CINQUE 2162 Violare il cielo

uno

La sala operatoria era una stanza gelida, fatta a ferro di cavallo, illuminata da una pallida luce violetta. Dalle finestre della parete nord, che si aprivano a livello della seconda galleria, filtrava la fredda luce del sole del Nuovo Messico. Dalla galleria, affacciata sulla sala, proprio sopra il tavolo operatorio, Noel Vorst vedeva le montagne bluastre che si stagliavano oltre le mura della cittadella del centro di ricerca. Ma a lui le montagne non interessavano. Non gli interessava nemmeno quello che stava accadendo sul tavolo operatorio. Ma tenne quelle considerazioni per sé.

Vorst non avrebbe avuto alcun bisogno di assistere all’intervento di persona. Sapeva già che difficilmente avrebbe avuto esito positivo e anche gli altri lo sapevano. Ma il Fondatore aveva 144 anni e riteneva opportuno apparire in pubblico il più possibile, finché le forze glielo consentivano. Non era bene che la gente pensasse che stesse invecchiando.

Sotto di lui, i chirurghi erano chini sul cranio aperto di un ragazzo. Vorst li aveva visti asportare la calotta cranica ed affondare i bisturi luminosi nell’intricata massa grigia. C’erano dieci miliardi di neuroni in quel tessuto e un’infinità di cilindrassi e di ricettori dendritici. I chirurghi speravano di riuscire a riordinare, modificando l’interruttore proteino-molecolare, la rete di sinapsi di quel cervello, allo scopo di sfruttare il paziente per realizzare il progetto di Vorst.

Una follia, pensò il Fondatore. Ma non diede voce al suo pessimismo e rimase seduto in silenzio ad ascoltare il battito del sangue che scorreva nelle sue arterie artificiali.

L’impresa in cui si stavano cimentando gli scienziati era davvero ragguardevole. Facendo appello a tutte le risorse della microchirurgia moderna, i più esperti medici del Centro di Scienze Biologiche Noel Vorst stavano tentando di alterare i meccanismi di riconoscimento proteino-proteino-molecolare di un encefalo umano. Gli scienziati attorcigliarono un po’ i circuiti, modificarono le strutture transinaptiche, rafforzarono il legame fra le membrane pre e postsinaptiche; deviarono gli input sinaptici individuali da un recettore dendritico all’altro: in breve, riprogrammarono il cervello del paziente nella speranza di metterlo in condizione di fare ciò che Noel Vorst voleva che facesse.

E cioè fornire la forza propulsiva necessaria per scagliare un’équipe di esploratori oltre l’abisso degli anni luce e farli atterrare su un altro astro.

Era un progetto straordinario. Gli scienziati del centro di ricerca di Santa Fe ci stavano lavorando da oltre cinquant’anni. Nelle prime fasi della sperimentazione avevano utilizzato il cervello di gatti, scimmie e delfini. Più recentemente avevano incominciato a intervenire direttamente sugli esseri umani. Il paziente che stavano operando era un esperiano di medio livello, un preveggente con scarse doti di stabilità temporale. Gli restavano sei mesi di vita o poco più, una prognosi che giustificava gli alti rischi che comportava il delicato intervento. Era stato lui stesso, consapevole delle proprie condizioni di salute, a offrirsi volontario. In quel momento si trovava nelle mani dei più abili chirurghi del mondo.

C’erano soltanto due cose che non andavano in quell’intervento e Vorst lo sapeva: non aveva alcuna probabilità di successo e, soprattutto, non era affatto necessario.

Ma come poteva dire a un gruppo di uomini che avevano consacrato tutta la loro esistenza a un solo, ambizioso progetto, che avevano tanto faticato per niente? E poi c’era pur sempre l’esile speranza che riuscissero a compiere il miracolo: a creare con il loro bisturi un terrestre dotato di poteri telecinetici. Così Vorst assistette rispettosamente all’operazione. I chirurghi sapevano che la divina presenza del Fondatore era con loro. Pur senza levare lo sguardo verso la galleria, dove Vorst sedeva, adagiato nella sua poltrona antigravitazionale di telaschiuma, sapevano che il vecchio uomo, avvizzito, ma ancora pieno di vigore, stava sorridendo benignamente verso di loro.

I suoi occhi vedevano grazie a cristallini sintetici; le anse del suo intestino erano state ricostruite con polimeri realizzati in laboratorio; il suo cuore, che ancora pompava con tanta forza, proveniva da una banca d’organi. Restava poco dell’autentico Noel Vorst, a eccezione del cervello, che era intatto, anche se inondato di anti-coagulanti, per prevenire il verificarsi di malattie invalidanti.

— Siete comodo, signore? — gli domandò il pallido accolito al suo fianco.

— Comodissimo. E tu?

L’accolito sorrise alla battuta di Vorst. Aveva soltanto vent’anni e i suoi occhi brillavano per l’orgoglio di avere, per quel giorno, il privilegio di accompagnare il Fondatore. A Vorst piaceva essere circondato da persone giovani. Avevano una terribile soggezione di lui, ovviamente, ma sapevano trattarlo con calore e rispetto, senza venerarlo come un santo. Nel suo corpo pulsava la vita di molti giovani vorsteriani: quella del ragazzo che gli aveva donato una pellicola di tessuto polmonare, quella di un altro volontario che gli aveva fatto dono della retina, e quella dei due gemelli che avevano rinunciato a un rene ciascuno. Più che un uomo era un collage di organi umani, che portava su di sé la carne viva del movimento che aveva creato.

I chirurghi erano chini sul cervello dell’esperiano. Vorst non vedeva che cosa stessero facendo. Una telecamera, avvolta da un telo chirurgico, trasmetteva le riprese dell’intervento su uno schermo posto a livello della galleria, ma, nonostante le immagini fossero ingrandite e molto nitide, Vorst non riusciva a capirci un gran che. Tuttavia, benché perplesso e annoiato, il Fondatore fingeva un’espressione interessata.

Senza far rumore spinse una levetta sul bracciolo della sedia e accese il comunicatore. — Sapete se il Coordinatore Kirby abbia intenzione di raggiungermi presto? — domandò

— In questo momento sta parlando con Venere, signore.

— Con chi sta parlando, con Lazzaro o con Mondschein?

— Con Mondschein, signore. Gli dirò di raggiungervi non appena ha finito.

Vorst sorrise. Il protocollo prevedeva che i negoziati ad alto livello venissero condotti dai massimi funzionari delle due parti e non dai profeti. Pertanto, erano stati i due comandanti in seconda ad avviare le trattative: il Coordinatore dell’Emisfero, Reynolds Kirby, in rappresentanza dei vorsteriani della Terra, e Christopher Mondschein per gli armonisti, che governavano Venere. Ma entro breve, sarebbe toccato alle due persone maggiormente in sintonia con l’Eterna Unità concludere l’accordo, ossia Vorst e Lazzaro.

…concludere l’accordo…

Un tremito improvviso gli fece contrarre la mano destra, che si serrò ad artiglio. L’accolito provvide immediatamente a pigiare alcuni bottoni per ripristinare l’equilibrio metabolico. Cupo in volto, il Fondatore ordinò alla mano di rilassarsi.

— Sto bene — insistette. …violare il cielo…

La realizzazione del suo progetto era così prossima ormai che tutto cominciava ad apparirgli come in un sogno. Un secolo di cospirazioni, di partite a scacchi con antagonisti non nati, l’edificio fantastico di una teocrazia costruito su un’unica, fragile, presuntuosa speranza…

Era follia, si domandò Vorst, desiderare di riscrivere la storia? Era mostruoso riuscirci?

Sul tavolo operatorio le gambe del paziente emersero da un mare di teli chirurgici e presero a scalciare convulsamente. L’anestesista fece scorrere le dita sulla sua consolle e l’esperiano, chiamato a intervenire in caso di emergenza, entrò silenziosamente in azione. Seguirono attimi di concitazione attorno al tavolo.

In quel momento, un vecchio, alto e rinsecchito, entrò nella galleria e si presentò a Vorst.

— Come sta andando l’operazione? — domandò Reynolds Kirby.

— Il paziente è appena morto — rispose Vorst. — E pensare che sembrava che le cose stessero andando così bene.

due

Kirby non si aspettava che l’intervento avesse successo. Ne aveva discusso approfonditamente con Vorst il giorno prima; benché non fosse uno scienziato, il Coordinatore cercava di tenersi aggiornato sugli studi che venivano condotti al centro di ricerca. La sua sfera di responsabilità riguardava la gestione amministrativa dell’organizzazione.

A lui spettava il compito di soprintendere alle numerosissime attività secolari del movimento, che, in pratica, governava il mondo. Erano trascorsi quasi nove decenni dal giorno in cui si era convertito alla fede vorsteriana e, in quegli anni, Kirby aveva visto il movimento crescere e diventare ogni giorno più potente.

Ma il potere politico, per quanto utile per governare, non rappresentava il fine ultimo della Confraternita. L’essenza del movimento stava nel progetto scientifico al quale lavoravano gli studiosi di Santa Fe. Lì, nel corso degli anni, era stata creata una vera e propria fabbrica dei miracoli, i cui straordinari ingranaggi erano tenuti costantemente oliati dal contributo finanziario di milioni di fedeli di tutti i continenti. E i miracoli si stavano compiendo. Adesso, il processo di rigenerazione cellulare, messo a punto dagli scienziati, garantiva ai nuovi nati una vita media di tre-quattrocento anni, forse di più. Ma nessuno era in grado di dire se fosse stata raggiunta l’immortalità, perché sarebbe stato necessario effettuare indagini di controllo per alcuni millenni per averne la prova. Nondimeno, gli scienziati erano stati capaci di offrire un accettabile facsimile della vita eterna, mantenendo sostanzialmente la promessa fatta da Vorst cento anni prima, quando aveva gettato le fondamenta del movimento.

