11

La navetta era in cima ai ventiquattro chilometri del Monte Olimpo.

— E non intendo sentirmi in colpa per il fatto di essere felice — continuò Doris.

— Sì, certo — disse lui.

Le notizie provenienti dalla Terra erano cattive. All’ovest i terristi guadagnavano terreno sempre più. I preziosi impianti spaziali delMINESPOVerano sotto assedio, ed erano collegati con il mondo solo da un ponte aereo. Correva voce che fosse opportuno evacuare ilMINESPOVper concentrare la difesa all’est. Se ilMINESPOVfosse stato abbandonato, tutti i suoi preziosi impianti avrebbero dovuto essere distrutti. Sarebbe stato uno spreco terribile. Inoltre, scomparso ilMINESPOV,sarebbe bastato colpire il centro di Houston per lasciare ilMINESsenza il modo di comunicare con le sue navi nello spazio. J.J. segnalò che non rinunciassero a nessun costo alMINESPOV.

IlMINESaveva naturalmente il controllo della Luna, dove era stato installato un posto di comando. Per compensare la possibile perdita delMINESPOV, eranostate lanciate da Cape Canaveral delle potenti apparecchiature di comunicazione, e adesso la Kennedy poteva comunicare direttamente col posto di comando sulla Luna.

Dom si meravigliò di scoprire che J.J. era considerato da quelli che erano sulla Luna una persona molto potente e importante. J.J. riceveva regolari rapporti sulla situazione.

Nonostante la situazione sulla Terra fosse drammatica, era incoraggiante il fatto che la grande maggioranza della gente si limitasse tuttora a stare a guardare senza prendere posizione. Entrambe le parti in lotta diventavano agnellini quando si trattava di ingraziarsi il popolino. I profughi provenienti dalle zone di battaglia vivevano con più lussi della maggior parte dei cittadini che non erano dovuti fuggire dalle loro case. Sia il governo sia i terristi dividevano il loro cibo, i loro rifornimenti e le loro attrezzature mediche con i profughi. Le forze armate e ciò che restava del governo erano riusciti a impadronirsi di vasti depositi di materiali e di viveri, ed erano meno stressati dei ribelli.

A volte i combattimenti erano violenti e sanguinosi, ma la vera battaglia si combatteva nella mente delle masse che non avevano ancora preso posizione. La propaganda che proveniva dalle due parti in lotta prometteva un futuro di latte e miele.

Dom sapeva benissimo cosa intendesse Doris col discorso del sentirsi in colpa. Mentre il mondo si trovava davanti a una crisi gravissima, lui passava i giorni più felici della sua vita lì su Marte. Quando non erano impegnati col turno di guardia, lui e Doris erano liberi di andare in esplorazione: la gita in cima al Monte Olimpo era solo una delle molte escursioni che avevano fatto in attesa che tutta l’acqua della stiva fosse scaricata.

Poiché le navette erano a propulsione solare, non era dispendioso viaggiare. Dom era stato innumerevoli volte su Marte, e sapeva quali erano le ore migliori dal punto di vista delle ombre e delle luci per vedere l’enorme canyon. Sapeva anche qual era il punto più panoramico in cima al Monte Olimpo e quando c’era andato con la moglie quello spettacolo a lui noto gli era piaciuto forse di più per via della contentezza che aveva mostrato Doris.

Durante il periodo di attesa parlarono anche con l’equipaggio della Callisto Explorer, che aveva visto la nave aliena tuffarsi nell’atmosfera di Giove. Quegli uomini avevano visto la nave e udito i deboli segnali che venivano ancora trasmessi dall’interno dell’atmosfera gassosa dell’enorme pianeta. Mentre era di guardia, Dom poté parlare direttamente con la nave radar che stava nelle vicinanze di Giove apposta per captare i segnali. Mentre si manteneva in ascolto, la nave pattuglia prendeva campioni di atmosfera dei satelliti più grandi di Giove. Dom parlò spesso con l’altro Comandante.

