26

L’inverno è alle porte. Cielo e strada formano una continua, inesorabile striscia di grigio. Ci sarà presto la neve. Per qualche motivo i vicini se ne sono andati per tre o quattro giorni, e rigonfi sacchi di immondizia sono ammucchiati davanti a ogni edificio, eppure non c’è odore di sporcizia nell’aria. Del resto gli odori non potrebbero prosperare in queste temperature: il freddo trascina via ogni puzza, ogni segno di realtà organica. Soltanto il concreto trionfa qui. Il silenzio regna. Negri macilenti e gatti grigi, immobili, statue di se stessi, occhieggiano dai viali. Il traffico è leggero. Camminando svelto per le strade dalla stazione del metrò fino all’abitazione di Judith, distolgo i miei occhi dai volti della poca gente che incontro. Mi sento intimidito e impacciato, vergognoso tra loro, come un veterano della guerra che sia appena stato dimesso dal centro riabilitazione e sia imbarazzato per le sue mutilazioni. Naturalmente non sono capace di dire che cosa la gente sta pensando; adesso le loro menti sono chiuse per me e mi passano accanto portando scudi di impenetrabile ghiaccio; ma, ironia della sorte, ho l’impressione, l’illusione che tutti loro abbiano accesso a me. Possono guardare dritto dentro il mio essere e vedermi così come mi sono ridotto. Ecco David Selig, staranno pensando. Quanto è stato imprudente! Che cattivo custode del suo potere! Lo ha rovinato e ha lasciato che gli sfuggisse, quell’imbecille. Mi sento in colpa perché provoco in loro questa delusione. Eppure non provo ancora quel senso di colpa che penso potrei provare. A qualche livello, l’ultimo livello, non mando tutti al diavolo. È questo quello che sono, dico a me stesso. È questo che sarò d’ora in poi. Se non vi piace, allora merda! Tentate di accettarmi. Se non ce la fate, ignoratemi.


«Come la società perfetta si avvicina sempre di più alla solitudine, così il linguaggio più elaborato alla fine si riduce a silenzio. Il silenzio è udibile per tutti gli uomini, in tutti i tempi, e in tutti i luoghi.» Così diceva Thoreau, nel 1849, in Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack. Naturalmente Thoreau era un pesce fuor d’acqua, un outsider con seri problemi nervosi. Quando era un giovanotto appena uscito dal college, si innamorò di una ragazza di nome Ellen Sewall, ma lei lo fece girare alla larga, e lui non si sposò mai. Mi chiedo se abbia mai fatto l’amore con qualcuno. Probabilmente no. Io non riesco a immaginarmi Thoreau che sta facendo all’amore, e voi? Oh, può anche darsi che non sia morto vergine, ma scommetto che la sua vita sessuale è stata una frana. Forse non si è mai masturbato. Riuscite a figurarvi Thoreau che se ne sta seduto accanto a quello stagno e se lo mena? Io no. Povero Thoreau. Il silenzio è udibile, Henry.


Mentre mi avvicino al palazzo dove abita Judith, mi immagino di incontrare Toni per la strada. Mi pare di scorgere una figura alta che cammina verso di me da Riverside Drive, senza cappello, avvolta in un voluminoso cappotto color arancio. Ci separa circa metà isolato, quando la riconosco. Stranamente, non provo né eccitazione né apprensione per questa riunione inattesa; sono assolutamente calmo, quasi impassibile. In altri momenti forse avrei potuto passare sull’altro lato della strada per evitare un incontro che poteva infastidirmi, non però oggi: con freddezza la fermo, sorrido, allungo una mano per salutarla. — Toni? — dico. — Non mi riconosci?

Lei mi studia, aggrotta le ciglia, sembra per un attimo imbarazzata. Però solo un attimo.

— David. Salve.

Il suo volto appare smunto, gli zigomi sono più sporgenti e duri. Nei suoi capelli c’è una spruzzatina di grigio. Quando la frequentavo io, aveva un curioso riuffo grigio su una tempia, stranissimo; adesso il grigio è sparpagliato e molto più abbondante in mezzo al nero dei suoi capelli. Del resto è naturale: è nel bel mezzo della trentina. Non è più una ragazza. In realtà è vecchia come lo ero io quando la incontrai per la prima volta. Però, tutto sommato, è cambiata poco, solo un po’ più matura. Mi sembra bellissima come sempre. Eppure ogni desiderio mi è ignoto, assente. La passione si è logorata, Selig. La passione si è logorata. E anche lei, misteriosamente, è libera da agitazioni. Ricordo bene il nostro ultimo incontro, quello sguardo sofferente sul suo volto, quell’ossessionante mucchio di cicche di sigarette. Adesso la sua espressione è dolce, quotidiana. Tutti e due siamo passati attraverso la zona delle burrasche.

