DUE 2095 I Guerrieri della Luce

uno

Se l’Accolito di Terzo Livello Christopher Mondschein aveva una debolezza, era quella di bramare una vita eterna. Il desiderio di vivere per sempre è abbastanza diffuso fra gli uomini, e non è di per sé realmente riprovevole. Ma l’Accolito Mondschein esagerava un po’.

— Dopo tutto — fu costretto a ricordargli un giorno uno dei suoi superiori — il tuo compito all’interno della Confraternita è quello di preoccuparti del bene degli altri. Non quello di pensare al tuo tornaconto. Sono stato chiaro?

— Perfettamente chiaro, fratello — rispose Mondschein, teso. Era sul punto di esplodere per la vergogna, il rimorso e la rabbia. — Vedo il mio errore e chiedo perdono.

— Non è una questione di chiedere perdono, Accolito Mondschein — rispose l’anziano uomo. — L’importante è che tu capisca. Di perdonarti non mi importa un accidente. Quali sono i tuoi ideali, Mondschein? Qual è lo scopo della tua vita?

L’accolito esitò prima di rispondere, in primo luogo perché era buona norma soppesare le parole prima di esprimersi di fronte a un superiore e, in secondo luogo, perché sapeva di camminare sul filo del rasoio. Tirò nervosamente le pieghe della veste e lasciò vagare lo sguardo per il tempio, imponente nella sua magnificenza gotica.

Si trovavano nel matroneo, sopra la navata centrale. Non vi era nessuna funzione in corso in quel momento, ma i primi banchi erano occupati da alcuni fedeli che pregavano, inginocchiati di fronte alla luce azzurra emanata da un piccolo reattore al cobalto, collocato sull’altare. Era il tempio di Nyack della Confraternita della Radianza Immanente, la terza chiesa, in ordine di grandezza, dell’area newyorchese. Mondschein era entrato a farne parte sei mesi prima, il giorno del suo ventiduesimo compleanno. Allora aveva sperato che fosse un autentico sentimento religioso a indurlo a devolvere tutti i suoi averi alla chiesa vorsteriana. Ma adesso non ne era più così sicuro.

Si aggrappò alla balaustra del matroneo e, a bassa voce, disse: — Voglio aiutare le persone, fratello. Persone in generale e persone in particolare. Voglio aiutarli a trovare la via. Voglio che l’umanità sia consapevole dei grandi ideali che deve perseguire. Come predica Vorst…

— Risparmiami le scritture di Vorst, Mondschein.

— Cercavo soltanto di spiegarle…

— Lo so. Ascolta, non capisci che una scala si sale gradino dopo gradino? Non puoi scavalcare i tuoi superiori, come se giocassi alla cavallina, anche se sei impaziente di arrivare in cima. Vieni un attimo nel mio ufficio.

— Sì, fratello Langholt. Come vuole lei.

Mondschein seguì l’anziano confratello verso gli uffici amministrativi del tempio. L’edificio era di recente costruzione e incredibilmente bello, neanche lontanamente paragonabile ai palazzi vecchi e squallidi che, un quarto di secolo prima, avevano ospitato le prime sale adibite al culto. Con la mano ossuta, Langholt toccò lo stipite della porta, che si dilatò immediatamente. I due uomini entrarono.

Era una stanza piccola, austera, buia e cupa, sovrastata da una volta a crociera di stile gotico. Le due pareti laterali erano tappezzate di libri. La scrivania era una lastra di ebano lucido sulla quale splendeva una lucina azzurra, simbolo miniaturizzato della Confraternita. Ma Mondschien vide subito anche un’altra cosa sul tavolo: la lettera che aveva scritto al Supervisore Distrettuale chiedendo di essere trasferito al centro di studi genetici della Confraternita a Santa Fe.

Mondschein arrossì. Arrossiva facilmente; aveva le guance paffute, con una spiccata tendenza a imporporarsi. Era un uomo leggermente più alto della media, piuttosto in carne, con i capelli grossi e scuri, i tratti marcati e lo sguardo serio. Mondschein si sentiva terribilmente immaturo rispetto al confratello macilento e di aspetto ascetico che gli stava dando quella lavata di capo.

— Immagino che tu l’abbia riconosciuta — disse Langholt indicando il foglio. — È la lettera che hai scritto al Supervisore Kirby.

— Ma, signore, era una lettera personale. Io…

— Nel nostro ordine non esistono cose personali, Mondschein! Comunque è stato il Supervisore Kirby in persona a farmela pervenire e, come puoi vedere, ha aggiunto un appunto in margine.

Mondschein prese il foglio. Nell’angolo in alto a sinistra era stato scarabocchiato un breve messaggio. — Ha parecchia fretta il nostro giovane accolito, eh? Gli dia una bella lezione. R.K.

Mondschein posò il foglio e attese le sferzanti parole di sdegno del suo superiore. Ma anziché corrucciarsi, l’anziano uomo gli sorrise.

— Perché volevi andare a Santa Fe, Mondschein?

— Per partecipare alle ricerche che vengono condotte al centro. E… anche al programma di riproduzione.

— Ma tu non sei un esperiano.

— Magari possiedo qualche gene nascosto. O forse potrebbero sottoporre i miei geni a qualche manipolazione, per poi poterli sfruttare. Signore, deve capire che le mie intenzioni non erano soltanto egoistiche. Io volevo dare il mio contributo alla ricerca scientifica.

— Tu puoi contribuire con il tuo lavoro, con la preghiera e con l’assidua ricerca di anime da convertire. Se è destino che un giorno tu venga chiamato a Santa Fe, accadrà a tempo debito. Non pensi che possano esserci altri confratelli più anziani che, come te, desiderano potervi accedere? Io per esempio, Oppure Fratello Ashton? O lo stesso Supervisore Kirby? Tu entri qui, per così dire dalla strada, e dopo pochi mesi vorresti già il biglietto per Utopia. Mi dispiace, ma non è così semplice, accolito Mondschein.

— Che cosa posso fare adesso?

— Devi purificarti. Liberare il tuo cuore dall’orgoglio e dall’ambizione. Devi inginocchiarti e pregare. Devi svolgere umilmente il tuo lavoro quotidiano e non cercare rapide promozioni. Quello è senz’altro il sistema migliore per non ottenere quello che desideri.

— Forse, se mi proponessi per il servizio missionario — azzardò Mondschein. — C’è un gruppo che sta per partire per Venere…

Langholt sospirò. — Ci risiamo! Devi imparare a frenare la tua ambizione, Mondschein!

— Veramente io la consideravo una penitenza…

— Naturalmente. Tu immagini che quei missionari rischiano di venire martirizzati e pensi: se, per un colpo di fortuna, mi inviano su Venere e non vengo scuoiato vivo, una volta ritornato sulla Terra godrò di grande stima e mi manderanno a Santa Fe, come i guerrieri vanno al Valhalla. Oh Mondschein, Mondschein, sei così trasparente! Ma rifiutando di accettare il tuo destino tu rasenti l’eresia!

— Signore, le assicuro che non ho mai avuto niente a che fare con gli eretici. Io…

— Non ti sto accusando di niente — lo interruppe Langholt, con tono grave. — Sto semplicemente cercando di farti capire che ti stai incamminando su una strada pericolosa. Sono preoccupato per te, Mondschein. Ma guarda… — Così dicendo gettò la lettera incriminata in un distruggi-rifiuti e, con una fiammata, il foglio si disintegrò. — Sono disposto a dimenticare l’intero episodio, come se non fosse successo nulla. Ma tu non dimenticartelo e impara a essere più umile. Te lo ripeto, Mondschein, impara a essere più umile. Adesso va nel tempio a pregare. Puoi andare.

— Grazie, Fratello — borbottò Mondschein.

Gli tremavano le ginocchia mentre attraversava la stanza, diretto allo scivolopozzo a spirale che conduceva al tempio vero e proprio. Tutto considerato, sapeva di essersela cavata con poco. Langholt avrebbe potuto punirlo con una pubblica reprimenda, o, peggio ancora, spedirlo in qualche luogo non molto desiderabile, come la Patagonia o le Isole Aleutine. Avrebbero addirittura potuto sospenderlo dall’ordine.

Aveva commesso un errore enorme scavalcando Langholt, di questo Mondschein si rendeva conto. Ma che cos’altro poteva fare un uomo? Il pensiero che, giorno dopo giorno il tuo corpo muore un po’, mentre a Santa Fe selezionano le persone destinate a vivere per sempre… Era insopportabile l’idea di restare fra gli esclusi. Quando si rese conto che, scrivendo quella lettera, si era sicuramente giocato tutte le possibilità di venire accolto al Centro, il suo morale scese sotto i tacchi delle scarpe.

Mondschein scivolò in uno degli ultimi banchi e fissò cupamente il cubo di cobalto 60 collocato sull’altare.

Oh Fuoco Azzurro avvolgimi nella tua luce santa e purificami dalle mie colpe, implorò.

A volte, mentre pregava inginocchiato di fronte all’altare, Mondschein aveva avvertito il brivido spettrale dell’esperienza spirituale. Ma quello rappresentava il massimo grado della sua partecipazione, perché, nonostante fosse un Accolito della Confraternita della Radianza Immanente, e un vorsteriano della seconda generazione, Mondschein non era un uomo religioso. Che cadessero gli altri in estasi davanti all’altare, pensava. Perché lui sapeva bene quale fosse l’essenza di quel culto: il credo di Vorst non era che un paravento dietro il quale si celava un complesso programma di ricerca genetica. O quella, almeno, era la sua convinzione, anche se, talvolta, veniva assalito dai dubbi, e non riusciva più a capire quale fosse il pretesto e quale la realtà. Erano così tante le persone che sembravano trarre grandi benefici spirituali da quella religione, mentre non aveva nessuna prova che i ricercatori dei laboratori di Santa Fe avessero ottenuto qualche risultato concreto.

Mondschein chiuse gli occhi. La testa gli crollò sul petto. Immaginò gli elettroni che roteavano vorticosamente attorno alla loro orbita e recitò mentalmente la Litania Elettromagnetica, snocciolando le stazioni dello spettro.

Immaginò un Christopher Mondschein imperituro e, mentre invocava le frequenze medie, uno struggimento quasi incontenibile gli trafisse il petto. E, molto prima di giungere a supplicare i raggi X, fu sopraffatto da un così terribile senso di frustrazione e da una così grande paura di morire, che temette di sentirsi male. Ancora sessanta, al massimo settant’anni e la sua vita sarebbe finita, mentre a Santa Fe…

Aiuto! Aiuto! Aiuto!

Qualcuno mi aiuti. Non voglio morire!

Mondschein sollevò lo sguardo sull’altare. Il Fuoco Azzurro guizzò come se volesse beffarlo spegnendosi del tutto. Oppresso dalla tetraggine gotica del tempio, l’accolito balzò in piedi e si precipitò fuori all’aria aperta.

due

Con la veste color indaco e il cappuccio da monaco, Mondschein dava molto nell’occhio. Le persone lo fissavano come se possedesse poteri soprannaturali e, poiché non osavano avvicinarsi, nessuno sapeva che era un semplice accolito. Il fatto sconcertante era che, benché fossero anche loro seguaci di Vorst, non riuscivano a capire che i membri della Confraternita non avevano alcun rapporto con il soprannaturale. Mondschein non teneva in grande considerazione l’intelligenza dei laici.

