Il pescatore di ponte Garibaldi


Il signor Alberto, detto Albertone, più che altro è un pescatore di città: pesca dal ponte Garibaldi, nelle acque del Tevere, o anche da altri ponti, con la stessa lenza, ma non sempre con la stessa esca, perché ci sono pesci che amano il fico, altri il grillo, altri il begattino. Il guaio è che al signor Albertone i pesci non vogliono bene per niente. Al suo amo non abboccano né inverno né estate. E lui quello che passa intere giornate appoggiato al parapetto in attesa che una scardola, o almeno una misera arborella, abbiano compassione del suo galleggiante e gli diano quello strappo che tira sott’acqua anche il cuore del pescatore verace. Passate in macchina sul ponte venendo dal viale Trastevere in direzione di via Arenula, alle otto di mattina; ripassate verso il tramonto, rifacendo lo stesso percorso in senso inverso; incaricate un amico di passare e ripassare sul ponte, a ore diverse, mentre voi siete a bottega, per controllare: Albertone è sempre là di schiena. Forse verso sera per la delusione, è diventato un po’ più piccolo, ma è sempre lui.

A tre metri da Albertone un tizio, che del pescatore non ha nulla e al massimo potrebbe vendere enciclopedie a rate, non fa in tempo ad aprire l’archetto del mulinello e a lanciare in acqua il suo filo, saggiamente equilibrato dai piombini, che subito un cavedano accorre, per così dire, scodinzolando, a farsi tirar su con tutti i suoi riflessi argentati. E lungo quaranta centimetri, peserà due chili. Roba da non credere.

Il tizio lo infila nel cestino, aggancia un vermiciattolo qualunque e, tempo trenta secondi, viene su un barbo di diciotto etti. Sembra che sorrida di felicità, sotto i suoi quattro baffi.

― Quello lì i pesci lo portano proprio in palma di mano, ― borbotta Albertone.

Anche il tizio borbotta qualcosa ad ogni lancio. Albertone si avvicina e sente che dice:


Pesce, pesciolino,

vieni da Giuseppino.


E il pesce abbocca immediatamente. Albertone non ne può più.

― Scusi, signor Giuseppino, ― dice, ― non per sapere i fatti suoi, ma mi spiega come fa?

― È tanto facile, ― risponde sorridendo il tizio. ― Stia attento.

Lancia di nuovo, e di nuovo borbotta in fretta quella giaculatoria:


Pesce, pesciolino,

vieni da Giuseppino.

E viene su un’anguilla, che di regola da queste parti del Tevere non ci dovrebbero neanche stare.

― È proprio forte, lei, ― dice Albertone sbalordito. ― Mi lascia provare?

― Si figuri, ― risponde il tizio.

Albertone prova, ma con lui il sistema non funziona.

― Dimenticavo, ― dice quell’altro, ― lei si chiama Giorgio?

― No, ma cosa c’entra?

― C’entra, sì, ― dice quello là. ― Io mi chiamo Giorgio, di soprannome Giuseppino. Ecco perché i pesci mi danno retta. Sa, con gli incantesimi bisogna essere precisi al cento per cento.

Albertone fa fagotto e va di corsa in via Bissolati, dove c’è la Crono-Tours, l’agenzia che organizza viaggi nel passato. Spiega il suo problema al dottore di turno. Quello fa un po’ di conti con un cervello elettronico li controlla con il pallottoliere, programma la macchina del tempo e dice:

― Ecco fatto, si accomodi su questa poltrona e buon viaggio. Un momento: ha già pagato?

― Naturale. Ecco lo scontrino.

Il dottore schiaccia un bottone e Albertone si trova nel 1895: l’anno di nascita di suo padre. Lui è un trovatello che sta al brefotrofio. Passa degli anni d’inferno finché esce, va a lavorare nell’Atac, dove lavora anche suo padre; diventano amici. Quando suo padre si sposa e gli nasce un figlio, Albertone lo consiglia per il suo bene:

― Chiamalo Giorgio, di soprannome Giuseppino. Vedrai che avrà fortuna.

Suo padre ci discute un po’: ― Veramente il mio primo figlio lo volevo chiamare Alberto. Però facciamo pure come dici tu.