— Hai una bella cera — dico. — Quanto tempo è, otto anni, nove?

La risposta la conosco già. Solo un test per lei. E lei supera l’esame dicendo: — L’estate del ’68. — Mi sento sollevato vedendo che non ha dimenticato. Sono ancora un capitolo della sua autobiografia, dunque. — Come te la sei passata, David?

— Non male. — Le solite sciocchezze, solo per parlare. — Che cosa stai facendo di questi tempi?

— Adesso sono alla Random House. E tu?

— Lavoro indipendente — rispondo. — Qua e là. — È sposata? Le sue mani inguantate non mi forniscono nessuna informazione. Non ho il coraggio di chiederglielo. Sono assolutamente impotente a sondarle la mente. Faccio un sorriso forzato e oscillo spostando il mio peso da piede a piede. Il silenzio che è sceso all’improvviso su di noi sembra invalicabile. Abbiamo esaurito così presto tutti gli argomenti possibili? Non sono rimaste zone di contatto da riaprire, al di fuori di quelle troppo intrise di dolore?

Lei dice: — Sei cambiato.

— Sono più vecchio. Più stanco. Più nudo.

— Non è questo. In qualche modo sei cambiato dentro.

— Suppongo di sì.

— Di solito mi facevi sentire a disagio. Avevo una specie di sensazione di nausea. Non è più così.

— Vuoi dire, dopo il viaggio?

— Prima e dopo — dice lei.

— Ti sei sempre sentita a disagio con me?

— Sempre. Non ho mai capito il perché. Anche quando noi eravamo vicinissimi, in intimità, mi sentivo, non so, sulla difensiva, sbilanciata, non a mio agio, quando ero con te. E questo adesso è sparito. È completamente sparito. Mi chiedo perché.

— Il tempo guarisce tutte le ferite — dico io. Saggezza da oracolo.

— Forse hai ragione. Perbacco, che freddo! Pensi che nevicherà?

— Per forza, fra non molto.

— Odio il freddo. — Si stringe nel cappotto. Non l’ho mai conosciuta in una stagione fredda. Primavera e estate, poi addio, vai fuori dai piedi, addio, addio. Strano come non provi quasi niente per lei, adesso. Se mi invitasse su, nel suo appartamento, probabilmente direi: no, grazie, sto andando a trovare mia sorella. Sì, naturale, lei è soltanto immaginaria; questo può averci qualcosa a che fare. Tuttavia non capto nessuna aura proveniente da lei. Non sta trasmettendo, o, perlomeno, io non sto ricevendo. È soltanto una statua di se stessa, come i gatti sul viale. Sarò incapace di provare qualcosa, adesso che sono incapace di ricevere qualcosa? Dice: — Sono contenta di averti incontrato, David. Vediamoci qualche volta, vuoi?

— Ma certo! Ci faremo un drink e chiacchiereremo dei vecchi tempi.

— Mi piacerebbe.

— Anche a me. Moltissimo.

— Abbi cura di te, David.

— Anche tu, Toni.

Sorridiamo. Le do un piccolo mezzo-sorriso di saluto. Ci separiamo; io continuo a camminare verso ovest, lei si affretta sulla strada ventosa verso Broadway. Mi sento un po’ più caldo per averla incontrata. Però tra noi tutto è diventato freddo, da amici, distaccato. Tutto, in realtà, è morto. Ogni passione si è logorata. Sono contenta di averti incontrato, David. Vediamoci qualche volta, vuoi? Quando arrivo all’angolo mi rendo conto di essermi dimenticato di chiederle il numero di telefono. Toni? Toni? Lei, però, è fuori vista. Come se non fosse mai stata lì, per niente.

È stata la piccola incrinatura nel liuto

Che poco a poco il complesso ha reso muto

E allargandosi ha immerso tutto nel silenzio.

È Tennyson: Merlino e Viviana. Avete ascoltato quel verso, prima, sull’incrinatura nel liuto. L’avevate mai sentito? Non sapevate che fosse Tennyson. Neppure io. Il mio liuto si è spaccato. Tuang. Tuing. Tuong.

