezzi adatti ad affrontare lo spazio c’erano soltanto la Star Wraith e le due astronavi del servizio diplomatico.
Queste ultime venivano rifornite di carburante proprio in quel momento. Fortunatamente, su quel mondo senza luna, Raven non correva pericolo di prendere per sbaglio uno scafo rifornito soltanto del carburante sufficiente per raggiungere il satellite. Lo scafo diplomatico più vicino aveva ormai i serbatoi pieni ed era pronto per la partenza, ma Raven lo sorpassò per dare un’occhiata allo scafo gemello. Anche questo era ormai pronto alla partenza. Mancava soltanto il pilota. Tutte e due gli scafi viaggiavano senza personale di bordo, e tutti e due avevano i portelli aperti. Raven scelse il secondo in considerazione del fatto che aveva circa mezzo chilometro di spazio libero dietro la coda. L’altro avrebbe distrutto un autogiro che forse il proprietario amava più di sua madre.
In quel momento la mente della persona stesa a terra dietro il magazzino fece ritorno dalla sua involontaria vacanza, e Raven la percepì all’istante. Si aspettava una cosa del genere. Il pugno avrebbe dovuto permettergli di guadagnare un paio di minuti, un tempo più che sufficiente. Così aveva sperato.
“Dove sono andato a sbattere?” si chiese il giovane, con la testa ancora confusa. E dopo qualche secondo, “Mi hanno dato un pugno!” Una pausa leggermente più lunga, poi giunse il pensiero sconvolto. “Il mio berretto! Il mio fucile! Qualche maledetto mi ha…”
Con aria indifferente, Raven si alzò da terra, come per passare dall’altra parte dello scafo che gli stava di fronte, ma si fermò all’altezza del portello aperto ed entrò. Accostò il battente circolare e tirò la leva che chiudeva ermeticamente il portello, poi si avviò verso la cabina di pilotaggio.
“Qualcuno mi ha colpito” continuò la mente dell’altro. “Doveva essere in attesa del mio passaggio!” Seguì un attimo di pensieri confusi, poi ci fu l’urlo mentale e vocale. — Ehi, voi, addormentati! Qualcuno è penetrato nel campo! Mi ha rubato il…
In mezzo alla confusione di pensieri che giunsero dalle guardie che stavano per smontare e che solo adesso si ricordavano di essere ancora in servizio, quattro menti più forti parvero emergere dal nulla e avanzarono in mezzo al campo per scrutare negli scafi. Quando raggiunsero la piccola astronave le quattro menti urtarono contro lo scudo mentale di Raven, si sforzarono, rimbalzarono.
“Chi siete?”
Raven non rispose. In quel momento le pompe e gli iniettori dello scafo cominciarono a entrare in azione.
“Rispondete! Chi siete?”
Erano menti molto diverse dalle altre che si aggiravano per il campo. Erano acute, precise, e avevano saputo riconoscere lo schermo mentale nell’attimo in cui lo avevano incontrato.
“È un telepatico. Non vuole parlare e tiene la mente serrata. Si trova sul KM 44. Meglio circondare lo scafo.”
“Circondarlo? No! Se mette in azione i propulsori incenerirà tutti quelli che si trovano dietro la coda.”
“Non credo. Non oserà partire prima che si sollevi la nebbia.”
“Se è Raven avremo delle grane, perché avremmo dovuto…”
“Vi ho detto che non sappiamo chi sia. Potrebbe trattarsi soltanto di un maniaco del volo nello spazio che tenta di rubare un’astronave. Se parte, spero che vada a fracassarsi.”
“Vuoi scommettere che è Raven?”
La lampada rossa della radio si accese, e Raven premette il pulsante.
La voce furente di un uomo che si trovava nella torre di controllo uscì dagli altoparlanti.
— Voi, sul KM 44, aprite il portello!
Anche questa volta Raven non rispose. A metà dello scafo, i motori continuavano a pulsare. Nella cabina un indice rosso si spostò lentamente fino a raggiungere il punto segnato con la parola PRONTO.
— Voi, sul KM 44, vi avverto che…
Raven sorrise e guardò nel periscopio retrovisore. Una fila di guardie armate era sparsa a ventaglio, a un paio di centinaia di metri dai propulsori. Appoggiò il dito indice su uno dei pulsanti e lo tenne schiacciato per una frazione di secondo. Lo scafo ebbe un leggero sobbalzo, e una bianca nube di vapori surriscaldati venne proiettata all’indietro. Le guardie fuggirono disordinatamente in tutte le direzioni.