Salì sulla banchina scorrevole. La città giganteggiava attorno a lui, con i suoi enormi grattacieli di travertino, che si stagliavano minacciosi nella luce rossastra di quel pomeriggio di marzo. New York si era estesa, come una piaga, lungo tutto il corso dell’Hudson e i grattacieli avevano invaso la terra degli Adirondack; anche Nyack era stata da tempo inglobata dalla metropoli. L’aria era fresca, ma pervasa da un acre odore di fumo; forse era scoppiato un incendio nel parco naturale, pensò cupamente Mondschein. Vedeva la morte dappertutto.

Il suo modesto appartamento si trovava cinque isolati dal tempio. Viveva solo. Gli accoliti dovevano sottoscrivere un atto di rinuncia per potersi sposare e la regola dell’ordine proibiva le relazioni occasionali. Comunque il celibato non rappresentava un sacrificio particolarmente gravoso per lui, anche se aveva sperato di venire sciolto da quel vincolo una volta arrivato a Santa Fe. Si diceva che a Santa Fe ci fossero accoliti donne belle, giovani e disponibili. E poi mica tutti gli esperimenti di riproduzione potevano avvenire con l’inseminazione artificiale, si era più volte detto Mondschein, speranzoso.

Ma adesso la cosa non aveva più importanza. Su Santa Fe poteva farci una croce. Scrivendo quella maledetta lettera al Supervisore Kirby aveva rovinato tutto.

Così sarebbe rimasto bloccato per sempre ai gradini più bassi della scala gerarchica del movimento. A tempo debito lo avrebbero ammesso nella Confraternita, lui avrebbe indossato una veste leggermente diversa, si sarebbe lasciato crescere la barba, forse, avrebbe officiato le funzioni e avrebbe provveduto ai bisogni della congregazione.

Bene. La Confraternita della Radianza Immanente era il movimento religioso che, più di qualsiasi altro, stava prendendo piede sulla Terra e servire la causa era senz’altro un lavoro nobile. Ma un uomo privo di una reale vocazione non poteva essere contento di reggere un tempio e Mondschein non aveva la benché minima ispirazione religiosa. Aveva deciso di entrare nella Confraternita per uno scopo ben preciso e adesso si rendeva conto di aver fatto male i suoi conti.

Così era rimasto in trappola. Sarebbe diventato uno dei tanti Fratelli vorsteriani. Erano migliaia i templi sparsi in tutto il mondo e la Confraternita contava qualcosa come cinquecento membri. Non male per una religione nata neanche trent’anni prima. Le vecchie fedi mostravano chiari segni di sofferenza. Il credo vorsteriano offriva qualcosa che le altre religioni non contemplavano: il conforto della scienza e la sicurezza che oltre il ministero spirituale ce ne fosse un altro che serviva l’Unità sondando i misteri più oscuri della natura. Dona un dollaro al tuo tempio e contribuirai alla ricerca dell’elisir della vita eterna. Era quello il motto della chiesa vorsteriana e funzionava. C’erano anche le imitazioni, naturalmente, culti minori, alcuni dei quali, nel loro piccolo, riscuotevano un certo successo. Esisteva anche una setta eretica vorsteriana, quella degli Armonisti, i propagatori dell’Armonia Trascendente; si trattava di una propaggine della religione madre. Mondschein aveva scelto i vorsteriani, e restava fedele a loro, perché era stato educato fin da piccolo ad adorare il Fuoco Azzurro. Ma…

— Permesso! Oh, mi scusi tanto!

Qualcuno lo urtò. Una mano robusta lo colpì alla schiena, dandogli un tale spintone che per poco non lo fece cadere. Mondschein vacillò, ma riuscì a recuperare l’equilibrio e, quando alzò lo sguardo vide un uomo con le spalle larghe, e una semplice tunica blu da manager, che sì allontanava a passo di corsa. Pezzo d’idiota, pensò Mondschein. C’era posto per tutti sulla banchina scorrevole. Che motivo aveva di correre come una furia?

Si sistemò la veste e riassunse un contegno degno di un accolito vorsteriano. In quel momento una voce gentile gli sussurrò: — Non andare nel tuo appartamento, Mondschein. Prosegui fino alla stazione di Tarrytown. Lì troverai una barcacelere ad attenderti.

Mondschein si guardò attorno. Non c’era nessuno accanto a lui. — Chi ha parlato? — domandò.

— Rilassati e collabora, Mondschein. Non ti accadrà niente di male. Al contrario, stiamo facendo tutto questo per il tuo bene.

Mondschein si voltò. La persona più vicina era una signora anziana, che si trovava a un paio di metri da lui. La donna rispose al suo sguardo con un sorriso sciocco, come se invocasse una benedizione. Chi aveva parlato? Per un istante, Mondschein pensò di essere diventato telepatico, di possedere un potere paranormale che solo adesso, che aveva raggiunto la maturità, si manifestava. Ma no, era stata una voce, non un pensiero-messaggio. Allora Mondschein capì. L’uomo che l’aveva urtato pochi minuti prima doveva avergli nascosto fra le pieghe della veste un Orecchio rice-trasmittente: una minuscola placca di metallo dello spessore di una mezza dozzina di molecole, un vero e proprio miracolo della più raffinata tecnologia di subminiaturizzazione. Mondschein non si dette la pena di cercarla.

— Chi sei? — domandò semplicemente.

— Non importa. Tu scendi alla stazione di Tarrytown e qualcuno ti verrà a prendere.

— Ma io indosso la veste dei vorsteriani.

— Provvederemo anche a questo — rispose pacatamente la voce.

Mondschein si mordicchiò il labbro. Non poteva allontanarsi dalle immediate vicinanze del tempio, senza il permesso dei suoi superiori, ma adesso non aveva certo il tempo di chiederlo, e, in ogni caso, non aveva nessuna intenzione di scontrarsi con la burocrazia, subito dopo essere stato aspramente ripreso da Fratello Langholt. Avrebbe rischiato.

La banchina scorrevole filava.

Erano ormai prossimi alla stazione di Tarrytown. Mondschein aveva lo stomaco contratto dalla tensione. Sentiva già l’odore acre dei gas di scarico delle barcaceleri. Il vento gelido si insinuava fra le pieghe della sua veste, cosicché adesso non tremava soltanto per l’agitazione, ma anche per il freddo. Smontò dalla banchina scorrevole ed entrò nella stazione, un edificio con i muri di plastica dipinti a colori vivaci e sormontato da una lucente cupola giallo-verdastra. Non era molto affollata. Non era ancora l’ora di punta, quando i pendolari rientravano in massa dalla città, e, in ogni caso, la vera ressa ci sarebbe stata soltanto alcune ore più tardi, quando tutti uscivano per la cena.

Gli si avvicinarono alcuni individui. La voce, proveniente dalle pieghe della veste, disse: — Non fissarli e seguili camminando normalmente.

Mondschein obbedì. Erano tre, due uomini e una donna magra, con il viso spigoloso. Camminando senza fretta, come se stessero passeggiando, superarono le edicole delle faxnotizie, i chioschi dei lustrascarpe e la fila di armadietti del deposito bagagli. Uno degli uomini, basso, con la testa squadrata e i capelli gialli e stopposi, batté con forza la mano contro uno degli armadietti e lo aprì. Ne estrasse un pacco voluminoso che si mise sotto il braccio. Mentre attraversava diagonalmente l’atrio della stazione diretto alla toilette degli uomini, la voce disse: — Aspetta trenta secondi, poi seguilo.

Mondschein finse di ascoltare il cicaleccio proveniente dall’edicola delle faxnotizie. Non era entusiasta della situazione in cui si trovava, ma intuiva che opporre resistenza sarebbe stato inutile, se non addirittura pericoloso. Dopo aver contato fino a trenta, si avviò in direzione del bagno. Lo scanner decretò che era un maschio e sulla porta si accese la scritta AVANTI. Mondschein entrò.

— Terza cabina — mormorò la voce.

Dell’uomo biondo nessuna traccia. Mondschein entrò nel bagno e trovò il pacco appoggiato contro il water. Obbedendo a un nuovo ordine della voce, lo adagiò e sbloccò le fibbie. L’involucro si aprì e Mondschein si trovò fra le mani la veste verde dei Fratelli Armonisti.

Gli eretici? Ma che cosa stava…

— Indossala, Mondschein.

— Non posso. Se mi vedono…

— Non ti vedrà nessuno. Indossala. La tua tunica la conserveremo noi fino al tuo ritorno.

Si sentiva un burattino. Si tolse la veste e la appese a un gancio; poi indossò l’uniforme degli eretici. La misura era giusta, c’era qualcosa appeso al pannello interno: una maschera termoplastica, scoprì Mondschein. Trasse un sospiro di sollievo e formulò un pensiero di gratitudine. La spiegò, la calcò sul viso e la tenne premuta fino a quando aderì perfettamente alla sua pelle. La maschera avrebbe camuffato i suoi tratti quel tanto che bastava per non dover temere di venire riconosciuto.

Quindi piegò con cura la propria veste, l’avvolse nell’involucro e fermò le fibbie.

— Lasciala sul water — disse la voce.

— Non mi fido. Se me la perdete, poi io come lo spiego ai miei superiori?

— Stai tranquillo, Mondschein. Non la perderemo. Adesso, muoviti, perché la barcacelere sta per salpare.

Mondschein uscì dal bagno di malavoglia. Si guardò allo specchio. Il suo viso paffuto adesso sembrava grasso: guance piene, la pappagorgia irsuta, labbra carnose e umide. Ombre scure gli circondavano gli occhi, come se avesse fatto bisboccia per un’intera settimana. Anche la veste verde gli faceva uno strano effetto. Indossando i panni degli eretici si sentiva vicino come non mai al suo movimento.

Quando varcò la soglia della sala d’aspetto, la donna magra gli andò incontro. Aveva gli zigomi affilati come lame d’ascia e, al posto delle palpebre aveva tapparelle fatte di una sottile lamina di platino. Era una moda della generazione passata; Mondschein ricordava quando sua madre era ritornata dallo studio del chirurgo plastico con il viso ridotto a una maschera grottesca. Adesso non si usava più. Quella donna doveva avere almeno quarant’anni, anche se sembrava molto più giovane.

— Armonia eterna a te, fratello — disse con voce rauca.

Mondschein cercò di ricordare quale fosse la risposta giusta a quel saluto, ma non la trovò e, improvvisando, disse: Che l’Unità pessa sorriderti.

— Ti ringrazio della tua benedizione. Il tuo biglietto è a posto. Vuoi seguirmi, fratello?

Era lei la sua guida, dunque. Quando si era spogliato si era liberato anche dell’Orecchio oltre che della veste. Con un vago senso di disagio, si augurò di rivedere presto l’abito dal quale si era separato. Seguì la donna sulla banchina di imbarco. Potevano portarlo ovunque, Chicago, Honululu, Montreal…

La barcacelere, aggraziata ed elegante nel suo rivestimento verde-bluastro scintillava nella stazione inondata di luce. Mentre salivano a bordo, Mondschein si voltò verso la donna e domandò: — Dove stiamo andando?

