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Paul F. Bruno

18a Composizione di Letteratura

Prof. Schmitz

15 ottobre 1976


I romanzi di Kafka

Nel mondo da incubo de Il Processo e Il Castello, solo una cosa è certa: che la figura centrale, significativamente identificata con l’iniziale K, è condannata alla frustrazione. Tutto il resto è come parte di un sogno, insicuro; le sale d’udienza si aprono su appartamenti, misteriose sentinelle divorano la loro colazione, un uomo che si pensa sia Sordini, è in realtà Sortini. Il fatto centrale, comunque è certo: K fallirà nel suo tentativo di ottenere la grazia.

I due romanzi hanno lo stesso tema e approssimativamente anche la stessa struttura. In ambedue, K cerca di farsi graziare e viene a poco a poco condotto alla convinzione finale che la grazia gli verrà negata. (Il Castello è incompiuto, però la sua conclusione appare chiara). Kafka porta i suoi eroi a intrecciarsi con le loro situazioni in modo opposti: nel Processo, Joseph K. è passivo fino a quando, nello sviluppo del racconto, viene scosso dall’arrivo inaspettato delle due guardie; nel Castello, K dapprima è presentato come un personaggio attivo che, per il proprio tornaconto, si sforza di arrivare al misterioso Castello.

Per essere precisi, veramente, all’origine egli si è sentito attratto dal Castello; l’azione non ha la sua radice in lui, per cui egli appare come un carattere passivo, alla stregua di Joseph K. La differenza sta nel fatto che Il Processo si apre in un momento che precede il culmine dell’azione… nel momento più lontano possibile, in realtà. Il Castello segue più da vicino l’antica regola di cominciare in medias res, con K già chiamato e che sta tentando di arrivare al Castello.

Ma in ambedue i libri gli attacchi sono immediati. Joseph K. viene arrestato proprio nelle primissime righe del Processo, e la sua controparte, K, arriva a quella che lui ritiene essere l’ultima fermata prima del Castello nella prima pagina di quel romanzo. Da lì, ambedue i K si sforzano inutilmente di arrivare ai loro scopi (nel Castello, semplicemente di raggiungere la cima della collina; nel Processo, dapprima di capire la natura del delitto, poi, vista l’inutilità di ogni sforzo, di venire assolto dalla colpa pur non comprendendola). Effettivamente ambedue superano le loro mete con l’azione successiva. Il Processo raggiunge il suo culmine nella stupenda scena della Cattedrale, come del resto la stragrande maggioranza delle singole terrificanti sequenze di ogni opera di Kafka: e lì dentro che K è condotto a rendersi conto che lui è colpevole, e che non potrà mai essere assolto; il capitolo seguente, che descrive l’esecuzione di K, è poco più di una banale appendice. Il Castello, meno completo che non Il Processo, non ha una controparte della scena della Cattedrale (era, forse, Kafka incapace di escogitarne una?) e, perciò, artisticamente è meno soddisfacente del più breve, più intenso, più compattamente strutturato Processo.

Questa apparente semplicità, però, non impedisce che ambedue i romanzi appaiano costruiti sulla fondamentale struttura tripartita del ritmo tragico, dal critico Kenneth Burke distinta in «proposito, passione, percezione». Il Processo segue questo schema con risultati certo migliori di quanto non faccia l’incompleto Castello: il proposito, quello di ottenere la grazia, viene via via esposto come una passione straziante quale ogni eroe immaginario ha sempre subito. Alla fine, quando Joseph K. è stato ridotto dal suo originale aggressivo atteggiamento di autofiducia in uno stato mentale atterrito, timido, ed è ovviamente pronto a capitolare di fronte alle forze della Corte, siamo ormai vicinissimi al momento finale della percezione.

