12

La nave affrontò un’ultima prova. Ne aveva affrontato già tante per riuscire a portarli lontano milioni di miglia, alla ricerca di qualcosa concepito dalla mente di un pazzo. Aveva sollevato migliaia di tonnellate d’acqua dalla Luna, vincendo la sua pur piccola attrazione gravitazionale, aveva viaggiato nello spazio e resistito alla pressione di Giove. L’ultima prova era più che mai importante. Se la Kennedy non fosse riuscita a tornare su e a vincere l’attrazione gravitazionale del gigante gassoso, il fatto che avesse superato le altre prove non sarebbe servito a niente.

Fino ad allora la sua energia era stata usata solo per neutralizzare l’attrazione gravitazionale e per mantenerla in orbita. Adesso le si chiedeva di vincere l’attrazione e di imprimere abbastanza forza allo scafo da spingerlo in su e fargli quindi raggiungere la velocità di fuga, che era anche il doppio di quella che occorreva per liberarsi dall’attrazione gravitazionale della Terra.

Ma, soprattutto, la Kennedy doveva restare intatta, in un pezzo solo, e, se bisognava assecondare il folle J.J., doveva restarlo assieme alle migliaia di tonnellate di atmosfera di Giove che aveva nella stiva.

Il computer fornì i dati sull’angolo di salita, gli incrementi di energia, i tempi di realizzazione e i dispositivi automatici passarono i dati al motore. Neil seguì le varie fasi col comando manuale, per sentire più tangibilmente quello che succedeva alla nave. Il ronzio interno della nave cambiò un po’. L’accelerazione in un primo tempo fu lieve, percepibile solo dagli strumenti. La nave si spostò lentamente in su. L’atmosfera offriva troppi ostacoli perché la Kennedy potesse andare a tutta forza. Il volo all’insù fu quindi lento e tedioso, controllato da migliaia di strumenti che andavano dai congegni per la misurazione della temperatura dello scafo alle trappole al neutrino che misuravano l’efficienza dei motori nucleari.

Era una cosa meravigliosa quella nave, stava pensando Neil. Aveva pilotato tutti i vari tipi di nave costruiti negli Stati Uniti, e anche alcune delle navi costruite altrove, ma mai aveva volato su una meraviglia come quella.

— Sei un progettista fantastico — disse a Dom con un sorriso.

Dom fece un sorriso cupo. Essere lodati da un uomo come Neil era piacevole, ma era pur sempre una magra consolazione. Certo, Dom era orgoglioso che il suo lavoro e le sue idee avessero dati buoni frutti, e che il progetto avesse avuto successo. Non c’era un’altra nave che fosse all’altezza della Follia.

Già, pensò Dom. Stava di nuovo pensando ad essa come alla Follia, non più come alla Kennedy. La follia di J.J.

La tensione che c’era in sala di controllo non derivava soltanto dal fatto che si era nella fase delicata in cui bisognava portare la nave fuori dall’atmosfera di Giove senza causare danni allo scafo carico e senza bruciare qualche motore per la troppa energia. In realtà, la salita durò tanto che divenne quasi lavoro di routine; era piuttosto la presenza di J.J., a causare tensione nell’equipaggio. Dom era profondamente deluso. Solo quando J.J. aveva fatto il suo annuncio a sorpresa lui si era reso conto di avere puntato tutto su quella nave aliena. C’era un elemento personale, nella sua delusione. Era stato ingannato, gli avevano fatto credere che si trattasse di una sorta di favolosa caccia al tesoro, e che il tesoro potesse essere la propulsione iperveloce. Invece, non c’era traccia di tesori. Gli avevano promesso le stelle, e invece il carico era una zuppa di gas compressa dentro la stiva della Follia.

Se il mondo non fosse stato quello che era, la Follia avrebbe potuto essere costruita per il puro amore della ricerca; per dimostrare che era possibile andare su Giove, per prendere campioni della sua atmosfera, per aggiungere semplicemente altre nozioni al patrimonio della conoscenza. Se il mondo non fosse stato quello che era, però, ci sarebbe anche stata abbondanza di cibo. E invece questo non si verificava da decenni, sulla Terra.