Il segnale era troppo debole per poter essere raccolto dai ricevitori della Kennedy, ma la nave pattuglia riuscì a trasmetterlo a mezzo di relè. Dom fece dozzine di registrazioni per studiarselo. Gli alieni trasmettevano su una delle frequenze naturali, ovvero sui 1420 megahertz. Il segnale era semplice e breve, così breve che era difficile pensare di decodificarlo. Tuttavia Dom si sentiva più vicino alla meta, adesso che attraverso la nave pattuglia era riuscito a sentire anche lui il messaggio degli alieni.

Parlando con l’equipaggio della nave pattuglia, Doris rimase impressionata dalle parole di un giovane spaziale.

— Quando ci siete vicini — disse — il pianeta inghiotte tutto lo spazio e giganteggia talmente sopra la vostra testa, che vi svegliate coi sudori freddi pensando che stia per precipitarvi addosso.

Tutti quelli che erano stati vicini a Giove erano rimasti impressionati dalla mole del pianeta.

Una delle cose che a Dom piacevano di più di Marte era il senso di solidarietà che caratterizzava la gente della base. Tutti avvertivano la cordialità di quella popolazione, e tutti ne partecipavano: i visitatori temporanei, gli spaziali, i coloni stabili, gli scienziati. L’asprezza del suolo, i milioni di chilometri che separavano il pianeta dalla Terra, lo strano aspetto del Sole, che nel cielo era due terzi più piccolo di come appariva visto dalla Terra, erano tutti elementi che contribuivano a far sentire le persone più vicine l’una all’altra. Nonostante le guardie armate che circondavano costantemente la Kennedy, era difficile credere che la guerra che si svolgeva sulla Terra potesse avere un’influenza su Marte. Dom era convinto che se un fanatico terrista avesse potuto infiltrarsi nella marina spaziale e arrivare fino a Marte, poi sarebbe rimasto colpito dal senso di serenità e di collaborazione condiviso da tutti gli spaziali, e avrebbe dimenticato le sue idee per diventare solo uno spaziale. Quanto si sbagliasse fu dimostrato dal tentativo di attaccare una mina al quarto razzo di sinistra della Kennedy, attentato effettuato da uno spaziale soldato semplice che aveva alle spalle dodici anni di servizio. Colto in flagrante, l’uomo trascinò con sé nella morte due marines spaziali. I tre cadaveri furono portati nel piccolo cimitero della stazione di Marte.

Quell’incidente turbò un po’ la gioia e la felicità che Dom sentiva da quando Doris gli aveva detto di sì quella notte, nella sala di controllo. Pensare che le follie della Terra potessero contaminare Marte gli dava un senso di depressione. Fu contento quando la stiva fu richiusa e pressurizzata e la Kennedy fu di nuovo pronta a partire.

La parte più lunga del viaggio era ancora da venire. Avevano percorso circa la metà di un’unità astronomica per raggiungere Marte, ovvero la metà della distanza tra la Terra e il Sole: in una parola, circa settantacinque milioni di chilometri. La distanza tra Marte e Giove era di circa tre unità astronomiche e tre quarti, vale a dire qualcosa come cinquecentottanta milioni di chilometri. Quando si cominciava a pensare a cifre del genere, la mente tendeva a rifiutare l’idea di uno spazio così vasto, e a pensare al viaggio in termini di mesi. A Dom piaceva ricordare che i pionieri avevano impiegato, per andare con le carovane dal Midwest alla costa del Pacifico quanto ci impiegava adesso una nave per andare dall’orbita di Marte a quella di Giove. La Kennedy, col suo potere illimitato d’accelerazione, era ottima per le grandi distanze. Riusciva a guadagnare velocità in fretta, aveva un’elevata velocità di crociera, e rallentava più in fretta delle navi tradizionali.

Dopo un’accurata ispezione della nave, che venne effettuata anche se nessun uomo dello staff di Marte era salito a bordo, tutti quanti tornarono alla comoda routine che si era stabilita durante le ultime settimane del viaggio verso Marte. I motori di Jensen spinsero, e poi si riposarono. L’accelerazione continuò fino a ben oltre metà strada. Vicino a Giove era ancora in ascolto una nave pattuglia, e chi era di turno sull’una o sull’altra nave fu felice di trovare compagnia nella vastità dello spazio, e di parlare usando a volte così poca energia da non trasmettere nemmeno fino alla Terra quello che veniva detto in modo molto informale.

