Si svegliò prima che spuntasse l’alba, quando i primi uccelli incominciarono a cinguettare, e si avviò su per una collina, verso l’orto che stava sotto alla fattoria. Prese tre pannocchie di granturco, dissotterrò alcune patate, e poi scavò anche una pianta da macelleria e notò, con una certa soddisfazione, che portava quattro "bistecche".
Ritornò nel boschetto, e si frugò in tasca, fino a quando trovò la bustina di fiammiferi che lo sceriffo gli aveva permesso di tenere: l’unica cosa che gli aveva lasciato. L’aprì, e vide che c’erano rimasti solo tre fiammiferi.
Li guardò con aria grave, e pensò ad un giorno lontano, quando aveva dovuto superare gli esami di boy scout accendendo un fuoco con un solo fiammifero. Chissà se ci sarebbe riuscito ancora, adesso, si chiese, e ridacchiò a quel pensiero.
Trovò un tronco d’albero morto, e affondò le mani all’interno, ne tirò fuori qualche manciata di detriti secchi come polvere. Scelse dei ramoscelli morti. Raccolse alcuni pezzi di legna più grossi, sempre badando a scegliere quelli più secchi, perché il fuoco doveva produrre meno fumo che fosse possibile. Era molto più prudente non farsi notare.
Sulla strada, sopra di lui, passò la prima macchina della giornata, e in lontananza una mucca stava muggendo.
Il fuoco si accese al secondo fiammifero, e lui lo curò e lo alimentò, aggiungendo via via altri ramoscelli, e poi rametti un po’ più grossi, fino a quando poté aggiungere qualche pezzo di legno consistente. Il fuoco ardeva pulito, senza fumo; Blaine gli sedette accanto, ad aspettare che si riducesse ad un letto di braci.
Il sole non era ancora sorto, ma ad oriente la luce si faceva più viva, e regnava un senso di frescura, tutto attorno. Sotto di lui, il torrente scorreva chiaccherando sul suo letto di ciotoli. Blaine aspirò una profonda boccata d’aria mattutina: aveva un buon sapore.
Era ancora vivo, si trovava su di un terreno che apparteneva ad altra gente, e aveva il cibo necessario per saziare l’appetito… ma che cosa avrebbe fatto, dopo? Non aveva altro che un unico fiammifero, e gli abiti che portava addosso. E aveva una mente che lo avrebbe tradito… una mente, aveva detto la vecchia megera, che rifletteva. Sarebbe stato un bersaglio facile per qualunque spia, per qualunque scopritore che gli capitasse di incontrare per caso.
Poteva tenersi nascosto durante il giorno e camminare di notte; non sarebbe stato pericoloso andare in giro di notte, quando tutti gli altri se ne stavano chiusi in casa. Avrebbe potuto razziare orti e frutteti per trovare da mangiare. Poteva restare in vita, e percorrere qualche chilometro ogni notte: ma in questo modo avrebbe proceduto molto lentamente.
Doveva esserci un altro sistema, si disse.
Aggiunse legna al fuoco, che riprese ad ardere vivamente, ma senza fumo. Scese fino al torrente, si sdraiò sul ventre e bevve un po’ di quell’acqua canora.
Era stato un errore, si chiese, fuggire dall’Amo? Qualunque cosa potesse aspettarsi, da parte dell’Amo, la situazione in cui si trovava attualmente era probabilmente peggiore. Perché adesso lui doveva fuggire da tutti, e non aveva nessuno di cui potesse fidarsi.
Rimase disteso, a guardare il letto del torrente, a guardare i ciottoli… guardava un ciottolo in particolare, che era rosso e scintillava come un rubino. Prese quel ciottolo nella sua mente, e vide di che cosa era fatto, e la struttura dei suoi cristalli, e seppe da dove era venuto, rintracciò il suo vagabondare attraverso i millenni.
Poi lo gettò via dalla mente, e prese un altro ciottolo, un lucente pezzo di quarzo…
C’era qualcosa che non andava!
Lui non aveva mai fatto nulla del genere.
Eppure adesso lui lo stava facendo come se fosse la cosa più normale del mondo, qualcosa di cui non era affatto il caso di meravigliarsi.
Si risollevò, poi si accosciò sulla riva del torrente, con i suoi sensi umani colti dallo sbalordimento, e tuttavia non completamente sbalorditi… perché lui era sempre lo stesso, indipendentemente da ciò che poteva essere.