Sui tempi lunghi, anche la ricerca pura serviva. I motori all’idrogeno della Follia erano stati concepiti ai primi stadi del programma spaziale. Le fotografie fatte durante il primo esperimento Skylab, un progetto di ricerca pura, avevano dato agli astrofisici nuove e sorprendenti informazioni sul Sole. I quesiti nati intorno all’idea tradizionale che si aveva dell’energia solare già negli anni Settanta avevano portato alla scoperta che adesso permetteva alla Follia di opporsi alla forza gravitazionale di Giove. Se gli scienziati che facevano ricerca pura in un osservatorio dell’Arizona non avessero scoperto che l’intero disco del Sole pulsava, le teorie che avevano reso la propulsione all’idrogeno una realtà non sarebbero state formulate. Sotto il profilo del lungo termine, il progetto Skylab era valso la pena, ma nonostante ciò c’erano persone che sbraitavano contro le spese eccessive per lo spazio e pretendevano invece che si distribuissero burro o Cadillac a quel gruppo di fannulloni che costituisce la parte più purulenta della società umana.

Era un modo di pensare da reazionario, si disse Dom. I poveri sono sempre esistiti, in tutte le società. Dom non era abbastanza di destra per dimenticarli, specie considerando che presto sarebbe stato uno di loro, e che avrebbe sofferto la fame assieme a loro. Cos’era che non aveva funzionato? Tutto quello che Dom voleva era lavorare nello spazio, magari fare qualcosa per favorire il controllo demografico, e magari anche aiutare l’uomo a fuggire dal suo pianeta sovraffollato verso pascoli più ricchi.

Dom, che aveva progettato la Follia, adesso si sentiva in colpa. Per costruire la Kennedy erano stati spesi tanti soldi, che col loro equivalente si sarebbero ingrandite di dieci volte le miniere su Marte, permettendo così una produzione di fosfati sufficiente a rendere fertili metà delle terre agricole del mondo. Si era raggiunto un obiettivo che giovava alla scienza pura, ma che era stato conseguito a spese di molti progetti più importanti. Una volta che tutta la storia della Follia fosse stata resa nota, per il programma spaziale sarebbe stata la fine. Anche se la guerra civile fosse stata vinta dal governo, finché fossero esistite persone affamate le critiche a quel progetto sarebbero continuate.

Per un attimo Dom si chiese se non sarebbe stato meglio che lo scafo cedesse o che un razzo si bruciasse, e che la Follia implodesse e non fosse mai più vista da occhio umano. Ma anche se la nave fosse scomparsa, della sua esistenza ormai si sapeva. Morta o viva, la nave, l’ultimo gioiello delMINES.sarebbe stata uno strumento nelle mani degli oppositori dello spazio, che si adoperavano per paralizzare il programma spaziale. E forse, portando come esempio lo spreco che era stata la Follia, sarebbero riusciti a paralizzarlo per decenni e magari per sempre.

Dom andò nella sua cabina, mentre Neil faceva passare la nave attraverso la zona sottile di ammoniaca ghiacciata degli strati più esterni. Dalla sua cuccetta sentì il ronzio dei motori che spingevano la nave oltre i satelliti solitari. I motori erano così potenti, che la Kennedy non risentiva nemmeno del peso della zuppa gioviana nella stiva.

Dom sentiva tutta la propria responsabilità in quell’impresa. Tornò nella sala di controllo, chiamò la nave pattuglia e disse: — Abbiamo finito. Siamo diretti a casa. Avete combustibile per il viaggio fino a Marte?

— Affermativo — fu la risposta. — Congratulazioni J.F.K.

Dom fece una smorfia e non ringraziò. Ora sentiva l’accelerazione. Si sentiva stanco. Per quanto lo riguardava, la nave avrebbe potuto essere lasciata ai suoi automatismi, in modo che procedesse da sola. Al momento provava disinteresse per tutto. Pensò alla guerra, agli americani che uccidevano degli americani. Cercò di immaginare l’impatto che avrebbe avuto la notizia che la missione della Follia, per la quale erano stati spesi tanti miliardi, era un fallimento. Anzi, più che un insuccesso, uno spreco. La notizia non si sarebbe potuta tenere nascosta per molto. Un’organizzazione che era riuscita a fare infiltrare un suo fanatico nella base di Marte, che era la roccaforte più sicura delMINES.avrebbe potuto senz’altro carpire la notizia che la Follia aveva compiuto una missione del cavolo ed era tornata indietro con un carico di gas dannosi presi all’interno dell’atmosfera di Giove.