Per contro, il secondo obiettivo posto dal Fondatore, la conquista delle stelle, si stava rivelando molto più arduo da realizzare.

L’uomo era bloccato all’interno del sistema solare della Terra dal limite imposto dalla velocità della luce. I razzi alimentati da combustibile chimico e perfino le navi a propulsione ionica erano troppo lenti. Marte e Venere erano facilmente raggiungibili, ma non così i pianeti più lontani. Allo stato attuale del progresso tecnologico, una nave avrebbe impiegato, nella migliore delle ipotesi, non meno di nove anni per compiere un viaggio di andata e ritorno sull’astro più vicino. Per questo l’uomo aveva reso abitabile Marte e, vista l’impossibilità di un’analoga conversione del pianeta Venere, si era adattato, a prezzo di una sostanziale modificazione del proprio organismo, a vivere in quell’ambiente alieno. Aveva minato le lune di Giove e Saturno, fatto qualche rara puntata su Plutone e inviato robot a esplorare Mercurio e i giganti di gas. Le altre stelle, si era limitato a guardarle tristemente dalla Terra.

Lo spostamento dei corpi nello spazio era governato dalle leggi della relatività, ma quelle stesse leggi non valevano necessariamente per i fenomeni paranormali. Noel Vorst ne aveva tratto la conclusione che l’unica strada percorribile per conquistare le stelle fosse quella extrasensoriale. Per questo aveva riunito a Santa Fe esperiani di ogni natura che, per generazioni e generazioni erano stati sottoposti a programmi di riproduzione forzata e di manipolazione genetica. Da quegli esperimenti erano nate interessanti varietà di soggetti dotati di poteri extrasensoriali, nessuno dei quali, però, aveva sviluppato la capacità di trasportare gli oggetti nello spazio. Per ironia della sorte, su Venere, invece, la mutazione telecinetica era avvenuta spontaneamente, come effetto collaterale dell’adattamento dell’uomo alla vita sul pianeta.

Ma i vorsteriani, non avevano alcun controllo su Venere, dove gli armonisti a avevano a disposizione i telecinetici che avrebbero permesso agli scienziati di Santa Fe di raggiungere senza difficoltà la più vicina galassia. E i venusiani, dal canto loro, mostravano scarso interesse all’ipotesi di prendere parte a una missione congiunta con i terrestri. Erano settimane, ormai, che Reynolds Kirby trattava con la sua controparte armonista nel tentativo di raggiungere un accordo.

Nel frattempo, gli scienziati di Santa Fe non avevano mai rinunciato all’idea di trasformare i terrestri in creature telecinetiche, in modo da non rendere più indispensabile la collaborazione degli imprevedibili venusiani. E, finalmente, dopo anni di sperimentazione, erano giunti a condurre gli esperimenti di riorganizzazione sinaptica su soggetti umani.

— Non funzionerà — aveva decretato Vorst, discutendo l’argomento con Kirby. — Dovranno lavorare ancora almeno mezzo secolo per ottenere qualcosa di significativo.

— Non capisco, Vorst. I venusiani possiedono il gene della telecinesi, no? Perché noi non lo duplichiamo? Visto tutto quello che abbiamo fatto con gli acidi nucleici…

Vorst sorrise. — Non esiste un "gene della telecinesi" vero e proprio. L’attitudine alla telecinesi, per così dire, fa parte di una costellazione di strutture genetiche. Noi abbiamo cercato in ogni modo di riprodurle in laboratorio per trent’anni, ma senza alcun successo. Abbiamo anche tentato un approccio casuale, perché è in questo modo che i venusiani hanno acquisito questa capacità, ma non abbiamo ottenuto nessun risultato. Adesso abbiamo intrapreso la strada della riorganizzazione sinaptica, intervenendo quindi sul cervello e non più sui geni; può darsi che, prima o poi, ci porti da qualche parte, ma io non posso aspettare altri cinquant’anni.

— Anche se vivrai sicuramente per un altro mezzo secolo.

— Ne sono convinto anch’io — convenne Vorst. — Ma non posso aspettare così a lungo. I venusiani hanno gli uomini di cui noi abbiamo bisogno. È ora di convincerli ad aderire alla nostra causa.

Con pazienza Kirby aveva corteggiato gli eretici e, finalmente, si cominciava ad intravvedere qualche lento progresso sul fronte delle trattative. Dopo l’insuccesso dell’intervento chirurgico, l’esigenza di un accordo con i venusiani era diventata ancora più pressante.

— Vieni con me — disse Vorst, mentre il paziente morto veniva trasportato fuori dalla sala operatoria. — Oggi esaminano quel ragazzo affetto da gargoilismo e voglio essere presente anch’io.

Kirby uscì dalla sala operatoria insieme al Fondatore. Un gruppo di accoliti li seguiva a distanza ravvicinata, pronti ad intervenire in caso di bisogno. Da qualche tempo, Vorst faceva rari tentativi di camminare e prediligeva l’uso della poltrona di telaschiuma. Kirby, invece, si sforzava di camminare con le sue gambe, nonostante non fosse molto più giovane del suo maestro. La vista dei due uomini che attraversavano le strade della cittadella non mancava mai di suscitare l’attenzione dei passanti.

— Non sei seccato per il fallimento dell’intervento? — domandò Kirby.

— E perché mai? Lo sapevamo fin dall’inizio che non sarebbe riuscito.

— E di questo ragazzo affetto da gargoilismo che cosa ne pensi? C’è qualche speranza?

— La nostra speranza è Venere — rispose Vorst pacatamente. — Lassù i telecinetici ci sono già.

— E allora perché ci ostiniamo a crearli qui sulla Terra?

— Per forza di inerzia. Perché in questi cento anni la grande macchina della Confraternita non ha mai rallentato un solo istante. Non voglio precludermi nessuna strada, in questo momento. Neanche quelle che quasi sicuramente sono vicoli ciechi.

Kirby scrollò le spalle. Nonostante tutto il potere che deteneva da anni all’interno dell’organizzazione (e il suo potere era immenso) non aveva mai avuto la sensazione di prendere qualche vera iniziativa. Tutti i progetti riguardanti il movimento erano sempre stati concepiti e decisi da Noel Vorst. Lui e soltanto lui sapeva a quale gioco stesse giocando. E se Vorst fosse morto quel pomeriggio, con la partita ancora aperta? Che cosa ne sarebbe stato del movimento? La grande macchina avrebbe proseguito la sua corsa per forza di inerzia? Ma per finire dove, si domandò Kirby?

Varcarono l’ingresso di un piccolo edificio di schiumavetro irradiato, di colore verde. Li precedevano esclamazioni soffocate di riverente stupore: stava arrivando Vorst! Alcuni uomini, avvolti in tuniche azzurre, gli andarono incontro per salutarlo. Lo condussero alla stanza sul retro in cui era rinchiuso il paziente. Kirby lo seguiva a ruota, incurante degli accoliti pronti ad afferrarlo nel caso avesse inciampato.

Il ragazzo era seduto su una sedia, legato da bende di contenzione. Non era una bella vista. Tredici anni, alto all’incirca un metro, il ragazzo presentava orribili deformità; era gobbo, sciancato, sordo, aveva la cornea opaca e la pelle granulosa e zigrinata. Un mutante, anche se non era stato prodotto in laboratorio. Il poveretto era affetto da gargoilismo, o sindrome di Hurler, una malattia congenita del metabolismo, scoperta due secoli e mezzo prima. Gli sfortunati genitori del ragazzo lo avevano portato in un tempio della Confraternita di Stoccolma, nella speranza che un bagno nel Fuoco Azzurro del reattore al cobalto potesse guarirlo. Naturalmente il ragazzo non era affatto guarito, ma un esperiano, presente in chiesa, aveva percepito in lui alcune doti nascoste e, grazie al suo interessamento, era stato condotto a Santa Fe. Kirby ebbe un moto di repulsione e rabbrividì.

— Qual è la causa di questa malattia? — domandò al medico al suo fianco.

— Un’anomalia genetica, che provoca un disordine metabolico a causa del quale si verifica un accumulo di mucopolisaccaridi nei tessuti dell’organismo.

Kirby annuì gravemente. — E si ipotizza che possa esistere un legame diretto fra questa malattia e i poteri paranormali?

— No, si tratta di una semplice coincidenza — rispose il medico.

Vorst si era avvicinato alla creatura per poter studiarla meglio. I occhi-persiana scattavano ritmicamente, mentre lo scrutava. Il ragazzo aveva una tale gobba ed era così curvo che era praticamente incapace di muoversi. I suoi occhi lattei esprimevano pura sofferenza. Un malato da eutanasia, pensò Kirby. E Vorst che sperava che un simile mostro potesse portarlo sulle stelle!

— Iniziate l’esame — mormorò il Fondatore.

Si fecero avanti due esperiani generici: una giovane donna, piuttosto sexy, con i capelli crespi e un uomo grasso, con la faccia triste. Kirby, che non possedeva il benché minimo potere di percezione extrasensoriale, assistette senza proferir verbo alla loro muta indagine. Che cosa stavano facendo? Quali frecce stavano scagliando contro quel povero disgraziato? Non ne aveva la più pallida idea, ma si consolava pensando che probabilmente non lo sapeva nemmeno Vorst. Neanche lui valeva un gran che come esperiano.

Trascorsero dieci minuti. Poi la ragazza sollevò lo sguardo e disse: — Fondamentalmente un modesto incendiario.

— È capace di far muovere le molecole? — intervenne Vorst. — Allora possiede un minimo di capacità telecinetiche.