Al momento di rallentare la nave, Neil e Jensen operarono il dietro front e la spinta d’inversione cominciò a opporsi alla spinta in avanti.

Sulla Terra, la situazione era piuttosto stabile, pur nella sua gravità. La linea di difesa Chicago-Corpus Christi teneva, e ilMINESPOVnon si arrendeva. La propaganda infuriava ancora, e le masse cominciavano a far sentire la loro voce per mancanza di cibo e di beni di consumo. Alcune delle battaglie più sanguinose erano state combattute nella fascia coltivata a grano delle grandi pianure. Grandi aree di terreno agricolo fertile erano state devastate, e sarebbe stato sicuramente difficile seminare per i raccolti di primavera.

Non era più possibile liquidare con una semplice frase di disprezzo il senatore del New Mexico, perché si era rivelato lui l’uomo al comando delle forze radicali, e adesso lo si citava per lo più col suo nome e cognome: John V. Shaw. Si era dimostrato non solo un abile organizzatore, ma anche un brillante tattico in campo militare. Shaw stava predicando alle masse il vangelo della rivolta, prometteva di ritirare dallo spazio tutti i fannulloni che lo popolavano, di eliminare le astronavi trasformandole in terreno coltivabile capace di produrre cibo, di dare alla popolazione una nuova forma di libertà. Quale, ancora non era chiaro. Era chiaro invece che il messaggio del senatore diventava sempre più attraente per le masse, a mano a mano che il cibo diventava sempre più scarso.

L’equipaggio della Kennedy era convinto che fosse solo una questione di tempo, e che prima o poi milioni di persone affamate si sarebbero convertite alla causa di Shaw. La fame è la cosa che più di ogni altra rende la gente schiava di chi promette, e vasti segmenti dell’est metropolitano si sarebbero trovati ad affrontare la carestia col sopraggiungere dell’inverno. Il momento era critico. J.J. disse che bisognava portare a termine in fretta la missione, e cercare di tornare sulla Terra per il periodo di Natale.

— Credo che tu sia un po’ troppo ottimista, J.J. — disse Dom. — In questo modo concedi troppo poco tempo alla discesa nell’atmosfera, all’individuazione della nave, e al suo salvataggio.

— Ce la faremo — disse J.J.

— È un pianeta molto grande — disse Art.

— Potremo stabilire la direzione basandoci sul segnale radio — disse J.J. — Non sarà difficile localizzare la nave.

— C’è sempre qualche difficoltà nelle situazioni nuove — disse Neil. — Tenete a mente che ci troviamo a bordo di una nave non ben collaudata, e in una situazione estremamente delicata.

— Che importanza ha il collaudo in un caso del genere? — disse J.J. — È una faccenda molto semplice. O ce la fa, o non ce la fa. Nell’atmosfera ci deve penetrare, questo è chiaro. Dovrebbe andarci comunque, se si volesse collaudare lo scafo, quindi perché stare tanto a cincischiare? Ci andiamo, e basta. Se la nave non imploderà, riusciremo anche a tornare fuori. Perché preoccuparsi?

— È facile a dirsi — disse Ellen.

— Non entreremo nell’atmosfera senza avere prima collaudato lo scafo — disse Dom, deciso. J.J. lo guardò. — Non intendo abbassarmi al livello dei terristi, J.J. — disse Dom. — Alla mia vita do un valore. Do un valore a tutte le vite che sono a bordo di questa astronave. Perciò cacceremo il naso dentro, valuteremo l’efficacia della pressurizzazione dello scafo, e poi avanzeremo per gradi.

— E se non sarai soddisfatto di qualcosa? — disse J.J.

— La decisione spetterà a me — disse Dom. — Mi prenderò io la responsabilità.

— Mi chiedo solo se varrebbe la pena tornare, se fallissimo — disse J.J.

— È umano aggrapparsi alla vita anche quando non c’è alcuna speranza — disse Dom.

— Specie per uno come te che si è appena sposato — disse J.J.