Ecco un’altra piccola gemma letteraria:


Ogni suono finirà nel silenzio, ma il silenzio non muore mai.


L’ha scritto Samuel Miller Hageman, nel 1876, in un poema 184 intitolato Silenzio. Avete mai sentito parlare prima d’ora di Samuel Miller Hageman? Io no. Eri un saggio vecchio tipo, Sam, chiunque fossi.


Un’estate, quando io avevo otto o nove anni — comunque prima che loro adottassero Judith — andai con i miei genitori in un luogo di soggiorno sui Catskill per qualche settimana. C’era un campo giochi per bambini dove noi venivamo istruiti nel nuoto, nel tennis, nel softball, in arti-e-mestieri, e in altre attività, in modo da lasciar liberi i vecchi di andarsene in giro a fare ramini a base di gin o bevutine creative. Un pomeriggio il parco giochi organizzò alcuni incontri di boxe. Io non avevo mai calzato i guantoni da boxeur, e negli incontri liberi tra ragazzi mi ero scoperto un pessimo combattente, cosicché non ne ero rimasto entusiasta. Osservai i primi cinque incontri con molto sgomento. Tutte quelle botte! Tutti quei nasi sanguinanti!

Arrivò poi il mio turno. Il mio avversario era un ragazzo di nome Jimmy, di qualche mese più giovane di me però più alto e più pesante e molto più atletico. Penso che gli arbitri ci avessero fatto scontrare apposta, nella speranza che Jimmy mi accoppasse: non ero il loro beniamino. Cominciai a menar colpi anche prima che loro mi mettessero su i guantoni. — Primo round! — urlò l’arbitro, e noi ci accostammo l’uno all’altro. Sentii distintamente Jimmy che pensava di colpirmi al mento, e nel preciso istante in cui il suo guantone arrivava verso la mia faccia mi piegai velocemente e lo colpii alla pancia. Questo lo rese furioso. Ora aveva deciso di pestarmi sodo sulla nuca, però io lo vidi arrivare, balzai indietro e lo colpii sul collo proprio vicino al pomo d’adamo. Lui boccheggiò e si ritirò indietro, quasi piangendo. Dopo un attimo ritornò all’attacco, però io continuai ad anticipare le sue mosse e lui non riuscì mai a toccarmi. Per la prima volta nella mia vita mi sentii forte, aggressivo. Mentre lo suonavo per bene, l’occhio mi corse oltre il ring d’improvviso e scorsi mio padre tutto su di giri per l’orgoglio, e il padre di Jimmy, accanto a lui, che appariva arrabbiato e perplesso. Fine del primo round. Ero tutto sudato, esuberante, aggressivo.

Secondo round: Jimmy venne avanti deciso a ridurmi a pezzettini. Oscillando selvaggiamente, freneticamente, mirando ancora alla mia testa. Io tenni la testa dove lui non poteva arrivare e gli piroettai di fianco e lo colpii di nuovo nella pancia, molto duro, e quando si piegò in due lo colpii al naso e lui piombò giù, urlando. L’arbitro che dirigeva il match contò velocissimo fino a dieci e alzò in alto il mio braccio. — Ehi, Joe Louis! — strillava mio padre. — Ehi, Willie Pep! — L’arbitro suggerì di andare da Jimmy per aiutarlo a stringergli la mano. Appena lui fu in piedi colsi con assoluta nitidezza la sua decisione di piantarmi una testata sui denti, e io finsi di non farci caso, fino a quando lui caricò; allora freddamente mi spostai di fianco e gli picchiai violentemente i pugni sulla schiena piegata. Questo lo fece imbestialire. — David imbroglia! — gemette. — David imbroglia!

Tutti loro! Quanto mi odiavano per la mia acutezza, o almeno per ciò che interpretavano come acutezza! La mia sleale abilità di intuire sempre quello che stava per succedere. Bene, adesso non ci saranno più problemi. Dovrebbero amarmi, tutti. Per amarmi, mi hanno ridotto a un mollusco.


È Judith che apre la porta. Indossa un vecchio maglione grigio e calzoni sportivi azzurri con un buco su un ginocchio. Lei mi tende le braccia e io la abbraccio calorosamente, stretta stretta contro il mio corpo, forse per mezzo minuto. Sento della musica che proviene dall’interno: l’Idillio di Sigfrido, penso. Dolce, amorosa, gradevole musica.