— Scarsissime — decretò il secondo esperiano. — Non più di molti altri. Possiede anche modeste capacità di comunicazione. Ci sta chiedendo di sopprimerlo.

— Suggerisco la dissezione — disse la ragazza. — Non dobbiamo preoccuparci per lui. A lui non importa.

Kirby rabbrividì. Quei due blandi esperiani avevano sondato la mente di quel disgraziato e questo da solo sarebbe dovuto bastare a far inaridire la loro anima. Provare, nell’immedesimazione di pochi istanti, quello che significava avere tredici anni ed essere distrofico e vedere il mondo con quegli occhi opachi…! Ma quei due pensavano soltanto all’aspetto scientifico della faccenda. Del resto non era la prima volta che si confrontavano con una creatura così mostruosa.

Vorst fece un segno di diniego con la mano. — Risparmiatelo per altri studi. Forse, un giorno, ci potrà essere utile. Se ha davvero abitudini incendiarie, prendete le solite precauzioni.

Detto ciò, il Fondatore ruotò su se stesso e si avviò verso l’uscita del reparto. In quello stesso momento stava arrivando di corsa un accolito con un messaggio. Alla vista inattesa di Vorst, che avanzava nella sua direzione, in rotta di collisione, si paralizzò. Sorridendo paternamente, Vorst manovrò la sedia in modo da evitarlo.

— Un messaggio per lei, coordinatore Kirby — disse l’accolito, visibilmente sollevato.

Kirby prese la lettera e premette il pollice contro il sigillo. La busta si aprì.

Il messaggio era di Mondschein e recava un importante annuncio: — LAZZARO È PRONTO A INCONTRARE VORST.

tre

— Ero come impazzito, sai. Ed è durato qualcosa come dieci anni. Poi scoprii di che cosa si trattava. La mia mente fluttuava nel tempo.

La giovane esperiana lo fissava con gli occhi sgranati. Erano da soli, nei quartieri privati del Fondatore. Era una ragazza magra e flessuosa; ciocche di capelli leggeri le pendevano come ciuffi di paglia dipinta lungo le guance. Delphine, così si chiamava l’esperiana, aveva trent’anni ed era al servizio di Vorst da alcuni mesi. Ciononostante non si era ancora abituata ai suoi modi franchi. Del resto, non ne aveva nemmeno avuto la possibilità: quando lasciava il suo ufficio, dopo ogni seduta, altri esperiani provvedevano a cancellare dalla sua memoria ogni ricordo della sua visita.

— Desiderate che mi metta al lavoro?

— Non ancora, Delphine. ti è mai capitato di pensare di essere pazza? Nei momenti più difficili, quando la tua mente comincia a fluttuare nel tempo e temi di non riuscire più ad ancorarti al presente?

— Sì, a volte c’è da avere paura.

— Ma alla fine ci riesci. È questa la cosa miracolosa. Lo sai quanti esperiani ho visto morire sotto i miei occhi? — le domandò Vorst. — Centinaia. Anch’io sarei già morto a quest’ora se non fosse che sono uno schifoso preveggente. Però una volta non riuscivo a controllarmi e continuavo a fluttuare nel tempo. Ho visto la Confraternita crescere sotto la mia guida. Chiamala una visione, chiamalo un sogno. Tutto sfocato ai margini.

— Come avete raccontato nel vostro libro?

— Più o meno — rispose il Fondatore. — Gli anni fra il 2055 e il 2063 furono gli anni in cui ebbi le visioni più brutte. Avevo trentacinque anni quando iniziarono a manifestarsi. Ero un tecnico qualsiasi, non ero nessuno. Poi, un giorno ebbi quella che può essere definita un’ispirazione divina, anche se, in realtà, fu una fugace visione del mio futuro. Credevo di impazzire. Più tardi capii.

L’esperiana lo ascoltava in silenzio. Vorst chiuse gli occhi. I ricordi ardevano nella sua mente; dopo anni di confusione interiore era uscito purificato dalla prova di fuoco della pazzia, purificato e consapevole del futuro che l’attendeva. Si rese conto di come avrebbe potuto cambiare il mondo. Anzi, di come aveva cambiato il mondo. Dopodiché, fu solo questione di mettersi all’opera, di aprire i primi templi, di concepire i rituali del culto, di circondarsi dei talenti scientifici di cui aveva bisogno per realizzare i suoi obbiettivi. Che fosse un po’ paranoico? Che in lui ci fosse un pizzico di Hitler, una punta di Napoleone, un tocco di Gengis Khan? Forse. Vorst si considerava un fanatico e anche un megalomane, e in fondo se ne compiaceva. Ma un megalomane freddo, razionale, e vincente. Non si era mai fermato di fronte a nulla pur di raggiungere i suoi scopi e, grazie ai suoi, seppur modesti, poteri di preveggenza, sapeva che ci sarebbe riuscito.

— Quella di cambiare il mondo è una grande responsabilità che un uomo si assume — riprese il Fondatore. Un uomo dev’essere un po’ pazzo per gettarsi in un’impresa simile e anche solo per pensarci. Ma è di grande aiuto sapere in anticipo quale dovrà essere il risultato finale. Uno non si sente così idiota, sapendo che sta miniando l’inevitabile.

— In questo modo, però, la vita si appiattisce, perde mordente.

— Ah, Delphine, tu hai messo il dito nella piaga! Ma, ovviamente tu lo sai meglio di me. Come è triste recitare la commedia che tu stesso hai scritto e di cui conosci già la trama. Per lo meno io ho sempre avuto un piccolo margine di incertezza riguardo alle piccole cose. Io, da solo, non sono in grado di vedere: ho bisogno di farmi rimorchiare da voi, che viaggiate nel tempo e, nonostante ciò, non sempre le mie visioni sono chiare. Tu, invece, vedi tutto con chiarezza, vero Delphine? Tu hai visto i confini del tuo mondo. Hai visto anche la tua morte?

Le guance dell’esperiana si imporporarono. La ragazza abbassò gli occhi e non rispose.

— Scusami — disse Vorst. — Non avevo alcun diritto di chiedertelo. Ritiro tutto. Mettiti al lavoro per me, Delphine. Inizia il tuo viaggio e portami con te. Ho parlato anche troppo per oggi.

La ragazza si apprestò timidamente a sostenere la grande fatica alla quale il suo signore la chiamava. Era una delle esperiane dotate di maggiore autocontrollo. Mentre quasi tutti i preveggenti finivano per perdere contatto con il presente e andare alla deriva, lei era sempre rimasta saldamente attaccata alla propria matrice temporale, riuscendo a sopravvivere fino a un’età molto avanzata, rispetto alla inedia dei suoi simili. Un giorno, però, anche lei sarebbe morta. Ma fino ad allora, Delphine era stata di importanza incalcolabile per Vorst, la sua sfera di cristallo, la bussola che più di qualsiasi altra lo aveva aiutato a mantenere la rotta. E, se solo avesse resistito ancora un poco, fino a quando, superati gli ultimi ostacoli, lui avesse condotto la sua nave in porto, il loro lungo viaggio sarebbe finito e si sarebbero potuti riposare entrambi.

Delphine allentò la presa sul presente e iniziò a vagare in quel regno in cui tutti i momenti sono adesso.

Vorst la osservò e attese immobile fino a quando sentì che la ragazza lo stava trasportando con sé nel suo viaggio. Non poteva iniziare il viaggio da solo, ma poteva seguirla. Era immerso nella nebbia e, come gli era capitato tante volte prima di allora, si sentì trascinare da un moto vorticoso… Si vide, qui, lì, là e vide altre persone, figure-ombra, figure di sogno, appostate furtivamente dietro le tende del tempo.

Lazzaro? Sì, c’era anche Lazzaro. E anche Kirby, Mondschein, tutti, tutte le pedine schierate sulla scacchiera. Vorst ebbe una visione fugace di un mondo sconosciuto: il suo sguardo si posò su un paesaggio che non apparteneva alla Terra, né a Marte, né a Venere. Tremò. Sollevò gli occhi su un albero alto tre chilometri, con una corona di foglie azzurre che si stagliavano contro il cielo nebuloso. Poi, all’improvviso, fu strappato da quel luogo e scagliato in mezzo a una strada di città, caotica, puzzolente e battuta dalla pioggia, di fronte a uno dei primi templi della Confraternita. Il palazzo stava bruciando sotto la pioggia e l’odore del legno arso e bagnato gli ferì le narici. Poi si vide mentre sorrideva alla faccia annerita di Kirby, che lo fissava sbalordito. E poi…

A un tratto la sensazione del moto cessò. Vorst scivolò di nuovo nella propria matrice temporale e regolò prontamente il tasso di adrenalina nel sangue, per compensare lo sforzo. Delphine giaceva riversa sulla sedia, stordita, il volto imperlato di sudore. Vorst chiamò un accolito.

— Portala in reparto — ordinò. — E di’ ai medici di prendersi cura di lei fino a quando non avrà riacquistato le forze.

L’accolito annuì con il capo e prese in braccio la ragazza. Vorst rimase immobile fino a quando non furono usciti. Era soddisfatto di quella seduta. Aveva avuto la conferma che la strada che aveva, intuitivamente, imboccato era giusta, e questo era sempre confortante. Accese il comunicatore. — Mandatemi Capodimonte — disse.

Pochi minuti dopo si stagliò sulla soglia della stanza la figura traccagnotta del monaco. Quando Vorst era a Santa Fe, nessuno perdeva tempo quando veniva convocato nei suoi quartieri. Capodimonte era il Supervisore del Distretto di Santa Fe e, in assenza di Vorst o di Kirby, dirigeva lui il centro di ricerca. Era un uomo flemmatico, leale ed efficiente. Vorst si fidava di lui al punto di assegnargli incarichi molto delicati. Si scambiarono, rapide, distratte benedizioni.

