TRE 2135 DOVE VANNO I CONVERTITI

uno

Il ragazzo venusiano danzò agilmente attorno al Fungo sul retro del tempio, evitando con una destrezza figlia della pratica le fauci di quell’assassino grigio-verde. Saltò il tronco gommoso dell’Albero Limblimo e si avvicinò alla fila serrata di steli frastagliati e senza nome che circondavano il cortile. Li fissò sorridendo e gli steli si divisero come le acque del Mar Rosso di fronte a Mosè.

— Eccomi qua — disse il ragazzo a Nicholas Martell.

— Non pensavo che saresti ritornato — rispose il missionario vorsteriano.

Il ragazzo, di nome Elwhit, lo guardò con espressione birbona. — Fratello Christopher mi ha raccomandato di non venire più qui. È per questo che sono venuto. Parlami del Fuoco Azzurro. È vero che tu puoi fare in modo che atomi emettano luce?

— Su, vieni, entra — disse Martell.

Elwhit rappresentava la sua prima e per ora unica conquista da quando era arrivato su Venere. Ma Martell non si lamentava. Ogni passo avanti era pur sempre un passo avanti. C’era un intero pianeta da convertire. E, forse, un intero universo.

Quando entrarono nel tempio, il ragazzo rimase indietro, come se da spavaldo fosse diventato improvvisamente timido. Non doveva avere più di dieci anni, pensò Martell. Era soltanto per cattiveria che era venuto? O forse era una spia inviata dagli eretici, che avevano il loro tempio in fondo alla strada? Non aveva importanza. Martell lo avrebbe trattato come un’anima da convertire. Accese il reattore sull’altare e il Fuoco Azzuro inondò la stanza, facendo danzare i colori sulle assi intarsiate del soffitto di legno. La potenza del cubo di cobalto crebbe e le radiazioni, tanto spettacolari quanto innocue strapparono a Elwhit un’esclamazione di riverente stupore.

— Il fuoco è simbolico — gli spiegò Martell con voce sommessa. — C’è un’unità alla base di tutte le cose, come le fondamenta di un edificio comune. Capisci? Lo sai che cosa sono le particelle atomiche? I protoni, gli elettroni e i neutroni? Ciò di cui sono fatte tutte le cose?

— Io posso toccarli — disse il ragazzo. — E posso manipolarli.

— Mi faresti vedere come ci riesci? — Martell ricordava il modo in cui poco prima, quelle piante, con il margine affilato come coltelli si fossero piegate per lasciarlo passare. Era bastato un suo sguardo, una spinta mentale, e loro avevano obbedito. I venusiani possedevano poteri telecinetici, ne era certo. — Come fai a muovere le cose? — gli domandò Martell.

Per tutta risposta, il ragazzo scrollò le spalle. — Parlami ancora del Fuoco Azzurro — disse.

— Hai letto il libro che ti ho dato? Quello scritto da Vorst. Lì è spiegato tutto quello che c’è da sapere.

— Fratello Christopher me lo ha portato via.

Martell trasalì. — Glielo hai mostrato?

— Voleva sapere perché fossi venuto da te. Io gli ho risposto che tu mi avevi parlato e mi avevi dato un libro. Lui mi ha preso il libro e io sono ritornato qui. Spiegami perché sei qui. Spiegami che cosa insegni.

Martell non aveva immaginato che il suo primo convertito sarebbe stato un bambino. Scegliendo attentamente le parole, disse: — La fede che professiamo in questo tempio è molto simile a quella che predica fratello Christopher. Ma ci sono alcune differenze. Le persone come fratello Christopher raccontano un sacco di storie inventate. Sono storie belle, ma sono solo favole.

— Come quella di Lazzaro, intendi dire?

— Esatto. Leggende, niente di più. Noi, invece non, abbiamo bisogno di quel genere di cose. Noi cerchiamo di entrare in contatto diretto con i fondamenti dell’universo. Noi…

Il ragazzo non lo ascoltava più. Gli tirò la tunica e diede un colpetto a una sedia. Solo l’altare lo affascinava, nient’altro. I suoi occhi accesi vagavano verso il reattore.

— Il cobalto è radioattivo — disse Martell. — È una fonte di raggi beta… di elettroni. Gli elettroni attraversano le pareti della vasca e liberano i fotoni. È così che si sprigiona la luce.

— Io posso fermarla — disse il ragazzo. — Ti arrabbi se la fermo?

Era un sacrilegio bello e buono e Martell lo sapeva. Ma era altrettanto certo che lo avrebbero perdonato. Ogni esperienza di psicocinesi che fosse stato in grado di documentare sarebbe stata utile.

— No, fa pure. — disse.

Il ragazzo non si mosse, ma la luce si affievolì. Era come se una mano invisibile fosse penetrata nel reattore e avesse intercettato le particelle in movimento. Telecinesi a livello subatomico! Martell era eccitato e spaventato al tempo stesso. All’improvviso la luce riacquistò intensità. Sulla fronte rosso-bluastra del ragazzo brillavano stille di sudore.

— È tutto — annunciò Elwhit.

— Come fai?

— La raggiungo. — Rise. — Perché, tu non ci riesci?

— Temo di no — rispose Martell. — Ascolta: se ti do un altro libro da leggere, mi prometti di non mostrarlo a fratello Christopher? Non ne ho molti e non posso correre il rischio che gli armonisti me li requisiscano tutti.

— La prossima volta — disse il ragazzo. — Non ho voglia di leggere adesso. Ritornerò ancora. Me ne parlerai un’altra volta.

Uscì dal tempio danzando e attraversò di corsa la macchia che circondava il tempio, incurante delle insidie nascoste nella foresta immersa nell’ombra. Martell lo seguì con lo sguardo fino a quando lo perse di vista: non riusciva a capire se stesse realmente per conquistare un seguace o se quel ragazzino lo stesse prendendo in giro.

Forse tutte e due le cose, concluse.


Nicholas Martell era arrivato su Venere dieci giorni prima, a bordo di una nave passeggeri proveniente da Marte. Erano in trenta sulla nave, ma nessuno degli altri viaggiatori aveva cercato la sua compagnia. Dieci erano marziani e a loro non interessava respirare la stessa aria di Martell. Adesso che il loro pianeta era stato reso simile alla Terra, preferivano riempirsi i polmoni di una miscela di gas simile all’atmosfera terrestre. Anche Martell, un tempo, respirava quell’aria, perché era nato sulla Terra. Ma adesso era uno dei "convertiti", dotato di branchie alla guisa dei venusiani.

Non erano branchie vere e proprie, in quanto sott’acqua non sarebbero servite a nulla. Erano filtri ad alta densità, la cui funzione era quella di selezionare le molecole di ossigeno contenute nell’atmosfera venusiana. Martell si era adattato benissimo alla sua nuova condizione. Il suo organismo non sapeva che farsene dell’elio e degli altri gas inerti, ma sfruttava il nitrogeno e non aveva particolari problemi ad alimentarsi con CO2, per brevi periodi. I chirurghi del centro di Santa Fe avevano lavorato sul suo corpo per sei mesi. Erano in ritardo di quarant’anni per intervenire su Martell-ovocita o Martell-feto, come prevedeva adesso la prassi per adattare gli esseri umani alla vita su Venere; così, gli scienziati avevano realizzato le modifiche necessarie su Martell uomo. Adesso il suo sangue non era più rosso e la sua pelle aveva una bella colorazione cianotica. Era in tutto e per tutto simile a un venusiano vero.

Sulla nave c’erano anche diciannove venusiani autentici, ma nessuno di loro aveva fraternizzato con lui; anzi avevano preteso che venisse allontanato dalla cabina. Così, scusandosi, i membri dell’equipaggio lo avevano fatto alloggiare in una delle stive: — Fratello, lei sa come sono questi arroganti di venusiani. Basta guardarli nel modo sbagliato che loro sguainano subito la spada. Lei viaggerà qui. Sarà più al sicuro. — Una risatina. — Comunque, per essere ancora più sicuro farebbe meglio a ritornare a casa senza nemmeno mettere piede su Venere.

Martell aveva replicato con un sorriso. Sapeva ciò che lo attendeva su quel pianeta ed era pronto ad affrontarlo.

Negli ultimi quarant’anni, svariate decine di membri della sua Confraternita avevano conosciuto il martirio in quella colonia. Lui era un vorsteriano, o più formalmente, un membro della Confraternita della Radianza Immanente, che aveva scelto la strada delle missioni. A differenza dei suoi predecessori, però, Martell aveva subito un intervento di adattamento alle condizioni di vita sul pianeta. Gli altri missionari erano stati costretti a imbacuccarsi in tute munite di respiratori e, forse, questo aveva compromesso l’efficacia del loro operato. In oltre quarant’anni, i vorsteriani non erano riusciti ad affermarsi su Venere, nonostante, da più di una generazione, rappresentassero il principale movimento religioso della Terra. Martell, solo e con il corpo modificato, si era assunto il compito, a lungo rimandato, di fondare un ordine venusiano della Confraternita.

Venere gli aveva riservato un benvenuto da brivido. Quando, durante la manovra di avvicinamento, la nave si era abbassata di colpo fra le nubi, incappando in una turbolenza, Martell era sbiancato. Poi, a poco a poco, si era ripreso e, quando la nave era atterrata, era rimasto seduto ad attendere pazientemente di sbarcare. Il primo scorcio di Venere l’aveva colto attraverso il portello: un campo piatto e apparentemente fangoso, che si estendeva per quasi un chilometro, circondato da alberi orribili, con il tronco grosso e un ammasso di foglie bluastre che rilucevano di un bagliore sinistro. Il cielo era grigio e cumuli di nubi basse facevano mulinello, formando arabeschi spiraliformi contro lo sfondo scuro. Robotecnici addetti alla manutenzione uscirono da un edificio squadrato e basso, di architettura aliena, e si affrettarono verso la nave. Nuovi passeggeri si apprestavano a salire a bordo.

Nella stazione di atterraggio un venusiano di bassa casta fissò il missionario con assoluta indifferenza, poi prese il passaporto che questi gli porgeva e, con tono freddo, domandò: — Religioso?

— Esatto.

— Come ha ottenuto il permesso di ingresso?

— Trattato del 2128 — rispose Martell. — Un limitato contingente di osservatori terrestri per scopi scientifici, etici o…

— Mi risparmi il resto. — L’impiegato premette il pollice su una pagina del passaporto e vi apparve il luccicante contrassegno del visto di entrata. — Nicholas Martell. Lei qui è destinato a morire, Martell. Perché non se ne ritorna da dove è venuto? Sulla Terra gli uomini vivono in eterno, non è vero?

— Vivono molti anni. Ma io ho un lavoro da svolgere qui.

— Stupido!

— Può essere — convenne Martell con voce pacata. — Posso andare?

— Dove alloggia? Non ci sono hotel qui.

— Sarò ospite dell’ambasciata marziana fino a quando non mi sarò stabilito da qualche parte.

— Lei non si stabilirà mai sul nostro pianeta — replicò il venusiano.

Martell non ribatté. Sapeva che anche un venusiano di bassa casta si considerava superiore a un terrestre e negare ciò, contraddicendolo, poteva venire interpretato come un gravissimo insulto. Martell non possedeva una spada con la quale misurarsi a duello. E, poiché di natura era un uomo privo di orgoglio, era disposto a ingoiare qualsiasi affronto in nome della missione che era venuto a compiere.

L’impiegato gli fece segno di passare. Martell raccattò il suo bagaglio e uscì dall’edificio. Un taxi, pensò. La città distava parecchi chilometri. Martell aveva bisogno di riposare e di conferire con l’ambasciatore marziano, il libero cittadino Nathalien Weiner. I marziani non condividevano i motivi che lo avevano spinto a trasferirsi su Venere, ma tolleravano la sua presenza. Non c’era un’Ambasciata Terrestre lì e nemmeno un consolato. I rapporti fra il pianeta madre e quella orgogliosa colonia si erano interrotti molto tempo prima.

In fondo al campo di atterraggio c’erano alcuni taxi in attesa. Martell si avviò verso il posteggio. Il terreno scricchiolava sotto i suoi piedi, come se fosse una fragile crosta. Il pianeta era immerso in una tetra oscurità. Non un solo raggio di sole riusciva a penetrare lo spesso strato di nubi, dense e grigie. Ma per fortuna, il suo corpo rispondeva bene.

Il porto spaziale aveva un’aria abbandonata. Non c’era nessuno in giro, eccetto i robot. Le uniche creature viventi erano i quattro responsabili della stazione, i diciannove venusiani e i dieci marziani appena sbarcati dall’astronave. Nessun altro. La densità degli abitanti del pianeta era molto bassa: Venere era popolata da poco più di tre milioni di individui, distribuiti in sette città molto estese. I venusiani erano uomini di frontiera, noti per la loro arroganza. Certo, loro potevano permettersi di essere alteri, considerando tutto lo spazio che avevano a disposizione. Che provassero a trascorrere qualche giorno sulla Terra, sovrappopolata com’era, e allora sì che avrebbero cambiato modo di pensare.

