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Doris Gomulka arrivò mentre Dom stava guardando Art Donald che esaminava campioni di metallo. Entrò in laboratorio ancora vestita da viaggio; il suo abito era un po’ sgualcito e impolverato, e i capelli erano umidi di sudore. Doris era una ragazza alta, con seni piccoli, torace stretto, vita sottile e bei fianchi. Agli occhi di Dom era una delle donne più affascinanti del mondo, anche se non sfruttava affatto il suo fascino e non faceva risaltare di più la bellezza del suo viso con il trucco.

Art si accingeva a bruciare un pezzo di metallo con il laser. Era un’operazione interessante, che richiedeva precisione, e Dom doveva aiutare Art. Dovendo tenere gli occhi sugli indicatori, Dom trovò il tempo di riprendersi dall’emozione di avere visto Doris, che non vedeva dall’epoca del progetto del batiscafo.

Art bruciò il pezzo di metallo, e gli strumenti misurarono il tempo di disintegrazione e fornirono i dati al computer. Doris rimase in piedi senza dire niente finché Art non ebbe finito. Dom si girò a guardarla e non riuscì a sorridere. Provò a farlo, ma il sorriso non gli venne. Ripensò al passato e si disse: Vedi, stupido? È sposata, ed è anche contenta.

— Ho alcuni problemi da sottoporvi — disse Art, senz’altra parola di saluto.

— Bene — disse Doris. Le piaceva lavorare con Art. Art era il tipo dello scienziato: una volta che c’era in ballo un progetto, il resto del mondo cessava di esistere per lui. Era il più bravo nel suo campo, e questo a Doris piaceva perché anche lei era la più brava nel suo campo, anche se non se ne vantava affatto. Qualcuno aveva detto una volta che Doris Gomulka sarebbe stata capace di fornire dati a caso a un computer e ottenere di fargli recitare le poesie di Emily Dickinson, se solo avesse voluto perdere tempo in un progetto del genere.

Anche Dom aveva alcuni problemi. Diversamente da Art, però, non poteva farli risolvere da Doris. Il suo problema era che era innamorato, che era sempre stato innamorato, che sarebbe sempre stato innamorato di una ragazza che lo trattava come un fratello minore un po’ stupidino. E dire che, perdio, non era affatto più giovane di Doris.

— Sono felice di lavorare di nuovo con te — disse.

— Grazie — disse Doris, con un bel sorriso. — Ti trovo bene. Cos’hai fatto ai piedi?

— Un terrista gli ha infilato un fiammifero acceso in un piede — disse Art. — Hai notizie di Larry?

— Non ha preso le pillole e si è beccato la malaria in India — disse Doris.

— Quello che cerchiamo di fare — disse Art, troncando le formalità — è prendere la formula dello scafo sottomarino e farla funzionare per lo spazio con le dovute modifiche.

— Doris avrà bisogno di riposarsi un po’ dal viaggio — disse Dom.

— Con qualcuna delle nuove leghe credo che potremo aumentare la resistenza del vecchio scafo di circa il venti per cento — disse Art.

— Art, lasciale almeno il tempo di darsi una ripulita — disse Dom.

— Me ne infischio se Doris è sporca — disse Art. — Basta che si metta addosso un camice sterile.

— Sono pronta per mettermi al lavoro — disse Doris sorridendo a Dom.

— Il vecchio progetto sarebbe solo il punto di partenza — disse Art. — Il nostro Flash, qui, pensa che potrebbe trovare nuove idee se noi riesaminassimo tutti i vecchi calcoli e aggiungessimo le possibili modifiche dovute ai progressi tecnici raggiunti in questi anni.

— Non è che otterremo molto — disse Doris.

— Da qualche parte bisogna pur cominciare — disse Dom.

— Ho un paio di idee abbastanza vaghe. Voglio discuterne con Larry prima di iniziare qualcosa di serio.

— Arriverà fra non più di tre giorni — disse Doris.

— Bene — disse Dom. — Intanto avremo tutto il tempo di ristudiarci il vecchio progetto.