Nasce il bambino e lo chiamano Giorgio, soprannominato Giuseppino. Va all’asilo, poi a scuola, eccetera. Tutto preciso come prima; la stessa vita che ha avuto Alberto, ma col nome differente. Albertone - che ora si chiama Giorgio, soprannominato Giuseppino - si scoccia un po’ a rifare tutta quella strada. È come ripetere quaranta classi di seguito, perché lui deve arrivare all’età di quarantanni e cinque mesi per tornare sul ponte Garibaldi al momento giusto. Però si consola all’idea che stavolta i pesci gli dovranno obbedire per forza.

Venuto il giorno, venuta l’ora - cioè lo stesso giorno e la stessa ora del primo incontro con il pescatore fortunato - l’ex Albertone corre sul ponte, monta la canna, mette l’esca, lancia il filo e intanto, col cuore in gola per l’emozione, sussurra spiccando bene le sillabe:


Pesce, pesciolino,

vieni da Giuseppino.


Niente.

Aspetta un po’.

Ancora niente.

Aspetta un altro po’.

Sempre niente. I pesci se ne infischiano in una maniera indecente. Tre metri sulla destra di Alberatone-Giorgio-Giuseppino, quell’altro pescatore è lì che fa bollire il granturco su un fornelletto a spirito. Poi infila un grano ben cotto sull’amo, lancia e tira su una carpa di dodici chili, con le pinne rosse per la contentezza.

― Non vale, ― grida l’ex Albertone. ― Anch’io adesso mi chiamo Giorgio soprannominato Giuseppino! E perché i pesci vengono solo a lei? Questa è un’ingiustizia bella e buona e io le faccio causa!

― Come!?! ― dice quello là. ― Non lo sa che la parola d’ordine è cambiata? Stia bene attento.

Prepara l’esca, lancia e, mentre l’amo scende in acqua, dice allegramente:


Pesce, pesciolino,

vieni da Filippino.


Ecco fatto. Viene su un’altra carpa, che dev’essere la gemella della prima, e se non pesa dodici chili pesa centoventi etti di sicuro.

― Ma chi è questo Filippino?

― È mio fratello, ― dice il pescatore fortunato. ― Lui fa il fisico atomico e non ha tempo di venire a pescare. Io, invece, di tempo ne ho tanto perché sono disoccupato.

“Mannaggia!” riflette Albertone. “E chi ce l’ha un fratello di nome Filippino? Io ho una sorella soltanto, e per di più si chiama Vittoria Emanuela. Che fare?”

Torna all’agenzia Crono-Tours ed espone il suo problema al dottore di turno, il quale ci pensa un po’, interroga il calcolatore elettronico e telefona a sua zia. Poi dice: ― Vada pure a fare lo scontrino alla cassa.

Questa volta Albertone deve tornare indietro nel tempo di molti secoli, diventare amico del bis-bis-bis-bisnonno del suo bis-bis-bis-bisnonno, andare con lui in pellegrinaggio a San Jacopo di Compostella per aver occasione di dormire nella stessa osteria. Mentre dorme gli fa di nascosto un’iniezione e in seguito a questa iniezione la discendenza cambia un pochino per volta, tanto poco che nessuno se ne accorgerebbe. Però, quando dovrebbe nascere Vittoria Emanuela, al suo posto nasce invece un maschietto, al quale viene messo il nome di Filippo, con l’intesa di chiamarlo Filippino. Tutto ciò prende un po’ di tempo, ma quando Albertone fa ritorno ai giorni nostri, egli ha un fratello di nome Filippino, di anni trentasei, cuoco a bordo di un transatlantico e tuttora scapolo.

Albertone acchiappa la canna, corre a ponte Garibaldi, fa un lancio di tale eleganza che un tranviere, dal finestrino del filobus numero Quarantatre, gli grida: ―Bravo!

E intanto, naturalmente, egli recita la nuova parola d’ordine:


Pesce, pesciolino,

vieni da Filippino.

Macché. È come parlare al muro. Quell’altro, invece, pesca un’arborella, ma non si da neanche la pena di staccarla dall’amo: la lascia in acqua un altro momentino ed ecco che all’esca viva abbocca, secondo il suo costume, un magnifico luccio-perca, che di regola dovrebbe starsene a nord della diga dell’Enel e, se ha sceso il Tevere fino a queste latitudini, dev’essere stato solo per fare un piacere personale al pescatore fortunato.