Poi Vorst disse: — Capo, quanto tempo pensi che ti occorra per selezionare il personale per una spedizione interstellare?

— Una spedizione inter…

— Con partenza, diciamo, fra tre o quattro mesi. Va in archivio, scegli alcuni specialisti, poi forma alcuni equipaggi.

Capodimonte aveva subito riacquistato la padronanza di sé. — Equipaggi di quanti uomini?

— Variabili. Da due a una dozzina. Comincia con una coppia uomo-donna e arriva fino a, diciamo, sei coppie. Che siano perfettamente assortite per salute, capacità di adattamento, compatibilita di carattere, capacità tecniche e fertilità.

— Esperiani?

— Sì, ma con cautela. Eventualmente includi una coppia di empatici e una di guaritori. Ma nessuno straniero. E ricorda che queste persone saranno destinate a fare i pionieri. Quindi dovranno essere flessibili. Per questo viaggio possiamo fare a meno di geni. È tutto chiaro?

— Una volta compilati gli elenchi desiderate che faccia rapporto a voi o a Kirby?

— A me, Capo. Anzi, non voglio che tu faccia parola di questa faccenda a nessuno, nemmeno a Kirby. Non so che genere di spedizione sarà, perciò voglio avere a disposizione equipaggi perfettamente autosufficienti di qualsiasi livello: di due, quattro, sei persone, a seconda delle necessità. Prenditi due o tre giorni di tempo. Quando avrai finito incarica cinque o sei dei tuoi uomini migliori di studiare gli aspetti logistici della missione. Parti dal presupposto che utilizziremo una nave ad alimentazione esperiana ed esamina i progetti che sono già stati studiati in passato. Sono decenni che lavoriamo attorno a questa idea, perciò dovremmo avere un intero arsenale pieno di piani. Studiali tutti. Questa sarà la tua creatura, Capo.

— Signore? Posso farvi una domanda sovversiva?

— Prego.

— Si tratta di una semplice esercitazione o di organizzare una spedizione vera e propria?

— Non lo so — rispose Vorst.

quattro

Il viso azzurro di un venusiano si affacciò allo schermo. Era alieno e ostile, ma la forma del cranio, la foggia delle labbra e il profilo del mento, tradivano le sue origini terrestri. Il viso era quello di Davide Lazzaro, l’ispiratore e attuale massima autorità del movimento religioso dell’Armonia Trascendente. Vorst aveva conferito più volte con lui, da quando era risorto, dodici anni prima. E, in ogni circostanza, i due profeti si erano concessi il lusso di un completo contatto visivo. Il costo della trasmissione non solo delle voci, ma anche delle immagini, fra i due pianeti era elevatissimo, ma nessuno dei due si faceva scrupoli al riguardo. Vorst insisteva. Gli piaceva vedere il viso alterato di Lazzaro mentre parlavano. Gli offriva qualcosa su cui concentrarsi durante le lunghe pause di silenzio durante la trasmissione dei messaggi. Nonostante viaggiassero alla velocità della luce, era necessario parecchio tempo per convogliare le frasi da un pianeta all’altro. Un semplice scambio di opinioni li impegnava per più di un’ora.

Comodamente adagiato nella sua poltrona di tela-schiuma, Vorst disse: — Penso che sia giunto il momento di unire i nostri due movimenti. Sono uno il complemento dell’altro. Restare divisi non serve a nessuno.

— Nemmeno la fusione potrebbe rivelarsi necessariamente utile — replicò Lazzaro. — Noi siamo più piccoli. In caso di assorbimento da parte del vostro movimento, verremmo fagocitati.

— Non succederà. Io ti assicuro che gli armonisti conserveranno la loro autonomia. Non solo: ti prometto anche che avrete ampio potere di intervento sulla politica del movimento.

— E quali garanzie sei in grado di offrirmi?

— Rimandiamo questa questione a un altro momento — disse Vorst. — Ho una nave interstellare pronta a partire. Nel giro di qualche mese sarà dotata di tutte le attrezzature necessarie ad affrontare un viaggio verso nuove galassie. Ripeto, tutte le attrezzature necessarie. I miei uomini saranno in grado di affrontare qualunque cosa incontreranno sulla loro strada. Ma, per partire, hanno bisogno di una spinta propulsiva che li scagli fuori dal nostro sistema solare. E tu hai i mezzi per farlo. Lo sappiamo, Davide, abbiamo seguito i vostri esperimenti.

Lazzaro annuì, facendo tremare le grandi branchie. — Non sono qui per negare i grandi progressi che abbiamo fatto in questi anni. Siamo in grado di spedire una massa di venti tonnellate su Plutone, e di tenerla in movimento all’infinito.

— Quanto tempo ci impiegate per raggiungere Plutone?

— Poco. Non ho intenzione di scendere in particolari. Diciamo che da otto-dieci mesi a questa parte, gli astri per noi sono diventati molto vicini. Potremmo farvi atterrare una nave, be’, diciamo, nel giro di un anno. Però, non siamo in grado di mantenere i contatti con l’equipaggio. Possiamo far attraversare a una nave più di dodici anni luce, ma non siamo in grado di trasmettere i suoni. E voi?

— No, nemmeno noi — rispose Vorst. — Perderemmo qualsiasi contatto con l’equipaggio non appena escono dalla portata del radiofaro di allineamento. Per darci notizia dell’avvenuto atterraggio dovrebbero inviarci un’altra nave. Non avremmo loro notizie per decenni. Ma dobbiamo tentare. Mettici a disposizione i tuoi uomini, Davide.

— Ti rendi conto che questo per noi significherebbe sacrificare decine e decine dei nostri giovani più promettenti?

— Sì, lo so. Ma ti chiedo di farlo ugualmente. Noi abbiamo messo a punto ottime tecniche di recupero degli esperiani. Se, per lo sforzo di spedire la nave, si dovessero esaurire, noi faremmo il possibile per rimetterli in sesto. È per questo che esiste il centro di Santa Fe.

— E così, prima li sfruttate per bene e poi vi premurate di incollare i cocci? — domandò Lazzaro. — Siete spietati. È così importante per voi conquistare le stelle? Preferisco che i miei ragazzi continuino a sviluppare i loro poteri su Venere e che restino integri.

— Noi abbiamo bisogno di loro, Davide.

— Anche noi.

Vorst approfittò dell’intervallo che seguì per assumere alcuni stimolanti. Quando fu di nuovo il suo turno di parlare, era pieno di vigore come un giovanotto. — Tu sei mio, Davide — disse. — Io ti ho creato e adesso pretendo che tu sia a mia disposizione. Io ti ho messo a dormire nel 2090, quando non eri nessuno, e nel 2152 ti ho riportato in vita e ti ho messo a capo di un mondo intero. Tu mi devi tutto. Ora io sono qui per riscuotere il mio compenso. Ho atteso per cento anni questo momento. E adesso, finalmente, tu hai fra la tua gente gli esperiani che possono permettere ai miei uomini di raggiungere le stelle. Qualunque sia il prezzo che dovrete pagare, io li voglio.

Lo sforzo di formulare quel discorso lo lasciò stremato. Ma avrebbe avuto il tempo di riprendersi. Il tempo di pensare, in attesa della risposta. Aveva fatto il suo gioco. La prossima mossa toccava a Lazzaro. A lui non restavano molte altre carte da giocare.

Il profeta dell’Armonia Trascendente lo fissava immobile dallo schermo; le sue parole non erano ancora arrivate su Venere. Sarebbero trascorsi ancora molti minuti prima che gli giungesse la replica di Lazzaro.

— Non pensavo che saresti stato così franco, Vorst — disse questi. — Ma vorresti spiegarmi perché mai ti dovrei essere grato per avermi resuscitato, dopo avermi tolto di mezzo per tutti quegli anni? Oh, sì lo so. Perché il mio movimento era poca cosa quando mi hai fatto sparire e una potenza quando mi hai restituito alla mia gente. Lo consideri un tuo merito anche questo? — Seguirono alcuni attimi di silenzio. — Comunque, non ha importanza. Non ho nessuna intenzione di mettere al tuo servizio i miei esperiani. Provvedi da solo, se vuoi conquistare le stelle.

— Stai dicendo un cumulo di sciocchezze, Davide. Anche tu insegui il mio stesso sogno, ma non possiedi i mezzi tecnici per organizzare una spedizione. Io, sì. Uniamo le nostre forze. So che è questo che vuoi, anche se fingi di sostenere il contrario. Lascia che ti dica che cosa ti trattiene dal concludere un accordo con me, Davide. Hai paura di come reagirebbero i gerarchi del tuo ordine se scoprissero che hai deciso di collaborare. Ti accuserebbero di averli svenduti ai vorsteriani. Ti senti le mani legate perché non possiedi una vera indipendenza. Afferma la tua autorità, Davide. Usa il tuo potere. Ho messo Venere nelle tue mani. Adesso devi restituirmi il favore.

— Ma come posso andare da Mondschein, da Martell e da tutti gli altri e dire loro che ho accettato di sottomettermi al tuo volere? — domandò Lazzaro. — Sono già abbastanza nervosi per il fatto di essersi ritrovati improvvisamente fra i piedi un martire resuscitato. Ci sono giorni in cui temo che mi martirizzino da un momento all’altro, e questa volta per sempre. Se vuoi che concludiamo questo patto, devi concedermi qualcosa in cambio, qualcosa che io possa portare a casa come se fosse un trofeo.

Vorst sorrise. Aveva la vittoria in pugno.

— Ascoltami, Davide. Io ti autorizzo a dire alla tua gente che ti conferirò il potere supremo su entrambi i nostri mondi. Spiega loro che non solo la Confraternita è lieta di accogliere gli armonisti nel suo seno, ma che tu diventerai l’unico capo politico e religioso del movimento unificato.