— Cominciò a scrivere velocemente appunti su un blocchetto, e Doris si mise al suo fianco. Art era dall’altro lato del tavolo. Dom fornì loro i dati essenziali di quello che avrebbe dovuto sopportare il singolo membro dell’equipaggio con uno scafo sottoposto a tremila atmosfere di pressione, e per indicare lo scafo usò concisamente le iniziali PTA. Art si segnò le cifre e cominciò a lavorarci sopra; Doris s’infilò un camice sterile e andò nella sala del computer. Per loro due Dom aveva cessato di esistere, e l’unica realtà era il problema concreto che dovevano affrontare. Quando Dom uscì dal laboratorio, non alzarono neppure gli occhi. Se avessero avuto bisogno di lui, si sarebbero ricordati della sua esistenza, l’avrebbero chiamato e si sarebbero seccati di non vederlo accorrere subito. Dom sorrise. Con un’équipe del genere non si sapeva mai chi fosse il capo, ed era proprio quello che gli piaceva. Ciascun elemento era il migliore nel suo campo. Ciascuno sapeva che gli altri erano i migliori nei rispettivi settori. Non c’era possibile scontro di narcisismi, ma solo il desiderio di affrontare il problema e di risolverlo.

Nel suo ufficio, Dom disse alla segreteria che era disponibile solo per i membri dello staff e per il capo, ovvero J.J. Si versò un po’ di caffè e si sedette nella sua sedia, che aveva voluta apposta scomoda. Il lavoro a tavolino non gli piaceva. Se avesse temuto la solita poltrona girevole comoda e bene imbottita che era di prammatica negli uffici, avrebbe finito per dormirci sopra un mucchio di volte.

L’ufficio era nell’area di massima. sicurezza. Era protetto quanto i laboratori e la principale sala di controllo. I laboratori erano adiacenti ad esso e contenevano tutto il necessario per il lavoro preliminare, che era soprattutto teorico. Dom poteva chiedere un pasto completo scegliendolo in un menù variato a qualsiasi ora del giorno e della notte, e poteva farselo portare o in ufficio o nel suo appartamento, che era contiguo all’ufficio. Ufficio e appartamento erano piccoli ma confortevoli. Erano così bene aerati e illuminati che era facile dimenticarsi che si trovavano più di cento metri sotto il livello del suolo. Nel suo appartamentino Dom aveva varie bottiglie della sua marca preferita di bourbon, uno schermo sul quale poteva vedere i programmi trasmessi in superficie e anche una varietà di drammi, documentari e film scientifici registrati, e una serie di cassette con i pezzi musicali che preferiva.

L’intero complesso dei laboratori e degli uffici era protetto da uno schermo isolante. Le comunicazioni con l’esterno erano difficili, a parte quelle con l’ufficio di J.J., che disponeva di una linea privata. In generale l’organizzazione era ottima, dal punto di vista del lavoro.

Dom esaminò la relazione riguardante il collaudo effettuato da Neil. Il motore nucleare non aveva deluso le aspettative, e adesso Neil lo riportava indietro, vicino alla Luna, dov’era in attesa lo staff dei costruttori che si accingevano a lavorare attorno all’astronave per Giove. Lo scafo non era stato ancora progettato, ma l’équipe dei costruttori era già sul luogo. Dom aveva lavorato altre volte in gran fretta, ma mai fino a quel punto.

Lesse i dati del collaudo un centinaio di volte, e si rese conto che stava facendo così solo per allontanare dalla mente l’immagine di Doris che entrava nel laboratorio con i vestiti sgualciti e impolverati a causa del viaggio in macchina attraverso il deserto. Continuavano a tornargli in mente Cape Canaveral e le sere che avevano passato insieme camminando a braccetto, tutti e due un po’ sbronzi, sotto la luna della Florida. E soprattutto gli tornava in mente quella sera in cui lei aveva stretto le labbra e si era rifiutata di rispondere al suo bacio.

E c’erano altri ricordi, perché quel bacio sotto la luna della Florida non era stato il primo. Dom aveva baciato Doris tante volte, quando frequentavano insieme l’Accademia. Si erano anche fidanzati e avevano fatto dei progetti. Era stata un’epoca piena di baci e finita in lacrime. Lei aveva pianto apertamente, lui invece aveva pianto in segreto quando aveva deciso di venir meno ai suoi legami con lei e di imbarcarsi su un’astronave diretta verso Marte. Aveva colto immediatamente l’occasione che gli offrivano con quel viaggio, e aveva anteposto all’amore per Doris l’amore per lo spazio. Al suo secondo viaggio aveva detto a Doris il più gentilmente possibile che il suo primo amore era lo spazio, e che lei avrebbe dovuto accettare di essere il secondo. Poco tempo dopo, Doris aveva sposato Larry Gomulka.