— A Roma — fu la risposta.

tre

Mondschein sgranò gli occhi quando gli sfrecciarono davanti i monumenti dell’antichità. Il Foro romano, il Colosseo, il teatro di Marcello, il pacchiano monumento a Vittorio Emanuele… Il percorso che stavano seguendo attraversava proprio il cuore dell’antica città. Quando divorarono Via dei Fori Imperiali, vide anche l’alone azzurro di un tempio vorsteriano, ma la sua presenza gli parve stridente nella città santa di una antica religione. Invece, la Confraternita aveva preso piede a Roma. Quando Gregorio XVIII appariva alla finestra del suo studio, in Vaticano, riusciva ad attirare ancora centinaia di migliaia di romani festanti, ma, dopo aver visto il Papa, molti di quegli stessi romani andavano a raccogliersi in preghiera nel tempio vorsteriano più vicino.

Evidentemente anche gli Armonisti stavano riscuotendo successo da quelle parti, pensò Mondschein, ma non disse nulla. La macchina lasciò la città e proseguì verso nord.

— Questa è la via Flaminia — lo informò la sua guida. — La nuova strada elettronica è stata installata sulla vecchia carreggiata. Qui le persone hanno un profondo senso della tradizione.

— Non ne dubito — rispose Mondschein con aria stanca. Era quasi notte, adesso, e in tutta la giornata non aveva mangiato che una merendina sulla barcacelere. A Roma era arrivato poche ore prima dell’alba, dopo novanta minuti di viaggio. Sulla città gravava una nebbia invernale; la primavera tardava ad arrivare quell’anno. A Mondschein prudeva terribilmente la faccia sotto la maschera. La paura gli gelava le dita.

Si fermarono di fronte a un tetro palazzo con i mattoni a vista a una quindicina di chilometri da Roma. Rabbrividendo, Mondschein si affrettò a entrare. La donna con le palpebre di platino salì le scale davanti a lui e lo precedette in una stanza calda e ben illuminata. Lì li attendevano tre uomini, che vestivano la tunica verde degli armonisti. Adesso ne aveva la conferma, pensò Mondschein: questo è un covo di eretici.

I tre religiosi non si presentarono. Il primo era basso e tozzo, con il viso giallastro e il naso a patata. Il secondo era alto e di una magrezza spettrale, con braccia e gambe che ricordavano le zampe di un ragno. Il terzo non era degno di nota; aveva la carnagione chiara e gli occhi sottili e scialbi. L’uomo tarchiato era il più vecchio e sembrava il capo.

Senza preamboli gli disse: — A quanto pare la tua richiesta è stata respinta.

— Come fate a…

— Non preoccuparti del come. Ti abbiamo osservato, Mondschein e speravamo che ce la facessi. Noi vogliamo un uomo a Santa Fe almeno quanto tu desideri andarci.

— Ma voi siete Armonisti?

— Sì. Gradisci un po’ di vino, Mondschein?

L’accolito scrollò le spalle. L’eretico alto e magro fece un gesto e la donna, che era rimasta nella stanza, si avvicinò con un fiasco di vino dorato. Mondschein accettò di berne un bicchiere, convinto in cuor suo che fosse quasi sicuramente drogato. Il vino era fresco e leggermente dolce, come un Graves demi-sec. Anche gli altri gli tennero compagnia.

— Che cosa volete da me?

— Il tuo aiuto — rispose l’uomo tozzo. — C’è una guerra in corso e vogliamo che tu passi dalla nostra parte.

— A me non risulta che ci sia nessuna guerra.

— Una guerra fra le tenebre e la luce — intervenne con tono garbato l’eretico alto e magro. — Noi siamo i guerrieri della luce. Non devi pensare che siamo dei fanatici, Mondschein. Al contrario, noi siamo persone molto ragionevoli.

— Forse sai già — intervenne il terzo armonista — che la nostra fede è figlia di quella in cui credi tu. Noi rispettiamo gli insegnamenti di Vorst e seguiamo quasi tutte le strade che ha tracciato. Anzi, noi riteniamo di essere più fedeli alla sua dottrina di quanto non lo sia l’attuale gerarchia della Confraternita. Noi rappresentiamo un movimento purificatore. Ogni religione ha bisogno dei suoi riformatori.

Mondschein sorseggiò il vino. Poi, con un luccichio malizioso negli occhi, osservò: — In genere i movimenti di riforma cominciano ad apparire dopo mille anni. Noi siamo nel 2095 e la Confraternita non ha neanche trent’anni di vita.

L’armonista tarchiato annuì. — Oggi tutto accade molto più in fretta di un tempo. Ai cristiani furono necessari trecento anni per assumere il controllo politico di Roma, dall’impero di Augusto a quello di Costantino. Ai vorsteriani è bastato molto meno. Tu conosci la storia: in tutti gli organismi legislativi del mondo siedono uomini della Confraternita. In alcuni paesi hanno addirittura creato un vero e proprio partito politico. Immagino che non ci sia bisogno che io ricordi anche l’enorme potere economico-finanziario che l’organizzazione ha acquisito in pochi anni…

— E voi purificatori caldeggiate il ritorno allo stato di cose di trent’anni fa? — domandò Mondschein. — Ai palazzi fatiscenti, alle persecuzioni e tutto il resto? È questo che volete?

— Certo che no. Noi apprezziamo i vantaggi del potere. Però siamo convinti che il movimento stia disperdendo le proprie energie in cose che non lo riguardano. Una volta concepivate il potere in funzione di più grandi obiettivi da raggiungere, adesso, invece, lo perseguite solo per se stesso.

— Lo stato maggiore vorsteriano cavilla sulle nomine politiche e si batte per modificare la normativa fiscale — interloquì l’armonista magro e allampanato. — Spreca tempo ed energie cincischiando su questioni di politica interna, mentre su Marte e su Venere non esiste ancora un solo tempio! Zero assoluto, rifiuto totale della religione! E il programma di riproduzione degli esperiani che risultati ha dato? Quali sono questi progressi sensazionali tanto propagandati e tanto attesi?

— Ma siamo solo alla seconda generazione — disse Mondschein. — Dovete avere pazienza. — Non poté trattenere un sorriso, lui che invitava alla pazienza gli altri, poi aggiunse: — Io sono convinto che la Confraternita si stia muovendo nella giusta direzione.

— Noi, ovviamente, no — disse il terzo armonista, prendendo la parola per la prima volta. — Quando ci siamo resi conto che era impossibile promuovere le riforme dall’interno, siamo stati costretti ad andarcene e a dare vita a un nuovo movimento, parallelo a quello originario. Gli obbiettivi finali che ci proponiamo di raggiungere sono gli stessi. L’immortalità dell’uomo attraverso la rigenerazione corporale. E pieno sviluppo dei poteri extrasensoriali, cosa che prelude a nuovi sistemi di comunicazione e di controllo. È questo che noi vogliamo… non il diritto di decidere sulle tasse locali.

— Dunque il vostro intento è innanzitutto quello di assicurarvi il potere politico e poi concentrarvi sugli obiettivi a lungo termine.

— Non necessariamente — ribatté bruscamente l’armonista tozzo. — Quella che a noi interessa è l’azione diretta. E confidiamo nel successo. In un modo o nell’altro realizzeremo i nostri ideali.

La donna magra si avvicinò a Mondschein per versargli ancora un po’ di vino. Lui cercò di sottrarre il bicchiere, ma lei insistette nel riempirglielo e lui lo bevve. Poi disse. — Immagino che non mi abbiate fatto venire fino a Roma per esprimermi il vostro parere sulla Confraternita. Perché avete bisogno di me?

— Supponiamo per un istante che noi riusciamo a farti trasferire a Santa Fe — disse l’armonista basso e tarchiato.

Mondschein drizzò immediatamente la schiena e serrò le dita attorno al bicchiere fino quasi a spezzarlo.

— Com’è possibile?

— Supponiamo che noi siamo in grado di farlo. Saresti disposto a procurarti certe informazioni dai laboratori del centro e a passarcele?

— Fare la spia per conto vostro?

— Sei stato tu a dirlo.

— Mi sembra una brutta cosa — obiettò Mondschein.

— Riceveresti un’adeguata ricompensa.

— Dovrebbe trattarsi di una ricompensa molto significativa.

L’eretico si protese verso di lui e, abbassando il tono della voce, disse: — Ti offriamo un posto al decimo-livello della nostra organizzazione. Per ottenere una simile elevazione di grado all’interno della Confraternita dovresti attendere almeno quindici anni. Noi siamo un movimento più piccolo. Da noi la scala gerarchica si sale molto più rapidamente. Un uomo ambizioso come te potrebbe arrivare al vertice prima dei cinquant’anni.

— E che gusto c’è? — domandò Mondschein. — Forse potrei raggiungere i gradi più alti della vostra gerarchla, ma voi non siete il movimento religioso vincente!

— Ah, ma lo diventeremo! Grazie alle informazioni che tu ci procurerai e che ci permetteranno di espanderci! E quando vedranno quello che abbiamo da offrire, milioni di persone lasceranno la Confraternita per unirsi a noi! E tu diventerai un pezzo grosso dell’organizzazione, perché ti sei schierato dalla nostra parte fin dall’inizio.

Il ragionamento di quell’eretico non faceva una grinza, riconobbe Mondschein. La Confraternita aveva già esaurito il suo processo di espansione: era ricca, potente e fin troppo piena di burocrati. Non c’era speranza per lui di riuscire a fare carriera. Se, invece, passava dalla parte di un gruppo piccolo, ma dinamico, e con ambizioni pari alle sue…

— Non funzionerà mai — disse scuotendo tristemente la testa.

— Perché?

— Anche nell’ipotesi che riusciate a farmi accedere al centro di Santa Fe, gli esperiani mi passeranno al vaglio e capiranno che sono un impostore. Il ricordo di questa conversazione mi tradirà e loro mi cacceranno.

L’uomo basso e tozzo distese le labbra in un ampio sorriso — Che cosa le fa pensare che ricorderà questa conversazione. Anche noi abbiamo i nostri esperiani, accolito Mondschein!

quattro

Christopher Mondschein si ritrovò in una stanza paurosamente vuota. Era un quadrato perfetto, all’interno del quale non vi era assolutamente nulla. Solo lui. Nessun mobile, nessuna finestra, nemmeno una ragnatela. Spostando nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro, Mondschein scrutò il soffitto, alto, cercando, senza successo, la fonte di quell’illuminazione rigorosamente omogenea. Non sapeva nemmeno in quale città si trovasse. Lo avevano portato via da Roma al sorgere del sole e a quell’ora poteva essere a Jakarta, a Benares o forse ad Akron.

Nutriva profondi dubbi sull’impresa in cui si era imbarcato. Gli armonisti gli avevano garantito che non avrebbe corso nessun rischio, ma lui non ne era così sicuro. La Confraternita non poteva aver raggiunto quel livello di potenza senza aver elaborato adeguate misure di auto-protezione. Per quanto gli avessero assicurato il contrario, era assai probabile che i vorsteriani lo scoprissero molto prima che lui riuscisse ad infiltrarsi nei labo-ratori segreti del centro di ricerca di Santa Fe. Dopodiché per lui le cose si sarebbero messe davvero male.

La Confraternita sapeva come punire i traditori. Dietro l’apparente benevolenza dei suoi gerarchi si nascondeva una vena di indispensabile crudeltà. A Mondschein erano giunte all’orecchio alcune storie: una riguardava il supervisore regionale delle Filippine, reo di essersi lasciato convincere a consegnare ad alcuni ufficiali di polizia anti-vorsteriani, i verbali del sommo concilio.