— L’unico capo?

— Sì.

— E tu che cosa farai?

Vorst glielo spiegò. E quando ebbe finito di parlare, si abbandonò contro lo schienale della poltrona, infinitamente sollevato. Sapeva di aver appena chiuso una partita iniziata un secolo prima e di aver vinto.

cinque

Reynolds Kirby era insieme al suo terapeuta quando Vorst lo mandò a chiamare. Il Coordinatore dell’Emisfero era immerso in una soluzione di sostanze nutrienti, una sorta di Camera del Nulla modificata, concepita per rigenerare il corpo e la mente, non per cullare il paziente nell’oblio. Se Kirby avesse voluto cercare rifugio nel nulla temporale, avrebbe potuto isolarsi dall’universo ed entrare in uno stato di completa sospensione. Ma aveva superato da anni il bisogno di simili diversivi. Adesso si accontentava di crogiolarsi in un bagno nutritivo, che ristorasse il suo organismo dopo le fatiche della giornata, mentre un terapeuta esperiano scioglieva i nodi della sua anima.

Di regola, Kirby non tollerava di venire interrotto durante le sedute. Alla sua età aveva bisogno della massima tranquillità. Era venuto al mondo troppo presto per condividere il dono della quasi-immortalità delle giovani generazioni. Il suo organismo non era in grado di ritemprarsi e galvanizzarsi come quello di un uomo del ventiduesimo secolo, perché era nato un secolo prima che gli scienziati di Santa Fe scoprissero il segreto della vita eterna. Ma c’era un’eccezione a quella regola: la chiamata di Vorst aveva la precedenza su qualsiasi cosa, compresa una seduta di terapia.

Il suo terapeuta lo sapeva. Con grande abilità concluse in anticipo la seduta e rafforzò il suo paziente, affinché fosse in grado di affrontare le tensioni del mondo. In meno di mezz’ora il Coordinatore si stava già dirigendo verso il palazzo con il tetto a cupola in cui Vorst aveva stabilito il proprio quartier generale.

Il Fondatore gli apparve estremamente affaticato. In tutti quegli anni non lo aveva mai visto così provato e privo di energie. La sua fronte sembrava quella di un teschio e nei suoi occhi scuri splendeva una luce di un’intensità sconcertante.

Nella stanza risuonava il rumore di un ingranaggio: quello della macchina che infondeva nuovo vigore nel corpo decrepito di Vorst. Kirby si sedette nel posto che il Fondatore gli indicò. Dita robuste che proludevano dalla tappezzeria cominciarono a massaggiargli le spalle per liberarlo dalla tensione.

— Fra poco convocherò una riunione del consiglio per ratificare alcune decisioni che ho appena preso — esordì Vorst. — Ma prima che arrivino i consiglieri, desidero parlarne con te ed esaminare insieme la situazione.

Kirby aveva un’espressione guardinga. Dopo aver lavorato per decenni al fianco di Vorst, era in grado di fornire una traduzione simultanea delle sue parole: Ho preso d’autorità alcune decisioni irrevocabili, gli stava dicendo, e adesso ho intenzione di riunire il consiglio per ottenerne l’avallo. Ma prima voglio la tua approvazione, anche se il suo valore è puramente formale. Kirby era pronto ad accettare qualsiasi scelta del Fondatore. Non era un uomo debole di natura, ma non metteva mai in discussione le decisioni del suo capo. L’ultima persona che aveva cercato seriamente di farlo era stato Lazzaro e l’unico risultato che aveva ottenuto era stato quello di restare sepolto per sessant’anni in una cripta su Marte.

— Ho parlato con Lazzaro — mormorò Vorst di fronte al cauto silenzio del suo braccio destro — e abbiamo concluso un accordo. Il profeta dell’Armonia Trascendente ha deciso di fornirci tutti i venusiani dotati di poteri telecinetici di cui abbiamo bisogno. Pertanto, è possibile che entro la fine dell’anno parta dalla Terra una spedizione interstellare.

— Io… non so proprio che cosa dire, Noel.

— Ti senti svuotato anche tu, vero? Per cento anni uno marcia, passo dopo passo verso la meta che si è prefissato. Poi, un bel giorno, si trova davanti alla linea del traguardo e l’eccitazione dell’impresa si trasforma nella noia del risultato acquisito.

— Ma la nostra nave non è ancora atterrata sul pianeta di un altro sistema solare — sottolineò Kirby pacatamente.

— Ma accadrà presto. Non ci sono dubbi. Ormai siamo in dirittura d’arrivo. Capodimonte sta già selezionando i membri dell’equipaggio. Nel giro di qualche mese attrezzeremo la nave e, con l’aiuto degli uomini di Lazzaro, partiremo. Questo è certo.

— Come hai fatto a convincerlo a collaborare?

— Spiegandogli quello che accadrà dopo questa prima missione. Dimmi, hai mai pensato a quali saranno gli obbiettivi della Confraternita una volta partita la prima spedizione?

Kirby esitò. — Be’… in primo luogo, quello di inviare altre missioni, immagino. Di consolidare la nostra posizione e di proseguire il lavoro di ricerca. Di continuare sulla strada che stiamo già percorrendo.

— Esattamente. Una strada in piano verso l’utopia. Non più una strada in salita. È per questo che non io rimarrò più qui a governare la Confraternita.

— Che cosa?

— Parteciperò alla spedizione — annunciò Vorst.

Se Vorst gli avesse strappato un braccio e con quello l’avesse tramortito, Kirby non sarebbe rimasto più sorpreso di quanto non fosse in quel momento. Le parole del Fondatore lo colpirono come proiettili, facendolo indietreggiare. Kirby strinse i braccioli della poltrona e, a sua volta, la poltrona afferrò lui, cullandolo dolcemente fino a quando i suoi muscoli si rilassarono di nuovo.

— Hai… hai intenzione di partire!? — sbottò Kirby — No. No. Non puoi farlo, Noel. È pura follia.

— Ormai ho deciso. Il mio compito sulla Terra è terminato. Ho retto la Confraternita per un secolo, ed è più che abbastanza. Ho fatto in modo che assumesse il controllo del pianeta e, per procura, anche di Venere; inoltre, se non proprio l’appoggio, sono riuscito a ottenere almeno la collaborazione dei marziani. Ho fatto tutto quello che avevo intenzione di fare e, con la partenza della prima spedizione interstellare, avrò compiuto quella che, con una certa presunzione, considero la mia missione sulla Terra. Adesso è giunto il momento di andare avanti. Cercherò di conquistare un altro sistema solare.

— Non ti lasceremo andare — urlò Kirby, stupito dalle sue stesse parole. — Non puoi. Partire alla tua età… imbarcarti su una nave che non si sa dove atterrerà!

— Senza di me non partirà neanche la spedizione — replicò Vorst.

— Ma come puoi dire una cosa simile, Noel! Sembri un bambino viziato che minaccia di annullare la festa se non giochiamo tutti al gioco che vuoi tu. Ci sono anche altre persone nella Confraternita!

Con sua grande sorpresa, Vorst rispose alla sua dura accusa con un sorriso divertito. — Penso che tu abbia male interpretato le mie parole — disse. — Non intendevo dire che se non andassi, bloccherei la missione. Io devo partire, perché è solo a questa condizione che Lazzaro accetterà di collaborare. Se io non salirò a bordo di quella nave, la nave non partirà.

Per Kirby quello fu il secondo, potente shock nel giro di dieci minuti. Ma questa volta, oltre alla sorpresa, provò un profondo dolore, perché all’improvviso capì che si era consumato un tradimento.

— È questo l’accordo che hai siglato, Noel?

— L’ho giudicato un prezzo giusto da pagare. Era tempo che il potere passasse in altre mani. Io esco di scena e Lazzaro diventa il capo politico e spirituale del movimento. Se vorrai tu potrai essere il suo vicario sulla Terra. Noi, in cambio, otteniamo l’aiuto degli esperiani e conquisteremo il cielo. In fin dei conti è un accordo che accontenta tutti.

— No, Noel.

— Sono stanco di restare qui. Voglio andare via e anche Lazzaro desidera che io me ne vada. Sto diventando ingombrante, metto in ombra il movimento. È ora che siano i mortali a prendere le redini del governo. Tu e Lazzaro potrete dividervi il potere. Lui manterrà quello spirituale, ma tu potrai governare la Terra. E, insieme, cercherete di iniziare un dialogo fra armonisti e vorsteriani. Non sarà troppo difficile: in fondo, i rituali non sono molto diversi. Fra una decina anni andrete d’amore e d’accordo. A quell’epoca io sarò lontano decine di anni luce, in pensione, fuori dalla mischia e non potrò più intromettermi. Me ne starò a pascolare sul Mondo X del Sistema Y. D’accordo?

— Io non credo a una sola delle parole, Noel. Non posso credere che tu abbia deciso di abdicare dopo un secolo di regno, per finire chissà dove insieme a un pugno di pionieri, a vivere in una capanna di legno su un pianeta sconosciuto all’età di centocinquant’anni…

— E invece sarà meglio che cominci ad abituarti all’idea — lo interruppe Vorst. La sua voce aveva improvvisamente ritrovato l’antico tono sferzante. — Io partirò. È deciso. In un certo senso sono già partito.

— Che cosa intendi dire?

— Tu lo sai che io sono un modesto esperiano e che decido le cose viaggiando nel tempo insieme ai preveggenti.

— Sì.

— Bene. Io ho già visto quello che succederà. Ho visto come è andata e quindi so come andrà. Ho sempre agito sulla base di presagi: dal momento in cui ho fondato la Confraternita a quando ho preso accordi con Lazzaro per realizzare questa spedizione. Perciò è deciso: io partirò.