Doris non era tipo da accontentarsi di essere il numero due in nessuna situazione, ed era felice con Larry, o almeno così pareva.

Dom riusciva a capire che lei non avesse voluto fare la moglie dello spaziale, una moglie part-time, ma non riusciva a capire come potesse essere felice con Larry. Larry era di due palmi più basso di Doris e tendeva al grasso. Era un ometto informe, con una gran pancia e un debole per le birre di cattiva marca. Era anche un tipo facile al riso. In generale, era tutto quello che Gordon non era. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che sarebbe diventato il marito di Doris, e invece, quando Dom era tornato dal suo secondo viaggio, Larry era già sposato con lei.

Be’, si era detto Dom, un vero spaziale doveva amoreggiare solo con la nave, tranne quando era in licenza sulla Terra. Aveva pensato di poter sopportare quel colpo fino a quando, una sera in Florida, aveva tentato di baciare Doris e lei gli aveva resistito.

Questo era successo nei primi tempi del progetto sottomarino. Il MINES aveva bisogno di un batiscafo che esplorasse le profondità dell’oceano, e Dom era l’uomo adatto per quel progetto. Aveva radunato la sua squadra, e Doris era stata la prima ad arrivare. Si erano trovati con molto tempo libero. Larry era via, come al solito, in qualche posto inaccessibile dell’Asia o dell’Africa. Art Donald stava terminando un lavoro a Seattle.

Doris l’aveva respinto, aveva rifiutato di rispondere al suo bacio. C’erano ancora persone che ritenevano il matrimonio un’istituzione rispettabile. C’erano persone, come Doris, che pensavano che l’impegno di fedeltà andasse rispettato. In un mondo in cui la stragrande maggioranza delle donne si prendeva quello che voleva quando voleva, Doris restava attaccata a quella che scherzosamente definiva l’etica della classe media.

Dom non era uno cui andasse di insistere, se una ragazza diceva di no. Magari il suo interesse si sarebbe risvegliato in seguito, e se ciò non fosse successo, ci sarebbe stata un’altra ragazza a sostituirla. Non era egoismo o sciovinismo da parte sua, era semplicemente che le cose stavano così. Quando Doris gli aveva detto di no, lui avrebbe dovuto fare marcia indietro, ma si era accorto di essere ancora innamorato di lei, e aveva cercato con delicatezza di forzarla, di stringerla di nuovo a sé. Ma lei era forte, e gli aveva resistito in silenzio.

— Ehi, sono Dom — le aveva detto lui. — Mi conosci, no?

— È acqua passata, Dom — aveva risposto lei.

— Cosa c’entra?

— C’entra eccome.

— Tu mi amavi — aveva insistito lui. — Ci siamo baciati tante volte, in passato.

— Ma adesso sono sposata, Larry — aveva detto lei. Sì, Dom capiva il suo punto di vista, ma aveva il suo orgoglio da difendere. Era rimasto lì a riflettere su cosa dire, anche se sapeva benissimo cos’avrebbe dovuto dire.

Avrebbe dovuto dire: — Ti capisco, Doris. È così che ti ho conosciuto quando eri la mia ragazza, all’Accademia. Ed è perché sei così che ti ammiro.

Invece si era lasciato trascinare dalla passione, aveva implorato Doris come un mendicante senza orgoglio, e aveva visto il rispetto scomparire nello sguardo di lei. Tutto questo lo aveva amareggiato, e indotto a peggiorare la situazione dicendo cose cattive.

— Dom, tu non mi costringerai a ritirarmi da questo progetto — gli aveva detto Doris. — È un progetto che m’interessa, e che interessa anche Larry.

— Scusa — aveva detto lui. — Mi sono comportato male. Facciamo conto che sia colpa di un bicchiere di troppo, e dimentichiamo la faccenda.

— Mi sta bene.

— Non succederà più.

— Grazie, Dom.

— Non sarebbe successo nemmeno stavolta — aveva voluto aggiungere Dom per ferirla — se tu non fossi venuta a passeggio con me.

— Non succederà più — aveva detto lei.