Dom guardò J.J. dritto negli occhi. — Mi offendi, J.J. La mia vita privata riguarda solo me, almeno finché non mi trattiene dal compiere il mio dovere. Ti sfido a trovare anche un solo esempio di mancanza da parte mia: i miei fatti privati non hanno mai influenzato le mie decisioni, né mi hanno mai allontanato dal compimento dei miei doveri.

— Scusami, Flash — disse J.J. — Sono preoccupato, ecco tutto.

— Lo siamo tutti — disse Doris.

Dom mise al lavoro l’equipaggio su prove di funzionamento riguardanti la prossima discesa. Era un po’ presto per farlo, ma stavano diventando nervosi, e le prove servivano a tenerli occupati. Non concesse più neanche un attimo alla sua privacy. Dom e Doris evitarono accuratamente di stare da soli, come per dimostrare agli altri che il loro matrimonio non aveva influenzato in alcun modo il loro rendimento.

Tre giorni prima di entrare in orbita attorno al gigante gassoso, la Kennedy captò il segnale della nave aliena. Pareva un miracolo che quel segnale ci fosse ancora e che avesse la stessa intensità di molti mesi prima, quando la Kennedy si limitava ad essere ancora un sogno e un insieme di dati contraddittori nel computer delMINESPOV. Il fatto che la nave fosse ancora là a inviare segnali rinforzava la teoria secondo la quale si sarebbe trovata intrappolata nell’atmosfera di Giove, e sarebbe stata incapace di sfuggire al campo gravitazionale del pianeta gassoso.

— Se c’è qualcuno a bordo di essa — disse Art — sarà felice di vederci.

Nei giorni precedenti l’entrata in orbita, Doris fu molto indaffarata col computer. Controllò e ricontrollò tutti i dati. Il compito di mettere la nave in orbita e poi di farla scendere con grande delicatezza nell’atmosfera spettava a Doris. I dati forniti dal computer di bordo dovevano essere più che esatti, per dare le informazioni giuste ai meccanismi automatici e a Neil.

Superarono l’ultima nave pattuglia e ricevettero gli auguri di buona fortuna dall’equipaggio. Dal punto di vista delle distanze spaziali, erano praticamente porta a porta con la nave pattuglia, ma ne erano ugualmente abbastanza lontani da non vederla. L’altra nave sarebbe rimasta in orbita a osservare la Kennedy scendere.

Ormai erano agli sgoccioli. La massa di Giove copriva metà dello spazio. I satelliti erano visibili a occhio nudo. La nave si mosse rapidamente attorno al pianeta, sopportando le sue radiazioni, il suo campo elettrico, la sua gravità. La Kennedy mostrò di funzionare perfettamente.

A causa della velocità di rotazione di Giove e della sua potente forza di gravità, la Kennedy sarebbe dovuta penetrare nell’atmosfera in fretta, molto in fretta. L’energia avrebbe dovuto essere costante, per controbilanciare la forza di gravità. Dopo che furono effettuate le prove dell’ultimo minuto, non ci furono più ordini formali. Il computer stabilì il momento e Neil non toccò nemmeno i comandi, quando la nave cominciò a scendere a spirale.

La Kennedy era minuscola vicino alla massa immensa del pianeta, una massa che era due volte e mezzo più pesante di quella di tutti gli altri pianeti del sistema solare messi assieme. L’astrocisterna procedette verso il pianeta, con l’energia e la velocità di discesa regolate dal computer di Doris. L’equipaggio ebbe la sensazione di cadere in un inferno di brillante fuoco giallo mentre orbitava dalla parte del Sole, e cominciò a vedere a occhio nudo il gigantesco uragano della zona tropicale sud, che soffiava da secoli alla velocità di molte centinaia di chilometri all’ora.