Forse era una storia apocrifa. Mondschein aveva sentito dire che, dopo essere stato scoperto, il supervisore era stato trasferito a Santa Fe, dove aveva subito la perdita dei ricettori del dolore. Una bella fortuna non sentire più il dolore? Non proprio. Il dolore permette all’uomo di difendersi dai pericoli. In mancanza di percezione dolorosa, come può una persona rendersi conto se un oggetto o un liquido sono troppo caldi o troppo freddi?

Così finisce per procurarsi una serie di piccole ferite: scottature, tagli, abrasioni. E pericolose mutilazioni corporee: via un dito, via il naso, via un occhio, via un brandello di pelle… potrebbe addirittura mangiarsi la lingua senza accorgersene.

Mondschein rabbrividì. A un tratto, la parete perfettamente liscia che aveva di fronte rientrò, come un telescopio, e nella stanza apparve un uomo. La parete si richiuse alle sue spalle.

— Lei è un esperiano? — sbottò Mondschein nervosamente.

L’uomo annuì. Non aveva tratti particolari. Il volto mostrava vaghe caratteristiche euroasiatiche. Aveva le labbra sottili, i capelli scuri e lucidi, la carnagione quasi olivastra. A Mondschein parve di cogliere un’espressione di fragilità nel suo sguardo.

— Si distenda sul pavimento — disse l’esperiano, con voce dolce e impastata. — Si rilassi. Lei ha paura di me e invece non deve.

— Perché non dovrei? Lei sta per mettere le mani nella mia mente!

— Si rilassi, la prego.

Mondschein ci provò. Si sdraiò sul pavimento gommoso e cedevole e allungò le braccia lungo i fianchi. L’esperiano si diresse verso un angolo della stanza e si sedette assumendo la posizione fior di loto, senza guardarlo. L’accolito attese in preda a un crescente senso di incertezza.

Non aveva visto molti esperiani in vita sua, anche se ormai erano piuttosto numerosi. Il definitivo riconoscimento dei loro poteri era avvenuto soltanto il secolo prima, dopo anni di dubbi e di confusione, ma adesso esisteva addirittura un programma procreativo che li costringeva a sposarsi fra di loro. Però, la maggior parte degli esperiani non era in grado di controllare i propri poteri. Inoltre, si trattava per lo più di individui emotivamente instabili che, spesso, in condizioni di stress, rischiavano la pazzia. A Mondschein non piaceva per niente l’idea di essere rinchiuso in una stanza senza finestre con un esperiano pazzo.

E se poi fosse stato anche un tipo cattivo? Che anziché procurargli una semplice amnesia selettiva, decidesse di alterargli completamente la memoria? Magari finiva che…

— Può alzarsi adesso — disse bruscamente l’esperiano. — È tutto finito.

— Che cosa è finito? — domandò Mondschein.

L’esperiano scoppiò in una risata trionfante. — Non c’è bisogno che lei lo sappia. È finito e basta.

Il muro rientrò per la seconda volta e l’esperiano scomparve. Mondschein si alzò. Si domandò dove fosse e che cosa gli fosse accaduto: si sentiva stranamente vuoto. Cercò di ricordare: dunque, stava tornando a casa con la banchina scorrevole, un uomo lo aveva urtato e poi…

Una donna magra, con zigomi assurdi e palpebre fatte di una luccicante lamina di platino, gli disse: — Seguimi, per favore.

— Perché dovrei?

— Fidati di me e seguimi.

Mondschein sospirò e lasciò che la donna lo conducesse lungo uno stretto corridoio, che immetteva in un’altra stanza, dipinta a colori vivaci e ben illuminata. In un angolo c’era una vasca di metallo delle dimensioni di una bara. Mondschein capì subito di che cosa si trattasse. Era una camera di deprivazione sensoriale, una cosiddetta Camera del Nulla, all’interno della quale non esisteva la forza di gravità e, momentaneamente soppresse le facoltà visive e uditive, si galleggiava in un liquido tiepido e nutriente. La Camera del Nulla era uno strumento di rilassamento totale. Ma poteva anche servire a scopi più sinistri: se un uomo vi trascorreva troppo tempo, perdeva forza di volontà, al punto da lasciarsi plagiare e indottrinare con estrema facilità.

— Spogliati ed entra subito dentro — gli ingiunse la donna.

— E se io non volessi?

— Lo farai.

— Quanto dura la seduta?

— Due ore e mezzo.

— Troppo — rispose Mondschein. — Mi dispiace. Non sono così teso. Puoi indicarmi da che parte si esce di qui?

La donna fece un cenno di richiamo. Immediatamente, nella stanza entrò un robot, dipinto di un orribile colore nero opaco e con il naso smussato. Mondschein non aveva mai lottato con un robot e non aveva nessuna intenzione di provarci in quel momento. La donna gli indicò di nuovo la Camera del Nulla.

Dev’essere un sogno, si disse Mondschein. Un bruttissimo sogno.

Cominciò a spogliarsi. Un ronzio segnalò che la Camera era pronta. Mondschein entrò e si lasciò sommergere dal liquido. Non vedeva e non sentiva più nulla. Assorbiva l’ossigeno attraverso un catetere. Nel giro di pochi secondi, scivolò in uno stato di totale passività e di fetale benessere. Il groviglio di ambizioni, conflitti, sogni, colpe, desideri e idee che costituiva la mente di Christopher Mondschein si era temporaneamente dissolto.

Al termine della seduta, l’accolito si destò. Lo aiutarono a uscire dalla vasca — vacillava sulle gambe e dovevano sorreggerlo affinché non cadesse — e gli diedero i suoi vestiti. Notò che la tunica era del colore sbagliato: verde, il colore degli eretici. Come era potuto accadere? Era stato arruolato forzatamente nelle truppe degli armonisti? Si guardò bene dal fare domande. Adesso gli stavano applicando una maschera termoplastica. A quanto pare, viaggerò in incognito.

Dopo poco, Mondschein raggiunse una stazione di barcacelere. quando vide che i cartelli erano scritti in arabo, impallidì. Il Cairo? si domandò. Algeri? Beirut? La Mecca?

Gli avevano prenotato un intero scompartimento. La donna con le palpebre di platino gli tenne compagnia per tutta la durata del volo. Mondschein tentò molte volte di interrogarla, ma a tutte le sue domande lei rispose con una scrollata di spalle.

La barcacelere atterrò a Tarrytown. Finalmente un luogo famigliare. Un indicatore temporale informò Mondschein che erano le 7.05 Ora Media Orientale di mercoledì 13 marzo 2095. Era martedì pomeriggio, lo ricordava distintamente, quando era uscito mogio mogio dal tempio dopo la lavata di capo di Fratello Langholt. Saranno state le 16.30. Quindi, aveva trascorso lontano da casa la notte di martedì e le prime ore della mattina di mercoledì: una quindicina di ore in tutto.

Quando entrarono nella grande sala d’attesa, la donna che lo accompagnava bisbigliò: — Vai in bagno. Terza cabina. Cambiati d’abito.

Profondamente turbato, Mondschein obbedì. Sul sedile del water trovò un pacco. Lo aprì e scoprì che conteneva la sua vecchia veste d’accolito color indaco. Si sfilò rapidamente la tunica verde ed indossò la sua. Poi, ricordatosi della maschera termoplastica, la tolse dal viso, la gettò nel water e fece scorrere l’acqua. Quindi impacchettò la tunica verde e, non sapendo più che cosa fare, uscì dalla cabina.

Mentre si avviava verso la sala d’aspetto, un uomo di mezza età scuro di capelli gli andò incontro porgendogli la mano.

— Accolito Mondschein!

— Sì? — disse Mondschein, senza riconoscerlo, ma stringendogli la mano.

— Ha dormito bene?

— Sì… grazie. Molto bene. — Ci fu uno scambio di sguardi e all’improvviso Mondschein dimenticò perché fosse andato in bagno, che cosa vi avesse fatto; dimenticò perfino di aver indossato una veste verde e una maschera termoplastica, di essere appena arrivato da un paese di lingua araba e di essere uscito soltanto poche ore prima da una Camera del Nulla in cui era entrato controvoglia.

Adesso era convinto di aver trascorso una tranquilla notte a casa sua, nel suo modesto alloggio. Che cosa ci facesse alla stazione di Tarrytown a quell’ora del mattino, non gli era del tutto chiaro, ma si trattava di una questione secondaria, che non meritava ulteriori approfondimenti.

In compenso era incredibilmente affamato. Mondschein scese al piano inferiore e, raggiunta la consolle alimentare, ordinò una robusta colazione. La ingollò con avidità. Alle otto era già alla cappella della Confraternita della Radianza Immanente di Nyack, pronto a prendere parte alla funzione mattutina.

Fratello Langholt lo salutò calorosamente. — Spero che il nostro discorsetto di ieri non ti abbia troppo turbato Mondschein.

— Adesso sono tranquillo.

— Bene, bene. Non devi lasciarti travolgere dalle tue ambizioni. Ogni cosa a suo tempo. Controlla il livello gamma del reattore, per favore.

— Subito, fratello.

Mondschein si avviò verso l’altare. Il fuoco azzurro era come un faro nelle incertezze del mondo. L’accolito estrasse il rivelatore di raggi gamma dalla sua custodia e pose mano alle sue incombenze mattutine.

cinque

La lettera di convocazione a Santa Fe giunse tre settimane più tardi. La notizia cadde sul tempio di Nyack come un fulmine, folgorando schiere di monaci anziani e autorevoli, per raggiungere, infine, l’umile chierico.

Fu uno degli accoliti a comunicargli indirettamente la buona nuova. — Fratello Langholt ti aspetta nel suo ufficio, Chris. C’è il supervisore Kirby insieme a lui.

Mondschein si allarmò. — Che cosa significa? Io non ho fatto niente di male… non che io sappia, almeno.

— Non penso che tu sia nei guai, Chris. Comunque è qualcosa di grosso. Sono tutti sotto sopra. Si tratta di un ordine arrivato da Santa Fe. — Il chierico lo scrutò con curiosità. — Mi sembra di aver sentito dire che verrai spedito laggiù in trasferta.

— Molto strano — commentò Mondschein.

Si precipitò nell’ufficio di Langholt. Il supervisore Kirby era in piedi accanto alla libreria di sinistra. Assomigliava così tanto a Langholt che si sarebbero potuti scambiare per fratelli. Erano entrambi alti e magri e, oltre all’età, erano entrambi sulla quarantina, avevano in comune l’espressione ascetica del volto.

Era la prima volta che Mondschein vedeva il supervisore così da vicino. Correva voce che prima di convertirsi alla fede vorsteriana, quindici o vent’anni prima, Kirby fosse un alto funzionario delle Nazioni Unite. Adesso era uno dei più alti esponenti della Confraternita, forse uno dei dieci membri più influenti dell’intera organizzazione. Portava i capelli molto corti e i suoi occhi erano di una strana tonalità di verde. Mondschein trovò difficile reggere il suo sguardo. Ora che si trovava di fronte a lui, si domandava dove avesse trovato il coraggio di scrivergli quella dannata lettera. Kirby accennò a un sorriso. — Mondschein?