Ci sarebbero voluti un computer e un buon operatore per calcolare i chilometri che Dom aveva percorso dall’epoca di quel progetto in Florida. Agli spaziali le ragazze non mancavano mai, ma era bastato che Doris entrasse in quel laboratorio perché Dom si sentisse balzare di nuovo il cuore in petto. E dire che non era nemmeno bella. Aveva i seni troppo piccoli e i fianchi troppo larghi, e per di più era un’intellettualoide; perché diavolo non riusciva a togliersela dalla testa?

«Ragazzo mio» si disse Dom «è solo questione di autocontrollo.»

Decise di mettere in pratica l’autocontrollo. Raccolse gli appunti di Art riguardanti una nuova lega e li studiò. Ben presto s’immerse nel problema e riesaminò i progetti di J.J. per quella nave che sarebbe stato impossibile costruire. Volevano un mostro lungo cinquecento metri, con una stiva che occupasse i quattro quinti del volume.

— Cosa diavolo vogliamo fare? — aveva urlato Dom la prima volta che aveva dato un’occhiata ai progetti. — Portare a casa il bogie mettendolo nella pancia della nave?

— È forse una cattiva idea? — aveva detto J.J.

— Stai moltiplicando i problemi — aveva protestato Dom. — Mi aggiungi una cosa impossibile a una cosa improbabile. Come posso costruire uno scafo superpressurizzato se mi costringete a tenergli dentro un enorme spazio vuoto?

— Puoi costruire tutte le paratie che vuoi — aveva detto J.J.

— Non posso, se dovrò trasportare il bogie nella stiva — aveva obiettato Dom.

— Dom, dobbiamo convincere tutti che non si tratta altro che di una gigantesca astrocisterna.

— Per trasportare acqua fino a Marte?

— Per trasportare acqua fino a Marte. E per riportare indietro fosfati. È troppo grande perché la si possa costruire in segreto. Ci occorre il sostegno di uomini potenti, anche ammesso che riuscissimo a tenere la gente all’oscuro del progetto. Te lo immagini il senatore del New Mexico che approva l’idea del rendez-vous con l’ufo? Potrà capire di portare acqua su Marte, quello sì. Ormai perfino gli oppositori più accaniti dell’esplorazione spaziale si sono convinti a sufficienza del vantaggio economico che ci darebbe un’astronave enorme, capace di portare su Marte un carico molto più grande di quello solito.

— Ma non si può pressurizzare uno scafo con dentro tanto spazio vuoto! — aveva obbiettato Dom. — Lo scafo dovrebbe essere sottile, e dentro dovrebbe esserci lo spazio appena sufficiente a far camminare un uomo eretto. Più piccola e affusolata sarà la nave, più sarà facile renderla resistente alla pressione.

— Bisogna che sia un’astrocisterna.

— O un’astrocisterna, o niente?

— Pressappoco.

— Credo che sia la cosa più stupida che abbia mai sentito.

— Lo ammetto. Ma ai finanziatori è stato detto che è un’astrocisterna. Se non potrà essere costruita, allora ce ne staremo semplicemente seduti qui a girarci i pollici e a guardare l’intero programma spaziale finire nelle bocche affamate dei popoli sempre più numerosi dell’Asia e dell’Africa.

Dom si era trattenuto a stento dal dire una volgarità, era tornato infuriato nel suo ufficio, aveva bevuto un bicchiere, e si era rimesso a meditare sul progetto. Nei giorni successivi gli era venuto il torcicollo a furia di scuotere la testa per la frustrazione.

Costruire uno scafo pressurizzato era, in linea di massima, una cosa abbastanza semplice. Era da tanto tempo che l’umanità ne costruiva per usarli nell’oceano. Durante la prima guerra mondiale, nel ventesimo secolo, gli scafi pressurizzati tedeschi, i sottomarini, per poco non avevano fatto vincere la guerra alla Germania, e la stessa cosa si era ripetuta durante la seconda guerra mondiale. In seguito l’arte di costruire sottomarini si era affinata, ed erano stati realizzati scafi destinati a viaggiare in fretta e in profondità, e a lanciare testate nucleari. Il programma dei sottomarini Polaris, avviatosi negli anni Sessanta, era strettamente collegato ai progressi nella ricerca spaziale. Per permettere ai sottomarini di viaggiare sommersi per lunghi periodi, erano state sviluppate nuove tecniche di comunicazione che usavano i trasmettitori a frequenza ultra-bassa, i cui segnali erano trasmessi sott’acqua. Quelle stesse tecniche, dovutamente affinate, sarebbero state usate per cercare di comunicare attraverso l’atmosfera densa di Giove. Per di più, molto lavoro d’avanguardia svolto durante il programma Polaris era applicabile alla navigazione spaziale. Il salto dai Polaris allo spazio era, in fondo, molto piccolo.