I gradienti del vento negli strati di atmosfera erano tremendi, e la massa minuscola dell’astronave era scossa pesantemente dalla turbolenza atmosferica. Mentre la nave scendeva sempre di più, ciascun membro dell’equipaggio era perfettamente consapevole che se l’energia fosse venuta meno, la Kennedy sarebbe stata afferrata dall’intensa forza gravitazionale, che era tre volte quella della Terra, e che la pressione fuori si sarebbe accumulata paurosamente. La nave, trascinata inesorabilmente in giù, avrebbe attraversato una zona di cristalli d’ammoniaca ghiacciata, poi una zona di ammoniaca liquida e infine la zona di composti colorati che davano all’atmosfera il suo caratteristico colore giallo. Nella loro tragica corsa in giù sarebbero passati accanto a cristalli di ghiaccio e poi a una zona di vapore acqueo, e sarebbero morti tutti prima ancora che i resti schiacciati della nave precipitassero in una zona di idrogeno liquido molecolare. Poi, quando la pressione fosse arrivata a tre milioni di atmosfere, quel che fosse rimasto della nave sarebbe passato in una zona di transizione fra l’idrogeno liquido molecolare e l’idrogeno liquido metallico, e la temperatura sarebbe salita, fondendo i resti della Kennedy e i resti ancora più insignificanti del suo equipaggio terrestre.

Su un modello di pianeta grande quanto una mela, la zona operativa della Kennedy poteva essere rappresentata dallo spessore della buccia del frutto. Sotto quel sottilissimo strato operativo c’erano l’immediata implosione dello scafo e la morte.

Quant’era grande quel mostro! Era psicologicamente soffocante. Ingoiava tutto lo spazio che si vedeva dagli oblò. Aveva il peso di una stella mancata, e una massa incredibile. Quando la Kennedy si girò, quell’immenso disco giganteggiò sopra di essa, e l’equipaggio provò un senso di stordimento. Ellen si coprì gli occhi con le mani quando il gigante gassoso venne loro incontro con la sua pressione, la sua gravità, le sue scariche elettromagnetiche. La Kennedy arrivò vicino all’orbita del satellite più interno, Amaltea. Adesso Amaltea era sopra di loro e un po’ più avanti rispetto a loro, e la nave si trovava tra l’orbita del satellite e lo strato più esterno di nubi. D’un tratto ci fu una grande scarica di elettricità che illuminò la zona tra il satellite e il pianeta; nel vuoto era silenziosa, ma brillante e terribile, e se la nave ne fosse stata colpita le conseguenze sarebbero state fatali. Ancora una volta, mentre Dom tratteneva il fiato, una tremenda scarica illuminò la zona tra il pianeta e il satellite.

— Credo che stia cercando di dirci qualcosa — disse Neil, con voce da cui trapelavano fascino e sgomento.

— Il vecchio Giove, dio dei fulmini — disse J.J. — sta dicendo: Osservate la mia potenza, volgari mortali, e guardatevi da me.

— Non sapevo che avessi un’ anima poetica — disse Dom.

Dom era turbato dalla grandezza di Giove. Il pianeta era là sopra le loro teste, immenso, mentre la Kennedy continuava a scendere misurando le proprie forze. I sensori dello scafo cominciarono a riconoscere la presenza delle prime lievi tracce di atmosfera. La Kennedy si stava comportando bene. Gli strumenti lavoravano e misuravano e fornivano indici di riferimento, e il computer ronzava. Molecole sparse di ammoniaca ghiacciata produssero una graduale diminuzione della visibilità. La Kennedy continuò a scendere in uno scuro mare di cristalli, che lo scafo scioglieva. La temperatura stava salendo, ma rientrava perfettamente nei livelli operativi.

— Mettetela in orizzontale — disse Dom quando la pressione fuori diventò quella di un’atmosfera terrestre.

Neil tolse il pilota automatico, per sentire di più la nave in caso ci fosse stato un guasto ai sistemi. L’astrocisteraa era in un’orbita stazionaria, e la pressione era sui valori previsti.

Era il momento di collaudare una delle più importanti armi di battaglia che la Kennedy poteva sfoderare contro il gigante gassoso. Dom ordinò una pressione di due atmosfere nei reparti abitati. Sentì le orecchie fischiargli mentre la pressione si accumulava. Enormi pompe cominciarono a togliere aria pura dalla stiva e a fare entrare al suo posto l’atmosfera velenosa di Giove.