— Taxi! — chiamò Martell.

Nessuna delle robomacchine si staccò dalla fila. Anche i robot avevano la puzza sotto il naso su quel pianeta? si domandò il missionario. Oppure era lui a esprimersi male nella loro lingua? Chiamò di nuovo, senza ottenere risposta.

Poi capì. Dalla stazione stavano uscendo i venusiani: naturalmente, loro avevano la precedenza. Martell li osservò. A differenza del doganiere, quelli erano uomini di casta elevata. Avanzavano con incedere arrogante, da gradassi, e Martell sapeva che, se solo avesse osato tagliare loro la strada, l’avrebbero messo in ginocchio.

Provò un vago disprezzo nei loro confronti. Che cos’erano, dopo tutto, se non samurai di pelle blu, anacronistici laird di frontiera, principotti infantili, protagonisti di una fantasia medievale? Chi è sicuro di sé non ha bisogno di camminare con aria tracotante, né di ispirarsi a elaborati codici di cavalleria. Se uno li considerava per ciò che erano veramente, delle teste calde, degli insicuri, anziché esseri superiori, poteva vincere il sentimento di riverente timore che suscitavano.

Ma mai completamente. Perché il loro incedere era molto solenne mentre attraversavano il campo. Non era una semplice differenza di costumi a discriminare i venusiani di casta elevata da quelli di casta bassa. Era una differenza biologica. I primi discendevano dalle famiglie di pionieri, che avevano fondato la colonia, e la loro diversità, sia dal punto di vista fisico che psichico rispetto ai terrestri, era molto più marcata di quella dei venusiani di nascita più recente. Inizialmente, i processi di manipolazione genetica erano alquanto grossolani e l’aspetto quasi mostruoso dei coloni della prima generazione ne era la dimostrazione. Alti più di due metri, con la pelle blu, trafitta da pori giganteschi, e grappoli di branchie rosse e pendule attorno al collo, i loro discendenti, erano vere e proprie creature aliene, che ricordavano soltanto vagamente i loro trisavoli terrestri. In seguito, era stato possibile adattare gli uomini alla vita su Venere senza modificare in modo così radicale il modello umano di base. I venusiani di entrambe le caste, in quanto prodotti della manipolazione del plasma germinale, si erano moltiplicati trasmettendo ai loro figli il loro nuovo codice genetico. Tutti, indistintamente, possedevano un senso dell’onore esagerato e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti della Terra e dei suoi abitanti. Ma il potere era nelle mani dei rampolli della progenie più antica, che faceva della propria diversità virtù, e del pianeta il proprio campo di gioco.

Martell osservò i venusiani mentre, con sussiego, salivano a bordo dei veicoli in attesa e si allontanavano. Non rimase nemmeno un taxi. Sul lato opposto dello scalo, i dieci passeggeri marziani, si stiparono tutti su un’unica vettura e scomparvero. Martell ritornò nella stazione. L’impiegato venusiano lo guardò torvo.

— Quando pensa che potrò prendere un taxi per andare in città? — gli domandò Martell.

— Forse un altro giorno. Per oggi non ritornano.

— Allora voglio telefonare all’Ambasciata Marziana. Manderanno una macchina a prendermi.

— Ne è così sicuro? Perché dovrebbero prendersi un simile disturbo?

— Forse ha ragione — replicò Martell con voce pacata. — Sarà meglio che mi avvii a piedi.

Lo sguardo che ricevette dal venusiano valse il suo gesto. L’uomo lo fissò con un misto di sorpresa e di indignazione. E, forse, anche con ammirazione, sfumata dalla condiscendente consapevolezza che quel terrestre doveva essere pazzo. Martell uscì dalla stazione e si incamminò lungo lo stretto nastro di strada che conduceva in città.

due

Fu una lunga camminata solitaria. La superstrada era costeggiata da una fitta foresta, nella quale non si intravvedeva nemmeno il più vago profilo di una casa. Né Martell incontrò o fu superato da alcun veicolo. Gli alberi, scuri e spaventosi per il luccichio bluastro delle foglie, che brillavano, come lame di coltello, nella tenue luce soffusa, sovrastavano la strada con le loro gigantesche chiome. Di tanto in tanto, dal folto del bosco provenivano fruscii sinistri, come di bestie che, passando, urtassero qualche pianta. Però, per quanto aguzzasse la vista, Martell non riusciva a vedere niente. Il missionario procedeva senza sosta. Quanti chilometri aveva percorso? Quindici? Venti? Non importava. Era pronto a camminare per sempre, se necessario. Aveva la forza per farlo.

Intanto, nella sua mente si rincorrevano le idee e i progetti. Avrebbe creato un piccolo tempio, avrebbe predicato la parola di Vorst e illustrato ai venusiani ciò che egli prometteva: la vita eterna e la conquista delle stelle. Forse i venusiani avrebbero minacciato di ucciderlo, così come avevano ucciso gli altri missionari, ma lui era disposto ad affrontare anche la morte, se necessario, purché altri potessero conquistare le stelle. La sua fede era incrollabile. Prima della sua partenza, i massimi esponenti della Confraternita erano andati ad augurargli buona fortuna: Reynolds Kirby, il Coordinatore dell’Emisfero, gli aveva stretto la mano; poi, con sua grande sorpresa, perfino Noel Vorst in persona, leggendario fondatore dell’ordine, che già da qualche anno aveva superato la veneranda soglia dei cento anni, si era fatto avanti per sussurrargli con voce impercettibile, "Sono sicuro che la tua missione darà i suoi frutti, fratello Martell".

Al ricordo di quel momento glorioso, Martell si sentì formicolare il petto per l’emozione.

Adesso procedeva spedito, rinfrancato dalla vista di alcune abitazioni lontane dalla strada. Questo significava che era arrivato alla periferia della città. In quel mondo di pionieri, i coloni non costruivano le case vicine, ma abitavano in costruzioni isolate, sparpagliate nella regione che circondava i centri amministrativi più importanti. Gli alti muri che attorniavano le prime case che vide, non lo spaventarono: i venusiani erano gente scontrosa, che potendo, avrebbe cinto di mura l’intero pianeta. Ma fra poco sarebbe arrivato in città e allora…

Martell si fermò di colpo: un’enorme ruota stava precipitando verso di lui.

Il suo primo pensiero fu che si fosse staccata da qualche veicolo. Soltanto dopo qualche istante capì che non si trattava di un pezzo meccanico, ma di una creatura della natura venusiana. Era emersa come un’onda dal colmo della strada e stava avanzando a una velocità non inferiore ai cento chilometri orari. Martell non riuscì a coglierne che un’immagine fugace, ma abbastanza esauriente: l’essere mostruoso era costituito da due ruote fatte di una sostanza cornea di color giallo-arancione, collegate da una struttura interna scatoliforme. Le ruote erano larghe almeno tre metri; la struttura di collegamento invece, era più piccola, cosicché i cerchioni sporgevano attorno a essa. I cerchioni erano affilati come rasoi. La creatura si muoveva spostando incessantemente il peso del corpo all’interno di quella specie di scatola e, a mano a mano che precipitava verso il missionario acquistava velocità.

Martell fece un balzo indietro. La ruota proseguì la sua corsa spaventosa, mancando di pochi centimetri le dita dei suoi piedi. Martell vide quanto fossero affilati i cerehioni e un odore acre gli ferì le narici. Se solo avesse avuto i riflessi più lenti, la ruota lo avrebbe tagliato in due.

Dopo averlo superato, la ruota percorse ancora un centinaio di metri, poi, come un giroscopio impazzito, girò su se stessa, descrivendo un cerchio di raggio incredibilmente esiguo, e riprese la sua folle corsa puntando diritta verso Martell.

Ma quell’affare mi sta caricando, pensò il missionario.

Conosceva molte tecniche vorsteriane di combattimento, ma nessuna adatta a fronteggiare una bestia come quella. La sua unica strategia di difesa consisteva nel continuare a saltare di lato ogni volta che la ruota si avvicinava, confidando nel fatto non fosse capace di improvvise compensazioni di rotta. La ruota si stava avvicinando di nuovo: Martell inspirò e fece un salto indietro. Questa volta la ruota scartò leggermente e, con il bordo del cerehione sinistro affettò lo strascico della sua veste: un nastro di stoffa blu ricadde svolazzando sull’asfalto. Ansimando, Martell seguì con lo sguardo la feroce creatura che, fatto rapidamente dietro-front, lo stava di nuovo caricando. Adesso sapeva che era in grado di correggere la rotta.

La ruota si lanciò contro di lui per la terza volta. Martell attese immobile fino all’ultimo istante, poi, quando le lame furono a un metro da lui, eseguì un salto in lungo… tagliando la strada alla creatura. Grazie alla minore forza di gravità, i suoi muscoli di terrestre gli consentirono di sollevarsi in aria di circa sei metri. Era quasi sicuro di venire tranciato in due a metà del salto, ma quando i suoi piedi toccarono terra, era ancora tutto intero. Girando rapidamente su se stesso, Martell si accorse di aver effettivamente sorpreso la creatura, che aveva curvato verso l’interno, verso il punto in cui contava di investirlo, e aveva falciato la sua valigia. La valigia era tagliata a fette, come se fosse stata attraversata da un raggio laser e tutte le sue cose erano sparpagliate sulla strada. Ma non aveva tempo di occuparsene adesso: la ruota, dopo essersi bruscamente arrestata, stava ritornando alla carica.

E adesso? Che cosa poteva fare? Arrampicarsi su un albero? Quello più vicino non presentava appigli fino a sei metri di altezza. Non sarebbe mai riuscito a mettersi in salvo in tempo utile. L’unica soluzione era quella di continuare saltare da una parte all’altra della carreggiata, cercando di ingannare la creatura. Ma sapeva che così non avrebbe resistito a lungo. A furia di saltare si sarebbe stancato: la ruota, invece, no e i suoi cerchioni affilati avrebbero trapassato il suo corpo e riversato le sue viscere sull’asfalto. Non era giusto che morisse così, inutilmente, senza nemmeno aver iniziato la sua missione.

La ruota si avvicinò di nuovo. Mentre saltava di lato, Martell la udì sibilare. Che si stesse arrabbiando? No, non era che una bestia senza cervello che, rispondendo al cieco istinto della fame, cacciava nel modo che una natura perversa aveva stabilito per lei. Martell era senza fiato. Ancora un assalto e…

Ma adesso Martell non era più solo. Da una delle case cinte di mura in cima alla collina era uscito di corsa un ragazzo che, raggiunta la ruota, la affiancò. Poi, a un tratto — il missionario non vide come fosse accaduto — la ruota piegò di lato e si ribaltò, atterrando su uno dei cerchioni. Il ragazzo si fermò accanto ad essa e la fissò con aria trionfante. Non aveva più di dieci anni e doveva essere per forza un venusiano di casta inferiore: nessun venusiano di alto lignaggio si sarebbe dato la pena di salvargli la vita. Subito dopo, però, Martell si rese conto che forse nemmeno il ragazzo aveva messo fuori combattimento la ruota per salvarlo, ma per il gusto di farlo.

— Ti ringrazio, amico — disse Martell. — Ancora qualche secondo e mi avrebbe fatto a fettine.

Il ragazzo non rispose. Il missionario si avvicinò per ispezionare la ruota. Il cerchione superiore si tendeva invano, nello sforzo di raddrizzare il corpo… un’impresa chiaramente impossibile. Abbassando lo sguardo, Martell notò, vicino al centro di una delle due ruote, una ciste color viola scuro che si contraeva e si dilatava.

— Attento! — urlò il ragazzo. Troppo tardi.

Dalla ciste schizzarono fuori due filamenti simili a fruste, uno dei quali si avvolse attorno alla coscia sinistra di Martell, l’altro attorno al busto del ragazzo. Il missionario avvertì un dolore straziante, simile a un’ustione, come se la faccia inferiore del filamento fosse rivestita di ventose cosparse di una sostanza acida. Al centro della struttura scatoliforme si spalancarono due possenti fauci, dove protuberanze dentiformi si agitavano pregustando il lauto pranzo.