— Sì, signore.

— Chiamami fratello, Mondschein. Fratello Langholt mi ha parlato molto bene di te.

Davvero? Pensò l’accolito sorpreso.

Langholt disse: — Ho spiegato al Supervisore che sei ambizioso, pieno di vivacità ed entusiasmo. Ma ho anche precisato che possiedi alcune di queste doti un po’ in eccesso. Forse a Santa Fe imparerai la moderazione.

Sbalordito, Mondschein disse: — Fratello Langholt, io credevo che la mia richiesta di trasferimento fosse stata rifiutata.

Kirby annuì. — Sì, ma poi è stata ripresa in considerazione. Vedi, abbiamo bisogno di alcuni soggetti di controllo. Non-esperiani. Abbiamo chiesto al computer di selezionare una decina di accoliti e il computer ha fatto il tuo nome. A quanto pare hai tutti i requisiti necessari. Immagino che tu voglia ancora andare a Santa Fe?

— Certamente, signore… cioè fratello Kirby.

— Bene. Hai una settimana di tempo per sistemare le tue cose qui e fare i bagagli. — A un tratto gli occhi verdi di Kirby divennero penetranti come due lame. — Mi auguro che il tuo contributo agli studi di Santa Fe si riveli realmente utile, fratello Mondschein.

Mondschein non riusciva a capire se fosse stato spedito a Santa Fe, perché alla fine la sua richiesta era stata accolta o perché volevano liberarsi di lui a Nyack. Gli sembrava inspiegabile che Langholt avesse approvato il suo trasferimento dopo aver manifestato, con parole così dure, il suo dissenso solo poche settimane prima. Ma i sommi capi della Confraternita agivano in modo misterioso, si disse Mondschein. Accettò quella strana decisione di buon grado e non fece domande. Alla fine della settimana, si inginocchiò per l’ultima volta davanti all’altare del tempio di Nyack, prese congedo da fratello Langholt e andò alla stazione di barcacelere per imbarcarsi sul volo di mezzogiorno diretto a ovest.

Arrivò a Santa Fe a metà mattina, ora locale. La stazione era gremita di tonache azzurre, più di quante ne avesse mai viste in un luogo pubblico in tutta la sua vita. In attesa che qualcuno lo venisse a prendere, Mondschein osservò intimidito l’immensità del paesaggio del Nuovo Messico. Il cielo era di un azzurro stranamente luminoso e la visibilità sembrava infinita. All’orizzonte, Mondschein scorse il profilo di una catena di montagne di arenaria. La stazione era circondata da un deserto rossastro, punteggiato di cespugli grigio-verdi di artemisia: Mondschein non aveva mai visto uno spazio così vasto in tutta la sua vita.

— Fratello Mondschein? — domandò un chierico piccolo e tozzo.

— Sì, sono io.

— Io sono Fratello Capodimonte. Sono il tuo accompagnatore. Hai ritirato il tuo bagaglio? Perfetto. Allora, andiamo.

Sul retro della stazione era parcheggiata una lacrima. Capodimonte prese la valigia di Mondschein e la sistemò nel portabagagli. Doveva avere una quarantina d’anni, pensò Mondschein. Un po’ vecchiotto per essere un accolito. Dal collare, sulla nuca, sporgeva un plico di grasso.

Salirono a bordo. Capodimonte accese il motore e la lacrima partì come un razzo.

— È la prima volta che vieni da queste parti?

— Sì — rispose Mondschein. — Sono rimasto molto colpito dal paesaggio.

— Grandioso, vero? Uno spettacolo che esalta la vita. Ti dà un tale senso dello spazio e della storia! È pieno di rovine preistoriche qui. Magari, dopo che ti sarai sistemato, possiamo fare un salto fino al Canyon Frijoles a dare un’occhiata alle caverne. Ti interessano questo genere di cose?

— Non ne so molto — ammise Mondschein. — Però mi piacerebbe vederle.

— In che cosa sei specializzato?

— Nucleonica — rispose Mondschein.

— Io facevo l’antropologo prima di entrare nella Confraternita. Trascorrevo tutto il mio tempo libero giù ai pueblo. È bello, ogni tanto, fare un tuffo indietro nel passato. Soprattutto quaggiù, dove ogni giorno vedi nascere il futuro.

— Allora stanno davvero facendo progressi, eh?

Capodimonte annuì. — Procedono molto bene, a quanto mi dicono. Io non sono un capoccione. I capoccioni, quelli che sanno e che contano veramente, non lasciano quasi mai il centro. Ma da quello che mi è giunto all’orecchio stanno facendo grandi cose. Guarda laggiù fratello: quella che stiamo superando è la città di Santa Fe.

Mondschein guardò. Pittoresca, fu il primo aggettivo che gli venne in mente. La città era piccola, sia come estensione che per le dimensioni dei palazzi, che, a occhio, non superavano i tre o quattro piani di altezza. Perfino a quella distanza, Mondschein riusciva a riconoscere il tetro color bruno rossiccio dell’adobe.

— Me la immaginavo più grande — osservò.

— Zonizzazione. Monumenti storici e tutto il resto. L’hanno conservata com’era cent’anni fa. È proibito costruire nuovi edifici.

Mondschein aggrottò la fronte. — E il centro di ricerche, allora?

— Oh, be’, non è proprio a Santa Fe. Santa Fe è la città più vicina. Il centro si trova a una settantina di chilometri a nord. Vicino alla terra dei Picuri. Sai, laggiù ci sono ancora un sacco di indiani.

La strada cominciava a salire. La lacrima avanzò ondeggiando lungo strade collinose, mentre attorno i ginepri nodosi e contorti e i pini domestici cedevano il passo a boschi scuri di abete americano e di pino ponderoso. Mondschein non riusciva ancora a capacitarsi del fatto che entro pochi minuti sarebbe arrivato al centro genetico. Questa è la prova, ripeteva a se stesso. L’unico modo per ottenere qualcosa nella vita era quello di farsi sentire.

Lui aveva gridato tutta la sua ambizione. I suoi superiori lo avevano aspramente rimproverato… ma alla fine lo avevano inviato a Santa Fe.

Vivere per l’eternità! Mettere il proprio corpo nelle mani di scienziati che stavano imparando a sostituire le cellule, a rigenerare gli organi e a ridare giovinezza. Mondschein sapeva che cosa accadeva nei laboratori di Santa Fe. Naturalmente, prendere parte a ricerche ancora a livello sperimentale comportava dei rischi. E allora? Nell’ipotesi peggiore sarebbe morto, ma quello sarebbe stato comunque il suo destino, prima o poi. Se, invece, tutto avesse funzionato a dovere, sarebbe diventato uno degli eletti.

Un cancello si profilò dinanzi ai loro occhi. La luce del sole rimbalzava violentemente contro i battenti di metallo.

— Eccoci arrivati — annunciò Capodimonte.

Lentamente, il cancello si aprì.

— Ma non mi sottopongono all’esame di qualche esperiano prima di farmi entrare?

Capodimonte rise. — Fratello Mondschein, nell’ultimo quarto d’ora, la tua mente è già stata scandagliata minuziosamente. Se fosse emersa qualche ragione per rifiutare la tua ammissione, il cancello non si sarebbe aperto. Rilassati e benvenuto al centro. Ce l’hai fatta!

sei

Il nome ufficiale dell’istituto di ricerca era Centro Noel Vorst per le Scienze Biologiche. Era una vera e propria città, che si estendeva su una superficie di venticinque chilometri quadrati, racchiusi da possenti mura nelle quali erano celate migliaia di microfoni-spia. All’interno sorgevano decine di edifici, dormitori, laboratori e altre strutture la cui finalità era meno ovvia. Tutta l’impresa era sostenuta economicamente dal contributo di milioni di fedeli, che concorrevano in ragione del proprie possibilità economiche: un dollaro qui, mille dollari là.

Il centro costituiva il cuore dell’organizzazione vorsteriana. Lì venivano condotte ricerche che servivano a migliorare le condizioni di vita dei fedeli di tutto il mondo. La ragione per cui questo credo veniva abbracciato da un crescente numero di persone era perché non offriva soltanto un conforto spirituale, alla stregua delle religioni più antiche, ma anche quello delle più recenti scoperte scientifiche. Ormai esistevano ospedali vorsteriani in tutti i maggiori centri urbani e i medici che vi lavoravano erano all’avanguardia. In poche parole, la Confraternità della Radianza Immanente guariva sia il corpo che l’anima.

In particolare, obiettivo finale ambiziosamente, e apertamente, perseguito dall’organizzazione era la definitiva vittoria sulla morte. Questo implicava non soltanto la sconfitta delle malattie, ma anche della vecchiaia. Già prima della nascita del movimento vorsteriano, la scienza aveva compiuto progressi significativi in quella direzione. Attualmente la vita media era di oltre novant’anni e, in alcuni paesi, addirittura di cento anni. Era quella una delle cause della sovrappopolazione terrestre, nonostante vigessero pressoché ovunque severe misure di controllo delle nascite. La popolazione della Terra ammontava ad undici miliardi di persone e il tasso di crescita, benché sensibilmente diminuito, restava ancora troppo elevato.

Per chi desiderasse vivere ancora più a lungo, i vorsteriani speravano di poter ulteriormente innalzare il livello della vita media. Centoventi, centocinquant’anni: questo era il traguardo che si prefiggevano di raggiungere a breve termine. Ma perché non pensare di poter campare, un domani, fino a duecento, trecento, mille anni? "Fateci vivere per sempre" imploravano gli uomini e le donne che gremivano i templi vorsteriani per essere sicuri di essere fra gli eletti.

Naturalmente, nell’ipotesi di un simile prolungamento della vita, il problema demografico sarebbe diventato ancora più complesso. La Confraternita ne era consapevole e, per contribuire a risolverlo, aveva già messo a punto alcuni progetti. La conquista dell’intera galassia: era quello il suo vero obiettivo.

La colonizzazione dell’universo da parte degli uomini era già iniziata diverse generazioni prima che Noel Vorst fondasse il suo movimento. Erano stati conquistati Marte e Venere, anche se in modi diversi. All’inizio nessuno dei due pianeti offriva condizioni di vita adatte all’uomo, così si era intervenuti su Marte per renderlo il più possibile simile alla Terra, mentre, per quanto riguardava Venere, erano stati gli uomini ad adattarsi al suo habitat per potervi sopravvivere. Adesso, entrambe le colonie prosperavano, ma il problema demografico era lungi dall’essere risolto: per snellire significativamente la popolazione terrestre sarebbero dovute partire navi cariche di uomini e donne giorno e notte, per centinaia di anni; ma si trattava di una soluzione impraticabile sul piano economico.

Se, invece, fossero riusciti a conquistare mondi extrasolari, che non richiedessero massici interventi di adattamento per garantire condizioni di vita accettabili, e se fossero riusciti a mettere a punto un nuovo e più economico mezzo di trasporto…

— Sono tutte ipotesi, però — osservò Mondschein. Capodimonte annuì. — Non lo nego. Ma ciò non toglie che non si possa tentare.

— Tu pensi davvero che esista un modo per spedire la gente sulle stelle sfruttando i poteri degli esperiani? — domandò Mondschein. — Non ti sembra un sogno pazzesco e troppo fantasioso?