Soddisfatto che il sistema di pressurizzazione interno funzionasse a dovere, Dom ordinò di scendere fino ad avere un livellamento di pressione. Poi, ogni volta, il processo veniva ripetuto. In quell’atmosfera buia, la nave vedeva solo grazie agli strumenti e si teneva direttamente sopra la nave aliena, guidata dal suo segnale costante. Quel segnale e quella nave erano lo scopo di tutta l’impresa. Era stata la nave aliena ad attirarli fin lì, a determinare queill’ultimo disperato tentativo da parte dell’industria spaziale. Solo la nave aliena e il suo segnale giustificavano il costo della Kennedy, i rischi che si correvano, l’uso di materiali rari.

E il segnale cessò quando la Kennedy era già scesa fino a solo sei atmosfere.

Si fece un improvviso silenzio quando questo accadde, e di colpo la Kennedy parve diventare come un dinosauro: una cosa immensa senza più alcuno scopo.

— Controllare le apparecchiature — ordinò Dom.

— Tutto controllato — disse Doris.

— Controllo manuale — disse Dom. — Mantenete questa posizione.

Lui stesso fece un controllo manuale del ricevitore. Funzionava perfettamente. Un controllo radio con la nave pattuglia confermò loro che il segnale proveniente dalla nave aliena era cessato all’improvviso.

— Perdio — disse Dom — e siamo solo a metà strada. — Erano a metà strada per quanto riguardava la distanza, non la pressione. — Resteremo qui qualche ora. Forse ricomincerà.

Passarono quattro ore, durante le quali la nave funzionò alla perfezione. La nave aliena continuò a tacere.

— Forse ci hanno sentito arrivare e non vogliono compagnia — disse Doris.

— No, è cessato semplicemente — disse J.J. — E già molto che sia durato così a lungo. La nave è ancora là.

— Per quello che serve — disse Dom.

— Abbiamo la posizione — disse J.J. — Possiamo scendere esattamente sopra di essa.

— È del tutto improbabile — disse Neil. — I venti sono potenti, anche se non andiamo a vela ma a motore, e ci sposterebbero. Senza il segnale a guidarci, non potremmo che affidarci al caso, per raggiungerla.

— La discesa è calcolata dal computer — disse J.J. — Possiamo portare delle correzioni ai calcoli. Possiamo arrivare a qualche miglio dal punto e cercare.

— Se avessimo cent’anni a disposizione potremmo forse anche trovarla — disse Dom.

— Abbiamo tempo — disse J.J. — E inoltre abbiamo energia, aria e provviste.

— J.J., abbiamo costruito questa nave per restare a tremila atmosfere un lasso di tempo limitato — disse Dom. — Dopo dieci giorni comincerei ad avere paura dell’affaticamento metallico nell’incollaggio porridge.

— Va bene, abbiamo dieci giorni — disse J.J. — Se non altro usiamoli.

— Vorrei osservare che in questo caso esporremmo la nave e il suo equipaggio a un pericolo inutile — disse Neil. — Secondo me, procedere oltre dentro l’atmosfera è ormai inutile. Se ci fossi io solo a bordo porterei la Kennedy fino a tremila atmosfere, giusto per verificare l’efficacia del progetto, ma non sono solo. E una cosa è mettere a repentaglio la vita di un pilota collaudatore durante un volo di prova, un’altra mettere a repentaglio la vita di un intero equipaggio.

— Resteremo qui ancora per un’ora — disse Dom.

Fu un’ora carica di tensione, e quando terminò J.J. si mise a camminare su e giù per la sala di controllo con aria ingrugnita. Dom aveva passato l’ora lavorando con Doris, a cui aveva fatto fare una serie di controlli.

— J.J. — disse — se avessimo una probabilità su mille di trovare la nave la porterei giù, ma ho fatto i calcoli col computer, e le probabilità di trovarla sono una su un miliardo. Ho anche fatto alcuni calcoli sulle probabilità di sopravvivenza in caso si resti a lungo a tremila atmosfere. Dopo otto giorni, le probabilità che la nave non regga diventano troppe. Credo che noi serviamo più vivi che morti, e che la nave possa servire in futuro a fare la spola Marte-Terra. In una parola, sto dando l’ordine di riportarla su, fuori dall’atmosfera.

— Allora sono costretto a chiederti di rinunciare al comando — disse J.J.