Ma in casi come questi, Martell sapeva come difendersi. Non era in grado di contrastare la forza della ruota, perché si trattava di pura energia meccanica, ma, partendo dal presupposto che il cervello della creatura fosse percorso da una carica elettrica, poteva metterla fuori combattimento, perché lui, come tutti i vorsteriani, era capace di alterare i flussi di corrente cerebrali. Si trattava di una semplice tecnica esperiana, alla portata di chiunque si impegnasse a impararla. Con sprezzo del dolore, Martell afferrò il filamento con la mano destra ed eseguì la sua mossa. Un istante dopo, il filamento si afflosciò e sia Martell sia il ragazzo furono liberi. I filamenti non rientrarono nella ciste, ma giacquero scomposti sull’asfalto. I denti mulinanti del mostro si arrestarono; il cerehione corneo della ruota superiore si placò. La creatura era morta.

Martell guardò il ragazzo.

— Adesso siamo pari — disse. — Io ho salvato la vita a te e tu l’hai salvata a me.

— Per la verità tu sei ancora in debito verso di me — rispose il ragazzo con una strana solennità. — Se io non ti avessi salvato per primo, tu non saresti vissuto per potermi salvare a tua volta. E, comunque, non sarebbe stato necessario, perché io non sarei uscito per strada e pertanto…

Martell spalancò gli occhi. — Chi ti ha insegnato a ragionare in questo modo? — gli domandò divertito. — Parli come un professore di teologia.

— Sono un allievo di fratello Christopher.

— Che sarebbe…

— Lo scoprirà lei stesso. Vuole vederla. È stato lui a mandarmi qui.

— E dove posso trovarlo?

— Venga con me.

Martell seguì il ragazzo. Avevano lasciato la ruota morta in mezzo alla strada. Martell non poté fare a meno di domandarsi che cosa sarebbe successo se fosse arrivata un’auto piena di venusiani di alta casta, che avrebbero dovuto rimuoverne la carcassa con le loro aristocratiche mani.

Martell e il ragazzo varcarono un cancello di rame brunito che, all’avvicinarsi del venusiano si aprì. Il missionario scoprì che il palazzo verso il quale erano diretti non era che un modesto fabbricato in legno. Ma quando lesse il cartello affisso sopra la porta, il suo sbalordimento fu tale che mollò la valigia e, per la seconda volta nello spazio di pochi minuti, tutte le sue cose si sparpagliarono per terra.

Il cartello recitava:

TEMPIO DELL’ARMONIA TRASCENDENTE
BENVENUTI FRATELLI

Martell si sentì tremare le ginocchia. Gli armonisti, lì? Per un certo periodo gli eretici avevano conquistato numerosi adepti sulla Terra, al punto da giungere quasi a minacciare l’organizzazione madre. Ma negli ultimi vent’anni il loro processo di espansione aveva subito una brusca battuta d’arresto, lasciando campo libero alla Confraternita. Era inconcepibile che quegli eretici, che sulla Terra avevano fallito così miseramente, fossero riusciti ad aprire un tempio su Venere… impresa che per gli stessi vorsteriani si era rivelata proibitiva. Era impossibile. Era impensabile.

Sull’uscio apparve la figura tozza di un uomo sulla sessantina, con i capelli brizzolati e il corpo che mostrava i primi segni della pinguedine dovuta all’età. Come Martell, anche lui aveva subito un intervento chirurgico di adattamento. L’armonista teneva le mani appoggiate sul ventre rotondo e appariva calmo e sicuro di sé.

— Christopher Mondschein — disse l’eretico. — Ho saputo del suo arrivo fratello Martell. Si accomodi, la prego.

Martell esitò.

Mondschein sorrise. — Avanti, avanti, fratello. Che rischi pensa di correre nello spezzare il pane con un armonista! Non sarebbe che un cumolo di carne trita se non fosse stato per il coraggio di questo ragazzo, e sono stato io a mandarlo in suo soccorso. Adesso lei mi deve la cortesia di una visita. Entri, fratello. E stia tranquillo, non tenterò la sua anima. Glielo prometto.

tre

La sede venusiana del movimento armonista era modesta e senza pretese, ma stabile. Ospitava un tempio, decorato con statuette e inni eretici, una biblioteca e un quartierino residenziale. Martell scorse diversi ragazzi venusiani al lavoro sul retro dell’edificio; stavano scavando quelle che sembravano le fondamenta di una nuova ala. Il missionario seguì l’anziano fratello nella biblioteca. Una fila di libri di aspetto familiare attrasse la sua attenzione: l’opera omnia di Noel Vorst, nell’elegante rilegatura della costosa Edizione del Fondatore.

— Sorpreso? — domandò Mondschein. — Non dimentichi che anche noi riconosciamo il primato di Vorst, anche se lui ci disdegna. Si accomodi. Un bicchiere di vino? Fanno un ottimo vino bianco secco su questo pianeta.

— Che cosa fa lei qui? — domandò Martell.

— Io? Oh, è una storia terribilmente lunga e che non mi fa molto onore. Il succo è che da giovane ero molto stupido e mi sono lasciato manipolare fino a farmi spedire quassù. Tutto questo risale a quarant’anni fa; ma oggi come oggi non provo più risentimento per quanto è accaduto. Mi sono reso conto che è comunque la cosa più bella che potesse capitarmi nella vita e immagino che il fatto che io sia riuscito a capirlo sia un segno di maturità.

La loquacità di Mondschein irritò Martell, che amava l’essenzialità. — Non mi riferivo alla sua storia personale, fratello Mondschein — lo interruppe il vorsteriano. — Intendevo dire: da quanto tempo il suo ordine è presente su Venere?

— Da quasi cinquant’anni.

— Ininterrottamente?

— Sì. Abbiamo otto templi e circa quattromila fedeli, tutti di bassa casta. I venusiani nobili non ci degnano neanche di uno sguardo.

— Però non si prendono nemmeno la briga di cacciarvi via — osservò Martell.

— Vero — riconobbe Mondschein. — Forse non siamo neanche all’altezza del loro disprezzo.

— In compenso, hanno ucciso tutti i missionari vorsteriani che hanno messo piede sul loro pianeta — riprese Martell. — Noi, ci divorano, voi, vi tollerano. Come mai?

— Forse a noi riconoscono una forza che non trovano nell’organizzazione madre — suggerì l’armonista. — E i venusiani ammirano la forza. Del resto, immagino che questo lei lo sappia, visto che ha deciso di venire in città a piedi. In questo modo lei ha dimostrato di non essere un pavido e di non lasciarsi intimorire dalle difficoltà. Però la sua prova di coraggio sarebbe stata inutile, se quella ruota l’avesse uccisa.

— Cosa che stava per fare.

— Cosa che avrebbe senz’altro fatto — lo corresse Mondschein — se io non mi fossi accorto in tempo di quello che le stava accadendo. Senza il mio intervento, la sua missione su Venere sarebbe terminata alquanto prematuramente. Le piace il vino?

Martell lo aveva appena assaggiato. — Non è male. Mi dica Mondschein, i venusiani si sono davvero lasciati convertire?

— Più del previsto.

— Difficile da credere. Che cosa sapete voi che noi non sappiamo?

— Non si tratta di ciò che sappiamo — rispose Mondschein. — Ma di quello che abbiamo da offrire. Venga con me nel tempio.

— Preferirei di no.

— La prego. La nostra fede non è mica contagiosa.

Controvoglia, Martell lasciò che fratello Christopher lo conducesse nel sanctum sanctorum. Guardò con disprezzo le icone, le immagini e tutte le altre stupidaggini a cui si attaccavano gli eretici. Sull’altare, dove, in qualunque chiesa vorsteriana sarebbe stato appoggiato il minuscolo reattore che emetteva la radiazione azzurra di Cerenkov, era montato un luccicante modello dell’atomo, circondato da altri simulacri elettronici, che si muovevano incessantemente, sprigionando una luce accecante. Martell non si considerava un bigotto, ma era fedele al suo credo e la vista di tutti quegli aggeggi infantili lo disgustò.

Mondschein disse: — Noel Vorst è senz’altro l’uomo più intelligente della nostra era, e il suo talento non va sottovalutato. Lui è stato il primo a rendersi conto che la cultura della Terra si stava sgretolando e che per essa stava iniziando un periodo di decadenza. Si è accorto che gli uomini fuggivano dalla realtà e cercavano rifugio nella droga, Camere del Nulla e in centinaia di altri paradisi artificiali ugualmente deplorevoli. E ha intuito, anche, che le vecchie religioni stavano perdendo credito e che i tempi erano maturi per la creazione di una nuova fede, eclettica e sintetica, che liquidasse il misticismo delle religioni antiche per rimpiazzarlo con una nuova forma di misticismo: un misticismo scientifico, che si incarnava nel Fuoco Azzurro. Un simbolo meraviglioso, capace di catturare l’immaginazione e abbagliare l’occhio, valido quanto la Croce e la Mezza Luna; anzi più efficace, perché era moderno, era scientifico, e, senza perdere il suo fascino, era comprensibile a tutti. Noel Vorst ha avuto la geniale idea di istituire questo culto e la capacità organizzativa di tradurre il suo progetto in pratica. Ma la sua filosofia era e resta incompiuta.

— Quindi voi vi considerate superiori! Non le dice niente il fatto che noi controlliamo la Terra come mai nessun movimento religioso del passato è…

Mondschein sorrise. — Ciò che avete conseguito sulla Terra è straordinario, lo riconosco. La Terra era pronta per accogliere la parola di Vorst. Ma come mai non siete riusciti a ottenere risultati analoghi sugli altri pianeti? Perché la filosofia di Vorst è troppo ardita. Non offre niente che possa persuadere i coloni a convertirsi.

— Vorst promette l’immortalità del corpo — ribatté animatamente Martell. — Non le sembra sufficiente?

— No. Perché non propone miti. Soltanto un freddo baratto: venite in chiesa, pagate le decime e vivrete per sempre, forse. Nonostante tutti i suoi riti e le sue preghiere, quella di Vorst è una religione secolare. Manca di poesia. Non c’è un Gesù Bambino nella mangiatoia, non c’è un Abramo che sacrifica Isacco, non c’è scintilla di umanità, non…

— D’accordo — lo interruppe Martell con tono brusco. — Noi non andiamo in giro a raccontare stupide leggende. Ma questo è proprio il punto centrale del nostro insegnamento! Nel mondo d’oggi le persone non credono più alle vecchie storie e, anziché inventarne di nuove, noi predichiamo la semplicità, la forza, il potere della scienza…

— E avete assunto il controllo politico di quasi tutto il pianeta e, contemporaneamente, avete istituito superbi laboratori scientifici, in cui si svolgono studi sulla longevità e sulle attività di percezione extra-sensoriali. Bene, benissimo. Ammirevole. Ma qui, su Venere, avete fallito. Mentre noi siamo riusciti a convertire i venusiani. Noi abbiamo una storia da raccontare: la storia di Noel Vorst, il Primo Immortale, la sua rendenzione nel fuoco atomico, il suo risveglio dal peccato. Noi offriamo alle persone la possibilità di redimersi in Vorst e nel profeta dell’Armonia Trascendente, Davide Lazzaro. Le nostre parole catturano la fantasia dei venusiani di casta inferiore e la prossima generazione di missionari riuscirà a convertire anche i venusiani di nobile lignaggio. Gli abitanti di questo pianeta sono pionieri, fratello Martell. Hanno reciso ogni legame con la Terra e hanno ricominciato daccapo. Sono un popolo giovane, che ha bisogno di miti. Anzi ne stanno inventando alcuni loro stessi. Non pensa che fra cento anni i primi coloni di Venere verranno venerati come creature soprannaturali, Martell? Non pensa che allora saranno diventati santi armonisti?

Martell era sinceramente sbalordito. — È questo il suo gioco?

— In parte.

— Dunque, il suo intento è quello di ritornare al Cristianesimo del quinto secolo.

— Non esattamente. Perché parallelamente proseguiamo anche le nostre ricerche scientifiche.

— E lei crede in ciò che predica? — domandò Martell.

Mondschein gli rivolse un sorriso strano. — Da giovane sono stato accolito vorsteriano presso il tempio di Nyack. Avevo aderito alla Confraternita perché per me rappresentava un lavoro. Avevo bisogno di appartenere a un’organizzazione e speravo dal profondo del mio cuore di venir inviato a Santa Fe, per prendere parte in prima persona agli esperimenti sull’immortalità. Perciò entrai nell’ordine per le ragioni più meschine che si possano immaginare. Lo sa, Martell? Non provavo la benché minima vocazione religiosa. Nemmeno l’apparato del movimento, nella sua dimensione più secolare, scevra da qualsiasi implicazione mistica, mi attirava in modo particolare. Poi, dopo una serie di fatti confusi, che io stesso ancora non riesco a comprendere e che non inizierò nemmeno a spiegarle, lasciai la Confraternita per entrare nell’ordine armonista, e venni inviato qui come missionario. Il missionario che è riuscito a convertire il più alto numero di venusiani di tutta la storia dell’ordine. Come pensa che la mitologia armonista possa coinvolgermi, se ero troppo razionale per accettare la filosofia vorsteriana?