L’addetto furente che si trovava nella torre di controllo cominciò a recitare una serie di pene e provvedimenti che stralciò dai paragrafi del regolamento. Era tanto preso dalla esposizione che non si accorse di quanto stava succedendo all’esterno.
Raven premette una seconda volta il pulsante, e una terrificante esplosione di fiamme bianco-arancione uscì dai reattori. Il rombo assordò tutti quelli che si trovavano nel raggio di un chilometro, ma all’interno dello scafo non parve che un lieve gemito.
La voce alla radio continuò a parlare con sadica soddisfazione.
— …ma quando il menzionato crimine associa anche infrazioni ai regolamenti di polizia e di dogana, la pena sarà quattro volte superiore a quella prevista dal comma D 7, senza pregiudizio per gli aumenti che…
Raven abbassò una leva e si mise in comunicazione radio con la torre.
— Senti, amico! Nessuno riuscirà mai a vivere tanto a lungo — disse, e interruppe il contatto radio.
Poi spinse una leva in avanti, e l’astronave si innalzò su una colonna di fuoco.
Dopo un milione di chilometri, Raven inserì il pilota automatico e scrutò lo schermo visivo posteriore per vedere se qualcuno lo stava inseguendo. Non c’era nessuno. La probabilità di essere inseguito da astronavi partite da Venere era minima, perché sarebbe stata una fatica inutile. Non esistevano scafi capaci di competere in velocità con quello che stava pilotando.
Era veramente possibile, ma non probabile, che a qualche astronave in volo nello spazio venisse dato ordine di intercettarlo. Ma la immensa distesa tra la Terra e Venere, in quella fase particolare dello sviluppo interplanetario, non era affollata di astronavi.
Lo schermo anteriore e i rilevatori non mostravano niente di interessante, tranne un piccolo punto di radiazioni infrarosse, troppo lontano per essere identificato. Forse era il Fantôme in rotta per la Terra. Avrebbe proprio dovuto trovarsi circa in quella zona.
Raven lasciò che il pilota automatico compisse il suo lavoro e si rilassò sulla poltroncina per osservare l’immensità del cosmo. Aveva l’aria di chi pur avendo contemplato lo spettacolo migliaia di volte spera di poterlo rivedere per altre decine di migliaia. Non si sarebbe mai stancato di quello splendore tremendo.
Tuttavia, smise la contemplazione. Si coricò in cuccetta, chiuse gli occhi, ma non per dormire. Li chiuse per meglio aprire la mente e ascoltare come non aveva mai fatto quando si era trattato di ascoltare i pensieri degli uomini normali. Le vibrazioni non lo distrassero, né lo disturbavano i rari sibili delle particelle di polvere cosmica che di tanto in tanto urtavano lo scafo. In quel momento, la sua facoltà uditiva aveva cessato di esistere, ma la mente aveva sviluppato la massima potenza di ascolto.
I suoni che stava cercando erano appena udibili. Erano voci mentali che vibravano nel buio dello spazio senza fine. Molti di questi impulsi mancavano di chiarezza ed erano attenuati dal viaggio attraverso distanze illimitate. Altri erano più chiari perché provenivano da zone relativamente vicine, ma sempre molto, molto lontane.
“Astronave nera diretta su Zaxsis. La lasciamo andare senza intralci.”
“Sono in partenza per Badur Nove, una nana rossa con quattro pianeti, tutti sterili. Difficilmente ritorneranno.”
“Hanno ignorato il pianeta e si sono impossessati del satellite più grande perché ricco di cristalli di ematite.”
“È scesa una squadra di quaranta astronavi e ha perlustrato il pianeta da un polo all’altro. Sembrava che avessero una gran fretta.”
“… nelle vicinanze di Hero, un gigante bianco-blu nel settore dodici di Andromeda. Centottanta astronavi nere, in tre formazioni di sessanta, sono transitate procedendo a tutta velocità. Una vera spedizione Deneb.”
“Un Deneb ha compiuto un atterraggio di fortuna. La sua astronave aveva due reattori guasti. È rimasto in difficoltà fino a quando non siamo accorsi ad aiutarlo. Naturalmente abbiamo finto di essere degli stupidi. Si è dimostrato riconoscente. Ha regalato delle collane di perle arcobaleno ai ragazzi ed è ripartito senza il minimo sospetto.”