Cercò di nuovo l’alienità, e non c’era; non si rilevava, ma lui sapeva che era presente. Era ancora lì; e lui lo sapeva, con il suo bagaglio di ricordi senza senso, con le sue bizzarre facoltà, con la sua logica pazzesca ed i suoi valori sovvertiti.
Mentalmente, vide una strana schiera di figure geometriche purpuree che avanzava attraverso un deserto d’oro puro, con un sole rossosangue liberato in un cielo di zolfo: e non si vedeva null’altro. E in quel momento fuggevole conobbe l’ubicazione di quel posto e il suo significato, e le coordinate di un fantastico sistema cosmografico che avrebbe potuto condurlo là. Poi tutto scomparve… le figure e la conoscenza.
Si rialzò, lentamente, e ritornò al suo fuoco, e questa volta trovò un letto di braci. Cercò un lungo stecco e se ne servì per scavare un buco tra le braci, e vi mise le patate e le pannocchie ancora avvolte nelle foglie, e con lo stecco le ricoprì di braci. Poi strappò un ramo verde da un alberello, e l’adoperò come spiedo per cuocere una delle "bistecche".
E mentre se ne stava acquattato vicino al fuoco, e ne sentiva il calore sul volto e le mani, provò una soddisfazione che sembrava stranamente fuori posto, la soddisfazione di un uomo che aveva ridotto le proprie necessità allo stretto indispensabile. E, con quella soddisfazione, venne una fiducia incrollabile che era altrettanto fuori posto. Gli sembrava di poter guardare davanti a sè e vedere che tutto sarebbe andato per il meglio. Ma non era prescienza. C’erano i proscopisti che possedevano la prescienza, o che sembravano possederla, ma lui non era proscopista. Era, piuttosto, come se lui potesse sentire, davanti a sè, lo schema di tutto ciò che andava bene, ma senza particolari specifici, senza la minima idea della forma o della direzione che avrebbe assunto il futuro. Soltanto una sicurezza, qualcosa che era affine alla semplice ed antiquata intuizione, un sentimento del futuro… ma niente di più.
La bistecca stava già sfrigolando, e lui sentiva l’odore delle patate arrostite. Ma andava tutto bene. Non c’era nulla, per il momento, che non andasse bene.
Ricordò Dalton, afflosciato nella poltrona, con il sigaro stretto tra i denti e i capelli in disordine, che si infuriava parlando della pianta da macelleria: un altro dei delitti compiuti dalla malignità dell’Amo ai danni dei commercianti. E cercò di ricordare da quale pianeta di quale sole era venuta la pianta da macelleria, e gli sembrava di conoscere quel nome, anche se non riusciva a ricordarlo veramente.
La pianta da macelleria, pensò: e quante altre cose? Quale sarebbe stato il risultato complessivo, se avesse fatto la somma di tutti i contributi dati dall’Amo all’umanità?
C’erano i farmaci, tanto per incominciare, una farmocopea completamente nuova, portata da altre stelle, per alleviare e guarire i mali dell’Uomo. E. come risultato, tutti i vecchi malanni, tutti i morbi dell’umanità venivano tenuti a bada. Fra un’altra generazione, o al massimo, fra due generazioni, persino il concetto di malattia sarebbe stato spazzato via dalla lavagna dell’umanità. La razza umana sarebbe stata una razza di esseri sani nel corpo e nella mente.
C’erano le nuove fibre tessili e i nuovi metalli e molti cibi diversi. C’erano nuove concezioni architettoniche, e materiali nuovi; c’erano i nuovi profumi, letterature stranissime, principi alieni applicabili all’arte. E c’era il dimensino, un mezzo di svago che aveva sostituito tutti gli spettacoli tradizionali degli umani, il cinema, la radio e la televisione.
Nel dimensino non ci si limitava a vedere e ad udire: si partecipava. Si diventava parte della situazione rappresentata. Ci si identificava con uno dei personaggi, o con più di uno, e si viveva l’azione e l’emozione. Per un certo tempo, si cessava di essere se stessi: si diventava la persona prescelta nel dramma creato dal dimensino.
Quasi tutte le case avevano una sala del dimensino, attrezzata con l’apparecchio che captava gli strani impulsi alieni, mediante i quali tu ti trasformavi in qualcun altro… che ti toglievano dalla banalità quotidiana, dal tran-tran dell’esistenza normale, e ti lanciavano in un avventura pazzesca, o in una situazione bizzarra, in luoghi esotici e in avvenimenti fantastici.
E tutto questo, il cibo, i tessili, il dimensino, erano monopolio dell’Amo.