— Perciò è con assoluto cinismo che lei predica tutte queste stupidaggini sui santi e sulle immagini. Lo fa soltanto per conservare il suo potere! Lei non è che un venditore ambulante di medicine fasulle, un ciarlatano…

— Calma — lo ammonì Mondschein. — Io, però, ottengo risultati concreti. E, come penso che Noel Vorst stesso le direbbe, quel che conta è il fine, non i mezzi. Le piacerebbe inginocchiarsi qui e pregare un po’?

— Certo che no.

— Posso pregare io per lei, allora?

— Ma se ha appena ammesso di non credere in ciò che predica!

Sorridendo, Mondschein, rispose: — Anche le preghiere di un incredulo potrebbero venire ascoltate. Chi lo sa? Una sola cosa è certa: che lei morirà qui, Martell. Perciò pregherò affinché lei possa passare attraverso la fiamma purificatrice delle alte frequenze.

— Mi risparmi la commedia. Perché è così sicuro che morirò qui? È un falso ragionamento presumere che, soltanto perché tutti i miei predecessori sono stati uccisi, anche a me toccherà la stessa sorte.

— La situazione è già alquanto precaria per noi, qui su Venere. Per voi vorsteriani è addirittura proibitiva. I venusiani non vi vogliono. Vuole sapere qual è l’unico modo per lei di sopravvivere più di un mese quaggiù?

— Sentiamo.

— Diventare uno di noi. Scambiare la sua veste azzurra per quella verde degli armonisti. Abbiamo bisogno di tutti gli uomini capaci che riusciamo a convertire.

— Non dica assurdità. Pensa davvero che io sia disposto a fare una cosa simile?

— Non è impossibile. Molti vorsteriani hanno lasciato la Confraternita per confluire nel nostro ordine, a cominciare dal sottoscritto.

— Preferisco il martirio — disse Martell.

— E a chi gioverà il suo sacrificio? Rifletta, fratello. Venere è un luogo affascinante. Non le piacerebbe vivere per poterne visitare qualche regione? Si unisca a noi. Non le ci vorrà molto per imparare i nostri riti. E poi vedrà che non siamo quegli orchi cattivi che ci dipingono. Se…

— La ringrazio — disse Martell. — Vuole scusarmi, adesso?

— Veramente, speravo che sarebbe stato nostro ospite per cena.

— Non posso. Sono atteso all’Ambasciata Marziana, se lungo la strada non mi imbatto in qualche altra belva venusiana.

Mondschein non sembrava contrariato dal rifiuto di Martell. Del resto, pensava il vorsteriano, non poteva certo avergli fatto quella proposta seriamente. — Mi permetta, almeno, di farla accompagnare in città — riprese Mondschein con aria grave. — Sono certo che il suo orgoglio non le impedirà di accettare questo favore.

Martell sorrise. — Con piacere. Sarà una bella storia da raccontare al Coordinatore Kirby… Come gli eretici mi abbiano salvato la vita e mi abbiano offerto un passaggio in città.

— Dopo aver tentato di convincerla a rinnegare la sua fede.

— Naturalmente. Posso andare, adesso?

— Mi ci vorrà soltanto qualche minuto per procurarle una macchina. Preferisce attendere fuori?

Martell si inchinò e fuggì con sollievo dal tempio degli eretici. Dopo aver attraversato l’edificio, emerse nel cortile: era uno spazio vuoto di circa cinquanta metri quadrati, circondato da arbusti squamosi di color grigioverde, i cui fiori neri avevano uno strano aspetto carnivoro. Quattro ragazzi venusiani, fra i quali il giovane che lo aveva salvato, erano intenti a scavare. Usavano arnesi manuali, pale e picconi, e, osservandoli, Martell ebbe la sgradevole sensazione di essere ritornato al diciannovesimo secolo. La ricca gamma di sofisticati macchinari impiegati sulla Terra, lì non esisteva.

I ragazzi lo squadrarono con freddezza e proseguirono il loro lavoro. Martell li osservò. Erano snelli e flessibili, di età compresa fra i nove e i quattordici anni, anche se era difficile giudicare. Si assomigliavano quanto bastava a far sospettare che fossero fratelli. Si muovevano con grazia, quasi con eleganza. Sulla loro pelle bluastra luccicava un leggero velo di sudore. Martell rimase colpito dal modo incredibile in cui le loro articolazioni si piegavano: dunque, la loro struttura corporea era ancora più aliena di quanto avesse immaginato.

Poi, all’improvviso, i ragazzi gettarono via le pale e i picconi, e, prendendosi per mano, chiusero per un istante gli occhi luminosi. Allora Martell vide la terra smossa sollevarsi dall’area di scavo e accumularsi in una bella montagnola a una decina di metri di distanza.

Ma sono telecinetici! pensò Martell ammirato.

In quello stesso istante apparve fratello Mondschein. — La macchina è pronta — gli annunciò con tono cordiale.

quattro

Mentre faceva il suo ingresso nella città venusiana, Martell non poteva a fare a meno di pensare alla scena a cui aveva appena assistito. Con la semplice forza del pensiero, quei ragazzi avevano raccolto svariate centinaia di chili di terra dallo scavo e li avevano agilmente depositati nel punto esatto in cui volevano.

Martell tremava per l’eccitazione, che a stento riusciva a contenere. Gli esperiani costituivano ormai un gruppo numeroso sulla Terra, ma possedevano doti essenzialmente telematiche e, fino ad allora, nessuno aveva manifestato poteri telecinetici. Né era possibile in alcun modo indirizzare lo sviluppo delle loro energie metapsichiche, anche se da svariati decenni, essi prendevano parte a un programma di procreazione controllata, mirato proprio a rafforzare il loro patrimonio genetico. Un esperiano particolarmente dotato era in grado di penetrare nella mente delle persone e di manipolarne i contenuti, o sondarne i recessi più remoti. Esistevano anche alcuni individui dotati di poteri di precognizione, ma in genere morivano in età adolescenziale e i loro geni andavano perduti. I telecinetici, ovvero le persone in grado di spostare gli oggetti da un luogo all’altro, erano mosche bianche sulla Terra. E invece, lì, su Venere, ne aveva incontrati quattro soltanto nel cortile del tempio degli armonisti!

Nuove tensioni turbavano il missionario vorsteriano. Era arrivato su Venere da poche ore e aveva già fatto due importanti scoperte: che sul pianeta si erano insediati gli armonisti e che alcuni di loro possedevano energie psicocinetiche. All’improvviso, la sua missione assumeva un’importanza vitale. Non si trattava più soltanto di diffondere la parola di Vorst in un mondo ostile. Il rischio era quello di venire sopravanzati e messi in minoranza da un ordine eretico che tutti sulla Terra credevano in declino.

L’auto che Mondschein gli aveva messo a disposizione lo scaricò di fronte all’Ambasciata Marziana: era una piccola e solida costruzione che si affacciava su un’ampia piazza, in cui sembrava risolversi l’intera città. La disponibilità dei marziani era stata fondamentale per permettere a Martell di approdare su Venere e, come prima cosa, si imponeva una visita all’Ambasciatore.

I marziani respiravano un’aria simile a quella terrestre e non si preoccupavano di adattarsi alle condizioni di vita venusiane. Pertanto, una volta varcata la soglia dell’ambasciata, Martell dovette rassegnarsi a indossare il cappuccio-respiratore che lo avrebbe protetto dall’atmosfera del suo pianeta natale.

L’Ambasciatore, il libero cittadino Nat Weiner, aveva quasi il doppio dell’età di Martell o forse anche di più. Forse era prossimo alla novantina. Ma, a differenza del missionario, piccolo, magro, aveva un fisico possente, con spalle così larghe da sembrare sproporzionate rispetto ai fianchi e alle gambe.

— Dunque ha deciso di venire — esordì Weiner. — Credevo avesse più buon senso.

— Noi siamo persone determinate, libero cittadino Weiner.

— Lo so. Vi osservo da molto tempo. — Gli occhi di Weiner vagarono all’inseguimento di ricordi lontani. — Da più di sessant’anni, per l’esattezza. Conobbi il vostro attuale Coordinatore Kirby prima che si convertisse… Glielo ha mai raccontato?

— No, non lo sapevo — rispose Martell. Rabbrividì. Sessant’anni. Questo significava che Kirby era entrato nell’ordine vent’anni prima della sua nascita. Vivere cento anni non era un fatto insolito a quell’epoca. Vorst stesso doveva ormai aver raggiunto il traguardo dei centoventi o centotrenta anni, ma faceva ugualmente impressione pensare che qualcuno potesse avere una simile età.

Weiner sorrise. — Ero andato sulla Terra per stipulare un trattato commerciale e Kirby era il mio chaperon. Allora era un funzionario delle Nazioni Unite. Gli feci passare dei brutti momenti quella volta. All’epoca bevevo parecchio. Penso che non si dimenticherà mai quella sera! — Il suo sguardo si fissò sugli occhi attenti di Martell. — Desidero che lei sappia, fratello, che se dovesse venire aggredito, io non potrò fare nulla per proteggerla. Io sono responsabile soltanto dei cittadini marziani.

— Capisco.

— Comunque, il mio primo consiglio resta sempre valido: ritorni sulla Terra, fratello Martell, e invecchi serenamente.

— Non posso, libero cittadino Weiner. Io sono venuto qui con una missione da compiere.

— Ah, che dedizione! Meraviglioso! Dove costruirà il suo tempio?

— Sulla strada che conduce in città. Forse più vicino alla città di quello degli armonisti.

— E dove vivrà fino a quando avranno finito di costruirlo?

— Dormirò all’aperto.

— Qui su Venere c’è un uccello, chiamato laniere. È grande come un cane, le sue ali assomigliano a vecchie penne e ha il becco a forma di lancia. Una volta l’ho visto lanciarsi in picchiata da un’altezza di centocinquanta metri e trafiggere con il becco un uomo che stava facendo un sonnellino in un prato.

Senza scomporsi, Martell replicò: — Oggi sono sopravvissuto a un incontro ravvicinato con una ruota. Forse, riuscirò a evitare anche i lanieri. In ogni caso non ho intenzione di lasciarmi intimorire.

Weiner annuì. — Le auguro buona fortuna — concluse.


Quell’augurio era tutto ciò che Martell avrebbe ricevuto dall’Ambasciatore, ma gli era ugualmente grato. I marziani erano piuttosto freddi nei confronti della Terra e di tutto ciò che la riguardava, comprese le religioni professate dai suoi abitanti. Non che odiassero propriamente i terrestri, come dimostravano di fare i venusiani di entrambe le caste; anzi, i marziani conservavano una certa affinità con gli abitanti della Terra, e il loro legame con il pianeta-madre non era esile come quello delle creature aliene che popolavano Venere. Ciò nondimeno, i marziani erano uomini di frontiera, duri e aggressivi, e, come tali, pensavano essenzialmente a se stessi. Fungevano da intermediari fra la Terra e Venere soltanto perché potevano trarne profitto. Davano ospitalità ai missionari terrestri perché questo non comportava alcun rischio. A modo loro erano tolleranti, ma distaccati.

Martell uscì dall’Ambasciata e si mise all’opera. Aveva denaro, energia e intraprendenza. Non poteva assumere operai indigeni direttamente, perché per un venusiano, anche di bassa casta, sarebbe stato inconcepibile lavorare per un terrestre, ma avrebbe potuto contattarli tramite Weiner. Naturalmente, i marziani avrebbero percepito un compenso per la mediazione.

Così assunse alcuni operai e fece erigere un piccolo tempio. Quando i lavori furono terminati, Martell installò sull’altare un reattore formato tascabile che aveva portato con sé dalla Terra e lo accese. Da solo, nel tempio, osservò in silenzio il Fuoco Azzurro che, tremolando, prendeva vita.

Martell non aveva perso il senso dello stupore. Era un uomo mondano, non un mistico; eppure, ogni volta che vedeva la radiazione azzurra emanata dal reattore, ne restava profondamente affascinato. Il missionario cadde in ginocchio e si toccò la fronte in atto di sottomissione. Il suo sentimento religioso non rasentava mai l’idolatria, come accadeva agli armonisti, ma questo non significava che non percepisse la forza e il potere del movimento al quale aveva dedicato la vita.

Il primo giorno, Martell si limitò a celebrare il rito della consacrazione. Il secondo, terzo e quarto giorno attese speranzoso che qualche venusiano di casta inferiore, incuriosito, varcasse la soglia della chiesa. Ma non si presentò nessuno.