Dom tornò nella sua cabina e si lasciò cadere pesantemente sulla cuccetta. Doris era ancora al posto di lavoro e ci sarebbe rimasta finché il piano di volo non fosse stato completato e controllato più volte. Bussarono alla porta della cabina.

J.J. fece capolino. — Posso parlarti un attimo, Flash?

— Non mi va molto in questo momento — disse Dom.

J.J. si chiuse la porta alle spalle. — È stato uno sporco giochetto, vero?

— J.J., vattene per favore, eh?

— Fra un attimo — disse J.J., sedendosi. — Vuoi darmi un pugno, così poi ti senti meglio?

— Non tentarmi.

— Non ti metterei nemmeno a rapporto — disse J.J. — Sei disposto ad ascoltare, o stai ancora crogiolandoti nel tuo dolore?

— Cos’altro potrei fare? — ringhiò Dom.

— Hai afferrato l’idea, però, vero?

— Sì — disse Dom. — L’ho afferrata. Dio, J.J., hai inventato la storia della nave aliena e speso miliardi di dollari per dare la caccia ai fantasmi.

— Ho dovuto inventare la storia della nave aliena — disse J.J. — Dovevo fare in modo che dei tipi pratici come te avessero qualcosa di concreto cui riferirsi. A me pareva che questa idea fosse abbastanza brillante, e a te?

— J.J., sono stanchissimo. Perché non vai a farti un sonnellino?

— Chi mi avrebbe ascoltato se avessi detto le vere ragioni del progetto? — disse J.J. — Ci voleva un incentivo forte, come per esempio la prospettiva di conoscere il segreto dell’ipervelocità, perché il mio pubblico mi ascoltasse.

— Sì — disse stancamente Dom.

— Non c’è bisogno di farla fermare su Marte quando torniamo a casa, no?

— No.

— Andiamo su Base Luna, sulla faccia nascosta.

— Che differenza fa? Tanto, dovunque la faremo atterrare, la cosa più probabile è che non decollerà mai più.

— Decollerà — disse J.J., — e decolleranno dozzine di altre navi come lei.

— Vattene — disse Dom.

— Promettimi una cosa.

— Non so se posso.

— Promettimi che in nessun caso getterai via il carico. Promettimelo.

— Che differenza fa? — disse Dom. — E va be’, ce lo porteremo dietro fino alla fine. Farà una bella nube quando lo scaricheremo dalla parte nascosta della Luna.

— Io ho un modo migliore di utilizzarlo — disse J.J.

— Certo — disse Dom. — Potrai nutrire gli ultimi due scienziati della terra con la tua atmosfera gioviana, e farli restare in vita ancora un pochino, finché la marmaglia non li prenderà e non li farà a pezzi.

J.J. adesso era in piedi. — Devo constatare che sei un non credente. Coraggio, la pace e l’abbondanza ci aspettano.

Dom sentì la porta chiudersi. Si addormentò, e fu svegliato poco dopo dal comunicatore.

Era Neil. — J.J. ha indetto una riunione dell’equipaggio. Ci si vede nella sala di ritrovo. Pensavo che volessi partecipare.

— Ma sì, parteciperò — disse Dom. Si spruzzò acqua fresca sulla faccia e, ancora insonnolito, s’incamminò pesantemente lungo il corridoio. Passò dalla sala di controllo. La nave procedeva col pilota automatico, e funzionava perfettamente. Dietro di essa, visibile dagli oblò di poppa, c’era la massa di Giove. Era ancora uno spettacolo impressionante. Dom sentì una punta d’orgoglio pensando che in un certo senso aveva conquistato il corpo celeste che per grandezza era secondo soltanto al Sole, nel sistema solare. Ma il suo orgoglio svanì presto.

Effettuò un ultimo controllo visivo degli strumenti. Gli automatismi producevano i consueti ronzii e conducevano la nave con una precisione che l’uomo non avrebbe mai potuto eguagliare. Dom s’incamminò lentamente verso la sala di ritrovo, già temendo che J.J. desse ulteriore sfogo alla sua pazzia.