Sorridendo, Capodimonte rispose: — Sono stati sogni pazzeschi come questo a mettere in moto gli uomini. A spingerli a cercare il regno del Prete Giovanni, a cercare il passaggio di nord-ovest, a cercare gli unicorni… Be’, questo è il nostro unicorno, Mondschein. Perché sei così scettico? Guardati attorno. Non vedi quello che sta succedendo?

Mondschein era arrivato al centro da una settimana. Non sapeva ancora orientarsi con sufficiente sicurezza in quell’enorme labirinto, ma aveva imparato molte cose. Sapeva, per esempio, che in fondo al deposito alluvionale, che tagliava in due il centro, era stata costruita un’intera città di esperiani. Ci vivevano seimila persone, tutte di età inferiore ai quarant’anni, la cui principale occupazione era quella di procreare come conigli. La Linea della Fertilità: così era stato ribattezzato quel luogo, dove le famiglie, grazie a una speciale dispensa governativa, potevano avere anche cinque o sei bambini.

Era un metodo lento per favorire l’evoluzione di un nuovo genere di uomo: si trattava di selezionare un certo numero di persone dotate di poteri straordinari, riunirle in un ambiente chiuso, lasciare loro la facoltà di scegliere i propri compagni e di moltiplicare il pool genetico… Ma questa era soltanto una delle tante tecniche. Un’altra consisteva nell’intervenire direttamente sul plasma germinale. E al Centro Noel Vorst facevano anche questo, in molti modi diversi. Microchirurgia tectogenica, plasmatura polinucleata, manipolazione del DNA, provavano di tutto. Tagliavano e intagliavano i geni, alteravano i cromosomi: il loro scopo era quello di ottenere, dai minuscoli replicatoli, qualcosa di leggermente diverso da prima.

E come procedevamo gli esperimenti? Era difficile esprimere un giudizio per ora. Bisognava attendere cinque o sei generazioni per valutare i risultati. Mondschein, in quanto semplice accolito, non aveva gli strumenti per giudicare da sé. E, come lui, nemmeno la maggior parte delle persone con cui entrava in contatto, per lo più tecnici. Però potevano azzardare alcune ipotesi ed era quello che facevano tutte le sere fino a tarda notte.

Più che gli esperimenti di genetica condotti sugli esperiani, a Mondschein interessavano gli studi sul prolungamento della vita. Anche in quel campo, i vorsteriani si avvalevano di svariate tecniche già consolidate. Le banche degli organi fornivano ricambi per quasi tutte le parti del corpo: polmoni, occhi, cuore, intestino, pancreas, reni, potevano venire tutti trapiantati grazie a una contemporanea terapia irradiativa che neutralizzava qualsiasi reazione di rigetto. Ma quella forma di ringiovanimento a pezzi e bocconi non era vera immortalità. L’ambizione dei vorsteriani era quella di indurre le cellule dell’organismo a rigenerarsi, affinché l’impulso alla vita eterna provenisse dall’interno e non dall’esterno.

Mondschein faceva la sua parte. Come tutti gli ospiti di grado inferiore del Centro doveva donare, ogni due o tre giorni, un poco della sua carne come materiale di esperimento. Le biopsie erano una seccatura, ma facevano parte della routine. Inoltre, contribuiva regolarmente alla banca del seme e, in quanto non-esperiano, rappresentava un buon soggetto di controllo per le ricerche. Come si poteva trovare il gene del teletrasporto? E quello della telepatia? E quello di tutti gli altri fenomeni paranormali che rientravano in quella categorìa onnicomprensiva denominata "ESP"?

Mondschein collaborava. Interpretava il suo modesto ruolo in quella grande campagna, consapevole di non essere nient’altro che un fante in quella battaglia. Passava da un laboratorio all’altro, sottoponendosi a esami e a iniezioni e, quando non partecipava a quelle imprese, svolgeva il lavoro che gli era stato assegnato, quello di addetto alla manutenzione della centrale nucleare che faceva funzionare l’intero centro.

La vita lì era molto diversa da quella che si conduceva al tempio di Nyack. Il centro non era aperto al pubblico e ai fedeli, così era facile dimenticare di appartenere a un movimento religioso. Naturalmente, vi si celebravano regolari funzioni, ma gli atti di fede venivano compiuti in modo così professionale da far apparire tutto meccanico e superficiale. Senza la presenza dei laici, era difficile restare realmente devoti al culto del Fuoco Azzurro.

In quel clima più rarefatto, Mondschein sentì parzialmente scemare la propria impazienza. Adesso non poteva più sognare di andare a Santa Fe, perché c’era già e prendeva parte personalmente agli esperimenti. Non gli restava che aspettare e annotare, di volta in volta, i progressi e le nuove speranze che essi alimentavano.

Fece nuove amicizie e ampliò i suoi interessi. Andava a visitare antiche rovine con Capodimonte e a cacciare nel Picuris Range insieme a un chierico, alto e dinoccolato, di nome Weber; divenne anche membro di una corale, in cui poté fare sfoggio della possente voce di tenore.

Mondschein era felice al Centro di Santa Fe.

Non sapeva, naturalmente, di essere lì come spia degli eretici. Il ricordo del patto che aveva stretto con gli armonisti era stato abilmente cancellato dalla sua memoria; anzi, era stato sostituito da un sofisticato meccanismo a tempo, che scattò una sera dell’inizio di settembre.

Quella sera si celebrava il Sacramento Mesonico, una festività che annunciava il solstizio d’autunno. Mondschein era in piedi fra Capodimonte e Weber, intento, come i suoi confratelli a fissare la luce azzurra del reattore sull’altare, mentre una voce intonava: — Il mondo gira e la configurazione cambia. C’è un salto quantistico nella vita dell’uomo, quando abbandona i dubbi e le paure e apre il cuore alla certezza. Allora l’uomo avverte un bagliore come di luce… un’ondata di radiosità interiore, un senso di Unità con…

Mondschein si irrigidì. Erano le parole di Vorst, parole che aveva udito migliaia di volte, parole così famigliari che ormai avevano scavato solchi nel suo cervello.

Eppure, era come se in quel momento le stesse sentendo per la prima volta. Quando l’officiante pronunciò la frase: "un senso di Unità con", Mondschein boccheggiò, strinse convulsamente le mani sullo schienale della sedia di fronte e si piegò in due in preda a un dolore lancinante. Era come se qualcuno stesse rigirando un coltello rovente nelle sue viscere.

— Ti senti bene? — gli bisbigliò Capodimonte.

Mondschein annuì. — Sono solo crampi.

Con uno sforzo supremo si raddrizzò. Ma non stava affatto bene. C’era qualcosa che non andava in lui, anche se non riusciva a capire di che cosa si trattasse. Era posseduto. Non era più padrone di se stesso. Volente o nolente, da quel momento avrebbe obbedito a un comando interno, di cui, per ora, non comprendeva la natura, ma che intuiva gli sarebbe stato rivelato a tempo debito, e al quale non avrebbe saputo resistere.

sette

Sette ore più tardi, nel cuore della notte, Mondschein capì che quel tempo era giunto.

Si svegliò immerso in un bagno di sudore ed indossò la veste. Nel dormitorio regnava un silenzio perfetto. Mondschein uscì dalla stanza, attraversò il corridoio in punta di piedi, ed entrò nel pozzo discensionale. Pochi istanti più tardi emerse nella piazza antistante il dormitorio.

La notte era fredda. Lì, sull’altopiano il calore del giorno svaniva rapidamente al calare delle tenebre. Rabbrividendo, Mondschein si incamminò lungo le strade del centro. Non c’erano guardie, perché non c’erano persone pericolose fra i fedeli di quella colonia, tutti attentamente selezionati e sottoposti a minuziosi controlli. Forse, da qualche parte, c’era un esperiano sveglio, pronto a captare pensieri ostili, ma Mondschein non emanava nulla di ostile. Non sapeva dove stesse andando né che cosa stesse per fare. Le forze che lo guidavano scaturivano dal profondo della sua mente, impermeabile alle percezioni degli esperiani, e controllavano le sue risposte motorie non i suoi centri cerebrali.

Mondschein arrivò a uno dei centri di recupero delle informazioni, una costruzione bassa con i mattoni a vista e la facciata priva di finestre. L’accolito premette la mano contro lo scanner della porta e attese di venire identificato. Nel giro di pochi secondi il suo codice fu confrontato con quelli del personale della base, e la porta si aprì.

Nel suo cervello prese forma il concetto di ciò che doveva cercare: una macchina fotografica olografa.

Quel genere di apparecchiature veniva conservato al secondo piano. Mondschein entrò nel magazzino, aprì un armadietto ed estrasse un oggetto compatto di una quindicina di centimetri quadrati. Lo nascose nella manica della veste e, senza fretta, uscì dall’edificio.

Attraversata un’altra piazza, Mondschein raggiunse il Laboratorio XXIa, soprannominato il palazzo della longevità. Era stato lì anche il giorno precedente per sottoporsi a una biopsia. Varcò senza indugio la porta a diaframma, scese nel seminterrato ed entrò nel primo localino alla sua sinistra. Su un banco di lavoro, che correva lungo la parete di fondo, c’era una rastrelliera piena di microfotografie. Con le nocche della dita Mondschein accese uno scanner e un nastro trasportatore rovesciò le microfotografie nella tramoggia di un proiettore. A una a una le microfotografie apparvero nell’obiettivo dell’osservatore.

Mondschein mise in posizione la macchina fotografica e scattò un ologramma di tutte le microfotografie, a mano a mano che apparivano. L’operazione fu rapida. Dalla macchina fotografica balenava un raggio laser che, dopo essere rimbalzato sui soggetti, intersecava un altro raggio a quarantacinque gradi. Era impossibile vedere gli ologrammi senza l’apposita apparecchiatura visiva: soltanto un secondo raggio laser, posizionato nella medesima angolatura di quello con il quale erano stati scattati gli ologrammi, sarebbe stato in grado di trasformare l’incomprensibile schema di cerchi incrociati in immagini. Mondschein sapeva che quelle immagini sarebbero risultate tridimensionali e di eccellente definizione. Ma non si soffermò a riflettere sull’impiego che ne sarebbe stato fatto.

Girò per il laboratorio, fotografando tutto ciò che gli parve rivestire un certo interesse. La macchina fotografia era in grado di scattare centinaia di fotogrammi senza bisogno di essere ricaricata. In capo a due ore, Mondschein aveva fissato in immagini tridimensionali l’intero laboratorio.

Rabbrividendo, l’accolito uscì nell’aria fredda del mattino. Stava spuntando l’alba. Dopo aver estratto la capsula contenente le lastre olografe, rimise la macchina fotografica nel posto in cui l’aveva trovata. Le lastre erano minuscole: l’intera capsula non era più grande dell’unghia di un pollice. Mondschein la fece scivolare nella tasca sul petto della veste e fece ritorno al dormitorio.

Nel momento in cui appoggiò la testa sul cuscino, il ricordo di ciò che era avvenuto quella notte scomparve dalla sua mente.

Il mattino seguente, Mondschein disse a Capodimonte: — Andiamo a Frijoles, oggi.

— Ti sta venendo la passione per l’archeologia, eh? — osservò il confratello sorridendo.

Mondschein scrollò le spalle. — Oh no, ho soltanto voglia di dare un’occhiata alle rovine, tutto qui.