“Un’astronave nera, un incrociatore, era diretta su Tharre. Abbiamo confuso le menti dei piloti e li abbiamo fatti tornare indietro.”
“Credo che l’abbia capito per intuito, ma non aveva modo di provarlo. Era pericolosamente vicino alla verità, e non lo sapeva. L’idea gli è comunque piaciuta e vuol farne la base di una nuova religione. Se i Deneb avessero accettato anche parte della sua teologia, si sarebbe venuta a creare una situazione esplosiva. Così abbiamo deciso di fermarlo all’inizio e…”
“Enormi astronavi nere da battaglia, con ottomila Deneb, hanno preso possesso di una luna minore. Hanno detto che manderanno una lancia per scambi commerciali con noi, ma non sembrano entusiasti. Ci hanno visto… e noi ci siamo mostrati loro come una colonia di primitivi aborigeni.”
“…e si sono lanciati tutti e dodici all’inseguimento. È divertente il fatto che non possano fare a meno di dare la caccia a cose irraggiungibili.”
“Ecco, io sto bene, ma lei è vecchia e stanca e vuole riposare. Gli anni passano tanto per noi quanto per quelli che stiamo sorvegliando. Se qualche altra coppia…”
“…radunati su tutto l’asteroide per dare un caldo benvenuto, e i Deneb si sono comportati come al solito. Sono scesi e hanno ridotto l’asteroide in polvere, poi si sono allontanati felici. Non ci era mai piaciuto quell’asteroide. Aveva degli strani…”
“Il convoglio ha proseguito per la Testa di Cavallo, settore sette, ma si è lasciato alle spalle uno scafo di salvataggio sconquassato con un anziano Deneb a bordo. Dice che andrà in cerca di cristalli. Gli altri sono andati avanti per trovare quello che lui ha proprio sotto il naso.”
“Un’armata di ottomila astronavi è partita da Scoria per vendicare le due astronavi scomparse. Hanno protetto con caschi di platino i cervelli dei piloti e hanno armato tutti gli scafi con nuovi proiettori di energia. Fanno sul serio!”
“Hanno pensato di non correre rischi e di incenerire l’intero pianeta, solo perché le creature che lo abitavano erano lucenti, semivisibili e sospettosamente diverse dai Deneb nell’aspetto. Non lo potevamo permettere. Così abbiamo manomesso il loro carico di armi. La loro missione è stata un completo fallimento!”
La radio amatoriale non aveva niente a che fare con questo genere di trasmissioni. Erano messaggi telepatici lanciati a lunga distanza, e decisamente professionali.
Lo scambio di comunicazioni durò per tutto il viaggio di Raven. Un’astronave nera qua, un’altra là, cento altre dirette verso una certa zona dello spazio. I Deneb facevano questo, facevano quello, erano atterrati su certi pianeti, erano ripartiti da certi altri, venivano abilmente attirati in una direzione e ne ignoravano un’altra… sempre aiutati o ostacolati da quella diffusa moltitudine di entità remote secondo le regole sconosciute di un gioco sconosciuto.
In complesso i Deneb sembravano scartare la maggior parte dei pianeti. Alcuni a prima vista, altri dopo una breve permanenza. E continuavano le ricerche. Con metodo o senza, setacciavano il cosmo alla ricerca di quello che non potevano trovare. Una sola cosa si poteva stabilire con sicurezza: erano incurabilmente agitati.
Rayen passò il tempo ad ascoltare i discorsi che provenivano dalle grandi profondità dell’infinito o a osservare attraverso l’oblò anteriore lo spiegamento delle stelle. Di tanto in tanto spalancava gli occhi in estasi, e sulla sua faccia compariva un’espressione di curiosa avidità. Tutti i pensieri riguardo Thorstern, Wollencott, Carson ed Heraty erano stati accantonati. Le loro ambizioni e le loro rivalità, paragonate agli eventi in corso altrove avevano assunto un’importanza submicroscopica.
“I Deneb hanno setacciato centomila menti prima di capire che non avevano abbastanza tempo per esaminarne cinquecento milioni. Così se ne sono andati, ignoranti come al loro arrivo.”