— Sta già nevicando? — chiede.

— Non ancora. Grigiore e gelo, tutto qui.

— Ti preparo un drink. Vai nel soggiorno.

Resto in piedi di fronte alla finestra. Volteggiano pochi fiocchi di neve. Mio nipote arriva e mi studia a distanza, un dieci metri. Con mia sorpresa sorride. Dice con calore: — Ciao, zio David!

Deve averlo indottrinato Judith. Sii gentile con zio David, deve avergli raccomandato. Lui non si sente bene, ultimamente gli sono capitati un mucchio di guai. Così il ragazzo se ne sta lì, tutto gentile con zio David. Non credo che mi abbia mai sorriso prima d’ora. Fuori dalla culla, per me non ha mai avuto né bisbigli né guaiti. Ciao, zio David! Che bello, piccolino.

— Salve, Pauly. Come ti va?

— Molto bene — dice lui. Con questo le sue buone maniere sono esaurite; non sta a far domande sullo stato della mia salute, ma tira fuori uno dei suoi giocattoli e si immerge nei suoi meandri. Eppure i suoi occhi larghi, oscuri, brillanti, continuano a esaminarmi ogni pochi minuti, e non sembra che ci sia nessuna ostilità nel suo sguardo.

Wagner è finito. Rovisto in mezzo alla raccolta di dischi, ne scelgo uno, e lo metto sul piatto. Schönberg, Verklärte Nacht. Musica di un’angoscia tempestosa seguita dalla calma e dalla rassegnazione. Di nuovo il tema dell’accettazione. Bellissimo. Bellissimo. Le note echeggianti mi avvolgono. Pastose, lussuraggianti. Appare Judith; mi offre un bicchiere di rum. Ha qualcosa di dolce per sé, sherry o vermouth. Sembra un po’ giù, però molto cordiale, molto aperta.

— Alla salute — dice.

— Alla salute.

— Hai messo una bella musica. Un mucchio di gente non ci crederebbe che Schönberg può essere sensuale e tenero. Naturalmente, è lo Schönberg dei primi tempi.

— Sì — dico io. — I succhi romantici tendono a inaridire via via che invecchi, eh? Che cosa hai fatto in questi ultimi tempi, Jude?

— Non molto. Un mucchio delle solite vecchie cose.

— Come sta Karl?

— Non lo vedo più.

— Ah.

— Non te l’avevo detto?

— No — dico. — È la prima volta che lo sento.

— Non sono abituata a pensare che è necessario dirti le cose, Duv.

— Sarebbe meglio che ti ci abituassi. Tu e Karl…

— Stava diventando troppo insistente riguardo al matrimonio. Gli ho detto che era troppo presto, che non lo conoscevo abbastanza, che avevo paura di ingabbiare di nuovo la mia vita in una struttura che forse è sbagliata per me. Lui è restato offeso. Ha cominciato a farmi la predica su questo ritirarsi per complicare e rinviare le cose, sulla mania auto-distruttiva, un mucchio di sciocchezze del genere. L’ho guardato dritto negli occhi nel bel mezzo del suo sermone e l’ho visto come una specie di figura paterna; lo sai: grosso, pomposo, rigido, non un amante ma un mentore, un professore; non ne ho proprio bisogno per niente. Allora ho cominciato a pensare a quello che sarebbe stato tra dieci o dodici anni. Lui sui sessanta, e io ancora giovane. E mi sono resa conto che per noi non c’era futuro insieme. Gliel’ho detto il più gentilmente possibile. Non ha telefonato per dieci giorni o giù di lì. Penso che non telefonerà più.

— Mi spiace.

— Non è il caso, Duv. Ho fatto la cosa più intelligente. Ne sono sicura. Karl andava benissimo per me, però non avrebbe potuto essere per sempre. Il mio periodo-Karl. Un periodo sano. L’essenziale è non permettere che un periodo continui dopo che tu hai capito che è finito.

— Sì — dico io. — Certamente.

— Vuoi ancora un po’ di rum?

— Fra un po’.

— Che cosa mi dici di te? — chiede lei. — Parlami di te. Come te la cavi, adesso che… adesso che…

— Adesso che è finito il mio periodo di superuomo?

— Sì — dice lei. — È proprio finito, eh?

— Proprio. Tutto finito. Non c’è dubbio.

— E allora, Duv? Come ti senti da quando è successo?