Progettare uno scafo per la navigazione sottomarina e progettare uno scafo per la navigazione nello spazio non era la stessa cosa, ma i particolari in comune alle due cose erano numerosi. Un sottomarino deve far fronte a una pressione uniforme che si esercita su tutto quanto lo scafo. Perciò è semplice calcolare l’esatto carico idrodinamico per ciascuna porzione di scafo. Confrontando il carico idrodinamico col bisogno di compressione all’interno dello scafo, si ottengono cifre che permettono di distribuire correttamente gli elementi strutturali e lo spessore delle varie parti.

Lo scafo pressurizzato di Dom Gordon, che era stato usato e continuava a esserlo per l’esplorazione dell’oceano a diecimila metri di profondità, era essenzialmente una versione perfezionata dello scafo progettato dagli ingegneri progettisti di sottomarini già nel 1918. Utilizzava un cilindro di sezione circolare, cioè simile a un sigaro, rinforzato da armature a forma di anello con intervalli longitudinali l’una dall’altra che andavano da un quinto a un decimo del diametro. Dom si era allontanato dal classico modello di sottomarino soprattutto per via del materiale usato: aveva infatti adottato un tipo di metallo molto flessibile. Quando la pressione aumenta, il carico esterno può indurre l’intero scafo a cambiare forma, esercitando così più pressione su certe zone che su altre. Il risultato è un eccesso di tensione localizzata in determinati punti.

Quando il sottomarino Polaris Scorpion si perse, nel 1968, l’implosione del suo scafo fu registrata a grande distanza dagli strumenti. Lo Scorpion in quel momento operava solo a tremila metri di profondità, ma era stato progettato per resistere soltanto a metà di quella pressione. Dom aveva dovuto progettare un veicolo mobile e a propulsione autonoma capace di resistere alla pressione di mille atmosfere, quella cioè che l’acqua esercitava alla profondità di diecimila metri. Era riuscito a farlo mantenendo al minimo la grandezza del cilindro e mantenendo gli spazi tra le armature di sostegno a una distanza di meno di un decimo del diametro. Aveva fatto fare passi da gigante alla scienza della pressurizzazione, ma quei passi da gigante erano piccoli in confronto a quelli che si sarebbero dovuti fare adesso.

Adesso si pretendeva da lui che buttasse all’aria tutte le nozioni apprese con l’esperienza, e che costruisse una nave mostruosa che prima doveva volare nello spazio con un carico negativo sullo scafo esterno (negativo perché lo spazio è un quasi-vuoto), e poi doveva pressurizzarsi per resistere non a mille, ma a ben tremila atmosfere. Per di più, bisognava aggiungere almeno un piccolo fattore di sicurezza. Lo scafo doveva penetrare nell’atmosfera di Giove a tremila atmosfere di pressione, ma se ci fosse stato un lieve errore di calcolo, e la nave aliena si fosse trovata per esempio a tremilacinquanta atmosfere? Sarebbero stati costretti a fare dietro front se il limite dello scafo fosse stato di tremila atmosfere, altrimenti avrebbero corso il rischio di implodere e di diventare uno Scorpion dello spazio.

Più Dom ci pensava, più l’impresa gli sembrava impossibile. La pretesa di J.J. di costruire un’astrocisterna rendeva le cose ancora più difficili, e Dom si sentiva schiacciato dall’entità del problema. Rifletté su come saldare giunzioni, costruire travi ad arco, evitare l’affaticamento dei metalli, piegare, plasmare, preparare le lamiere. Le informazioni che gli davano Art e Doris sulle nuove leghe molto elastiche e trattate in modo speciale non erano sufficientemente incoraggianti.