“…sono rimasti per tre interi circumsolari. Hanno ridacchiato di fronte ai nostri razzi, se ne sono fatti prestare un paio per giocarci e ce li hanno restituiti con tanti ringraziamenti. Ma quando avete abbattuto quell’incrociatore che vi avevano messo alle calcagna, si sono infuriati davvero e sono decollati come…”
“Per una ragione che solo loro conoscono, si stanno dirigendo verso Bootes. Meglio che vi prepariate a riceverli!”
“… Laethe, Morcin, Elstar, Gnosst, Weltenstile, Va, Perie e Klain. Su ogni pianeta ci sono dai duemila ai diecimila Deneb, e tutti cercano minerali rari. Trattano gli abitanti come animali inutili. Fino a questo momento…”
“Nove astronavi stanno scendendo. Avanzano pieni di sospetto, come al solito.”
Erano messaggi che potevano venire ascoltati solo da menti naturalmente adatte. Nessun cervello comune avrebbe potuto captarli. E nessuna mente di Deneb.
Erano messaggi che parlavano di astri solitari, di pianeti, di asteroidi vaganti. E ne parlavano in tono familiare, come se fossero stati strade di una città. Riferirono migliaia di pianeti, ma non nominarono mai né la Terra, né Marte, né Venere, né qualche altro pianeta del Sistema Solare.
Era inutile parlare di questi mondi, perché il loro momento non era ancora venuto.
Due scafi a sei posti della polizia si staccarono dalla Luna nel tentativo di seguire l’astronave rubata. Ma non ebbero fortuna. Raven si tuffò verso la Terra alla massima velocità, come se dovesse percorrere ancora una distanza di cinquanta anni luce, e quando ebbe gli inseguitori a una certa distanza saettò di lato, scomparendo dietro la faccia della Terra. Quando i suoi inseguitori oltrepassarono a loro volta la curva terrestre, Raven era ormai atterrato e l’astronave si era persa in uno scenario che dodici paia d’occhi non potevano certo scrutare.
Lo scafo riposava su una distesa rocciosa dal quale avrebbe potuto ripartire senza recare danno a proprietà di Terrestri. Raven si portò vicino ai reattori che si stavano raffreddando e si mise a studiare il cielo. Ma gli scafi della polizia non comparvero neppure all’orizzonte. Con tutta probabilità stavano inutilmente perlustrando una zona forse a seicento chilometri più a est o a ovest.
Raven raggiunse una strada di campagna ed entrò nella fattoria che aveva visto mentre atterrava. Per telefono chiamò dal più vicino villaggio un taxi antigravità, che arrivò immediatamente. Un’ora dopo si trovava al comando del controspionaggio terrestre.
Con la faccia lunga e lugubre come sempre, Carson gli fece cenno di sedere e congiunse le mani, quasi in atto di preghiera. Poi gli parlò con la mente.
— Siete peggio di un terribile mal di testa. In una settimana mi avete dato più lavoro di quanto faccio normalmente in un mese.
— E che ne dite del lavoro che avete dato a me?
— Non deve essere stato tanto difficile, a giudicare dalla rapidità con cui l’avete svolto. Siete uscito di qui e siete tornato con la cravatta dritta e senza un solo graffio. Nel frattempo avete molestato o spaventato uomini importanti. Inoltre, avete infranto ogni legge del codice, e io dovrò coprire le vostre malefatte. Il cielo sa come.
— Non esagerate — disse Raven. — Alcune leggi non le ho infrante. Per esempio, non mi sono mai messo a distillare tambar sulle colline. Comunque vorrei sapere se siete disposto a proteggermi. Le pattuglie di polizia di stanza sulla Luna mi hanno inseguito benché fossi a bordo di uno scafo del Consiglio.
— Rubato — precisò Carson, e indicò un grosso pacco di documenti che stava sulla scrivania. — Avete commesso infrazioni con più disinvoltura di quanta ce ne voglia per bere un bicchier d’acqua. Ora cercherò di accomodare anche la faccenda dell’astronave. Ma non preoccupatevi. Tutta la responsabilità sarà mia. Certi pensano che io sia al mondo per questo. Devo trovare il modo di far sembrare che si è trattato di una appropriazione ufficialmente autorizzata. — Si grattò il mento, poi guardò Raven con aria mesta. — E non venite a dirmi che avete fracassato lo scafo nell’atterraggio. Dove l’avete lasciato?