— Allora potremmo andare a Puye. Non ti ci ho mai portato. È decisamente imponente e molto diversa da…

— No, Frijoles — insistette Mondschein. — D’accordo?

Ottennero il permesso di lasciare il Centro — non era difficile per i tecnici di basso livello — e, nel primo pomeriggio, presero verso ovest, in direzione delle rovine indiane. Seguirono le indicazioni per Los Alamos, una città scientifica segreta di un’era precedente, ma prima di raggiungerla, piegarono a sinistra a Bandelier National Monument e, dopo aver percorso, a scossoni, una vecchia strada asfaltata, per una ventina di chilometri, giunsero finalmente nel cuore del parco.

Non era mai un luogo molto affollato, ma in quel periodo, essendo finita l’estate, era assolutamente deserto. I due accoliti si avviarono senza fretta lungo il sentiero principale, superarono le vecchie rovine del pueblo noto con il nome di Tyuonyi, scavato in blocchi di tufo vulcanico, e risalirono la stradina tortuosa che conduceva alle grotte. Quando raggiunsero la kiva, la camera scavata nella roccia che per gli indiani preistorici fungeva da sala cerimoniale, Mondschein disse: — Aspetta un attimo. Voglio andare a dare un’occhiata.

Si arrampicò su per la scala di legno e si issò nella kiva. Le pareti erano annerite dal fumo di antichi falò. Nel muro si aprivano numerose nicchie nelle quali, in origine, venivano conservati oggetti sacri. Con assoluta tranquillità e senza rendersi conto di quello che stava facendo, Mondschein estrasse dalla tasca della veste la capsula con gli ologrammi e la depose in un angolo nascosto dell’ultima nicchia di sinistra. Si trattenne ancora qualche istante a osservare la kiva, poi scese.

Capodimonte era seduto sulla tenera roccia bianca alla base della rupe, e stava ammirando l’alta parete rossastra che delimitava il versante opposto del canyon. — Ti va di fare un’escursione? — gli domandò Mondschein.

— Dove? Alla rovina di Frijoles?

— No — rispose Mondschein, e gli indicò la cima della parete del canyon. — Verso Yapashi, o ai Leoni di Pietra.

— Ma saranno una ventina di chilometri — osservò Capodimonte. — E poi ci siamo già stati a metà luglio. No, non mi va di rifarla, Chris.

— Allora, ritorniamo al Centro.

— Non c’è bisogno che ti arrabbi — protestò l’altro. — Perché non andiamo alla Grotta Cerimoniale, invece? È un’escursione breve. Su, dai, piantala!

— D’accordo — disse Mondschein. — Grotta Cerimoniale, aggiudicato.

Si incamminò per primo, facendo il passo. Un passo decisamente sostenuto. Dopo meno di mezz’ora di marcia Capodimonte, piccolo e tracagnotto, era già senza fiato. Mondschein proseguì, scuro in volto, senza rallentare, mentre il confratello arrancava dietro di lui. Una volta arrivati al sito archeologico, lo visitarono brevemente, quindi ripresero la strada del ritorno. Quando raggiunsero di nuovo le strutture di accoglienza del parco, Capodimonte gli comunicò che desiderava riposarsi un po’ e mangiare un boccone prima rientrare al Centro di Ricerca.

— Fai pure — replicò Mondschein. — Io, intanto, faccio un giretto nel negozio di souvenir.

Aspettò che il confratello si allontanasse, poi, appena ebbe varcato la soglia del negozio, si diresse verso la cabina di comunicazione. All’improvviso, il suo cervello partorì un numero telefonico, che vi era stato impresso mesi prima, mentre lui dormiva saporitamente nella Camera del Nulla. Mondschein introdusse alcune monete nell’apposita fessura e digitò il numero.

— Armonia Eterna — disse una voce.

— Parla Mondschein. Passatemi subito qualcuno della Sezione Tredici.

— Un attimo, prego.

Mondschein attese. Aveva la mente completamente vuota. Era come un sonnambulo in quel momento.

Una voce vellutata e lieve gli ordinò: — Avanti, Mondschein. Riferiscici tutto con la massima precisione.

Con grande economia di parole, Mondschein spiegò dove avesse nascosto la capsula contenente gli ologrammi. La voce vellutata lo ringraziò. Mondschein interruppe la comunicazione ed uscì dalla cabina. Pochi istanti più tardi, Capodimonte entrò nel negozio, rifocillato e riposato.

— Trovato niente? — domandò.

— No — rispose Mondschein. — Andiamo.

Capodimonte era alla guida. Mondschein osservò il paesaggio che fuggiva oltre il finestrino, poi fu assorbito da alcuni pensieri. Perché sono venuto qui oggi? Non ne aveva la benché minima idea. Non ricordava nulla dell’attività spionistica della notte. Ogni ricordo era stato cancellato dalla sua mente.

otto

Lo arrestarono una settimana più tardi, a mezzanotte. Un grosso robot entrò rombando nella sua camera, senza preavviso, e si mise di guardia accanto al letto, le mani enormi pronte ad afferrarlo nel caso tentasse la fuga. Insieme al robot c’era un omino piccolo, dal viso affilato, di nome Magnus, uno dei confratelli supervisori del centro.

— Che cosa sta succedendo? — domandò Mondschein.

— Vestiti spia e vieni all’interrogatorio.

— Io non sono una spia. Ci dev’essere un errore, fratello Magnus.

— Risparmia il fiato, Mondschein. Su svelto, alzati. E ti consiglio di restare calmo.

Mondschein era sbalordito, ma capiva che non era il caso di discutere, soprattutto in presenza di trecentocinquanta chili si intelligenza meccanica veloce come la luce. Scivolò fuori dal letto, indossò una tunica e seguì Magnus fuori dalla stanza. Nel corridoio erano accorsi altri confratelli, che lo fissarono con gli occhi sgranati, scambiandosi sussurri increduli.

Dieci minuti più tardi, Mondschein si ritrovò in una stanza circolare, al quinto piano del palazzo in cui avevano sede i principali uffici amministrativi del Centro, circondato da così tanti pezzi grossi della Confraternita quanti mai avrebbe immaginato di poter vedere riuniti in un’unica sala. Erano otto in tutto e tutti alti prelati. Mondschein sentiva le viscere torcersi per l’angoscia. Una luce gli abbagliava la vista.

— È arrivata l’esperiana — mormorò una voce.

Avevano convocato una ragazza di non più di sedici anni, pallida e piuttosto scialba. Aveva la pelle punteggiata da piccole macchie rosse. Nei suoi occhi, vigili e mobilissimi, brillava un luccichio piuttosto sgradevole.

Nel momento stesso in cui la vide, Mondschein provò un moto di disprezzo, ma, sapendo che una sua parola sarebbe bastata a decidere il suo destino, cercò disperatamente di reprimere quel sentimento. Ma non servì a nulla, perché la ragazza intuì il suo dispregio appena mise piede nella stanza e storse le labbra carnose in un ghigno. Poi drizzò la figura, bassa e tarchiata.

— Questo è l’accusato. Che cosa percepisci in lui? — Era stato il Supervisore Magnus a parlare.

— Paura. Odio. Provocazione.

— E slealtà?

— È leale soprattutto verso se stesso — decretò l’esperiana, intrecciando le mani sul ventre con aria compiaciuta.

— Ci ha tradito? — domandò Magnus.

— Non vedo niente che lo provi.

— Ma potrei sapere il significato… — azzardò Mondschein.

— Zitto — lo raggelò Magnus.

— Le prove sono incontrovertibili — intervenne un altro Supervisore. — Forse la ragazza si sta sbagliando.

— Esaminalo più attentamente — le ordinò Magnus.

— Scandaglia la sua memoria andando a ritroso nel tempo. Non tralasciare niente. Sai quello che stiamo cercando.

Sbalordito, Mondschein rivolse un muto appello ai volti marmorei che lo fissavano. Gli sembrava che la ragazza gongolasse. Brutta guardona schifosa, pensò. Avanti, divertiti pure!

— È convinto che io mi diverta a esaminarlo. Forse, uno dei prossimi giorni dovrebbe fare una nuotatina in un pozzo nero per capire che cosa si prova — sibilò l’esperiana.

— Non perdere tempo e sondalo — ripeté Magnus.

— È tardi e ci sono ancora molte domande che attendono una risposta.

La ragazza annuì. Mondschein si aspettava di provare qualche sensazione, mentre l’esperiana scandagliava la sua memoria, la sensazione di dita invisibili che frugassero il suo cervello. Ma non provò nulla.

Trascorsero lunghi minuti di silenzio, poi la ragazza drizzò la testa con aria trionfante.

— La notte del tredici marzo è stata cancellata.

— Non puoi leggere sotto la cancellatura? — domandò Magnus.

— Impossibile — sentenziò l’esperiana. — È un lavoro da esperti. È come se avessero estirpato dalla sua mente tutti i ricordi di quella notte e poi avessero riempito lo spazio mnemonico di contro-informazioni. Non sa assolutamente niente di quello che ha fatto quella notte.

I supervisori si guardarono l’un l’altro. Mondschein aveva la veste bagnata di sudore e ne percepiva l’odore acre. Un muscolo gli pulsava sulla guancia e la fronte gli prudeva in maniera insopportabile, ma non si mosse.

— La ragazza può andare — decretò Magnus.

Quando l’esperiana uscì, la tensione all’interno della stanza si allentò un poco, ma Mondschein non si rilassò. Con orrore e disperazione sentiva di essere stato processato e condannato in anticipo per un crimine di cui non conosceva nemmeno la natura. Ripensò ad alcune delle storie, forse apocrife, che gli erano state raccontate sullo spirito di vendetta della Confraternita: quella dell’uomo al quale erano stati rimossi i centri del dolore, quella dell’esperiano esposto a un insopportabile bombardamento di percezioni, quella del biologo lobotomizzato e quella del Supervisore rinnegato che era stato rinchiuso nella Camera del Nulla per novantasei ore consecutive. Presto, forse, l’avrebbe scoperto sulla sua pelle se quelle storie erano apocrife oppure no.

— Per tua informazione, Mondschiein — disse Magnus — qualcuno ha fatto irruzione nel laboratorio della longevità e ha fotografato tutto quello che ha trovato con una macchina olografa. Un lavoro molto accurato. Peccato, però, che nel laboratorio fosse installato un sistema d’allarme, sul quale sei incappato.

— Ma, signore, glielo giuro, io non ho messo piede…

— Risparmia il fiato, Mondschein. Il mattino seguente abbiamo effettuato un’analisi di attivazione neutronica, un’indagine di routine, e abbiamo rilevato tracce di tungsteno e molibdeno che hai lasciato mentre scattavi gli ologrammi. Quelle tracce corrispondono alla composizione della tua pelle. Ci è voluto un po’ di tempo perché riuscissimo a risalire a te, ma non ci sono dubbi: identici rilevamenti neutronici sulla macchina fotografica, sull’attrezzatura del laboratorio e sulla tua mano. Che tu lo sappia o meno, tu sei stato inviato qui come spia.

Un altro supervisore disse: — È arrivato Kirby.

— Sono proprio curioso di sapere che cos’ha da dirci in proposito — borbottò cupo Magnus.