— No — disse calmo Dom. — Sono io il Comandante. La nave l’ho costruita io, e conosco i suoi limiti.

— Non hai scelta — disse J.J.

— Come tuo superiore di grado, ti informo che il comando lo assumo io. Signor Walters, preparatevi a portare la Kennedy a tremila atmosfere.

— Con il dovuto rispetto, signore, mi rifiuto di obbedire — disse Neil. — Non sono d’accordo sul fatto che il Comandante Gordon debba essere destituito.

J.J. si trovava davanti a loro, e aveva le mani dietro la schiena. Si guardò i piedi e si spostò lentamente, tenendo le mani sempre dietro la schiena. Rimase a lungo così, girato quasi di profilo rispetto a loro, poi si voltò di scatto. In mano aveva una pistola, piccola ma micidiale. Era un’arma concepita per uccidere a distanza ravvicinata, in ambienti particolarmente delicati, come poteva essere quello di un’astronave. L’esplosione dei suoi proiettili multipli poteva essere fatale a chiunque si trovasse alla distanza di circa un metro, ma la forza impressa ai proiettili stessi non era sufficiente a produrre, per esempio, dei buchi nello scafo della nave.

— Mi dispiace di dover arrivare a questo — disse J.J. — Ma faremo il lavoro per cui siamo venuti.

— Non in questo modo — disse Dom.

— Non mi avete lasciato altra scelta.

— Siete uno contro sei — disse Neil. — Non potete stare all’erta in continuazione.

— J.J. — disse Dom — metti via quell’aggeggio. Se sei così convinto che si debba scendere, scenderemo. Siamo venuti fin qua di comune accordo. Scenderemo a tremila atmosfere di comune accordo.

— I miei più sinceri ringraziamenti — disse J.J.

— Pistola o no, resteremo a tremila atmosfere non più di sette giorni. Chiaro? — disse Dom.

— D’accordo — disse J.J.

— Sono d’accordo tutti? — chiese Dom. — Portiamo la nave a tremila atmosfere perché faccia quello che era venuta a fare, invece di correre il rischio che qualcuno venga ucciso nel tentativo di opporsi alla volontà di J.J.

Gli altri si dissero d’accordo.

— Ciascuno ai suoi posti — disse Dom. — Scendiamo. Non torneremo che con alcuni milioni di metri cubi di atmosfera di Giove nella stiva, ma voglio fare di tutto perché si torni sani e salvi.

Scesero piano e con cautela. L’equipaggio lavorò come niente fosse: l’incidente che aveva avuto a protagonista J.J. sembrava dimenticato. Dom dovette ammettere in cuor suo che non aveva mai cessato di desiderare di scendere a tremila atmosfere. Mentre la nave si avventurava in una zona dove l’uomo non era mai stato, Dom aveva quasi la sensazione di avvertire tangibilmente la pressione che si esercitava sullo scafo. La Kennedy procedeva con costanza, scossa da venti che soffiavano a centinaia di miglia l’ora, e difesa da essi soltanto dalla forza bruta della propulsione nucleare. Solo una volta la nave subì una deviazione a causa del vento, ma gli automatismi intervennero subito per compensare l’errore di rotta.

I sensori dello scafo denunciavano i cambiamenti nell’atmosfera. L’ammoniaca ghiacciata diventò ammoniaca liquida, poi la nave arrivò nella zona dei composti gialli. La pressione continuava inesorabilmente ad accumularsi. A duemila atmosfere l’aria dentro la nave sembrava viscosa, pesante, opprimente. Ma la Kennedy reagiva bene alle incredibili forze che le si opponevano, le giunzioni fatte con l’incollaggio porridge funzionavano come previsto, gli strumenti registravano che in tutte le zone dello scafo si era ancora abbondantemente entro i limiti di sicurezza.

La nave cominciò a emettere segnali, cercando di ottenere in risposta quello della nave aliena, ma non trovò altro che un’ atmosfera sempre più densa. Il pericolo che stava laggiù, sotto la Kennedy, andava oltre ogni immaginazione. La distanza coperta dalla nave orbitante alla velocità di una rotazione rapida non era certo un fattore che facilitasse la salvezza.