La porta era aperta. Dom si fermò poco prima della soglia e sentì Doris ridere. Neil era seduto in modo da vedere il pan nello comandi della sala di ritrovo, e teneva così d’occhio le funzioni più importanti della nave. Doris era in piedi vicino a J.J., davanti al bar, e versava da bere dalla bottiglia personale di J.J. C’erano tutti, tranne Jensen. Dom rimase lì fuori a guardare. Ellen accettò da bere. Doris rise di qualcosa che aveva detto Ellen. Tutti quanti bevevano e ridevano. Nerone che suonava la cetra mentre Roma gli bruciava intorno. Dom non aveva voglia di assistere a una cosa del genere.

Eppure prima o poi anche gli altri avrebbero dovuto sentire tutta quanta la storia. Dom stava per entrare, deciso ad affrontare la situazione, ma subito dopo cambiò idea. Jensen non c’ era ancora, e quando fosse arrivato sarebbe stata raccontata da capo la storia, e ascoltare una terza volta i discorsi di J.J. era più di quanto Dom potesse sopportare.

Era passato dalla sala di controllo appena pochi minuti prima, ma gli venne spontaneo di dare un’occhiata lo stesso. Esaminò i congegni, e il suo sguardo si soffermò su una spia luminosa d’allarme. Preoccupato, attivò l’analizzatore e fu sollevato nello scoprire che il problema riguardava soltanto il sistema di equilibramento della pressione della stiva. Non avrebbe fatto male a nessuno che qualche tonnellata di atmosfera di Giove andasse perduta nello spazio. Attivò il sistema di auto-verifica. Il problema era localizzato nella sala di controllo. Dom sollevò una sezione e sentì odore di materiale isolante bruciato. Non era niente di grave. Tutti i sistemi importanti erano ridondanti. Perfino il sistema di equilibramento della pressione aveva il suo doppione. Dentro l’atmosfera di Giove, esso era di fondamentale importanza. Dom effettuò un controllo completo e vide accendersi una seconda spia luminosa d’allarme. Era strano, ma la faccenda restava tutt’altro che grave.

In quel momento nella sezione di poppa si accese un’altra spia rossa, la spia del sistema di equilibramento manuale che entrava in funzione solo nell’improbabile caso che i primi due si guastassero contemporaneamente. Le probabilità che ciò accadesse erano infinitesime, ma nello spazio qualche volta era successo. Ma che se ne guastassero tre era un po’ strano. Non era però ancora troppo preoccupato; s’incamminò verso poppa, deciso a trovare Jensen e a verificare cosa diavolo fosse successo al sistema di equilibramento della pressione. Non era un guasto critico, altrimenti avrebbe messo in stato d’allarme l’equipaggio. I corto circuiti nella sala di controllo centrale si potevano riparare facilmente, e gli altri guasti si potevano riparare con comodo, visto che del sistema di equilibramento della pressione nella stiva ci sarebbe stato bisogno solo quando si fosse arrivati sulla Luna e si avesse ricevuto l’ordine di gettare l’inutile carico nello spazio. Dom intendeva limitarsi a controllare a poppa e a rintracciare Jensen, poi sarebbe tornato nella sala di ritrovo per ascoltare ancora una volta la penosa storia di J.J.

Avanzò con le scarpe silenziose lungo il corridoio interminabile che costeggiava la stiva. Entrò nel compartimento stagno, aprì l’ultima fila di portelli e s’ infilò nel reparto macchine anteriore. Di colpo si trovò davanti Jensen che gli puntava contro una pistola a proiettili multipli. Alle spalle di Jensen il pannello mostrava che il sistema di equilibramento della pressione era tutto sul rosso. Dom capì che se avesse potuto guardare fuori della Kennedy, avrebbe visto il contenuto della stiva riversarsi nello spazio spinto da una grande pressione.

— Cosa diavolo vuol dire questo, Paul? — disse, fermandosi di colpo e stando attento a non fare mosse improvvise. Era la seconda volta in pochi giorni che si trovava davanti a una pistola.