Kirby chiuse gli occhi e si concentrò per non perdere l’equilibrio.

— Ripensa a tutta la strada che ho percorso fino a questo momento — riprese Vorst. — Ti risulta che io abbia commesso un solo passo falso? La Confraternita è cresciuta e ha assunto il controllo della Terra. E quando siamo stati in condizione di affrontare senza timore uno scisma, ho promosso l’eresia armonista.

— Tu che cosa…?

— Ho scelto Lazzaro per realizzare il mio progetto e gli ho imbottito la testa di idee. Non era che un umilissimo accolito, creta nelle mie mani. È per questo che allora tu non sentisti mai parlare di lui. Perché non era nessuno. Ma lui esisteva. Io lo presi, lo modellai e feci in modo che fondasse un movimento che si contrapponesse al nostro.

— Perché, Noel?

— La Confraternita era stata concepita per convertire gli abitanti della Terra, ma gli ideali che perseguiva non potevano conquistare i venusiani. Così ho creato un culto nuovo, tagliato su misura per loro e, capo spirituale di quella nuova setta, ho nominato Lazzaro. In seguito ho provveduto anche alla promozione di Mondschein. Te lo ricordi? Fu nel 2095. Era solo un piccolo accolito egoista, ma io intuii la sua forza di carattere e lo manovrai finché si ritrovò trasformato in un venusiano. Sono stato io a creare tutta l’organizzazione.

— E sapevi anche che un giorno alcuni di loro avrebbero sviluppato poteri telecinetici? — domandò Kirby incredulo.

— No, non lo sapevo, ma lo speravo. Sapevo soltanto che quella di fondare la setta degli armonisti era una buona idea, perché avevo visto che era stata una buona idea. Mi segui? Per la stessa ragione a un certo punto ho fatto sparire Lazzaro e l’ho tenuto nascosto in quella cripta per sessant’anni. Allora non avrei saputo dare una spiegazione compiuta di quella mia decisione, ma sapevo che sarebbe stato utile tenere il profeta degli armonisti nascosto nel taschino, come una carta da conservare e da giocare al momento opportuno. Quella carta la giocai dodici anni fa e da quel giorno ho avuto gli armonisti in pugno. Oggi ho giocato la mia ultima carta: me stesso. Adesso è giunta l’ora che io vada. In ogni caso il mio compito qui è finito. Sono stufo di sbrogliare la matassa. Ho fatto giochi di prestigio per cento anni, creandomi un nemico e provocando conflitti destinati a risolversi in una sintesi definitiva: la fusione dei due movimenti. È per questo che me ne andrò.

Dopo un lungo silenzio, Kirby disse: — Tu mi umili, Noel, chiedendomi di ratificare una decisione che è immutabile come le maree e il sorgere del sole.

— Tu sei libero di opporti in consiglio.

— Ma tu partirai comunque, non è vero?

— Sì. Però vorrei il tuo appoggio. Non che questo possa influenzare l’esito della riunione, però preferirei averti dalla mia parte. Mi piacerebbe pensare che tu, più di tutti, abbia compreso quello che ho fatto in questi anni. Credi davvero che ci sia qualche ragione per cui dovrei restare sulla Terra?

— Abbiamo bisogno di te, Noel. Questa è l’unica ragione per cui ti chiedo di restare.

— Adesso sei tu quello che si comporta come un bambino. Non avete bisogno di me. Io avevo iniziato un progetto e l’ho portato a termine. Adesso è ora che io mi ritiri dalla scena e lasci ad altri il compito di portare avanti il lavoro. Tu dipendi troppo da me, Ron; è per questo che ti è difficile immaginare che un giorno non possa più essere io a tirare le fila.

— Forse è vero — riconobbe Kirby. — Ma di chi è la colpa? Ti sei circondato di collaboratori acquiescenti. Hai accentrato tutto il potere nelle tue mani e hai fatto in modo di renderti indispensabile. Sei il fulcro del movimento, un fuoco sacro al quale nessuno di noi ha mai potuto avvicinarsi. E adesso, all’improvviso, ci privi di questo fuoco.

— Lo trasferisco soltanto — precisò Vorst — Ascolta, ho un incarico da darti. Fra sei ore i membri del consiglio saranno qui. Io farò il mio annuncio e immagino che rimarranno tutti scossi come lo sei rimasto tu. Ritirati nelle tue stanze per le prossime sei ore e rifletti su ciò che ti ho detto. Rassegnati alla mia decisione, ma non solo: io non ti chiedo solamente di accettarla, ma di approvarla. E alla riunione non prendere la parola soltanto per spiegare che andrà tutto bene anche se io non sarò più qui, ma per fare capire ai nostri confratelli che è necessario e vitale per il futuro della Confraternita che io parta.

— Intendi dire …

— Non dire niente adesso. Sei ancora contrario, in questo momento. Ma quando ci avrai riflettuto, cambierai idea. Fino ad allora, non parlare più.

Kirby sorrise. — Continui a essere tu quello che tira le fila, vero?

— Ormai è una vecchia abitudine. Ma è l’ultima volta. Ti prometto che cambierai opinione. Nel giro di un’ora o due, cambierai idea e condividerai il mio punto di vista. E, prima che scenda la notte, non vedrai l’ora di farmi imbarcare su quella nave. Lo so che sarà così. Io ti conosco.

sei

In una verde radura di Venere, un gruppo di giovani telecinetici erano intenti al loro sport preferito.

Un viale di grandi alberi si srotolava verso un orizzonte perlaceo. Le loro foglie, fitte e frastagliate, si intrecciavano a formare un tetto impenetrabile, sotto il quale, sul terreno fangoso, punteggiato di funghi, si stavano esercitando una dozzina di ragazzi venusiani che indossavano la tunica verde degli armonisti. Alcune figure adulte li stavano osservando a una certa distanza. Al centro del gruppetto si trovava Davide Lazzaro, attorniato dai massimi rappresentanti del movimento armonista: Christopher Mondschein, Nicholas Martell e Claude Emory.

Lazzaro ne aveva passate di tutti i colori a causa loro. Per anni aveva rappresentato per loro soltanto un nome della martirologia, una figura venerata, ma irreale, nel nome del quale avevano retto il potere spirituale e politico del movimento religioso che lui aveva fondato. Dopo la sua resurrezione, avevano dovuto adattarsi alla sua presenza e ridimensionare il loro ruolo. Non era stato facile. C’erano stati momenti in cui Lazzaro aveva temuto che l’avrebbero messo a morte. Ma quel tempo era passato e adesso tutti e tre gli alti funzionari dell’organizzazione riconoscevano e rispettavano la sua autorità. Ma, poiché aveva dormito così a lungo, si ritrovava a essere al tempo stesso più vecchio e più giovane dei suoi luogotenenti e, talvolta, questo gli creava qualche problema. Lazzaro disse. — È deciso. Vorst se ne andrà e lo scisma si ricomporrà. Studierò la cosa con Kirby.

— È una trappola — disse Emory cupamente. — Stai attento, Davide, non ci si può fidare di Vorst.

— Vorst mi ha ridato la vita.

— Sì, però, prima ti ha tenuto sepolto in quella cripta per sessant’anni — ribatté Emory. — Sei stato tu stesso a dirlo.

— Non possiamo esserne certi — replicò Lazzaro, pur sapendo, per ammissione dello stesso Vorst durante la loro ultima conversazione, che era la pura verità. — Le nostre sono soltanto illazioni. Non abbiamo alcuna prova che…

Mondschein lo interruppe. — Tu hai ragione Claude, non abbiamo motivo di fidarci di Vorst. Ma una volta che siamo sicuri che sia salito a bordo di quella nave, che cosa abbiamo da perdere spedendolo su Betelgeuse o Procione? Ci libereremo di lui una volta per tutte e tratteremo con Kirby. Kirby è un uomo ragionevole. Non è ambiguo e sleale come Vorst.

— È troppo bello per essere vero — insistette Emory. — Perché mai un uomo con tutto il potere di Vorst deciderebbe di sparire di scena?

— Forse è stufo — rispose Lazzaro. — Solo chi detiene il potere assoluto sa come stanno veramente le cose. È noioso. Puoi divertirti a fare il padrone del mondo per venti, trenta, cinquant’anni, ma Vorst è in sella da un secolo. E adesso ha voglia di ritirarsi. Io ritengo che dovremmo accettare la sua proposta. Ci libereremo di lui e con Kirby sarà tutto più facile. E poi ha detto una cosa vera: né noi né loro potremmo mai conquistare le stelle senza la reciproca collaborazione. Io sono favorevole alla sua proposta. Per me vale la pena tentare.

Con un gesto della mano Nicholas Martell indicò i giovani venusiani. — Non dimenticare che perderemo alcuni dei nostri ragazzi. Lo sforzo che dovranno sostenere per spedire la nave fuori dal sistema solare potrebbe essere fatale per loro.

— Vorst ci offre la possibilità di farli curare nel suo centro di Santa Fe.

— Un’altra cosa importante — osservò Mondschein. — Questo nuovo accordo prevede che anche noi potremmo avere accesso agli ospedali vorsteriani. È un discorso puramente egoistico, lo riconosco, ma questa idea mi alletta molto. Penso che sia arrivato il momento di mettere da parte la nostra alterigia e di accettare la proposta di Vorst. Ha voglia di andarsene. Tanto meglio per noi. Che vada pure, noi cercheremo di concludere un accordo vantaggioso con Kirby.