― Non vale! ― grida Albertone, con una voce che provoca un ingorgo del traffico dall’Argentina a piazza Mastai. ― Mi chiamo Giorgio, come lei; di soprannome faccio Giuseppino, come lei; ho un fratello di nome Filippino, come il suo: e badi che per averlo ho dovuto sacrificare mia sorella Vittoria Emanuela, alla quale volevo tanto bene. E con tutto ciò i pesci mi schivano come se avessi la scarlattina. Non mi dirà che è cambiata ancora la parola d’ordine!

― Ma certo che è cambiata! Adesso si deve dire:


Pesce, pesciolino,

vieni da Fra’ Martino.


― E chi sarebbe questo Fra’ Martino?

― È mio cognato, che sta nei francescani e non ha tempo di venire a pescare perché deve girare per la questua.

― Adesso gliela do io la questua! ― grida Albertone.

Balza addosso al pescatore fortunato, lo solleva sopra il parapetto e lo scaglia nel Tevere, invano rimproverato da una maestra in pensione, che ha visto tutto da un finestrino del filobus numero Settantacinque e si affaccia ad esclamare, piena d’indignazione: ― Giovanotto, è questa l’educazione che le hanno insegnato a scuola?

Albertone non la sente. Non la vede nemmeno. Vede soltanto che laggiù, sotto il ponte, centinaia di pesci sollevano il pescatore fortunato e lo portano a riva, stando bene attenti che non si bagni la giacca. Purtroppo un’onda gli infradicia i calzoni, ma subito un pesce glieli asciuga col phon a batteria (nel Tevere non ci sono prese di corrente).

Il signor Giorgio Giuseppino viene su dalla scaletta, tutto sorridente, giusto in tempo per liberare Albertone dalla stretta di due guardie di Pubblica Sicurezza che lo stavano arrestando per lancio di pescatori dal ponte.

― Non è niente, ― spiega il signor Giorgio Giuseppino. ― È stato tutto uno scherzo con una piccola sfumatura di equivoco. Giochi da ragazzi, capiscono?

― Ma quest’uomo vi voleva affogare vivo!

― Macché affogare, via, non esageriamo! Garantisco per il signor Albertone e apro una sottoscrizione per comprargli una canna da pesca nuova, perché l’altra gli è caduta nel fiume.

Questo è vero. Albertone, per la rabbia, ha buttato la canna ai pesci, che ci stanno giocando al giavellotto.

Insomma, tutto si accomoda. Le guardie vanno al cinema, i passanti si disperdono in varie direzioni, la circolazione riprende il suo fatale andare e, mentre Albertone se ne sta lì ingrugnato e silenzioso a guardarsi i bottoni del panciotto, il signor Giorgio Giuseppino ricomincia a pescare.


Pesce, pesciolino,

vieni da Fra’ Martino.


E su pesci. Ormai vengono anche da Fiumicino per abboccare. Vengono dal mare, di corsa, cefali e triglie, sogliole e dentici, orate e spigole, ombrine, scorfani, tonni, sgombri, scambiandosi robusti colpi di testa e di coda per essere i primi a farsi prendere.

Per tirar su una verdesca, il signor Giorgio Giuseppino deve farsi aiutare da due tranvieri del Sessanta e da due baristi di piazza Sennino. Però, quando sbuca da dietro l’Isola Tiberina, lanciando festosi zampilli, un balenottero che sembra il cugino di Moby Dick, il signor Giorgio Giuseppino fa segno di no col dito e si rifiuta di pescarlo, dichiarando: ― Niente mammiferi! Solo pesci!

Albertone osserva e tace. È impazzito, ma non lo dice a nessuno, se no lo mettono al manicomio. Lo si può sempre vedere, su un ponte o sull’altro, di giorno o di notte, mentre spia pazzamente le acque del Tevere. Chi gli passa vicino lo sente borbottare:


Pesce, pesciolino,

vieni da Robertino...

Pesce, pesciolino,

vieni da Gennarino... vieni da Ernestino... da Goffredino... da Giocondino... da Caterino... da Teresino…da Avellino... dalla battaglia di Borodino…


Egli cerca la parola d’ordine alla quale dovranno finalmente obbedire i pesci, animali evasivi quant’altri mai. Non sente il sole d’estate. D’inverno non avverte la tramontana, quando scende dalla Val Tiberina a spazzare i ponti, e anche i cavedani, nelle acque gelide, vorrebbero avere indosso un cappotto di pelliccia e in testa un colbacco di astrakan. Egli cerca disperatamente la parolina giusta. Ma non sempre chi cerca trova.


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