— Non dovevate essere nella sala di ritrovo, a quest’ora? — disse Paul.

— Paul, un matto a bordo non è forse già abbastanza? — Sfoderò un sorriso, per rabbonirlo. — Qual è il vostro problema?

— Mi eravate abbastanza simpatico, Dom — disse Jensen. Dom vide il suo dito stringersi sul grilletto e si buttò di lato, sul pavimento, proprio nel momento in cui dalla pistola partiva una raffica di proiettili. I proiettili colpirono il ponte e una paratia. La pistola sparò una seconda volta, e Dom si sentì colpire di striscio a una caviglia; non avvertendo alcun male, continuò a muoversi, sollevò un robot delle pulizie e, nascondendosi dietro una consolle, gettò il pesante congegno contro Jensen. Jensen alzò la mano che impugnava la pistola per cercare di bloccare il robot, e questi lo colpì di striscio. Dom si gettò contro di lui, schivando la pistola che era ancora puntata verso l’alto. Mentre il robot rotolava in terra con gran fracasso, Jensen abbassò lentamente l’arma per prendere la mira. Dom si scagliò contro di lui, bloccandogli il polso della mano che impugnava l’arma, eidue rotolarono insieme sul ponte.

Jensen era sorprendentemente forte. La pistola esplose un colpo a pochi centimetri dall’orecchio di Dom, che per un attimo rimase assordato. Con uno sforzo supremo, Dom inchiodò la mano di Jensen sul ponte. Jensen gli diede un pugno, e Dom vide le stelle e cominciò a sanguinare dal naso. Jensen era accanto al pannello comandi.

— Fate una mossa, Gordon — ansimò Paul — e tutta la nave salta in aria. — Teneva la mano sopraicomandi manuali.

— Ho manomessoidispositivi di sicurezza. Se sovraccarico l’impianto, la nave diventerà un’ autentica bomba.

— Morirete anche voi con gli altri — disse Dom.

— Non desidero che muoia nessuno.

— Si può sapere che cosa vo4ete, allora?

— Un paio d’ore. Il tempo necessario perché si vuoti la stiva.

— Perché vi pare una cosa così importante? — chiese Dom.

— Siete per caso matto anche voi?

— Perché mi pare importante? Perché l’intero sistema sociale è corrotto — disse Jensen.

— Perché è ora di cambiarlo.

— Avete gettato la maschera per niente, Paul — disse Dom.

— D’altra parte, ho sempre pensato che i terristi fossero pazzi.

— Siete voi il pazzo — disse Paul. — Adesso ascoltatemi bene. Non voglio morire, non adesso che stiamo vincendo, ma morirò, se sarà necessario. Voglio che andiate piano piano fin là, che prendiate la pistola dalla parte della canna, e che me la diate.

— Posso dire una cosa, prima?

— Se vi sbrigate.

— Paul, non m’interessa un tubo se vuotate la stiva. Mi volete credere? Me ne infischio nel modo più assoluto. Non ho intenzione di morire solo per cercare di salvare un campione di atmosfera di Giove. Sarebbe interessante analizzarlo, ma non è che mi vada molto di morire; soprattutto non mi va di morire per una semplice curiosità scientifica. Allora, fatemi un favore e non fatevi prendere dal panico, va bene? Non commettete una sciocchezza. Forse avete ragione quando dite che state vincendo. Una volta che la nave sarà tornata indietro, probabilmente non andrà mai più nello spazio. Ha fatto di più J.J. per distruggere il programma spaziale di tutti voi terristi in cinquantanni. Quando assumerete il controllo del paese, dovrete dargli una medaglia. Quello che voglio dire è che il danno ormai è fatto. Perché non torniamo a casa tutti insieme, pacificamente?

— Fate come vi ho detto, se volete questo.

— D’accordo. Mi muoverò piano e non tenterò trucchi. — Dom si chinò a raccogliere la pistola e fece per rialzarsi.

— Se fate una mossa veloce faccio saltare in aria la nave — disse Jensen.

— Sì, lo so — disse Dom. — Mi sto muovendo pianissimo. — S’incamminò molto lentamente, tenendo la pistola per la canna, davanti a sé. Jensen lo guardò nervoso, umettandosi le labbra. Continuava a tenere una mano sopra quella leva che, se i dispositivi di sicurezza erano stati davvero manomessi, avrebbe fatto esplodere i motori e trasformato per un attimo la Kennedy in una stella incandescente.