La prima cosa da fare, quando ci si accinge a disegnare il progetto di una nave, è scrivere l’elenco delle caratteristiche che si richiedono. La caratteristica più difficile e assurda nel caso di quello scafo PTA era l’enorme stiva che J.J. pretendeva. Disegnando la nave tenendo conto di quella stiva enorme, si vedeva subito che le dimensioni erano eccessive anche senza contare lo spazio destinato ad accogliere altri elementi funzionali. Tuttavia, era pur sempre possibile abbozzare un disegno. Dopo alcuni tentativi, Dom fece lo schizzo di un mostro grande quanto una delle isole caribiche minori, che si sarebbe potuto costruire, senza la caratteristica PTA, a un costo di poco inferiore all’intero ammontare del debito pubblico. Partendo da quelle premesse impossibili, Dom cominciò a pensare a soluzioni di compromesso, come quella di sistemare i componenti in spazi ristretti e magari sovrapposti.

Si accorse ben presto che era tutta fatica sprecata, perché l’intero progetto si basava su premesse illogiche. Era un esempio eccellente della Prima Legge di Gordon: — Se cominci con la merda, finisci con la merda.

La Legge del Rimescolamento di Gordon era anch’essa applicabile al caso: — Più rimesti la merda, più puzza.

Dom odorava merda da parecchi giorni quando arrivò Larry Gomulka, un po’ giallo per via delle cure conto la malaria, ma sorridente. Il suo viso tondo sprizzava allegria, gli occhi erano sempre svegli, e il suo cervello si era messo già al lavoro su quel problema.

Larry Gomulka era un fenomeno. Era un fisico, ma non era il più bravo nel suo campo. Doris era la più brava nel suo campo, Art lo era nel proprio, e Dom era un’indiscussa autorità quando si parlava di scafi pressurizzati. Ma Larry non sapeva, o non voleva, condurre un esperimento con metodo e precisione. Larry odiava i lavori metodici e noiosi. Si annoiava molto facilmente. Durante le conversazione saltava da un argomento all’altro sbalordendo e confondendo i tipi lenti e pignoli.

Una volta un editore di libri di testo gli aveva offerto di firmare un contratto molto vantaggioso per scrivere una serie di libri intitolati: La guida azzurra alla fisica, La guida azzurra alla chimica, La guida azzurra all’astronomia, e così via. Lui aveva rifiutato perché sosteneva che dopo i primi due libri sarebbe stata sempre la stessa solfa. Era un tipo pigro, gli piaceva scherzare, si stancava facilmente di un argomento, beveva troppa birra, e ogni volta che c’erano problemi per un progetto, di qualunque campo si trattasse, la sua presenza era richiestissima.

Larry Gomulka era uno che sapeva un po’ di tutto. Era onnivoro nei suoi interessi. Lo incuriosiva tutto quello che c’era sotto il sole, dentro il sole e nei buchi neri dello spazio. Era un tipo versatile, che conosceva ogni possibile argomento. Se avesse scelto un campo dello scibile e vi si fosse applicato, molto probabilmente sarebbe diventato un vero genio. Avendo invece disperso i suoi interessi in varie direzioni, non era il migliore in nessun campo, ma era un maestro nella sintesi. Larry era il più bravo risolutore di problemi del mondo. Spesso, quando un progetto era arrivato a un’impasse, veniva richiesto il suo intervento. Lui arrivava, cominciava a parlare di sciocchezze con scienziati sbalorditi che si domandavano cosa ci facesse lì quel pagliaccio, li confondeva con le sue brutte barzellette e i suoi continui cambiamenti di argomento, discuteva con i fisici delle proprietà dell’antimateria e dell’impulso sessuale delle falene, poi, senza nemmeno stare a fare prove, risolveva il problema con un semplice commento, lasciando gli scienziati a strapparsi i capelli per la rabbia di non averlo capito prima. Larry sapeva mettere in relazione un argomento con l’altro e operava la sintesi.

Quando c’era in giro Larry, era impossibile dedicarsi al lavoro di routine. Quando Larry arrivò in laboratorio, Art e Doris smisero di lavorare e si recarono con lui nell’ufficio di Dom. Dom gli strinse la mano e guardando la sua faccia tonda e raggiante si chiese ancora una volta cosa Doris trovasse in lui.

Larry ordinò una birra di marca infima, e condusse la conversazione raccontando cose folli sull’India, dove il governo l’aveva pagato molto bene perché suggerisse un metodo anticoncezionale efficace e aiutasse a diffonderlo. Tra un racconto e l’altro fece qualche domanda sul progetto in corso, e più di una volta non aspettò la risposta, ma con un bel rutto passò ad altro argomento.