Per il momento a Martell non interessava andare alla ricerca di anime da convertire. Preferiva che le conversioni fossero spontanee, se possibile. Il tempio rimase vuoto. Finalmente, il quinto giorno qualcuno entrò… una creatura simil-rana, lunga una trentina di centimetri, munita di piccole corna minacciose sulla fronte e di sottili spine d’aspetto velenoso sulle spalle. Possibile che su quel pianeta non ci fosse una sola creatura priva di corazza o di armi, si domandò Martell? La cacciò fuori dal tempio, ma la rana ringhiò e allungò le corna verso il suo piede. Martell lo ritrasse appena in tempo, frapponendo una sedia fra sé e l’animale. Il corno sinistro dell’orribile creatura si conficcò nella gamba della sedia, affondando per diversi centimetri nel legno; quando la rana lo ritrasse, un fluido iridescente colò lungo la gamba della sedia, corrodendo il legno. Martell non era stato mai aggredito da una rana prima di quel giorno. Fortunatamente, al secondo tentativo riuscì a cacciare via l’animale senza riportare ferite. Bel pianeta, pensò.

L’indomani ricevette una visita molto più gradevole: quella di Elwhit. Martell riconobbe subito in lui uno dei quattro ragazzi psicocinetici che aveva visto all’opera nel cortile del tempio armonista. Elwhit apparve all’improvviso, come dal nulla, e gli disse: — Lì fuori c’è un Fungo Malevolo.

— È pericoloso?

— Uccide le persone e le divora. Devi stare attento a non pestarlo. Tu sei un vero religioso?

— Mi piace pensare di esserlo.

— Fratello Christopher dice che non dobbiamo fidarci di te, perché sei un eretico. Che cos’è un eretico?

— Un eretico è un uomo che non condivide la religione di un altro uomo — rispose Martell. — Guarda caso, però, io penso che di noi due sia fratello Christopher l’eretico. Ti piacerebbe entrare?

Il ragazzo, infinatamente curioso e inquieto, aveva gli occhi sgranati. Martell moriva dalla voglia di interrogarlo sui suoi apparenti poteri telecinetici, ma sapeva che, per il momento, era meglio cercare di farne un seguace di Vorst. Le sue domande avrebbero potuto spaventarlo. Con pazienza e grande precisione, Martell gli illustrò ciò che il credo vorsteriano aveva da offrire. Era difficile giudicare la sua reazione. Che significato potevano avere per un ragazzo di dieci anni dei concetti così astratti? Martell gli diede il libro di Vorst, il testo semplice. Il ragazzo gli promise che sarebbe ritornato.

— Stai attento al Fungo Malevolo — lo ammonì prima di andarsene.

Trascorsero alcuni giorni. Poi il ragazzo ritornò con la notizia che Mondschein gli aveva requisito il libro. In un certo senso, Martell ne fu contento. Significava che gli armonisti erano spaventati dalla sua presenza. Che impedissero pure a lui e agli altri venusiani di frequentare la chiesa vorsteriana: in men che non si dica lui avrebbe sottratto a Mondschein tutti i suoi quattromila fedeli.

Due giorni dopo la seconda visita di Elwhit, si presentò al tempio un’altra persona. Era un uomo con la faccia larga che vestiva l’abito verde degli eretici. Senza presentarsi, disse: — Lei sta cercando di portarci via quel ragazzo, Martell. Non lo faccia.

— È venuto qui di sua spontanea volontà. Può dire a Mondschein…

— È un bambino molto curioso. Ma sarà lui a rimetterci se lei continuerà a permettergli di venire qui. La prossima volta lo mando via Martell. Lo dico per il suo bene.

— Anch’io cerco di portarvelo via per il suo bene — replicò con voce pacata il vorsteriano. — Lui e tutti quelli che verranno da me. Sono disposto a combattervi pur di averlo.

— Così lo distruggerà — disse l’armonista. — Se vuole che viva, la prossima volta che si presenterà alla sua chiesa lo mandi via.

Martell non intendeva cedere. Elwhit rappresentava la sua breccia sul pianeta Venere: allontanarlo era pura follia.

Poche ore più tardi si presentò al tempio un altro visitatore, dall’aspetto non più amichevole di quello della rana cornuta. Era un venusiano di casta inferiore, basso e tarchiato, che, appesi a entrambi i lati del petto, portava due pugnali ascellari con le lame scintillanti. Non era venuto per pregare. Indicando il reattore disse: — Spegni quell’affare e disfati del materiale fissile entro dieci ore.

Martell aggrottò la fronte. — Ma per la nostra religione è indispensabile.

— È materiale fissile. Qui è vietato accendere reattori a titolo privato.

— Nessuno ha avuto da obiettare alla dogana — sottolineò Martell. — Ho dichiarato il reattore al cobalto-60 per quello che era, ho spiegato quale uso intendevo farne e l’hanno fatto passare.

— La dogana è la dogana. Adesso lei si trova in città e in città non si può usare materiale fissile. Ha bisogno di un permesso per fare quello che sta facendo.

— E a chi mi devo rivolgere per ottenerlo? — domandò Martell gentilmente.

— Alla polizia. Io sono la polizia. Richiesta respinta. Spenga quell’affare.

— E se non lo facessi?

Per un istante il missionario pensò che quel sedicente poliziotto lo avrebbe pugnalato sui due piedi. L’uomo si ritrasse come se Martell gli avesse sputato in faccia. Poi, dopo un orribile silenzio, disse: — "La sua è una provocazione?

— No, è una domanda.

— In nome dell’autorità che rappresento le chiedo di disfarsi di quell’aggeggio. Se lei sfida la mia autorità, mi provoca. Chiaro? Lei non mi sembra addestrato al combattimento. Sia intelligente e faccia come le ho detto. Ha dieci ore di tempo. Ha capito?

Dopodiché girò sui tacchi e uscì.

Martell scosse tristemente la testa. L’applicazione della legge era una questione di orgoglio personale su quel pianeta? Be’ c’era da aspettarselo. Ma il problema era un altro: volevano che spegnesse il reattore e, senza reattore, il tempio non sarebbe più stato un tempio. Poteva appellarsi? E a chi? Se si batteva con quel poliziotto e lo uccideva, avrebbe conquistato il diritto di tenere acceso il reattore? In ogni caso, non poteva certo compiere un passo simile.

Tuttavia Martell decise di non demordere senza prima combattere. Cercò le autorità competenti, o quelle che lì passavano per autorità, e, dopo aver atteso per quattro ore di essere ammesso nell’ufficio di un funzionario minore, si sentì dire chiaro e tondo di smontare immediatamente il reattore.

Nemmeno Weiner gli fu di aiuto. — Spenga il reattore — gli suggerì il marziano.

— Il tempio non ha motivo di esistere senza reattore — replicò Martell. — Dove posso esaminare la legge che regolamenta l’utilizzo di reattori a titolo privato?

— Probabilmente l’hanno inventata apposta per lei — ipotizzò Weiner sorridendo. — Non c’è niente da fare, fratello. Temo proprio che dovrà rinunciare al suo reattore.

Martell fece ritorno al tempio. Elwhit lo stava attendendo sugli scalini. Sembrava turbato.

— Non chiudere il tempio — disse.

— Non lo farò. — Poi Martell gli fece segno di seguirlo all’interno della chiesa. — Aiutami, Elwhit. Insegnami. Ho bisogno di sapere.

— Che cosa?

— Come fai a spostare le cose con il pensiero?

— Le afferro — rispose il ragazzo. — Afferro quello che c’è dentro le cose. È una specie di forza. È difficile da spiegare.

— Te l’ha insegnato qualcuno?

— È come camminare. Perché si muovono le gambe? Perché stanno dritte e sostengono il resto del corpo?

Martell si sentiva ribollire il sangue nelle vene per la frustrazione. — Puoi spiegarmi che cosa provi quando lo fai?

— Sento caldo. In cima alla testa. Non lo so. Non provo un gran che. Parlami degli elettroni, fratello Nicholas. Cantami la canzone dei fotoni.

— Fra un attimo — replicò Martell. Si accovacciò per terra, in modo da guardare il ragazzo negli occhi. — Anche tua madre e tuo padre sono capaci di muovere gli oggetti?

— Un po’. Io di più, però.

— Quando hai scoperto di saperlo fare?

— La prima volta che l’ho fatto.

— E non hai idea di come… — Martell tacque. Era inutile. Com’era possibile che un ragazzino di dieci anni trovasse le parole per descrivere una funzione telecinetica? Per lui era naturale come respirare. L’unica cosa da fare era imbarcarlo su un volo diretto sulla Terra, mandarlo a Santa Fe e sottoporre il suo caso agli scienziati del Centro Noel Vorst di Scienze Biologiche. Ma, non era fattibile, ovviamente. Il ragazzo non sarebbe stato disposto ad andare di sua spontanea volontà e rapirlo non era opportuno.

— Cantami la canzone — lo esortò Elwhit.

— Nel nome dello spettro, del quanto e del santo angstrom…

La porta del tempio si spalancò ed entrarono tre venusiani: il capo della polizia e due suoi aiutanti. Il ragazzo fece un rapido dietro front e fuggì a gambe levate attraverso l’uscita posteriore.

— Prendetelo! — ruggì il capo della polizia.

Martell protestò urlando. Ma non servì a nulla I due poliziotti rincorsero Elwhit in cortile. Il capo della polizia e Martell li seguirono a ruota.

I due agenti lo braccarono. All’improvviso, il più grasso dei due volò in aria, agitando violentemente le gambe, e precipitò verso la zona di sottobosco in cui cresceva il Fungo Malevolo. Cadde pesantemente. Si udì un grugnito soffocato. Il Fungo Malevolo, Martell l’aveva appreso osservandolo, si muoveva rapidamente. Quella muffa carnivora divorava tutto ciò che era organico; scattando con una velocità spaventosa, i suoi filamenti appiccicosi avviluppavano la preda, condannandola a morte. Il poliziotto rimase intrappolato in un groviglio di lacci, che incominciarono a emettere enzimi adesivi. Dibattersi serviva soltanto a peggiorare la situazione. L’uomo tirò e scalciò, ma i filamenti del fungo si moltiplicavano, finché ebbero la meglio su di lui e lo immobilizzarono a terra. Adesso toccava agli enzimi digestivi entrare in azione. Un odore dolce, nauseante si sprigionò dalla pianta.

Martell non ebbe il tempo di seguire il processo di dissoluzione. Il poliziotto, interamente coperto dalla secrezione vischiosa, stava per morire e il suo collega, il viso quasi nero per la rabbia e la paura, aveva tirato fuori un coltello e lo aveva puntato contro il ragazzo.

Ma Elwhit glielo fece cadere di mano. Poi, la fronte imperlata di sudore, i muscoli della mascella contratti per lo sforzo, fece appello a tutte le sue energie per scagliare anche il secondo poliziotto nelle fauci del fungo; ma l’uomo, pur inclinandosi visibilmente all’indietro, riuscì a resistere alla spinta telecinetica. Martell rimase a fissare la scena paralizzato. Il capo della polizia, invece, si precipitò in avanti, brandendo il coltello.

— Elwhit! — urlò il missionario.

Ma nemmeno un telecinetico era in grado di difendersi da una coltellata alla schiena. La lama affondò di parecchi centimetri. Il ragazzo cadde a terra. Nel medesimo istante, cessando la pressione, il poliziotto scivolò e cadde faccia a terra. Il capo della polizia afferrò il ragazzo ferito e straziato dal dolore, e lo gettò nel Fungo Malevolo. Elwhit cadde accanto alla massa molle del poliziotto morto e Martell vide con orrore i filamenti grondanti bava chiudersi sopra di lui. Un moto di nausea gli serrò la gola. Dovette far ricorso alle tecniche vorsteriane di auto-controllo per poter recuperare la padronanza.

A quel punto il capo della polizia e l’agente avevano ritrovato la calma. Senza quasi degnarsi di guardare i due cadaveri che si stavano disintegrando, afferrarono il missionario e lo trascinarono all’interno del tempio.

— Avete ucciso un ragazzo — urlò Martell, liberandosi dalla stretta. — Lo avete pugnalato alla schiena! È questo l’onore di cui andate tanto fieri?

— Sistemerò la questione davanti al nostro tribunale, prete. Quel ragazzo era un assassino. Ed era anche invasato da dottrine pericolose. Lo sapeva che stavamo per procedere contro di lei e venendo qui ha commesso un reato. Perché non ha ancora spento quel reattore?

Martell cercò invano le parole. Avrebbe voluto rispondergli che non intendeva accettare la sconfitta, che avrebbe opposto resistenza, che era deciso a lottare fino al martirio. Ma la brutale uccisione dell’unico venusiano che era riuscito a convertire aveva annientato la sua volontà.

— Spegnerò il reattore — disse con voce cupa.

— Adesso.