Giustizia. Si sentono un mucchio di cose sulla giustizia, la giustizia di Dio. Lui ricerca i virtuosi. Lui tratta come immondizia gli empi. Giustizia? Dov’è la giustizia? Dov’è Dio, a questo punto? È proprio morto, oppure è soltanto assente, o distratto? Guarda la Sua giustizia. Manda un’inondazione in Pakistan. Zack, un milione di persone morte, gli adulteri e i vergini, gli uni e gli altri. Giustizia? Può darsi. Può anche darsi che le vittime, supposte innocenti, non fossero dopotutto così innocenti. Zack, la suora tutta dedita al lebbrosario si becca la lebbra, le sue labbra cadono a brandelli durante la notte. Giustizia. Zack, la cattedrale che la congregazione è andata costruendo negli ultimi 200 anni è ridotta a un cumulo di macerie da un terremoto il giorno prima di Pasqua. Zack: Zack. Dio ci ride in faccia. Questo è giustizia? Dove? In che senso? Voglio dire: prendi il mio caso. Non è che stia tentando di strapparvi un po’ di pietà, adesso; no, no. Voglio essere soltanto oggettivo. Ascoltate, non ho chiesto io di essere un superuomo. Sono stato forgiato così all’atto del mio concepimento. Un incomprensibile capriccio di Dio. Un capriccio che mi definì, mi diede forma, mi malformò, mi rese uno spostato, e io non avevo fatto niente per averlo, non avevo chiesto niente, assolutamente non lo avevo desiderato, a meno che voi pensiate alla mia ereditarietà genetica come una qualche specie di karma maligno, merda! È stata una contrazione involontaria puramente casuale. Dio disse: Che questo bimbo sia un superuomo, ed ecco! il giovane Selig fu un superuomo, in un’accezione ristretta del termine. Almeno per un certo tempo. Dio mi ha fatto per tutto quello che sarebbe successo: l’isolamento, la sofferenza, la solitudine, anche l’autocompassione. Giustizia? Ma dove? Il Signore dà, chissà perché, dannazione, e il Signore toglie. La qual cosa, appunto, Lui, adesso, ha fatto. Il potere se n’è andato. Sono assolutamente piatto, gente, piatto come voi e voi e voi. Non fraintendetemi: io accetto il mio destino, vi sono completamente rassegnato; non vi chiedo di sentirvi spiaciuti per me. Semplicemente ho bisogno di cavarci fuori un qualche significato, piccolo. Adesso che il potere se n’è andato, io chi sono? Come faccio a definire me stesso, adesso? Ho perduto la mia specialità, il mio potere, la mia vergogna, il motivo del mio isolamento. Tutto quello che mi è rimasto adesso è il ricordo di essere stato diverso. Le sue cicatrici. Che cosa si presume che faccia io adesso? Come faccio ad agganciarmi all’umanità adesso che la differenza se n’è andata e che io sono ancora qui? Quello è morto, io sopravvivo. Che strano scherzo mi ha fatto, Dio. Non è che io stia protestando, capitemi. Sto soltanto chiedendo fatti, con un tono di voce tranquillo, ragionevole. Sto cercando di capire qualcosa della giustizia divina. Penso che il vecchio arpista di Goethe avesse di te, Dio, la visione esatta. Tu ci butti nella vita, lasci che il pover’uomo cada nella colpa, e poi lo confini nella miseria. Perché ogni colpa è vendicata sulla Terra. Questo è un reclamo ragionevole. Tu, Dio, hai il potere definitivo, però rifiuti di avere la responsabilità definitiva. Questo è giusto? Penso che anch’io ho un ragionevole motivo di reclamo. Se c’è giustizia, perché una fetta così grossa della vita sembra ingiusta? Se veramente, Dio, sei al nostro fianco, perché ci dai un’esistenza di lacrime? Dov’è la giustizia per i bambini nati senza occhi? Per i bambini nati senza testa? Per il bambino nato con un potere che gli uomini non contavano di avere? Solo per chiedere, Dio. Accetto la tua decisione, credimi, mi inchino alla tua volontà, perché potrei anche… che scelta posso avere, dopo tutto?… Ma ho ancora il diritto di chiedere. Giusto?

Ehi, Dio? Dio? Mi stai ascoltando, Dio?

Penso proprio di no. Penso che a te non te ne frega niente. Dio, io penso che tu mi mandi a farmi fottere.