Mondschein vide la figura magra e allampanata di Kirby entrare nella sala. Aveva le labbra serrate. Sembrava invecchiato di almeno dieci anni da quando Mondschein l’aveva incontrato nell’ufficio di Langholt.

Magnus girò rapidamente su se stesso e, con tono palesemente irritato, disse: — Ecco qui il suo uomo, Kirby. Che cosa pensa di lui, adesso?

— Non è il mio uomo — replicò l’altro.

— Però ha approvato il suo trasferimento al Centro — ribatté Magnus. — Forse dovremmo chiamare un esperiano e far esaminare anche lei, eh? Qualcuno ha messo una bomba a orologeria nel nostro centro di ricerca e la bomba è scoppiata. Questo tizio qui ha passato a chissà chi tutti i segreti del nostro laboratorio.

— Forse no — obiettò Kirby. — Forse ha ancora le fotografie addosso.

— Il giorno dopo essere penetrato nel laboratorio, è uscito dal centro. Lui e un altro accolito sono andati a visitare alcuni antichi siti indiani e può scommetterci che ha approfittato di quell’occasione per liberarsi degli ologrammi.

— Avete rintracciato il corriere? — domandò Kirby.

— Non è questo il punto — disse Magnus. — Il fatto è che quest’uomo è arrivato al centro dietro sua raccomandazione. L’ha pescato dal nulla e ce l’ha spedito qui. Quello che noi tutti vorremmo sapere è dove l’ha trovato e perché l’ha trasferito qui. Dunque?

Per alcuni istanti le mascelle scarnificate di Kirby masticarono parole che rimasero mute. Lanciò a Mondschein un’occhiata torva, poi fissò Magnus con ostilità ancora più grande.

Alla fine sbottò: — Non posso assumermi la responsabilità di aver inviato qui quest’uomo. I fatti si sono svolti così: in febbraio l’accolito Mondschein mi ha scritto chiedendo di venir esonerato dal servizio nel tempio di Nyack e di venire trasferito al centro di Santa Fe. Agendo in questo modo, aveva scavalcato i suoi superiori, così io scrissi al rettore del tempio, raccomandandogli di redarguirlo a dovere. Dopo poche settimane, ho ricevuto l’ordine di trasferirlo qui. Io stesso sono rimasto a dir poco sorpreso, ma non mi sono potuto opporre. Questo è tutto quello che so di Christopher Mondschein.

Magnus tese l’indice e, agitandolo in segno di ammonimento, disse: — Un momento, Kirby. Lei è un supervisore: si può sapere chi può darle degli ordini? Chi può prendersi la libertà di fare pressioni su di lei in merito al trasferimento di chicchessia?

— Si tratta di un ordine venuto dall’alto.

— Mi è difficile crederlo — replicò Magnus.

Mondschein se ne stava impalato come un baccalà sulla sedia, incantato, nonostante la disgraziata situazione in cui si trovava, da quella battaglia fra supervisori. Non era mai riuscito a spiegarsi come fosse riuscito ad ottenere quel trasferimento, ma adesso sembrava che nemmeno i suoi superiori ci capissero qualcosa.

— L’ordine mi è stato impartito da una fonte che preferirei non rivelare — disse Kirby.

— È forse un trucco per coprire i suoi errori?

— Lei sta mettendo a dura prova la mia pazienza, Supervisore Magnus — ribatté seccamente Kirby.

— Io voglio solo sapere chi ha piazzato una spia in mezzo a noi.

Kirby trasse un profondo sospiro. — D’accordo — disse. — Glielo dirò. Tutti voi qui presenti siete miei testimoni. L’ordine mi è stato impartito da Vorst. Noel Vorst mi ha chiamato e mi ha detto che voleva che quest’uomo venisse trasferito qui. È stato Vorst a mandarvelo. Vorst in persona! Che cosa mi risponde adesso?

nove

Non avevano ancora finito di interrogare Mondschein. Schiere di esperiani scandagliarono la sua mente, nel vano tentativo di penetrare sotto la cancellatura operata sul suo cervello. Fecero ricorso anche a sistemi di indagine organica: lo sottoposero a tutta la gamma di sieri della verità esistenti, vecchi e nuovi, dal pentothal in poi, e intere batterie di confratelli dal volto arcigno lo sottoposero a strìngenti interrogatori. Mondschein lasciò che gli mettessero a nudo l’anima, cosicché ogni traccia di cattiveria, ogni barlume di egoismo, tutto ciò che faceva di lui un essere umano, venisse a galla. Ma non riuscirono a venire a capo di nulla. Né servì rinchiuderlo per quattro ore nella Camera del Nulla. Quando ne uscì Mondschein era così svuotato e apatico che non fu in condizioni di rispondere a nessuna domanda per tre giorni interi.

Il povero accolito era sconcertato almeno quanto i suoi confratelli. Sarebbe stato felice di confessare i più turpi peccati; anzi, durante quegli estenuanti interrogatori ci provò più di una volta, spinto dal desiderio di farla finita, ma ogni volta gli esperiani capivano il suo gioco e lo deridevano. In un modo o nell’altro, Mondschein si rese conto di essere caduto nelle mani dei nemici della Confraternita e di aver concluso un patto con loro: patto che, evidentemente, aveva mantenuto. Ma di tutto ciò lui non aveva coscienza. Interi segmenti della sua memoria erano stati cancellati e questo fatto lo gettava nel terrore e nello sconforto.

Mondschein sapeva di essere finito. Perché, naturalmente, non gli avrebbero mai permesso di restare a Santa Fe. E così, il suo antico sogno di trovarsi lì quando gli scienziati avrebbero scoperto il segreto dell’immortalità era svanito per sempre. L’avrebbero cacciato con spade fiammeggianti e lui sarebbe invecchiato maledicendo quella meravigliosa occasione perduta. Tutto questo, ammesso che non lo uccidessero sui due piedi o che gli inducessero subdolamente una forma di lenta autodistruzione.

Era dicembre e stava cadendo una leggera neve il giorno di in cui Kirby andò a comunicargli la sentenza.

— Puoi andare, Mondschein — gli disse il supervisore con aria cupa.

— Andare? Dove?

— Dove vuoi. Finalmente siamo giunti a una decisione. Sei stato giudicato colpevole, ma, poiché sussiste un ragionevole dubbio sulla volontarietà del tuo comportamento, non verrà preso alcun provvedimento nei tuoi confronti. A parte, s’intende, l’espulsione dalla Confraternita.

— Questo significa che non potrò più frequentare la chiesa nemmeno come fedele e che non potrò comunicarmi?

— Non necessariamente. Questa è una scelta che riguarda soltanto te. Se vuoi venire al tempio a pregare, noi non ti negheremo il nostro conforto. Ma non puoi più indossare la veste. Anche se in modo apparentemente inspiegabile sei stato subornato e noi non possiamo correre altri rischi con te. Mi dispiace Mondschein.

Anche Mondschein era dispiaciuto, ma anche sollevato. Non si sarebbero vendicati. E, dopo tutto, lui non aveva perso niente, se non la possibilità di vivere per sempre… Sulla quale, però, poteva sempre contare come qualsiasi altro comune fedele.

Naturalmente si era giocato l’opportunità di fare carriera all’interno della gerarchia vorsteriana, ma, in fondo, esisteva anche un altro ordine nel quale, presumibilmente, era ancora più facile realizzare i propri sogni di gloria.

Un confratello lo accompagnò fino alla città di Santa Fe e, dopo avergli dato un po’ di denaro, lo lasciò andare. Per prima cosa, Mondschein decise di recarsi al più vicino tempio dell’Armonia Trascendente, che, scoprì, si trovava ad Albuquerque, a venti minuti di strada.

— Ti stavamo aspettando — gli disse un eretico con una lunga veste verde. — Ho avuto istruzioni di mettermi in contatto con i miei superiori non appena tu fossi arrivato.

Mondschein non rimase sorpreso da quell’accoglienza. Né lo stupì la notizia, che gli fu comunicata poco dopo, che sarebbe dovuto partire immediatamente alla volta di Roma. Tutte le spese sarebbero state a carico degli armonisti.

Alla stazione di Roma gli andò incontro una donna con le palpebre rifatte. Non gli sembrava un viso conosciuto, ma lei gli sorrise come se fossero vecchi amici. La donna lo condusse in una casa sulla via Flaminia a una ventina di chilometri a nord della città. Lì trovò ad attenderlo un fratello armonista con la carnagione giallastra e il naso a patata.

— Benvenuto — gli disse questi. — Ti ricordi di me?

— No. veramente, io… ma sì! Sì!

I ricordi lo travolsero come l’ondata di un fiume in piena, lasciandolo stordito e incerto sulle gambe. L’ultima volta che era stato in quella stanza c’erano altri due eretici oltre a quel piccolotto: gli avevano offerto del vino e promesso di affidargli un incarico importante all’interno della loro organizzazione; in cambio di quel compenso, lui aveva accettato di venire inviato in incognita a Santa Fe, come soldato in una grande crociata, come un guerriero della luce, come una spia armonista.

— Ti sei comportato benissimo, Mondschein — disse l’eretico con fare untuoso. — Non pensavamo che saresti stato scoperto così presto, ma dopotutto non conoscevamo tutti i loro sistemi di sicurezza. Potevamo soltanto difenderci dagli esperiani e, in questo, ce la siamo cavata egregiamente. In ogni caso, le informazioni che ci hai procurato sono molto utili.

— E adesso manterrete anche voi la parola? Mi offrirete un incarico di decimo livello come promesso?

— Certamente. Non avrai pensato che ti avremmo imbrogliato? Seguirai un corso trimestrale di indottrinamento per conoscere il nostro movimento, dopodiché assumerai i tuoi nuovi compiti all’interno dell’organizzazione. Che cosa preferisci, Mondschein, Marte o Venere?

— Marte o Venere? Non capisco.

— Abbiamo intenzione di assegnarti a una delle nostre divisioni missionarie. Lascerai la Terra la prossima estate per andare a predicare la nostra fede in una delle colonie. Sei libero di scegliere quella che preferisci.

Mondschein era sconvolto. Non era certo per quello che aveva accettato di fare la spia per gli armonisti. Si era venduto agli eretici soltanto per essere spedito in un mondo alieno, dove avrebbe pure rischiato il martirio… Oh no, una cosa simile proprio non se la aspettava.

Del resto, neppure Faust si aspettava di avere dei problemi, pensò subito dopo freddamente.

— Ma che scherzi sono questi? — protestò accaldandosi. — Non avete nessun diritto di chiedermi di diventare missionario!

— Noi ti abbiamo offerto un incarico di decimo livello — replicò pacatamente l’armonista. — Ma a noi restava la facoltà di scegliere la divisione.

Mondschein tacque. Sentiva il sangue ribollirgli nel cranio, tanto che, per un istante, la vista gli si annebbiò. Era libero di andarsene, di uscire dalla porta e confondersi con la massa. Essere nessuno. Oppure, poteva chinare la testa e diventare… Che cosa? Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa.

Probabilmente entro sei settimane sarebbe morto.

— D’accordo — disse. — Venere. Andrò su Venere. — Le sue parole risuonarono come la porta di una gabbia che si chiude.

L’armonista annuì. — Ne ero certo — commentò. Poi, prima di andarsene, lo fissò incuriosito. — Pensavi veramente di poter decidere tu che cosa diventare… spia?

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