Martell salì sull’altare e lo disattivò. Il capo della polizia e il suo aiutante lo seguirono con lo sguardo e sorrisero, pregustando il momento in cui la luce si sarebbe spenta. L’agente disse: — Il suo tempio non è più un vero tempio con il reattore spento, non è così, prete?

— No — rispose Martell. — Penso che chiuderò anche la chiesa.

— Non è durato molto.

— No.

— Ma guardalo, con quelle branchie penzoloni! — lo derise il capo della polizia. — Si è conciato in quel modo per assomigliarci. Ma chi credeva di imbrogliare? Gliela faremo vedere noi.

Si fecero avanti per aggredirlo. Erano uomini forti e poderosi. Martell era disarmato ma non aveva paura. Sapeva come difendersi. Incombevano su di lui come i mostri di un incubo: figure grottescamente disumane, con gli occhi scintillanti ridotti a due fessure, le palpebre interne che scivolavano su e giù nervosamente, le piccole narici frementi, le branchie tremanti. Martell dovette farsi violenza per ricordarsi che anche lui, ora, era un mostro come loro: un terrestre modificato. Un loro fratello.

— Facciamogli una bella festa d’addio! — propose l’agente.

— Siete stati fin troppo chiari — disse Martell. — Chiuderò il tempio. Avete bisogno di aggredire anche me? Di che cosa avete paura? Le idee rappresentano una minaccia così grave per voi?

Un pugno lo raggiunse alla bocca dello stomaco. Martell vacillò, boccheggiando, ma si sforzò di mantenere la calma. Una mano calò di spigolo in direzione della sua gola. Martell la intercettò, la allontanò e afferrò il polso. Si verificò un momentaneo scambio di ioni e l’agente cadde, imprecando.

— Attento. È elettrico!

— Non ho intenzione di farvi del male — replicò pacatamente Martell. — Lasciatemi andare in pace.

Le mani corsero ai pugnali. Martell rimase immobile. A poco a poco, la tensione si allentò. I venusiani rincularono verso l’uscita, apparentemente disposti a lasciar perdere la questione. Del resto avevano ottenuto quello che volevano, cioè di chiudere la missione vorsteriana, e adesso davano l’impressione di avere qualche scrupolo nell’affrontare il missionario sconfitto.

— Vattene dalla città, terrestre — grugnì il capo della polizia. — Torna al tuo paese e non venire più a scocciare da queste parti con la tua falsa religione. Noi non ne vogliamo sapere. Vattene, hai capito?

cinque

Non esisteva una tenebra impenetrabile come il cielo notturno di Venere, pensò Martell. Era come se la volta celeste fosse rivestita da uno strato di lana. Non una stella, non il baluginio di un raggio di luna riusciva a penetrare quell’arcata nera. Però, ogni tanto, balenava qualche luce intermittente: era quella emanata da enormi uccelli predatori, diabolicamente luminosi, che sfrecciavano nell’oscurità, aggredendo le loro vittime quando meno se lo aspettavano. Dalla veranda posteriore del tempio armonista, Martell li osservava librarsi a non più di trenta metri d’altezza, abbastanza vicini da permettergli di distinguere la fila di artigli adunchi che ornavano i bordi di attacco delle ali ricurve.

— Qui gli uccelli hanno anche i denti — osservò Christopher Mondschein.

— E le rane le corna — aggiunse Martell. — Perché le creature di questo pianeta sono così perverse?

Mondschein gli rispose con una risata chioccia. — Lo domandi a Darwin, amico mio. È andata così. Dunque ha fatto la conoscenza delle rane venusiane? Maledette bestiacce. E ha visto una ruota. Ma ci sono anche pesci molto simpatici, sa. E piante carnivore. In compenso su Venere non ci sono insetti. Ci pensa? E nessun artropode terrestre. Naturalmente ne esistono deliziose varietà acquatiche: una specie di scorpione più grande di un uomo, una specie di aragosta con tenaglie gigantesche… Ma tanto qui nessuno va al mare.

— Il perché mi sembra evidente — disse Martell. Un altro uccello luminescente scese in picchiata, sfiorò i rami e sfrecciò via. Dalla sua testa piatta sporgeva un organo carnoso, grande come un melone e luminoso, che oscillava in cima a un robusto stelo.

— Dunque, alla fine ha deciso di diventare uno di noi?

— Proprio così.

— Lo fa per infiltrarsi nella nostra organizzazione, Martell? Per spiarci?

Le guance del giovane missionario si colorirono. I chirurghi di Santa Fe non lo avevano privato della reazione dell’arrossamento, anche se adesso, in quelle circostanze anziché imporporarsi, la sua pelle assumeva un triste colore grigiastro.

— Come si spiegherebbe, altrimenti, questa sua repentina decisione? La settimana scorsa ha rifiutato con sdegno la mia offerta.

— La settimana scorsa, appunto. Adesso il mio tempio è chiuso e ho visto uccidere sotto i miei occhi un ragazzo che si fidava di me. Non ho nessuna intenzione di assistere ad altri omicidi.

— Allora riconosce di essere responsabile della sua morte…

— Riconosco di avergli permesso di mettere a repentaglio la sua vita — precisò Martell.

— Noi la avevamo avvertita.

— Ma io non avevo idea della crudeltà delle forze che mi avrebbero colpito. Adesso lo so. Non posso farcela da solo. Mi permetta di unirmi a voi, Mondschein.

— Il suo piano è fin troppo chiaro, Martell. Quando è arrivato fremeva dall’impazienza di diventare martire. Ci ha rinunciato troppo presto. È evidente che adesso vuole entrare nel nostro movimento per poterci spiare. Le conversioni non sono mai così semplici e lei non è uomo da lasciarsi persuadere tanto facilmente. Io sospetto di lei, fratello.

— Lo dice perché mi sta leggendo la mente?

— Oh, no. Io non posseggo neanche un’oncia di poteri esperiani. Ma ho buon senso. E poi ho anch’io una certa esperienza di spionaggio. Lei è qui per ficcanasare.

Martell osservò il profilo luminoso di un uccello che si stagliava contro lo sfondo scuro. — Quindi lei rifiuta di accogliermi?

— Posso darle ospitalità per questa notte. Ma domani mattina dovrà andarsene. Mi dispiace, Martell.

Non c’era modo di persuadere l’armonista a ritornare sulla propria decisione. Martell non era sorpreso, né particolarmente dispiaciuto; aveva dubitato fin dall’inizio della validità di quella tattica e perciò si aspettava il rifiuto di Mondschein. Forse, se avesse atteso sei mesi prima di avanzare quella richiesta, la sua risposta sarebbe stata diversa.

Rimase distaccato mentre il piccolo gruppo di armonisti celebrava i vespri. Non si chiamavano "vespri", naturalmente ma Martell non poteva fare a meno di identificare il culto degli eretici con la vecchia religione cattolica. In quella missione erano presenti tre ex-terrestri. La voce dei due subordinati si unì a quella di Mondschein che aveva intonato un inno quasi offensivo nella sua religiosità ma, al tempo stesso, vagamente commovente. Alla funzione partecipavano anche sette venusiani di casta inferiore. Poi, insieme ai tre armonisti, Martell consumò una cena a base di una carne sconosciuta e di un vino aspro. Sembravano a loro agio nonostante la sua presenza, quasi compiaciuti. L’uno, Brandlaugh, era magro e apparentemente fragile, forse a causa delle braccia, troppo lunghe, e dei tratti del volto così schietti da apparire quasi comici. L’altro, Lazzaro, era di corporatura robusta e atletica, ma aveva gli occhi stranamente inespressivi e la pelle del viso come una maschera sugli zigomi larghi. Era lui che era andato a fargli visita nel suo disgraziatissimo tempio. Martell sospettava che Lazzaro fosse un esperiano. Il suo cognome suscitò la sua curiosità.

— Sei parente di… Davide Lazzaro? — gli domandò.

— Sono suo bisnipote. Io non l’ho mai conosciuto.

— A quanto pare nessuno l’ha conosciuto — replicò Martell. — A volte mi sorge il dubbio che l’illustre fondatore del vostro ordine sia una creatura leggendaria.

I tre armonisti di irrigidirono. Fu Mondschein a parlare per primo. — Una volta incontrai un confratello che l’aveva conosciuto. Dicono che fosse un uomo che incuteva molta soggezione: alto e autoritario, con un’aria regale.

— Come Vorst — osservò Martell.

— Molto simile a Vorst. Avevano entrambi il carisma naturale del comando — aggiunse Mondschein. Poi si alzò. — Buona notte, fratelli.

Martell rimase solo con Bradlaugh e Lazzaro. Nella stanza calò un silenzio imbarazzante. Dopo qualche minuto, Bradlaugh si alzò a sua volta e, con tono freddo, disse: — Le mostro la sua stanza.

La camera era piccola; l’unico mobilio era costituito da una semplice branda. Ma Martell era contento. Alle pareti vi erano meno simboli religiosi del previsto. Era chiaramente un luogo deputato soltanto al risposo notturno. Martell recitò rapidamente le sue preghiere e chiuse gli occhi. Dopo alcuni minuti sopraggiunse il sonno: una sottile crosta di torpore sopra il magma incandescente della sua anima.

Poi, un improvviso frastuono trapassò quella crosta.

Risate, voci aspre che rimbombavano. Un forte colpo si abbatté contro le mura del tempio. Martell si svegliò in tempo per udire una voce impastata che urlava: — Dateci il vorsteriano!

Si drizzò a sedere. Qualcuno entrò nella stanza: riconobbe la figura di Mondschein. — Sono ubriachi — bisbigliò l’armonista. — Hanno fatto baldoria per tutta la notte e adesso sono venuti qui per attaccare briga.

— Vogliamo il vorsteriano! — ruggì un’altra voce.

Martell guardò dalla finestra. Dapprima non vide niente; poi, alla luce delle numerose cellule luminose, infisse nelle mura esterne del tempio, individuò sette o otto figure titaniche, che, con passo incerto, misuravano il cortile.

— Ma sono venusiani di casta nobile!

— Uno dei nostri esperiani ci ha avvisato un’ora fa — disse Mondschein. — Doveva succedere, prima o poi. Adesso andrò fuori a cercare di calmarli.

— Ti uccideranno.

— Non è me che vogliono — rispose Mondschein e se ne andò.

Martell lo vide emergere dall’edificio. Al confronto dei venusiani sembrava un nano. Quando li vide stringersi attorno a lui, Martell fu certo che avessero intenzione di aggredirlo. Però esitavano. Mondschein li stava affrontando con decisione. Ma a quella distanza, Martell non riusciva a capire che cosa si stessero dicendo. Forse parlamentavano. I venusiani erano armati e barcollavano. Alcuni uccelli sfrecciarono nel cielo scuro, illuminando per alcuni istanti i volti degli indigeni: alieni, distorti, spaventosi. Avevano le guance affilate come lame di coltello, gli occhi ridotti a due fessure. Mondschein, che in quel momento voltava le spalle alla finestra, stava gesticolando: senza dubbio stava parlando in modo concitato e grave.

Uno dei venusiani raccolse un macigno di non meno di dieci chili e lo scagliò contro le mura candide della missione. Martell si morse una nocca. Gli giungevano alcuni frammenti di conversazione, parole orribili: — Consegnatecelo… Potremmo prendervi tutti quanti… È ora che vi schiacciamo tutti come rospi.

Mondschein aveva le mani alzate adesso. Li stava implorando, si domandò Martell, oppure stava semplicemente cercando di tenerli a bada? Gli sovvenne l’idea di pregare. Ma subito dopo la giudicò un’idea vana. I membri della Confraternita non pregavano per ottenere un compenso immediato. Vivevano osservando gli insegnamenti di Vorst, servivano la causa, e solo allora ricevevano la meritata ricompensa. Così, indossò la veste e uscì.

Non si era mai avvicinato tanto a dei venusiani di casta nobile. Emanavano un odore disgustoso, che gli ricordò quello della ruota. Quando lo videro uscire dal tempio, i venusiani lo fissarono increduli.

— Che cosa vogliono? — domandò.

Mondschein lo fissò a bocca aperta. — Rientri immediatamente! Sto trattando! — urlò non appena si riebbe dallo stupore.

Uno dei venusiani sguainò la spada. Poi la conficcò nel terreno soffice, vi si appoggiò sopra e disse: — Eccolo lì il nostro pretonzolo! Che cosa aspettiamo?

Disperato, Mondschien disse: — Non sarebbe dovuto uscire. Forse avevo una possibilità di riuscire a placarli.

— No, non è vero. Distruggeranno tutta la missione se non potranno prendersela con me. E questo io non posso permetterlo.

— Lei è nostro ospite — gli ricordò Mondschein.