— Ecco qui — disse Dom. — Tenetela. — Jensen guardò la pistola e si protese leggermente in avanti. Essendo appena un po’ sbilanciato, avrebbe dovuto fare un movimento in due tempi per tirare fino in fondo la leva. E nessun uomo al mondo poteva fare due mosse nella frazione di tempo in cui Dom ne faceva una. Dom afferrò la pistola e sparò prima che Jensen avesse il tempo di muovere un dito. La mano di Jensen fu troncata all’altezza del polso e non riuscì ad abbassare la leva che avrebbe fatto esplodere la nave. Jensen aprì la bocca e urlò, ma nonostante il dolore e lo shock mostrò di essere ben addestrato alla lotta, perché immediatamente allungò l’altra mano verso la leva. Stava quasi per arrivarci, quando Dom sparò ancora, colpendolo in pieno viso. Non ci fu bisogno di sparare una terza volta.

Dom guardò Jensen e si rese conto che non era ancora morto. La creatura che si stava contorcendo nell’agonia della morte non sembrava più un essere umano.

Dom esaminò in fretta il pannello dell’equilibramento della pressione e vide che era stata gettata solo una piccolissima parte del carico. Chiuse i fori di scarico e cominciò a guardare se Jensen avesse effettivamente manomesso i dispositivi di sicurezza del motore. In quel momento si aprì il portello, e piombarono dentro Neil e J.J.

— Tutto bene — disse Dom.

— Basta non aumentare l’energia finché non si siano fatte le necessarie riparazioni.

— Cos’è successo? — disse Neil.

— Stava buttando nello spazio la broda di J.J. — disse Dom. — Era un terrista.

Con un grido di apprensione, J.J. si precipitò a guardare il pannello e a controllare il contenuto della stiva. Quando vide che solo una minima parte del carico era andata persa, disse:

— Ancora una volta ti devo molto, Flash.

— Non l’ho fatto per salvare la tua brodaglia — disse Dom.

— L’ho fatto perché non volevo lasciare la mia vita e la vita degli altri nelle mani di un pazzo.

— Avrai quella promozione, Flash — disse J.J.

— Va’ al diavolo — disse Dom. — Tu e Art fate pulizia.

— Indicò il cadavere. — Aiuterò Neil a fare le riparazioni.

Ellen si mise al lavoro con Dom e Neil, e si dimostrò piuttosto brava con gli arnesi. Lavorando, Dom riuscì a non pensare alla follia di J.J. Quando ebbero finito, parecchie ore dopo, era stanco e sporco e non vedeva l’ora di farsi un bagno e una dormita di dieci ore. Stava proprio per mettersi a dormire, quando entrò nella sua cabina J.J., non invitato.

— Jensen è nella cella frigorifera — disse. — Ci sarà un’inchiesta, quando torneremo.

Dom annuì.

— Ho passato un po’ di tempo in cambusa, Flash.

Dom si tirò su a sedere. J.J. prese un vassoio da un carrello che era nascosto dietro le sue spalle, e porse a Dom una tazza di caffè.

— Zucchero? Panna? — gli chiese, tutto gentile.

Dom scosse la testa.

— Prova questo — disse J.J., alzando il coperchio di un vassoio d’argento sul quale c’erano pezzettini di qualcosa che somigliava molto al burro.

— Che roba è?

— Tu prova a mangiare. — J.J. prese un pezzetto di quella sostanza e se lo infilò in bocca.

Dom ne prese uno a sua volta e lo guardò. Era leggermente granuloso e al tatto era soffice come pane bianco. Lo assaggiò poco convinto, poi ne prese un bel boccone e lo masticò con aria pensierosa. Non somigliava a nessuna delle cose commestibili che conosceva; aveva un buon sapore, sano, dolce, gradevole.

— Adesso vuoi stare ad ascoltarmi un attimo, Flash? — disse J.J., con un gran sorriso.

— J.J. — disse Dom — devo ammettere che a questo punto ti sei guadagnato tutta la mia attenzione.

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