Raven glielo disse. — Sarei atterrato direttamente all’astroporto, ma i due scafi della polizia mi hanno fatto cambiare idea. Sembrava che mi volessero arrestare. In questi ultimi tempi c’è stata fin troppa gente che mi voleva mettere le mani addosso.
— Manderò un pilota a prendere l’apparecchio. — Carson scostò con rabbia le carte che aveva davanti. — Grane, grane. Su questo tavolo arrivano soltanto delle grane.
— Per venire da Venere a qui c’è voluto un po’ di tempo, anche se mi trovavo a bordo di uno scafo superveloce. E così non ho notizie degli ultimi avvenimenti. Quali sarebbero queste grane?
— La settimana scorsa abbiamo ucciso due uomini che cercavano di far saltare un grosso ponte. Erano due Marziani. Il giorno dopo è saltata in aria una centrale elettrica. Dieci città sono rimaste senza luce e tutte le industrie entro un raggio di centocinquanta chilometri sono rimaste bloccate. Sabato abbiamo trovato un ingegnoso dispositivo alla base di una diga. È stato tolto appena in tempo. Se fosse esploso, le conseguenze sarebbero state disastrose.
— Ma non hanno…
— D’altra parte — continuò Carson, senza badare all’interruzione — gli scienziati hanno provato che l’esplosione della Baxter è quasi certamente dipesa da un incidente autentico. Dicono che il carburante, in certe condizioni eccezionali, diventa altamente instabile. Affermano comunque di aver già trovato il modo di impedire catastrofi analoghe.
— Questa è una cosa interessante.
Carson fece un gesto d’impazienza. — Io ricevo i rapporti, e devo considerare ogni disastro come una vera e propria opera di sabotaggio, fino al momento in cui non mi si viene a provare il contrario. Siamo ostacolati dall’impossibilità di distinguere all’istante l’incidente dovuto a! caso da quello dovuto a sabotaggio. Non possiamo neppure liberarci degli elementi sospetti. Teniamo ancora in carcere otto uomini catturati nella base sotterranea. Sono tutti Marziani e Venusiani. Personalmente li farei deportare e negherei loro il visto di ingresso. Ma è impossibile. Legalmente sono Terrestri, capito?
— Già, è un guaio. — Raven si protese sulla scrivania. — Mi state dicendo, con questo, che la guerra continua?
— No. È certamente continuata fino alla fine della settimana scorsa, ma forse adesso è finita. — Carson guardò interrogativamente Raven. — L’altro ieri Heraty è venuto a dirmi che tutte le nostre preoccupazioni sono terminate. E da quel momento non sono più avvenuti sabotaggi. Io non so cosa abbiate fatto. Comunque, è stata un’azione efficace, se quello che dice Heraty è vero.
— Avete per caso saputo di un certo Thorstern?
— Esatto. — Carson si agitò a disagio sulla poltrona, ma riuscì a controllare i pensieri. — Da parecchio avevamo i nostri agenti alle calcagna di Wollencott, l’uomo che tutti indicavano quale capo della rivolta. Alla fine due nostri agenti avevano riferito che Thorstern era la vera forza nell’ombra, ma non erano riusciti a trovare prove convincenti. Thorstern ha sempre agito con molta prudenza, e nessuno può provare la minima cosa a suo carico.
— È tutto?
— No — ammise Carson con riluttanza, quasi che non volesse dilungarsi sull’argomento. — Heraty ha detto che Thorstern sta trattando con lui.
— Davvero? Vi ha detto a che proposito? Vi ha dato dei dettagli?
— Ha osservato che dubitava della buona fede di Thorstern, o meglio, che dubitava che fosse veramente la persona che diceva di essere, cioè l’uomo capace di fermare l’intransigenza venusiana. E Thorstern si è offerto di provarlo.
— Come?
— Togliendo di mezzo Wollencott… Così! — soggiunse Carson facendo schioccare le dita. Rimase qualche istante in silenzio, poi sospirò e riprese a parlare. — Questo è successo l’altro ieri. Oggi abbiamo ricevuto un messaggio da Venere con l’annuncio che Wollencott è caduto da un apparecchio antigravità ed è morto sul colpo.
— Uhm! — Raven riuscì quasi a vedere la disgrazia e a sentire lo schianto delle ossa. — Bel modo di licenziare un fedele servitore, vero?
— Meglio non dirlo apertamente… Sarebbe una insinuazione.