Lazzaro sorrise. Non sperava di ottenere l’appoggio di Modschein così facilmente. Ma Mondschein, era vecchio, aveva superato la novantina, e non vedeva l’ora di ricevere dagli scienziati vorsteriani tutte le cure di cui non aveva potuto usufruire su Venere. Mondschein aveva visitato gli ospedali di Santa Fe da giovane e sapeva di quali miracoli fossero capaci i medici che vi lavoravano. Non si trattava di una motivazione particolarmente valida, pensò Lazzaro, ma, era dettata da una debolezza umana e, dietro le sue branchie e la sua pelle azzurra, anche Mondschein era un uomo. Lo siamo tutti, comprese in quel momento il profeta armonista. Anche se loro non lo sono.

Guardò i ragazzi intenti ad allenarsi. Erano la quintasesta generazione di venusiani. In loro c’era il seme della Terra, ma erano profondamente diversi dai loro antenati. Le manipolazioni genetiche, grazie alle quali i primi uomini sbarcati su Venere erano riusciti ad adattarsi alla vita sul pianeta, si erano perpetuate nella loro progenie e i figli dei figli dei loro figli non avevano quasi più nulla in comune con le creature della Terra. I ragazzi stavano giocando. Per loro non rappresentava più un grande sforzo spostare gli oggetti anche a grande distanza. Erano in grado di spedirsi l’un l’altro da un capo all’altro del pianeta quasi istantaneamente e di scagliare un masso sulla Terra nello spazio di una o due ore. Ciò che non erano capaci di fare, invece, era spostarsi autonomamente, perché avevano bisogno di un fulcro per esercitare il loro potere. Ma questo non costituiva un problema. Non potevano spostarsi da una parte all’altra da soli, ma potevano sempre provvedere aiutandosi reciprocamente.

Lazzaro li osservò: apparivano, sparivano, scagliavano un oggetto, ne sollevavano un altro. Non erano che bambini, ancora incapaci di controllare adeguatamente i loro poteri. Ma quale sarebbe stata la loro forza quando avesse raggiunto la piena maturità?

E quanti di loro sarebbero morti nel tentativo di aiutare l’umanità a varcare i confini del suo mondo?

Un uccello dalle ali a forma di sega, vagamente luminoso contro il cielo cupo di mezzogiorno, sfrecciò diagonalmente proprio sopra il tetto di fronde. Uno dei ragazzi lo vide e, con un sorriso malizioso, lo fece rotolare su se stesso per un chilometro in mezzo alla coltre grigia delle nuvole. Lontano, ma udibile giunse uno strido di rabbia.

— L’affare è fatto — disse Lazzaro. — Noi aiutiamo Vorst e lui si toglie di mezzo. D’accordo?

— D’accordo — rispose prontamente Mondschein.

— D’accordo — mormorò Martell, strusciando i piedi sul muschio grigiastro che inghirlandava il terreno.

— E tu Claude? — domandò Lazzaro.

Emory aggrottò la fronte. Studiò un ragazzo alto e dinoccolato che, di ritorno da una gita in qualche altro continente, si era materializzato a non più di cinque metri dal gruppetto. Il viso lungo e stretto di Emory era scuro per la tensione.

— D’accordo — mugugnò alla fine.

sette

La nave era un obelisco di acciaio al berillio alta mille e cinquecento metri, un’arca di Noè supermoderna da scagliare in mezzo al mare di stelle. Ospitava undici appartamenti, un inquietante computer dalle capacità strabilianti e una raccolta miniaturizzata di tutto quello che valeva la pena salvare di duemila anni di storia sulla Terra.

«Equipaggia la nave come se il sole dovesse esplodere domani mattina e dovessimo salvare tutte le cose più importanti» aveva detto Vorst, affidando l’incarico a Capodimonte.

Capodimonte, che aveva studiato antropologia aveva idee ben precise su ciò che avrebbe dovuto trovare posto sull’arca, ma seppe distinguerle da quelle che intuiva fossero le esigenze di Vorst. Un sotto-comitato di Confratelli aveva iniziato a progettare quella spedizione decenni addietro e il loro progetto era stato rivisto e modificato parecchie volte: così Capodimonte poteva contare sugli studi e sulle valutazioni di altre persone e questo gli era di grande conforto.

Tuttavia, c’erano alcune fondamentali domande delle quali non conosceva la risposta. Non sapeva, per esempio, in che genere di mondo sarebbero atterrati i pionieri. Nessuno lo sapeva. A quella distanza era impossibile immaginare se nel nuovo mondo sarebbe stato possibile condurre una vita simile a quella terrestre.

Gli astronomi avevano individuato centinaia di pianeti sparpagliati in altri sistemi solari. Alcuni venivano a mala pena intercettati dai sensori telescopici; di altri si ipotizzava la posizione in base al calcolo delle orbite stellari. Ma i pianeti esistevano. La domanda era: la loro superficie era abitabile?

All’interno del sistema solare della Terra soltanto un pianeta su nove era abitabile… Se quella stessa proporzione valeva anche per gli altri sistemi, le prospettive per i pionieri non si potevano definire rosee. Gli uomini avevano lavorato per due generazioni per terrestrizzare Marte e per gli undici membri dell’equipaggio sarebbe stato impossibile compiere un’impresa analoga. Per trasformare gli uomini in venusiani, gli scienziati avevano dovuto ricorrere alle più sofisticate tecniche di manipolazione genetica, ma anche quella strada era preclusa agli undici pionieri. La loro unica possibilità di sopravvivenza stava nella speranza di atterrare su un mondo ospitale. In caso contrario la loro missione, anche se tecnicamente riuscita, sarebbe fallita.

Gli esperiani del centro di ricerca di Santa Fe sostenevano che quei mondi esistevano. Avevano scrutato il cielo, proteso le loro menti e preso contatto con pianeti abitabili. Illusione? Inganno? Capodimonte non era in grado di esprimere un giudizio.

Reynolds Kirby, che fin dall’inizio aveva espresso preoccupazione per quel progetto, domandò a Capodimonte: — È vero che non sanno nemmeno quale stella cercheranno di raggiungere?

— Sì, è così. So che gli esperiani hanno individuato alcune emanazioni provenienti da non so dove. Ma non chiedermi come. Così come è stato concepito, il progetto prevede che i nostri indichino la strada e che i venusiani provvedano alla spinta propulsiva che manderà in orbita la nave. In altre parole, noi governiamo il timone e loro spingono.

— Un viaggio verso l’ignoto?

— Sì, verso l’ignoto — riconobbe Capodimonte. — Faranno un buco nel cielo e spingeranno la nave in un oceano di stelle mai solcato dall’uomo. La nave non viaggerà nello spazio, nel senso in cui lo intendiamo noi. Secondo le previsioni, la capsula dovrebbe atterrare sul mondo con il quale gli esperiani sostengono di essersi messi in contatto e da lì ci invieranno un messaggio per dirci dove sono approdati. Il loro messaggio potrà pervernirci fra non meno di una generazione e, nel frattempo, noi avremmo inviato già altre spedizioni. Un viaggio di sola andata verso l’ignoto. E Vorst sarà il primo a intraprenderlo.

Kirby scosse la testa. — È difficile da credere, vero? Ma io sono sicuro che Vorst ce la farà.

— Che cosa intendi dire?

— Vorst ha consultato alcuni esperiani preveggenti. Ebbene, viaggiando nel tempo, loro hanno visto che è già arrivato a destinazione sano e salvo. È per questo che è disposto a fare questo salto nel buio, perché sa già in anticipo che non correrà nessun rischio.

— Tu ci credi? — domandò Capodimonte sfogliando le pagine del suo pro-memoria.

— No.

Nemmeno fratello Capodimonte ci credeva. Ma gli era stato affidato un compito e l’avrebbe svolto senza discutere. Aveva partecipato anche lui alla riunione in cui Vorst aveva annunciato la sua sconcertante decisione e aveva sentito Reynolds Kirby spiegare, con grande sicurezza ed eloquenza, i motivi per cui avrebbero dovuto lasciar partire il Fondatore. La tesi di Kirby non faceva una piega, nel contesto da incubò in cui si inseriva quel folle progetto. E così la nave sarebbe partita, spinta da un gruppo di ragazzi dalla pelle azzurra e guidata con un filo attraverso i cieli dalle menti itineranti degli esperiani della Confraternita. E Noel Vorst non avrebbe messo mai più piede sulla Terra.

Capodimonte controllò l’elenco che aveva in mano.

Cibo.

Vestiti.

Libri.

Utensili.

Attrezzature mediche.

Apparecchi di comunicazione.

Armi.

Fonti energetiche.

Gli undici membri della spedizione sarebbero stati perfettamente equipaggiati per affrontare quell’avventura, pensò il vorsteriano. Una sfida che era pura follia o, forse, sarebbe stata la più grande impresa mai tentata dall’uomo: fratello Capodimonte non sapeva decidersi. In ogni caso, una cosa era certa: gli undici pionieri avrebbero avuto a disposizione tutto quello di cui avrebbero avuto bisogno. Di questo garantiva lui.

otto

Giunse il giorno della partenza. Era la fine di dicembre. Un vento freddo spazzava lo stato del Nuovo Messico. In una pianura desertica, a una ventina di chilometri dal Centro di Santa Fe, la nave era pronta a lasciare la Terra. Fino al lontano orizzonte, dove si profilavano le montagne, la landa selvaggia era punteggiata di piante di artemisia, di ginepro e di pini. Nonostante fosse perfettamente protetto, Reynolds Kirby rabbrividì quando il vento assalì l’altopiano. Dopo pochi giorni sarebbe iniziato l’anno 2165, ma Noel Vorst non sarebbe stato lì a festeggiare con loro. Kirby non riusciva ancora ad abituarsi a quell’idea.