Di-dah-de-du-dah-di-da. La musica sta finendo. Armonie celestiali che riempiono la stanza. Tutto immerso in unità. Fiocchi di neve che turbinano dietro i vetri della finestra. Perfetto, Schönberg. Tu hai capito, almeno quando eri giovane. Hai colto la verità e l’hai messa in note. Io lo sento che cosa volevi dire. Non fare domande, hai detto. Accetta. Soltanto, accetta; è questo il motto. Accetta. Accetta. Qualunque cosa ti succeda: accetta.


Judith dice: — Claude Guermantes mi ha invitato ad andare a sciare con lui in Svizzera per Natale. Posso lasciare il bambino da un amico nel Connecticut. Però non ci andrò se tu hai bisogno di me, Duv. Stai bene? Puoi arrangiarti?

— Certo che posso. Non sono mica paralizzato, Jude. Ho mica persa la vista. Vai in Svizzera, se è questo che vuoi.

— Staremo via soltanto otto giorni.

— Sopravviverò.

— Quando ritorno, spero che traslocherai da quella baracca. Tu devi venire ad abitare da queste parti vicino a me. Dovremmo vederci di più.

— Può darsi.

— Potrei anche farti conoscere alcune mie amiche. Se la cosa ti interessa.

— Meraviglioso, Jude.

— Non sembri troppo entusiasta.

— Devi andarci piano — le dico. — Non buttarmi addosso un milione di cose. Ho bisogno di tempo per selezionarle.

— D’accordo. È come una nuova vita, non è vero, Duv?

— Una nuova vita. Sì. Una nuova vita, è proprio questo, Jude.

La tempesta di neve è violenta, adesso. Le macchine stanno scomparendo sotto i primi strati di bianco. All’ora di cena la radio, nelle previsione del tempo, parlava di un accumulo, prima del mattino, per uno spessore di una ventina di centimetri. Judith mi ha invitato a passare la notte qui, nella stanza della cameriera. Bene, perché no? Di tutte le volte, perché dovrei prenderla a calci proprio adesso? Resterò. In mattinata porteremo Pauly fuori nel parco, con la sua slitta, sopra la neve fresca. Sta proprio venendo giù, adesso. La neve è così bella. Copre tutto, pulisce tutto, in poco tempo purifica questa stanca città, consunta, e la sua stanca, logora popolazione. Non riesco a distogliere i miei occhi dalla scena. La mia faccia è incollata alla finestra. Tengo un bicchierino di brandy in una mano, ma non ci penso neanche a berlo, perché la neve mi ha afferrato nel suo ipnotico incantesimo.

Buu! — urla qualcuno dietro di me.

Ho un soprassalto così violento che il cognac schizza fuori dal bicchierino e spruzza la finestra. Atterrito mi giro, raggomitolandomi, pronto a difendermi; allora il terrore improvviso si spegne e mi metto a ridere. Anche Judith ride.

— Questa è la prima volta che ti ho colto di sorpresa — dice. — In trentun anni, la prima volta!

— Mi hai fatto prendere una fifa da morire.

— Me ne sono rimasta in piedi, qui dietro, per tre o quattro minuti pensando delle cose per te. Tentando di provocare qualcosa dentro di te, invece no, no, tu non hai reagito, hai continuato a fissare la neve. Perciò mi sono alzata furtivamente e ti ho urlato in un orecchio. Eri veramente assorto, Duv. Non ti eri accorto di nulla.

— Pensavi che mentissi quando ti parlavo di quello che mi è successo?

— No, naturalmente no.

— Allora perché pensavi che me ne accorgessi?

— Non lo so. Confesso che dubitavo di te un pochettino. Non lo farò mai più. Oh, Duv. Duv, mi sento così triste per te!

— Non occorre — dico io. — Per piacere, Jude.

Lei sta piangendo, dolcemente. Com’è strano questo, veder piangere Judith. Per amor mio, niente meno. Per amor mio.


Adesso è tranquillissimo.

Il mondo è bianco di fuori e grigio dentro. Io accetto tutto questo. Penso che la vita sarà più ricca di pace. Il silenzio diventerà la mia lingua madre. Ci saranno scoperte e rivelazioni, però niente sconvolgimenti. Forse il colore ritornerà nel mondo, per me, più tardi. Forse.

Vivendo, ci agitiamo. Morendo, viviamo. Terrò bene in mente questo. Sarò di buon umore. Dlang. Dling. Dlong. Fino a quando morirò di nuovo, salve, salve, salve, salve.


FINE
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