— Potrei farne qualcun’altra. Potrei parlare di un membro del Consiglio Mondiale. Di Gilchist, per esempio. È un individuo che si potrebbe tranquillamente chiamare un lurido pidocchio.
— Perché dite questo? — chiese Carson, facendosi improvvisamente attento.
— È la mosca sospetta che vola sul piatto. Thorstern stesso lo ha detto, senza sapere che stava tradendo un traditore. — Raven rimase un attimo soprappensiero. — Non so che faccia abbia questo Gilchist. Il giorno in cui mi trovavo al Consiglio ho annusato i presenti, e non ho sentito puzzo di bruciato. Com’è possibile?
— Non c’era. — Carson scrisse alcune annotazioni su un pezzo di carta. — Mancavano quattro membri. Due per malattia, due per affari urgenti. Uno di questi era Gilchist. È arrivato pochi minuti dopo la vostra partenza.
— Il suo affare urgente era il denunciarmi ai suoi complici — disse Raven. — Cosa farete adesso?
— Niente. La vostra informazione non basta. Passerò la notizia a Heraty, e il Consiglio Mondiale prenderà le sue decisioni. Una cosa è lanciare un’accusa, un’altra è provarla.
— Credo che abbiate ragione. Comunque non ha importanza, sia che non lo puniscano, sia che gli diano una medaglia d’oro per il suo tradimento. In fondo, ben poche cose sulla Terra hanno delle vere conseguenze. — Raven si alzò e raggiunse la porta. — Ma c’è una cosa che conta, per quel piccolo peso che possono avere le cose. Thorstern è un essere normale. E anche Heraty. Voi e io non lo siamo.
— E con questo? — chiese Carson a disagio.
— Ci sono uomini che non possono accettare la sconfitta. Ci sono uomini che possono starsene seduti in un apparecchio antigravità e guardare il compagno fedele che precipita nel vuoto. Ci sono uomini che cadono in preda al panico se stimolati nel modo adatto. Questa è la grande maledizione del mondo… la paura! — Fissò Carson negli occhi. — Sapete cosa atterrisce gli uomini?
— La morte — rispose Carson con voce sepolcrale.
— Gli altri uomini — lo corresse Raven. — Ricordatelo… specialmente quando Heraty vi riferisce parte delle cose e trascura accuratamente il resto.
Carson non chiese cosa intendesse dire. Da tempo era abituato alle tecniche difensive degli esseri normali. Gli venivano a parlare di persona quando non avevano niente da nascondere, in caso contrario gli scrivevano o gli telefonavano. E quasi sempre c’era qualcosa da tenere nascosto.
Rimase in silenzio a guardare Raven che se ne andava. Era un mutante, e non aveva mancato di comprendere l’avvertimento di Raven.
A Heraty piaceva forse troppo sbrigare gli affari per telefono.
Il piccolo e vistoso ufficio in cima a quattro rampe di luride scale erano il rifugio di Samuel Glaustrab, un povero ipno capace appena di incantare un passero. Certi suoi antenati dovevano essere stati mutanti, poi il talento doveva aver saltato alcune generazioni ed era ricomparso ma molto indebolito.
Da altri antenati aveva ereditato una mentalità legale e una lingua pronta, doti che lui valutava molto più dei trucchi di qualsiasi mutante.
Entrato nell’ufficio, Raven raggiunse la scrivania sporca d’inchiostro e salutò. — Buon giorno, Sam.
Glaustrab lo guardò da dietro le spesse lenti degli occhiali cerchiati di corno. — Ci conosciamo?
— No.
— Oh, pensavo di sì — spinse da parte alcuni documenti che stava consultando e si alzò.
“Perché mi chiama per nome?” si chiese. “Chi si crede di essere? Non sono mica il suo valletto.”
Raven si protese sulla scrivania e fissò i pantaloni sdruciti dall’altro.
— Con quegli abiti non ne avete proprio l’aria.
— Un telepatico, vero? — disse Glaustrab e si passò imbarazzato una mano sui pantaloni. — Be’, io non ci faccio caso. Fortunatamente ho la coscienza pulita.
— Vi invidio. Pochi possono dire la stessa cosa.
L’altro si accigliò, perché la frase gli era parsa ironica. — Che cosa posso fare per voi?
— Avete un cliente che si chiama Arthur Kayder?