Ma Martell non aveva intenzione di accettare la carità degli eretici. Come Mondschein aveva intuito, si era presentato al loro tempio con l’intenzione di spiarli; ma non ci era riuscito, così come non era riuscito a portare a termine la sua missione su Venere, e adesso non si sarebbe nascosto dietro la veste verde di un armonista. Afferrò l’anziano fratello per un braccio e disse: — Entri dentro. Svelto!

Mondschein scrollò le spalle e scomparve. Martell si girò di scatto per affrontare i venusiani.

— Perché siete qui? — domandò.

Uno sputo lo raggiunse in pieno viso. Senza rivolgersi a lui, uno dei venusiani disse: — Perché non lo infilziamo e poi non lo gettiamo nel Lago Ludlow?

— Picchiamolo! Copriamolo di sputi!

— Diamolo in pasto a una ruota!

Martell disse: — Sono venuto qui in pace. Vi ho portato la vita. Perché non volete ascoltarmi? Di che cosa avete paura? — Si rese conto, con sollievo, che non erano che dei bambinoni, che, consapevoli della loro forza, si divertivano al pensiero di schiacciare una formica. — Sediamoci insieme sotto quell’albero. Lasciatemi parlare. Vi libererò dall’ebbrezza dell’alcool. Se volete darmi la mano…

— Attenti! — ruggì uno dei giganti. — Punge!

Martell si avvicinò a quello più vicino. L’uomo fece un balzo indietro, mostrando un nervosismo assai poco degno dell’arroganza che aveva ostentato fino a quel momento. Un istante dopo, come se volesse fare ammenda per quell’atto di vigliaccheria, estrasse la spada, un anacronismo scintillante grande quasi quanto Martell. Altri due venusiani brandirono le armi. Avanzarono verso di lui con tracotanza: Martell inspirò profondamente e attese l’istante in cui avrebbe versato il suo sangue, non più rosso, per la causa. Ma quando batté le ciglia scoprì di non essere più lì.


— Come c’è arrivato qui? — gli domandò Nat Weiner.

— Vorrei saperlo anch’io — rispose Martell.

La luce intensa dell’ufficio dell’ambasciatore gli ferì gli occhi. Per un istante vide ancora le lame minacciose delle spade che calavano su di lui, poi si sentì cullare da una sensazione di realtà, come se fosse uscito da un sogno per entrare in un altro, in cui, però, la sua mente inseguiva altre visioni.

— Questo è un edificio di massima sicurezza — disse Weiner. — Lei non ha nessun diritto di essere qui.

— Io non ho nemmeno il diritto di essere vivo — rispose recisamente il missionario.

sei

Rimuginando fra sé e sé, Martell prese in considerazione l’idea di ritornare sulla Terra per riferire l’accaduto agli studiosi di Santa Fe. Sarebbe potuto andare al Centro Noel Vorst, dove, meno di un anno prima era entrato in sala operatoria come terrestre e ne era uscito come una creatura aliena. Avrebbe potuto farsi ricevere da Reynolds Kirby e spiegargli che i venusiani possedevano capacità telecinetiche, che erano capaci di deviare il corso di una ruota, di gettare un nemico nelle fauci di un Fungo Malevolo o di trasportare un uomo per otto chilometri facendolo passare illeso attraverso i muri di un palazzo.

I vertici del movimento dovevano essere informati. La situazione si stava mettendo male. Gli armonisti si erano astutamente insediati sul pianeta, pianeta che pullulava di telecinetici: due gravi minacce che avrebbero potuto vanificare il grande progetto di Vorst. Era ben vero che sulla Terra i vorsteriani continuavano a mietere successi, al punto da essere diventati i padroni del pianeta. Nei loro laboratori avevano condotto studi simulati sul prolungamento che dimostravano che era possibile vivere da trecento a quattrocento anni, senza sostituzione di organi, semplicemente grazie a un processo di rigenerazione cellulare interna: in poche parole erano riusciti ad ottenere l’immortalità. Ma l’immortalità era soltanto uno degli obiettivi di Vorst. L’altro era la conquista delle stelle.

E in questo settore gli armonisti avevano importantissime carte da giocare. Disponevano già di telecinetici capaci di fare miracoli. Ancora qualche decennio di esperimenti genetici e sarebbero stati in grado di inviare spedizioni su altri sistemi solari. Il fatto che fossero capaci di far percorrere a un uomo uno spazio di otto chilometri in totale sicurezza significava che per raggiungere Procione dovevano soltanto compiere un salto quantitativo, non qualitativo. Martell doveva assolutamente comunicare quelle informazioni ai suoi superiori. Santa Fe lo chiamava… quell’enorme distesa di edifici dove gli scienziati sminuzzavano i geni per poi ricomporli in condizioni ottimali, dove le famiglie di esperiani si sottoponevano a infinite serie di esami, dove gli uomini bionici facevano cose inimmaginabili.

Ma Martell non andò. Non gli sembrava necessario fare rapporto di persona. Un cubomessaggio sarebbe stato sufficiente. Ormai la terra era un mondo alieno per lui e non lo allettava per nulla l’idea di farvi ritorno. E poi rifiutava l’idea di affrontare di nuovo quel viaggio.

Grazie ai buoni uffici di Nat Weiner, Martell registrò un cubo e lo inviò a Kirby, presso il centro di ricerche di Santa Fe. In attesa di una sua risposta rimase all’ambasciata marziana. Aveva illustrato la situazione così come lui la percepiva, esprimendo la sua grande preoccupazione per i traguardi già raggiunti dagli armonisti e il suo timore che potessero conquistare le stelle prima di loro. Dopo un po’ ricevette la risposta di Kirby. Ringraziava Martell per le sue preziosissime informazioni e concludeva con un’osservazione rasserenante: gli armonisti, diceva, erano uomini. Nel caso fossero stati loro a raggiungere per primi le stelle, si sarebbe trattato comunque di una conquista fatta dagli uomini. Non vanto degli uni o degli altri, ma di tutti, perché avrebbe aperto una nuova, importantissima strada per tutta l’umanità. Fratello Martell riusciva a cogliere l’essenza di quel ragionamento, domandava Kirby?

Il vorsteriano si sentì mancare la terra sotto i piedi. Che cosa mai diceva Kirby? Così mezzi e fini si confondevano. Gli obiettivi perseguiti dalla Confraternita sarebbero stati considerati raggiunti anche se fossero stati gli eretici a conquistare l’universo? Profondamente turbato, indugiò di fronte all’altare improvvisato, che aveva allestito nella stanza che Weiner gli aveva messo a disposizione, cercando risposte a domande improponibili.

Alcuni giorni più tardi, Martell si presentò di nuovo al tempio degli armonisti.

sette

Martell e Christopher Mondschein stavano passeggiando lungo la sponda di un lago scintillante. Attraverso le nuvole filtravano i deboli raggi di un sole nascosto, che trasmettevano un pallido bagliore all’acqua-che-non-era-acqua. Tuttavia, non era quel rivolo di luce a far risplendere l’acqua, ma i celenterati luminosi che pullulavano sul fondale basso del lago: i loro tentacoli, mossi dalle correnti, emettevano una tenue radiazione verdastra.

Anche altre creature popolavano il bacino. Martell le vedeva scivolare sotto la superficie tremolante, costolate e scheletriche, dotate di pinne metalliche e di possenti mascelle. Di tanto in tanto, emergeva il grugno di una creatura scarna e di aspetto orribile, che sfrecciava sopra il pelo dell’acqua per una ventina di metri prima immergersi di nuovo. Dal cuore profondo del bacino spuntavano i sottili tentacoli di mostri che Martell non desiderava affatto a conoscere da vicino.

Mondschein disse: — Pensavo che non l’avrei mai più rivista.

— Quando sono uscito ad affrontare i venusiani?

— No. Dopo, quando si è nascosto all’ambasciata marziana. Credevo che avesse deciso di ritornare sulla Terra. Immagino che ormai abbia capito che quella di aprire un tempio vorsteriano su questo pianeta è un’impresa impossibile.

— Sì lo so — rispose Martell. — Ma ho la morte di quel ragazzo sulla coscienza. Non posso andarmene. Sono stato io a invitarlo a venirmi a trovare e lui è morto per questo. Sarebbe ancora vivo se lo avessi mandato via. Come sarei morto io se lei non avesse chiesto a un altro dei suoi piccoli venusiani di trasportarmi in un luogo sicuro.

— Elwhit era una delle nostre più grandi promesse — osservò Mondschein con voce mesta. — Ma aveva uno spirito così inquieto e selvaggio… anche se era stato proprio quello a condurlo da noi. Era un ragazzo curioso e irrequieto. Sarebbe stato molto meglio se lei lo avesse lasciato perdere.

— Ho fatto quello che dovevo fare — replicò Martell. — Mi dispiace che le cose siano andate a finire così. — Seguì i movimenti di un serpente nero e sinuoso, che attraversava il lago passando rapidamente da una sponda all’altra. All’improvviso, con uno scatto spaventoso, protese una delle zampe telescopiche ed agguantò un uccello che volava basso. Misurando le parole, Martell disse: — Non sono ritornato qui per spiarvi, ma per diventare un membro del vostro ordine.

L’ampia fronte azzurra di Mondschein si increspò. — La prego. Abbiamo già discusso la questione.

— Mi metta alla prova. Dica a uno dei tuoi esperiani di sondare la mia mente! Glielo giuro, Mondschein, sono sincero!

— Gli esperiani di Santa Fe l’hanno ipnotizzata e le hanno impartito una serie di ordini segreti; poi Kirby l’ha spedita quassù come spia, anche se lei non ricorda nulla. Lo so. È toccata anche a me una volta. Quindi, anche se noi passassimo al setaccio la sua mente, difficilmente scopriremmo la verità. Lei è qui per assorbire tutte le informazioni possibili sul nostro conto. Poi al momento opportuno, ritornerà a Santa Fe e gli esperiani spremeranno dalla sua mente tutto ciò che ha visto e sentito.

— Ma no! Neanche per sogno!

— Ne è sicuro?

— Mi ascolti — riprese Martell. — Io non penso che abbiano manipolato la mia mente a Santa Fe. Io sono venuto a supplicarla di accogliermi nel suo ordine perché ormai appartengo a Venere. Il mio corpo è stato trasformato. — Protese le mani. — La mia pelle è azzurra. Il mio metabolismo è completamente cambiato. Ho le branchie. Insomma, sono un venusiano ed è solo su questo pianeta che possono vivere quelli come me. Però, io qui non posso professare la mia fede, perché non mi è concesso. È per questo che devo unirmi a voi. Lo capisce?

Mondschein annuì. — Comunque, io continuo a credere che lei sia una spia.

— Ma le assicuro…

— Non si agiti — lo ammonì l’armonista. — Si comporti pure come una spia. Per noi va bene. — Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: — Puoi diventare uno di noi, fratello. Tu sarai il nostro ponte. Sarai il trait-d’union fra il movimento vorsteriano e quello armonista. Fa pure il doppio gioco. È esattamente quello che vogliamo.

Ancora una volta, Martell si sentì mancare la terra sotto i piedi. Gli sembrava di essere in un pozzo di gravità, in cui fosse improvvisamente venuto meno il campo gravitazionale, cosicché lui precipitava, precipitava senza possibilità di fermarsi. Scrutò gli occhi miti dell’anziano missionario e intuì che Mondschein stava perseguendo un folle disegno ecumenico, frutto, forse, di un delirio della sua mente…

— Vuole cercare di nullificare i due ordini?

— Non io. È un progetto di Lazzaro.

Pensando che Mondschein si riferisse al suo assistente, Martell sbottò: — Ma si può sapere chi comanda qui, lei o lui?

Sorridendo, Mondschein rispose: — Non mi riferivo al nostro Lazzaro, ma a Davide Lazzaro, il fondatore del nostro ordine.

— Ma è morto!

— Certo. Ma noi seguiamo la strada che Egli ha tracciato per noi un secolo fa. Ed essa prevede che alla fine i due ordini si riuniscano. Non può essere altrimenti, Martell. Ognuno dei due possiede qualcosa che l’altro vuole. Voi avete la Terra e l’immortalità, noi Venere e la telecinesi. È destino che prima o poi i nostri interessi convergano e forse tu sarai uno degli uomini che lo renderà possibile.

— Lei sta scherzando!

— Non sono mai stato così serio in tutta la mia vita — rispose Mondschein. Poi il suo volto si incupì e la sua maschera di cordialità cadde. — Vuoi vivere per sempre, Martell?

— Be’, non ho certo fretta di morire. Se non per una causa importante, naturalmente.

— In altre parole, ti piacerebbe vivere il più a lungo possibile, ma con onore.

— Esatto.