I ragazzi venusiani erano arrivati una settimana prima. Erano venti e, poiché sarebbe stato troppo disagevole per loro indossare, per tutta la durata della loro permanenza, le tute munite di respiratori, i vorsteriani avevano creato sulla Terra un ambiente simile a quello del loro pianeta. Vivevano in un palazzo con il tetto a cupola vicino alla stazione di lancio, in cui era stata pompata la miscela di gas velenosi che erano abituati a respirare. Lazzaro e Mondschein li avevano accompagnati e, in quel momento, si trovavano all’interno dell’edificio per sovrintendere ai preparativi.

Dopo la partenza della nave, Mondschein si sarebbe trattenuto sulla Terra per sottoporsi a un accurato esame medico al centro di Santa Fe. Lazzaro, invece, sarebbe ritornato su Venere entro due giorni. Ma prima, lui e Kirby si sarebbero seduti attorno a un tavolo per definire i principi fondamentali della nuova intesa. Si erano già incontrati una volta, dodici anni prima, ma per poco tempo. Da quando Lazzaro era sbarcato sulla Terra, Kirby aveva avuto occasione di parlargli soltanto brevemente e ne aveva tratto l’impressione che, per quanto il profeta armonista fosse risoluto e ostinato, non sarebbe stato difficile raggiungere un accordo con lui. O per lo meno lo sperava.

Gli alti gerarchi della Confraternita della Radianza Immanente erano convenuti sull’altopiano battuto dal vento per dare addio al loro capo. Guardandosi attorno, Kirby vide Capodimonte, Magnus, Ashton, Langholt e decine di altri confratelli. Stavano tutti guardando lui. Non potevano vedere Vorst, perché Vorst era già nella nave, insieme agli altri membri della missione: cinque uomini e cinque donne, tutti al di sotto dei quarant’anni, sani, forti e dotati di grandi capacità di recupero. Le camere riservate al Fondatore erano accoglienti e confortevoli, ma l’idea che un uomo della sua età potesse affrontare un viaggio del genere era pura follia.

Il supervisore Magnus, Coordinatore Europeo, si affiancò a Kirby. Era un uomo piccolo, dai tratti affilati che, come la maggior parte degli altri alti funzionari, serviva nella Confraternita da più di settant’anni.

— Allora è proprio deciso a partire — disse Magnus.

— Sì. Non c’è dubbio.

— Gli ha parlato questa mattina?

— Brevemente — rispose Kirby. — Mi è sembrato molto calmo.

— Anch’io ho avuto questa impressione, ieri sera, quando ci ha impartito la benedizione — osservò Magnus. — Quasi contento.

— Si sta liberando di un grosso fardello. Anche tu saresti contento se potessi trasferirti in cielo scrollandoti di dosso tutte le tue responsabilità.

— Vorrei che potessimo impedirgli di partire — disse Magnus.

Kirby si voltò e lo guardò con franchezza. — È necessario che parta — disse. — Altrimenti il nostro movimento è destinato a morire.

— Sì, ho sentito il tuo discorso alla riunione, ma…

— Abbiamo completato la prima tappa del nostro processo di sviluppo — riprese Kirby. — Adesso abbiamo bisogno di arricchire la nostra mitologia. Da un punto di vista simbolico, la partenza di Vorst è per noi di un’importanza inestimabile. Lui sale in cielo, lasciando a noi, suoi seguaci, il compito di completare la sua opera. Se rimanesse qui, noi cominceremmo a segnare il passo. Da oggi in poi, invece, il suo esempio glorioso, sarà per noi come un faro nella notte. Con Vorst che apre la strada verso mondi nuovi, noi, che restiamo, possiamo continuare a costruire sulle fondamenta che lui ha gettato.

— Parli come se credessi davvero in ciò che dici.

— Ed è così — rispose Kirby. — All’inizio non capivo. Ma Vorst aveva ragione. Mi aveva detto che presto avrei capito il motivo per cui aveva deciso di lasciarci e così è stato. Partendo, Noel Vorst rende al movimento un servizio dieci volte maggiore di quello che renderebbe restando fra di noi.

— Dunque non gli basta essere Cristo e Maometto — mormorò Magnus. — Vuole essere anche Mosè ed Elia.

— Mai avrei pensato che tu potessi parlare di lui in termini così duri — commentò Kirby.

— Nemmeno io — replicò Magnus. — Maledizione, non voglio che se ne vada!

Kirby rimase stupito nel vedere gli occhi pallidi del Coordinatore riempirsi di lacrime.

— È proprio per questo che ha deciso di partire — disse Kirby. Quindi entrambi gli uomini tacquero.

Si avvicinò Capodimonte. — È tutto predisposto — annunciò. — Lazzaro mi ha avvisato che i suoi ragazzi sono pronti.

— E gli esperiani che dovranno guidare la nave? — domandò Kirby.

— Sono già pronti da un’ora.

Kirby si voltò a guardare la nave luccicante. — Tanto vale che la facciamo finita, allora.

— Tanto vale — rispose Capodimonte.

Kirby sapeva che Lazzaro aspettava soltanto un suo segnale. Da quel momento in poi tutti avrebbero fatto riferimento a lui, per lo meno sulla Terra. Ma quel pensiero non lo angustiava più. Aveva accettato il suo nuovo ruolo. Il potere era nelle sue mani adesso.

Decorazioni simboliche ingombravano il campo, icone armoniste e un grande reattore al cobalto, gli emblemi delle due religioni che in breve sarebbero confluite in unico credo. Kirby fece un cenno a un accolito, che provvide a estrarre le barre del moderatore.

Dal reattore sgorgò il Fuoco Azzurro, che danzò alto sopra la macchina, fino a colorare lo scafo del velivolo. Il bagliore freddo della radiazione di Cerenkov, il simbolo della fede vorsteriana, si diffuse su tutta la pianura e, dalla folla di fedeli accorsi ad assistere al grande evento si levò un mormorio di preghiere e di litanie salmodiate. Mentre colui che aveva concepito quelle parole sedeva nascosto in quella lacrima di acciaio che giganteggiava in mezzo al campo.

Il bagliore del Fuoco Azzurro era il segnale convenuto. Adesso toccava ai ragazzi venusiani far appello ai loro poteri telecinetici e scagliare la capsula nello spazio cosmico, per permettere all’uomo di conquistare un nuovo mondo fra le stelle.

— Che cosa stiamo aspettando? — domandò Magnus con voce lagnosa.

— Magari non succede niente — disse Capodimonte.

Kirby non parlò. Pochi istanti più tardi la nave si sollevò da terra.

nove

Kirby non sapeva esattamente che cosa aspettarsi. Pensando a quella scena, aveva immaginato i ragazzi venusiani che, tenendosi per mano, danzavano e saltellavano attorno al velivolo, la fronte rigonfia per lo sforzo di sollevarlo e scagliarlo nel cosmo. Ma dei venusiani non c’era traccia. Gli artefici dell’indispensabile spinta propulsiva si trovavano all’interno dell’edificio costruito per loro, a un centinaio di metri di distanza, e Kirby sospettava che non si stessero affatto tenendo per mano e che non mostrassero nemmeno segni esteriori di fatica.

Nelle sue fantasie aveva anche immaginato che la nave sarebbe partita come un razzo, dapprima sollevandosi di qualche metro da terra, oscillando per alcuni istanti per poi sollevarsi ancora di qualche decina di metri e sfrecciare a velocità vertiginosa fino a scomparire nell’azzurro del cielo. Ma non accadde così.

Kirby attese. Passò un lungo istante.

Pensò a Vorst che sarebbe atterrato su un altro pianeta. Un pianeta abitato, magari. Quale sarebbe stata la sua influenza su quel mondo vergine? Vorst aveva una forza irresistibile, terrificante e unica. Ovunque andava aveva il potere di trasformare le cose attorno a sé. Kirby compativa i dieci sventurati pionieri che lo accompagnavano in quella spedizione. Si domandò che razza di colonia avrebbero fondato.

Ma di una cosa era sicuro: la loro missione avrebbe avuto esito positivo. Vorst era un uomo votato al successo. Era schifosamente vecchio, ma possedeva ancora una vitalità strabiliante. Sembrava che non vedesse l’ora di affrontare una nuova sfida, di ricominciare daccapo. Kirby gli augurò ogni bene.

— Sono partiti — disse Capodimonte in un sussurro.

Era vero. La capsula era ancora a terra, ma attorno a essa l’aria aveva cominciato tremare, come se fosse percorsa da ondate di calore che si innalzavano dal terreno sabbioso e arso.

Un attimo dopo la capsula scomparve.

Era tutto finito. Kirby fissò il vuoto lasciato dal velivolo interstellare. Vorst era salito in cielo e, da qualche parte, si era aperta una porta.

— Esiste un’Unità da cui ha origine tutta la vita — intonò una voce gentile alle sue spalle. — Dobbiamo l’infinita varietà dell’universo al moto degli elettroni.

— Uomo e donna, stella e pietra, albero e uccello… — intonò un’altra voce.

— Nel nome dello spettro, del quanto e del santo angstrom… — attaccò un terzo fratello.

Kirby non ascoltò le preghiere che conosceva a memoria, né si unì al coro. Diede di nuovo una rapida occhiata al deserto scabro, poi levò gli occhi verso il cielo freddo che la sera, ormai prossima, tingeva di scuro. Era tutto finito. Vorst era partito; il suo progetto, per quanto riguardava la Terra, si era compiuto. Adesso era il turno degli uomini minori. La strada era aperta. L’umanità si sarebbe potuta riversare nei cieli. Forse. Forse.

Solo, in mezzo alla grande folla dei fedeli, Kirby voltò le spalle al luogo sacro dal quale Vorst era asceso in cielo. Poi, mentre gli ultimi raggi di sole proiettavano un’ombra gigantesca del suo corpo alto e magro, si allontanò dal luogo in cui Noel Vorst era stato e si avviò verso il luogo in cui Davide Lazzaro lo stava aspettando.

FINE
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