— Sì, la sua causa verrà discussa domani mattina. — Scosse lentamente la testa. — Dovrò difenderlo con tutta la mia abilità, ma temo che la mia fatica andrà sprecata.
— Perché?
— È accusato di aver fatto pubblicamente minacce d’omicidio, e dato che la parte lesa è assente l’accusa verrà sostenuta dal pubblico ministero. Questo rende il mio compito molto più difficile. Le minacce sono registrate su nastro audiovisivo. Questo nastro verrà presentato alla Corte, e io non potrò negare l’evidenza. — Guardò Raven con aria triste. — Siete un suo amico?
— Sono il suo peggior nemico, per quanto mi risulta.
Glaustrab fece una risatina forzata. — Immagino che stiate scherzando.
— Vi sbagliate, Sammy. Sono l’uomo che lui voleva uccidere.
— Eh? — Spalancò la bocca, poi si piegò sulla scrivania e sfogliò nervosamente alcune carte.
— Vi chiamate David Raven?
— Esatto.
Glaustrab pareva completamente sconvolto. Si tolse gli occhiali, li appoggiò sulla scrivania, se li rimise e li cercò sulla scrivania.
— Li avete sul naso — lo informò Raven.
— Come? — Si scosse di colpo, poi rimase un attimo impacciato. — Già. Che sciocco. — Si rialzò, e infine tornò a sedersi. — Bene, voi siete il signor Raven. Il testimone d’accusa!
— Chi ha detto che voglio testimoniare contro il vostro cliente?
— Lo immagino. Essendo tornato alla vigilia del processo io…
— Supponiamo che non mi presenti al processo… Cosa succederebbe?
— Niente. Le prove registrate saranno più che sufficienti per farlo condannare.
— Già, ma solo perché si presume che io confermi i capi d’accusa. Cosa succederebbe se dicessi di sapere che Kayder stava scherzando?
— Signor Raven, volete dire che… — Le mani di Glaustrab cominciarono a tremare. — Credete veramente che lui…
— Non lo credo affatto. Parlava seriamente. Kayder avrebbe voluto sdraiarsi su cuscini di seta e gioire delle mie grida mentre gli insetti mi divoravano.
— Allora perché… Perché? — chiese Glaustrab, confuso.
— Preferisco uccidere un uomo con le mie mani piuttosto che fargli perdere anni in una prigione. In ogni modo, non penso che Kayder debba essere rinchiuso soltanto perché ha gridato delle minacce. — Guardò fisso Glaustrab. — Che ne pensate?
— Chi? Io? No… No di certo! — Glaustrab si mosse a disagio. — Avete intenzione di comparire al processo per difendere il mio cliente?
— No, se c’è un sistema più semplice.
— Potreste rilasciarmi una dichiarazione giurata — suggerì l’avvocato, con un tono misto di dubbio, sospetto, e speranza.
— Per me va bene. Dove devo giurare?
Glaustrab afferrò il cappello, cercò gli occhiali sulla scrivania, li trovò sul naso e fece segno a Raven di seguirlo. Scesero di due piani ed entrarono in un altro ufficio dove c’erano quattro uomini. Col loro aiuto preparò il documento, e Raven, dopo averlo riletto attentamente, firmò.
— Eccovi a posto, Sam.
— È stato molto generoso da parte vostra, signor Raven. — Strinse il foglio tra le dita e con la mente vide la scena che si sarebbe svolta al processo, quando si sarebbe alzato in mezzo alla sala silenziosa per presentare il documento. Un vero colpo di scena. Per una volta tanto, Glaustrab era felice. — Molto generoso — ripeté. — Il mio cliente apprezzerà il vostro gesto.
— È quello che voglio — disse Raven cupo.
— Sono sicuro che potrete contare su di lui e… — Improvvisamente Glaustrab cambiò espressione. Gli era venuto il terribile sospetto che la dichiarazione firmata da Raven avesse un prezzo. — Come avete detto?
— Voglio che il vostro cliente apprezzi il mio gesto. Voglio che mi consideri una specie di Babbo Natale, capite? — Puntò l’indice contro il petto dell’avvocato. — Quando un branco di tipacci vuole la tua pelle, basta un po’ di gratitudine per creare discordia nelle loro file.
— Davvero? — Glaustrab osservò che quella mattina certi concetti gli sfuggivano. Si portò una mano alla tempia.
— Questa volta li avete in tasca — disse Raven, e uscì.