— Giorno dopo giorno i vorsteriani si stanno avvicinando sempre più a questo traguardo. Abbiamo un’idea abbastanza precisa di ciò che sta accadendo a Santa Fe. Quarant’anni fa riuscimmo a trafugare i segreti di un intero laboratorio della longevità. Ci sono stati alquanto utili, però non abbastanza. Ci mancavano le conoscenze basilari. D’altro canto, anche noi abbiamo fatto parecchi passi avanti, come immagino tu abbia scoperto. Pensi che varrà la pena unificare i nostri due ordini? Noi conquisteremo le stelle… voi l’eternità. Resta qui e spiaci, fratello. Sono persuaso, e so che anche Lazzaro la pensava così, che meno segreti ci saranno fra i nostri due movimenti, più rapida sarà la loro riunificazione.

Martell non rispose. Dal bosco emerse un giovane venusiano, forse lo stesso che lo aveva salvato dalla ruota, forse il fratello di Elwhit. I ragazzi venusiani si assomigliavano così tanto, da sembrare intercambiabili. Mondschein mutò immediatamente espressione. Distese le labbra in un blando sorriso: le questioni cosmiche vennero accantonate.

— Pescaci qualche pesce — disse al ragazzo.

— Subito, fratello Christopher.

Seguì un silenzio carico di tensione. Le vene sulla fronte del venusiano si ingrossarono e cominciarono a pulsare. Al centro del lago l’acqua ribollì e si sollevarono spruzzi di schiuma bianca. Pochi istanti dopo, dal bacino emerse una creatura coperta di scaglie color oro opaco. Sospeso a cinque metri d’altezza, il pesce si dibatteva impotente, aprendo e chiudendo rabbiosamente le grandi mascelle. Poi volò verso il gruppetto in attesa sulla sponda.

— Non quello lì! — urlò Mondschein con voce strozzata.

Il ragazzo rise. Il grande pesce ricadde nel lago. Un attimo dopo una creatura opalescente boccheggiava sul terreno ai piedi di Martell: un affare lungo quarantacinque centimetri, munito di grossi denti, di pinne che assomigliavano a piccole gambe e di una coda, simile a un ventaglio, piena di spine che vibravano con aria minacciosa. Martell fece un balzo indietro, ma subito dopo capì di non correre alcun pericolo. La testa del pesce si infossò, come se fosse stata colpita da un pugno invisibile, e la strana creatura giacque immobile. Un brivido di terrore percorse la schiena di Martell. Quel ragazzino, magro e allegro, che aveva tanto perfidamente estratto quel mostro dalle acque, era in grado di uccidere con un semplice moto dei lobi frontali.

Martell fissò Mondschein. — I vostri telecinetici sono tutti venusiani?

— Sì.

— Mi auguro che siate in grado di tenerli sotto controllo.

— Me lo auguro anch’io — rispose Mondschein. Afferrò il pesce morto per una delle pinne, facendo attenzione a non ferirsi con le spine della coda. — È una vera prelibatezza — disse. — Una volta asportate le sacche del veleno, s’intende. Ne pescheremo ancora due o tre e questa sera, per celebrare la tua conversione, ceneremo a base di diavolo del mare, fratello Martell.

otto

Gli assegnarono una camera e alcuni umili lavori da svolgere. Nel tempo libero, i suoi nuovi confratelli, gli insegnarono i fondamenti dell’Armonia Trascendente. Martell non aveva nulla da ridire sulla stanza e sulle sue incombenze, ma i principi teologici li trovava difficili da digerire. Non poteva fingere, con se stesso e con gli altri, che quella religione significasse qualcosa per lui. Un po’ di cristianesimo riscaldato, un pizzico di isiam, una spolveratina di buddismo dell’ultim’ora, il tutto versato su una base sottratta, senza nessuna vergogna, all’impasto vorsteriano. Per Martell, si trattava di un miscuglio tutt’altro che appetitoso. Anche la religione vorsteriana era eclettica, ma Martell non ci aveva mai trovato niente da ridire, perché era la fede che aveva abbracciato fin dall’infanzia. Dover studiare per diventare eretico era una cosa completamente diversa.

Incominciarono da Vorst, che doveva imparare ad accettare come profeta, così come la religione cristiana rispettava Mosè e l’Isiam onorava Gesù. Ma, naturalmente, c’era un altro dono divino, rappresentato da Davide Lazzaro. Negli scritti vorsteriani non compariva mai il suo nome. Martell sapeva della sua esistenza per aver studiato la storia della Confraternita della Radianza Immanente, in cui si accennava al profeta armonista come a una figura minore, uno dei primi seguaci di Vorst, divenuto, successivamente, uno dei primi dissidenti.

Ma Vorst era ancora vivo, e, lo riconoscevano entrambi gli ordini religiosi, sarebbe vissuto in eterno, in sintonia con il cosmo: il Primo Immortale. Lazzaro, invece, era morto come martire, campione di onestà crudelmente tradito e assassinato dai Vorsteriani all’apice del loro trionfo sulla Terra.

Della triste vicenda si narrava nel Libro di Lazzaro. Martell si sentiva contorcere le budella mentre leggeva:


Lazzaro era leale e non conosceva l’inganno. Ma gli uomini, che erano duri di cuore, lo aggredirono nottetempo e lo trucidarono. Poi gettarono il suo corpo nel convertitore, affinché di lui non rimanesse neppure una molecola. E quando Vorst apprese ciò che era accaduto, pianse e disse: - Avrei preferito che aveste ucciso me, perché così avete assicurato a Lazzaro un’immortalità che non potrà mai perdere…


Nelle scritture armoniste, Martell non trovò una sola parola a discredito di Vorst. Perfino l’assassinio di Lazzaro veniva considerata opera di alcuni seguaci esaltati, che avevano agito a sua insaputa. Aleggiava, invece, in ogni pagina, la speranza di vedere ricomposta un giorno la frattura fra le due fedi, anche se era specificato che gli armonisti avrebbero dovuto accettare la riunificazione soltanto a una condizione: che trattassero da posizione di forza e che la fusione dei due movimenti avvenisse su un piano di assoluta uguaglianza.

Soltanto pochi mesi prima, Martell avrebbe giudicato assurde quelle pretese. Sulla Terra gli armonisti rappresentavano un movimento da quattro soldi, che continuava a perdere seguaci ogni anno. Adesso che viveva fra di loro, se non era proprio uno di loro, si rendeva conto di aver terribilmente sottovalutato il loro potere. Avevano il dominio su Venere. I venusiani di casta nobile potevano darsi tutte le arie che volevano, ma non erano più i padroni del pianeta. Per contro, i venusiani di estrazione più bassa, fra i quali si contavano potenti esperiani — telecinetici, nientemeno! — avevano rimesso il loro destino nelle mani degli armonisti.

Martell lavorò. Studiò. Ascoltò. E nel suo cuore si insinuò la paura.

Arrivò la stagione delle tempeste. Dalla perenne coltre di nuvole esplodevano lingue di fuoco che incendiavano tutto il pianeta. Torrenti di pioggia amara battevano le pianure. Alberi alti centocinquanta metri venivano sradicati dal vento e scagliati lontano. Ogni tanto, qualche venusiano di alta casta si presentava al tempio per deridere o minacciare i vorsteriani: mentre fuori infuriava il temporale, urlavano le loro provocazioni, e, all’interno dell’edificio, i ragazzi di bassa casta, aspettavano, sorridendo, di difendere i loro insegnanti. Una volta, quando tre venusiani di alto lignaggio, tentarono di irrompere nel tempio, li mandarono a rotolare a venti metri dall’ingresso. — Un fulmine — si dissero l’un l’altro. — Siamo fortunati a essere vivi.

Con la primavera giunse il caldo. Martell lavorava nei campi a torso nudo, insieme a Bradlaugh e a Lazzaro. Ancora non insegnava. Ormai conosceva a menadito le scritture armoniste, ma i principi della nuova fede restavano qualcosa di esterno a lui, come se, bloccati da un’insormontabile barriera di scetticismo, non riuscissero a penetrare nel profondo del suo animo.

Poi, un giorno torrido, in cui il sudore scorreva a fiumi dai pori della pelle modificata dei quattro monaci, fratello Leon Bradlaugh si unì alla beata compagine dei martiri. Accadde tutto rapidamente. Stavano lavorando nei campi quando, all’improvviso, si era stagliata un’ombra sopra di loro e, nella mente di Martell, una voce muta aveva gridato: — Attento!

Rimase immobile. Ma non era scritto che lui dovesse morire quel giorno. Dal cielo piombò qualcosa, qualcosa di pesante, munita di ali coriacee: Martell vide un becco lungo un metro trafiggere il petto di Bradlaugh, dal quale sprizzò una fontana di sangue color del rame. Bradlaugh giacque immobile sul terreno, e il possente laniero si accanì su lui: aveva ritratto il becco, ma a Martell giungeva il rumore straziante della carne lacerata.

Quando l’uccello scomparve, diedero l’estremo saluto a ciò che restava del corpo di Leon. Fu fratello Christopher Mondschein a celebrare la funzione, terminata la quale chiamò a sé Martell.

— Adesso siamo rimasti in tre — disse. — Sei disposto ad assumerti l’onere dell’insegnamento, fratello Martell?

— Io non sono uno di voi.

— Indossi la veste verde. Conosci la nostra fede. Ti consideri ancora un vorsteriano, fratello?

— Io… io non so che cosa sono — rispose Martell. — Ho bisogno di rifletterci.

— Fammi avere presto la tua risposta. C’è molto da fare qui.

Martell ancora non sapeva che l’indomani avrebbe finalmente capito chi era. Il giorno dopo il funerale di Bradlaugh arrivò la nave passeggeri che, ogni tre settimane, collegava Marte a Venere. Martell non lo sapeva; lo apprese soltanto quando Mondschein andò da lui e gli disse: — Prendi la macchina e portati dietro un ragazzo. Presto! C’è un uomo che ha bisogno di aiuto!

Martell non fece domande. Evidentemente, la notizia si era diffusa a catena fra gli esperiani e il suo compito era semplicemente quello di obbedire. Salì a bordo della macchina. Uno dei piccoli accoliti venusiani scivolò sul sedile accanto a lui.

— Da che parte? — domandò Martell.

Il ragazzo gli indicò la direzione con la mano. Martell avviò la macchina e si diresse a gran velocità verso l’aeroporto. Avevano percorso all’incirca quattro chilometri quando, con un grugnito, il ragazzo bloccò l’auto.

Sul ciglio della strada, la schiena rivolta verso il tronco di un possente albero, c’era un uomo, avvolto nella veste azzurra dei vorsteriani. Le sue due valigie giacevano aperte in mezzo alla carreggiata: una bestia, con una lama tagliente sul dorso e zanne simili a quelle di un cinghiale, grufolava con il muso piatto in mezzo alle sue cose, mentre il suo compagno caricava il nuovo arrivato. Il quale, nell’impossibilità di fuggire cercava di tenere lontano l’animale con calci e frustate.

Il ragazzo balzò giù dalla macchina e, senza mostrare sforzo alcuno, mandò i due quadrupedi a sbattere contro gli alberi dalla parte opposta della strada. Le bestie crollarono al suolo, stordite, ma dopo alcuni secondi si raddrizzarono sulle zampe, decise a ritornare all’attacco. Allora il ragazzo le sollevò in aria e le fece scontrare fra di loro, testa contro testa. Quella volta, quando piombarono a terra, fuggirono di gran carriera verso la boscaglia.

— A quanto pare Venere dà sempre così il benvenuto ai nuovi arrivati — disse Martell. — Il mio comitato d’accoglienza fu una creatura chiamata ruota, che le auguro di non incontrare mai. Mi avrebbe fatto a fettine se un ragazzo venusiano non fosse stato così gentile da metterla fuori combattimento. È un missionario?

L’uomo era troppo scioccato per rispondere. Intrecciò le mani, poi le sciolse e si lisciò la veste. Alla fine disse. — Sì… sì. Sono un missionario. Vengo dalla Terra.

— Anche lei ha subito l’intervento di adattamento, allora.

— Sì.

— Anch’io. Io sono Nicholas Martell. Come vanno le cose a Santa Fe, fratello?

Il vorsteriano contrasse le labbra. Era un omino tutto pelle e ossa, di un anno o due più giovane di Martell. — Che cosa gliene può importare, se è davvero Martell? Martell l’eretico? Martell il rinnegato?

— No! — esclamò Martell. — Cioè… io…

Ma non trovò le parole per concludere la frase. Continuava a lisciarsi nervosamente la stoffa della veste. Si sentiva il volto in fiamme. Poi, con dolore, capì: il cambiamento, da meramente esteriore, era diventato interiore, profondo. All’improvviso, non fu più in grado di reggere lo sguardo del missionario che era stato inviato per prendere il suo posto e, voltando la testa, fissò i fitti alberi di quella foresta non più tanto aliena.

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