Dom notò che Doris aveva uno sguardo di adorazione quasi materno quando Larry parlava. Dom bevve moltissimo e rise, finché gli fecero male i muscoli dello stomaco, ai racconti penosi di Larry. Quando finalmente si ritirò nel suo appartamento si lasciò cadere sul letto con un gemito di autocompatimento, disgustato dalla propria intemperanza.

Fu svegliato l’indomani da Larry, che lo chiamava con allegri fischi dall’ufficio. Ripeté il gemito della sera prima, chiese che gli portassero la colazione in ufficio, si rasò e si vestì. Non fece in fretta, sapendo che Larry era seduto alla sua scrivania e stava esaminando il progetto. Entrò in ufficio giusto in tempo per prendere il vassoio della colazione dalle mani del cameriere. Larry teneva i piedi sulla scrivania, e c’erano carte sparse dappertutto.

— Un progetto assurdo — disse.

— Folle — disse Dom.

— Sembra proprio impossibile.

— Lo è.

— Per l’impossibile ci si mette un po’ più di tempo — disse Larry.

Una delle sue abitudini più irritanti era il ricorrere a vecchi e triti modi di dire. Se si lavorava con Larry, quella era una delle molte cose che bisognava disporsi a sopportare.

— Cosa deve portare, il carbone a Newcastle? — disse Larry.

— L’acqua su Marte — disse Dom.

— Si possono trasportare acqua e fosfati nello stesso scafo?

— Se si usa un sacco d’acqua qui sulla Terra per pulirlo bene — disse Dom. — Oppure si potrebbero usare i carichi successivi di acqua per l’agricoltura su Marte, o si potrebbero far passare per un depuratore.

— Questo scafo è fatto per trasportare un bel campione di atmosfera di Giove, eh? — chiese Larry.

— Migliaia di tonnellate — disseDom.

— È chiaro che J.J. non ti ha detto tutto.

— Non lo so. Dice che i finanziatori hanno dato i soldi per la costruzione di un’astrocisterna, e che se verrà costruita, dovrà poter fungere appunto da astro-cisterna.

— E allora immagino che dovremo costruirgli un’astrocisterna — disse Larry.

— A quanto pare.

— Maledetti sottomarini — disse Larry.

Consumando la prima colazione,Domcominciò a sentirsi meglio. — Il progetto preliminare non è né economico né realizzabile — disse.

— Il progetto preliminare è una cazzata — disse Larry. — Se ci mettessi l’intera industria a lavorarci sopra impiegherebbero anni solo per costruire la carenatura esterna.

— E di industrie aerospaziali ne sono rimaste poche.

— Le industrie sono troppo occupate a fabbricare spirali intrauterine e tostapane — disse Larry. — È troppo grande. Ci vorrebbe un mucchio di tempo solo per farla stare in piedi sotto il suo peso nella gravità della Luna, figuriamoci in quella di Giove. La missione è incompatibile con un simile progetto. Quello che occorre è uno scafo piccolo e affusolato, costruito solidamente intorno agli spazi riservati d’un equipaggio ridotto al minimo e al motore. Invece si sta parlando di costruire uno scafo pressurizzato intorno a un grande volume di spazio.

— Che dovrà essere pressurizzato.

— In che rapporto? — chiese Larry.

— Ventimila quattrocento chili per pollice quadrato.

— Cristo! — disse Larry. Poi, dopo un attimo, aggiunse: — Ehi, un modo c’è. Sai, ti sei lasciato fuorviare dalla foresta nel suo insieme, senza pensare che è composta da alberi. Stai guardando alla nave come a un’unità.

— Perché, non lo è, forse? — disse Dom.

— Perché dovrebbe esserlo?

— Ma… è una nave. È autosufficiente, quindi è un’unità.

— Perché?

— Perché la pressione esercitata sulla porzione più grande di scafo viene distribuita tra tutte le altre parti dello scafo stesso — disse Dom.

— Allora noi facciamo in modo che quella forza lavori per noi, anziché contro di noi.

— In che modo?

— Hai mai sentito parlare di incollaggio porridge?

— No — disse Dom.