L’agente che lo conduce sulla scena del momento culminante, è una figura classicamente kafkiana… il misterioso “collega italiano, che era alla sua prima visita alla città, che aveva molte conoscenze influenti, per cui di lui in banca si faceva gran conto”. Il tema che permea tutta l’opera di Kafka, l’impossibilità della comunicazione umana, qui è ripetuto: benché Joseph abbia passata metà notte a studiare l’italiano per prepararsi alla visita, e perciò sia mezzo addormentato, lo straniero parla uno sconosciuto dialetto settentrionale che Joseph non riesce a capire. Poi — una pennellata comica, quasi una rifinitura — lo straniero passa al francese, ma questo è altrettanto difficoltoso da seguire, e i suoi grossi baffi frustrano ogni tentativo di Joseph di leggergli le parole sulle labbra.

Una volta arrivato alla Cattedrale, che gli era stato chiesto di illustrare all’italiano (il quale, e la cosa non ci sorprende, non rispetta per niente l’appuntamento), la tensione cresce. Joseph gironzola qua e là nella costruzione, vuota, oscura, fredda, illuminata soltanto da candele che tremolano lontano, mentre la notte inesplicabilmente comincia subito a scendere all’esterno.

È allora che il prete lo chiama e gli racconta la parabola del Guardiano della Porta. È soltanto quando il racconto è finito che noi ci rendiamo conto di non averlo capito per niente; ben lungi dall’essere quel semplice racconto che pareva all’inizio, si rivela complesso e difficile. Joseph e il prete discutono a lungo la storia, alla stregua di una coppia di dotti rabbini che disputano su un punto del Talmud. Lentamente le implicazioni vengono a galla, e, noi e Joseph, ci accorgiamo che la luce che esce dalla porta della Legge non sarà visibile per lui se non quando sarà troppo tardi.

Strutturalmente il romanzo, qui, è compiuto. Joseph ha avuto la percezione definitiva che la grazia è impossibile; il suo reato è ratificato e lui non può più essere graziato. La sua ricerca è terminata. L’elemento finale del ritmo tragico, la percezione che conclude la passione, è stato raggiunto.

Noi sappiamo che Kafka ha ideato per primi i capitoli che trattano lo svolgersi del processo di Joseph in varie tappe successive, per finire con la sua esecuzione. Il biografo di Kafka, Max Brod, afferma che l’opera avrebbe potuto essere prolungata all’infinito. Questo, naturalmente, è vero; è connaturato alla natura stessa della colpa di K che egli non possa mai arrivare in seconda istanza, come l’altro K potrebbe vagare all’infinito senza mai arrivare al Castello. Ma, strutturalmente, il romanzo termina nella Cattedrale; il resto di quanto Kafka si era prefissato non avrebbe aggiunto niente di essenziale all’autoconoscenza di Joseph. La scena della Cattedrale ci mostra quello che noi sapevamo già fin dalla prima pagina: che non c’è grazia. Il dramma si conclude con quella percezione.

Il Castello, un’opera molto più lunga e costruita in maniera molto meno sciolta, non ha la potenza del Processo. Divaga. La passione di K è definita con molta minore chiarezza, e K ha una struttura psicologica molto meno consistente, non è per niente interessante, psicologicamente, come lo è invece nel Processo. Mentre nell’opera precedente egli si preoccupa del proprio caso appena avverte di trovarsi in pericolo, nel Castello diventa rapidamente vittima della burocrazia. Nel Processo le denotazioni psicologiche vanno dalla primitiva passività all’attività e poi di nuovo alla passiva rassegnazione dopo l’epifania nella Cattedrale. Nel Castello K subisce trasformazioni non altrettanto nette; all’inizio del romanzo è un carattere attivo, però ben presto si perde nel labirinto da incubo del villaggio sotto il Castello, e scende sempre più in basso. Joseph K. è quasi un personaggio eroico, mentre il K del Castello è soltanto patetico.