E per tutte quelle cose, pensò Blaine, l’Amo si era attirato l’odio della gente… l’odio di coloro che non capivano, di coloro che si sentivano esclusi e nello stesso tempo si vedevano aiutati come mai un’unica organizzazione aveva aiutato la razza umana.
La bistecca era ormai cotta, e Blaine appoggiò il ramoscello verde che la reggeva contro un cespuglio, mentre frugava fra le braci per ripescare le patate e le pannocchie.
Sedette accanto al fuoco e mangiò, mentre il sole si levava all’orizzonte e la brezza si spegneva lentamente e il mondo, sulla soglia di un altro giorno, sembrava trattenere il respiro. Il primo raggio di sole filtrò attraverso i rami degli alberi, trasformando le foglie in monete d’oro, e il ruscello sembrò smorzare il proprio chiaccherio, mentre prendevano il sopravvento i suoni del giorno: il muggire del bestiame sulla collina sovrastante, il ronzio delle macchine che passavano per la strada, il rombo lontano di un aereo che sorvolava la zona, altissimo.
Sulla strada, accanto il ponte, un camion chiuso rallentò e si fermò. Il camionista scese e alzò il cofano, e si piegò a guardare il motore. Poi si scostò e ritornò in cabina. Restò lì a cercare, fino a quando ebbe trovato ciò che gli interessava, poi ridiscese. Depose una cassetta di utensili sul parafango, l’aprì, e il tintinnio dei ferri salì, nitido, su per la collina.
Era un camion vecchissimo: aveva le ruote e il motore a benzina, ma aveva anche un sistema supplementare di getti. Non erano rimasti molti veicoli come quelli, ormai, se non presso i demolitori.
Un operatore indipendente, si disse Blaine. Tirava avanti meglio che poteva, cercando di fare concorrenza alle grandi aziende di autotrasporti grazie ai prezzi più bassi, cercando di risparmiare in tutti i modi possibili e immaginabili.
La vernice della carrozzeria s’era sbiadita, e in molti punti s’era scrostata: ma vi erano dipinti, a colori freschi e vivaci, complicati talismani e segni cabalistici che, senza dubbio, avevano la funzione di tener lontani i pericoli del mondo.
Il camion, notò Blaine, aveva una targa dell’Illinois.
L’uomo allineò i suoi ferri, poi tornò a infilarsi sotto il cofano. Il rumore delle martellate e lo stridere dei bulloni ostinati e arrugginiti salì su per la collina.
Blaine finì di fare colazione. Erano rimaste due bistecche e due patate, e le braci si stavano annerendo. Rimescolò le braci, vi aggiunse altra legna, infilò le due bistecche sul ramoscello e le arrostì con cura.
Sotto il cofano, il camionista continuava a martellare e fare stridere i bulloni. Ne uscì fuori un paio di volte, per riposare, poi riprese il lavoro.
Quando le bistecche furono cotte, Blaine si mise in tasca le due patate e scese la collina, reggendo le bistecche infilate al ramoscello come se portasse una bandiera da combattimento.
Quando sentì il suono scricchiolante dei suoi passi sulla ghiaia, il camionista uscì da sotto il cofano e si voltò verso di lui.
«Buongiorno», disse Blaine, cercando di mostrarsi il più possibile allegro. «L’ho vista quaggiù, mentre stavo facendo colazione».
Il camionista lo fissò con aria sospettosa.
«Mi era rimasto qualcosa», disse Blaine, «e così l’ho cucinato per lei. Ma forse ha già mangiato».
«No, non ho ancora mangiato», disse il camionista, con un certo interesse. «Avevo intenzione di fermarmi nel paese che c’è più indietro, ma era ancora tutto chiuso».
«Beh, allora», disse Blaine e gli tese il fuscello sul quale erano infilate le due bistecche.
L’uomo prese il fuscello e lo tenne, come se avesse paura di venir morsicato. Blaine si frugò nelle tasche, e tirò fuori le due patate.
«Avevo anche un po’ di granoturco», disse, «ma l’ho mangiato tutto. Erano solo tre pannocchie».
«Vuol dire che mi dà tutta questa roba?»
«Certamente», disse Blaine. «Però, può anche tirarmela in faccia, se non va».
«Mi farebbe molto comodo», dichiarò. «Il paese più vicino è a cinquanta chilometri da qui, e con questo aggeggio», e indicò il camion, «non so proprio quando ci arriverò».
«Non c’è sale», disse Blaine. «Però anche senza sale non è poi tanto malaccio».