— Ci stanno lavorando al Caltech. Incollaggio porridge. Aumenti la distanza tra le molecole e inietti atomi collanti. Tutta la roba si comprime rapidamente.

— Sono tutt’orecchi.

— La tecnica utilizza il surriscaldamento. Ci vuole un mucchio di energia.

— Avremo tutta l’energia che vorremo — disse Dom.

— Metteremo le giunzioni lungo lo scafo, anziché attorno ad esso nel senso della larghezza — disse Larry.

Dom dimenticò la prima colazione. L’idea di mettere le giunzioni per il lungo era terribilmente sciocca, ma Larry stava prendendo carta e penna. Dom tirò da parte il vassoio e si chinò sopra le spalle di Larry.

— Le giunzioni scivoleranno l’una sull’altra quando saranno compresse — disse Larry. — Più grande è la pressione che si applica allo scafo, più forte è la connessione.

— Qual è il limite?

— Non chiederlo a me, sei tu l’esperto della pressurizzazione — disse Larry.

— Larry, fila via di qui — disse Dom. — Fammi avere tutte le informazioni possibili sull’incollaggio porridge. Preparami una sintesi, poi parlane con Art e vedi se la tecnica può essere applicata ai metalli degli scafi.

— Avevo una mezza idea di portare Doris a Los Angeles — disse Larry.

— Non ci pensare nemmeno.

— Negriero.

— Fuori.

— Che razza di gratitudine. Risolvi un problema a uno, e quello ti caccia via — brontolò Larry.

Dom non stava più ascoltando. Si mise subito a disegnare e non sentì nemmeno la porta che si chiudeva alle spalle di Larry. Due ore dopo fornì dati al computer, perché nel frattempo Larry gli aveva portato le informazioni essenziali sull’incollaggio porridge. Lavorò al suo tavolo, comunicando con Doris e Art attraverso un circuito video interno. I computer di Doris ronzando e schioccolando elaboravano ipotesi. Art fumò una sigaretta dietro l’altra e cominciò a tossire.

Venne fuori un disegno di nave con la classica forma cilindrica, ma sarebbe stata una nave diversa da tutte quelle costruite fino ad allora. Lo scafo sarebbe stato composto di sezioni longitudinali mono-saldate, unite tramite l’incollaggio porridge. Più pressione fosse stata applicata allo scafo, più le sezioni unite dall’incollaggio porridge si sarebbero compresse, diventando così sempre più forti. A tremila atmosfere di pressione, lo scafo si sarebbe come avvolto su se stesso, comprimendo la nave in una massa compatta tenuta da massicce travi poste attraverso la maledetta stiva di J.J. Sarebbe costata un numero enorme di miliardi. Sarebbe stata immensa, ma se l’incollaggio porridge avesse funzionato sarebbe riuscita ad assolvere i suoi compiti.

Dopo quarantott’ore quasi senza sonno, Dom gettò sul tavolo di J.J. l’elenco delle indicazioni preliminari. Si aspettava un’esplosione di lamentele per il costo e la grandezza, ma non fu così.

— Incollaggio porridge? — disse J.J.

— Ci basiamo su dati insufficienti — disse Dom. — La tecnica richiede molte prove sperimentali.

— Falle.

— Prima ho bisogno di dormire un po’.

— Prendi un eccitante.

— L’ho già preso — disse Dom.

— Prendine un altro.

— Non ho voglia di diventare uno spiritato imbottito di anfetamine — disse Dom.

— Ti pagheremo il soggiorno in un centro di disintossicazione.

— Io voglio farmi una dormita.

— Bene, metti la tua équipe al lavoro.

— L’équipe è già a letto — disse Dom. — Voglio far fare alcuni test preliminari al Caltech, dove stanno lavorando all’incollaggio porridge.

— No, non va — disse J.J. — In un campus universitario è impossibile avere la garanzia della sicurezza.

— Possiamo trovare una scusa. Non è mica necessario che sappiano che i risultati della ricerca servono alla costruzione di un’astronave.

— D’accordo, ma fa’ le cose alla luce del sole. Se cercassi di tenere segreta la faccenda, ben presto avresti alle calcagna tutti i pazzi del paese. Fai le cose alla luce del sole, e nessuno si accorgerà di niente.

— La lettera rubata — disse Dom.

— Sbriga la tua corrispondenza al momento opportuno — disse J.J. che aveva afferrato la battuta.

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