Le due opere rappresentano una variazione sullo stesso tema, quello dell’uomo scardinato esistenzialmente, che all’improvviso è coinvolto in una situazione da cui non c’è scampo, e che, dopo aver tentato di ottenere la grazia che lo libererebbe dalla sua condizione, soccombe. Così come sono arrivati a noi, Il Processo è senza dubbio il maggiore successo artistico, impostato con rigore e continuamente sotto il controllo tecnico dell’autore; Il Castello, o meglio il frammento che ne possediamo, potenzialmente è tuttavia il romanzo migliore. Tutto quello che c’era nel Processo ci sarebbe stato nel Castello, e anche molto di più. Ma si ritiene che Kafka abbia smesso di lavorare al Castello essendosi accorto che gli venivano a mancare le risorse per portarlo a termine. Non riusciva a trattare il mondo del Castello, con il suo enorme sfondo di vita paesana alla Bruegel, con la stessa sicurezza con cui aveva trattato il mondo cittadino del Processo. E poi nel Castello mancava una necessità pressante; noi non siamo mai interessati veramente al destino di K, perché è inevitabile; Joseph K., invece, sta combattendo contro forze più tangibili e fino alla fine abbiamo l’illusione che la vittoria sia, per lui, possibile. Inoltre Il Castello è troppo ponderoso. Simile a una sinfonia di Mahler, crolla sotto il suo stesso peso. Ci si chiede se Kafka avesse in mente una qualche struttura che lo mettesse in grado di terminare Il Castello. Può anche darsi che egli non abbia mai inteso concludere il romanzo, ma che abbia voluto esprimere l’eterno vagabondare di K in cerchi concentrici e sempre più ampi, senza mai arrivare alla tragica coscienza che non avrebbe raggiunto affatto il Castello.

Forse è questa la ragione della struttura informe, comparativa, dell’ultima opera: la scoperta di Kafka che la vera tragedia di K, la sua figura di eroe-vittima archetipica, non risiede nella percezione finale dell’impossibilità di ottenere la grazia, quanto piuttosto nel fatto che egli non raggiungerà mai neppure questa percezione finale. Abbiamo qui il ritmo tragico, una struttura comune a tutta la letteratura, troncato per rappresentare più esplicitamente la condizione umana contemporanea, una condizione repellente, secondo Kafka. Joseph K., che effettivamente raggiunge uno stato di grazia, tramite ciò raggiunge una vera e propria statura tragica; K, che semplicemente scende sempre più in basso, potrebbe simboleggiare per Kafka l’individuo contemporaneo, così schiacciato dalla generale tragedia dei tempi da essere incapace di ogni tragedia a livello individuale. K è una figura patetica, Joseph K. una figura tragica. Joseph K. è un personaggio più interessante, ma forse è K che Kafka comprendeva più profondamente. E per la storia di K non è possibile nessun finale, probabilmente, se non quello senza senso della morte.


Non è poi così male. Sei cartelle a spazio due: a tre dollari e mezzo l’una, mi fruttano 21 dollari per meno di due ore di lavoro, e frutterà sicuramente alla muscolosa mezz’ala, Paul F. Bruno, un “buono” dal prof. Schmitz. Ne sono sicuro, perché lo stesso dattiloscritto, diverso soltanto in pochi ritocchi stilistici, fruttò a me un “buono” dall’esigentissimo prof. Dupee nel maggio 1955. Oggi, dopo un ventennio di inflazione universitaria, gli standard sono più bassi. Bruno può anche arrivare a prendere “ottimo”, per la ricerca su Kafka. È un lavoro che ha qualità di vivida intelligenza, quel misto, tipico dello studente, di introspezione sofisticata e ingenuo dogmatismo, e Dupee, nel ’55, aveva trovato lo scritto “chiaro e forte”, come risultava da una sua annotazione in margine. Benissimo. Ho il tempo per farmi un po’ di spezzatino, magari con un pasticcio di verdure come contorno. Poi affronterò Odisseo come simbolo sociale oppure Eschilo e la tragedia aristotelica. Non posso cavarmela, qui, coi miei vecchi compiti, ma non dovrebbe essere troppo difficile. Cara macchina per scrivere, vecchia imbrogliona, cerca di essermi di aiuto adesso e per sempre.

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