«Beh», fece l’uomo, «visto che lei è così gentile…»
«Si sieda», disse Blaine. «E mangi. Che è successo al suo motore?»
«Non saprei. Dovrebbe essere il carburatore che non va».
Blaine si tolse la giacca e la ripiegò con cura, poi la depose sul parafango. Si arrotolò le maniche.
L’uomo andò a sedersi su di una grossa pietra sull’orlo della strada e incominciò a mangiare.
Blaine prese una chiave inglese e salì sul paraurti.
«Ehi», fece l’uomo, «dove ha preso questa roba?»
«Sulla collina», disse Blaine. «Ce n’erano un mucchio».
«Vuol dire che l’ha rubata?»
«Beh, che cosa farebbe, lei, se fosse senza lavoro e senza quattrini e se stesse cercando di arrivare a casa?»
«E da che parte sta?»
«Nel Sud Dakota».
L’uomo addentò un grosso pezzo di bistecca e si riempì la bocca al punto che non ce la fece più a parlare.
Blaine si infilò sotto il cofano, e si accorse che il camionista aveva staccato tutti i bulloni che tenevano fermo il carburatore, tranne uno. Lavorò di chiave inglese, e il bullone protestò con uno stridio metallico.
«È tutto arrugginito», disse il camionista, che aveva tenuto d’occhio i movimenti di Blaine.
Blaine riuscì finalmente a liberare il bullone, e prese fuori il carburatore. Reggendolo, andò a sedersi accanto all’uomo che continuava a mangiare.
«Tutto il camion sta per andare a pezzi da un momento all’altro», disse quello. «Non che sia mai stato gran che. Ha piantato grane per tutto il viaggio. Finirò per arrivare con un ritardo dell’accidente».
Blaine trovò una chiave inglese più piccola, adatta ai bulloni del carburatore e cominciò a lottare con le viti.
«Ho provato a viaggiare di notte», disse il camionista. «Ma non fa per me. Non dopo che ci ho provato, la prima volta. Troppo pericoloso!» «Ha visto qualcosa?»
«Se non fosse stato per quei segni che ho dipinto sul camion, non me la sarei cavata. Ho un fucile, ma non serve a niente. Non posso guidare e tenere il fucile nello stesso tempo».
«E probabilmente servirebbe a ben poco anche se riuscisse a farlo».
«Le dirò», disse il camionista, «sono organizzato a dovere. Ho una tasca piena di cartucce caricate a pallettoni d’argento».
«Ma costano care, no?»
«Sicuro. Ma bisogna organizzarsi».
«Già» disse Blaine. «È vero».
«Ogni anno che passa», dichiarò l’uomo, «la situazione peggiora. C’è quel predicatore, lassù, al nord».
«Ho sentito dire che ci sono parecchi predicatori».
«Oh, sì, un mucchio. Ma non sanno fare altro che parlare. Questo, invece, è deciso ad agire».
«Ecco fatto», disse Blaine, allentando l’ultimo bullone. Aprì il carburatore e guardò all’interno.
«Ecco qui il guaio», disse.
L’uomo si chinò a guardare nel punto che Blaine gli stava indicando.
«Mi venga un accidente se non è vero», disse.
«Fra un quarto d’ora l’avrò riparato e rimesso a posto. Se ha un po’ d’olio, possiamo lubrificare ig passo delle viti».
Il camionista si alzò, si asciugò le mani sul fondo dei pantaloni.
«Vado a vedere», disse.
Si incamminò verso il camion, poi si fermò e si voltò, tendendo la mano.
«Mi chiamo Buck», disse. «Buck Riley».
«Blaine. Può chiamarmi Shep».
Si strinsero la mano.
Riley rimase lì, indeciso, strascicando i piedi.
«Hai detto di essere diretto verso il Dakota». Blaine annuì.
«Io finirò per diventare matto», disse Riley. «Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti».
«E potrei aiutarti?» chiese Blaine.
«Saresti disposto a guidare di notte?»
«Sì, che diavolo», disse Blaine.
«Ma avrai bisogno di dormire un po’».
«Ci arrangeremo anche per questo, in un modo o nell’altro. Dobbiamo viaggiare senza soste. Ho già perduto anche troppo tempo».
«Vai dalle parti del Sud Dakota?»
Riley annuì.
«Allora, vieni con me?»
«Con grande gioia», disse Blaine. «È molto meglio che arrivarci a piedi».
«E potrai guadagnarti qualche soldo. Non molto, ma…»
«Non parliamo di quattrini. A me basta il passaggio».