I venti di Giove soffiavano contro lo scafo con immensa furia. E la gravità del pianeta era sempre in agguato, pronta ad afferrare la Kennedy in caso l’energia fosse venuta a mancare, e ad attirarla verso il nucleo del pianeta.

I reparti abitati della nave si trovavano adesso fra due pressioni, quella dell’atmosfera esterna, e quella dell’atmosfera di Giove raccolta nella stiva. La Kennedy aveva moltiplicato il proprio peso incamerando i gas gioviani, ma i motori nucleari non ne avevano risentito minimamente.

A tremila atmosfere Neil cominciò a cercare l’Ufo, andando su e giù con la nave sempre alla stessa altitudine.

Un’analisi preliminare dell’atmosfera a quel punto rivelò la presenza di un’interessante serie di composti di idrogeno e carbonio, sicché fu confermata l’ipotesi secondo la quale gli strati gialli di Giove dovevano essere costituiti da quel genere di materia. Perché si potessero prendere campioni puri dello strato giallo, la stiva fu vuotata dell’ammoniaca che era stata immessa al livello più alto.

La ricerca continuò senza successo. J.J. si preoccupò personalmente che venissero scaricatiigas eiliquidi velenosi, e che nella stiva restasse solo il materiale raccolto a tremila atmosfere, nello strato giallo. Sembravastranamente allegro, nonostante il fatto, tutt’altro che confortante, della scomparsa della nave aliena, della quale non si trovava traccia. Quando J.J. fu sicuro che l’enorme stiva contenesse soltanto materiale dello strato giallo, entrò nella sala di controllo con un sorriso soddisfatto dipinto in viso.

— Flash, appena sei pronto puoi riportare la Kennedy a casa — disse.

C’erano voluti tre giorni terrestri per liberare la stiva e poi riempirla. — Abbiamo ancora qualche giorno — disse Dom.

— Abbiamo quello per cui siamo venuti — disse J.J.

Dom si chiese se non gli avesse dato di volta il cervello a causa dello stress. — Non vedo tracce di navi aliene nella stiva — disse.

— Non c’è nessuna nave aliena — disse J.J.

— Come dici, scusa? — disse Dom.

— Non c’è mai stata nessuna nave aliena — disse J.J. — Quel segnale veniva da una nave Explorer, una sonda automatica.

— A tremila atmosfere? — disse Dom guardando J.J. dritto negli occhi.

— A sole dieci atmosfere — disse J.J.

— Ma la nave pattuglia misurava… — cominciò Dom.

— Quello che i suoi strumenti erano destinati a misurare — disse J.J. — E le trasmissioni sono cessate dietro mio ordine.

— Mi sto sforzando di capire qualcosa del tuo discorso. — disse Dom cupo. Neil stava ascoltando con la fronte aggrottata. — Stai per caso dicendo — continuò Dom — che abbiamo costruito questa nave solo per venire qua a caricare un po’ di merda gioviana?

— Siamo venuti per vincere la guerra — disse J.J. — Allora, adesso che hai definito come credevi la roba presente nella stiva, proporrei di metterla a una pressione interna di duemila atmosfere e di tornarcene a casa.

— Sto aspettando una spiegazione — disse Dom.

— Hai mai letto la Bibbia? — disse J.J. ridendo.

— Alcune parti.

— Ti ricordi quella dove si parla della manna, ragazzo mio? Della manna proveniente dal cielo?

Sì, era chiaramente ammattito. Dom si sentì profondamente triste. Tutta quella fatica per niente. Il lavoro, i rischi mortali, la morte di Larry, i terribili momenti in cui Dom aveva avuto paura di non riuscire a gettare la bomba dei terristi nello spazio, tutto quanto era solo servito a soddisfare le manie di un uomo che ora si stava dimostrando chiaramente pazzo.

La manna dal cielo! Minerva che usciva già bell’è formata dalla testa di Giove, e chissà cos’altro.

— Neil — disse Dom, sentendosi di colpo molto stanco. — Portiamo la Kennedy a casa.

— Sì — disse Neil, guardando J.J. con un misto di sgomento e di rabbia.

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