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Venerdì 26 luglio 2002


Fermandosi davanti alla casa di Pablo Ortega si ricordò di Montes alla finestra. Avrebbe dovuto domandargli qualcosa sui russi. Chiamò la Jefatura e riuscì a farsi dare il numero del cellulare di Montes.

Montes rispose al telefono. Dal chiasso sullo sfondo doveva trovarsi in un bar e il primo scambio di battute fece capire a Falcón che Montes era ubriaco fradicio.

«Sono Javier Falcón del Grupo de Homicidios», disse, «ci siamo visti ieri…»

«Davvero?»

«Nel suo ufficio. Abbiamo parlato di Eduardo Carvajal e di Sebastián Ortega.»

«Non la sento!»

Musica e voci infuriavano.

«Piantatela con questo baccano del cazzo!» ruggì Montes completamente inascoltato. «Momentito.»

Rumore di traffico. Un suono di clacson.

«Mi sente, Inspector Jefe?» domandò Falcón.

«Chi parla?»

Falcón ricominciò da capo e Montes si scusò profusamente: ora ricordava tutto.

«Abbiamo parlato anche di mafia russa.»

«Non mi pare.»

«Mi ha spiegato la questione della tratta…»

«Ah, sì, sì, la tratta…»

«Avrei una domanda da farle. Ci sono due russi coinvolti nelle mie indagini sulla morte del costruttore, Rafael Vega… ricorda?»

Silenzio. Falcón gridò il nome di Montes.

«Sto aspettando la domanda», disse Montes.

«I nomi di Vladimir Ivanov e di Mikhail Zelenov le dicono niente?»

Un respiro profondo.

«Mi ha sentito?» domandò Falcón.

«L’ho sentita. Non mi dicono niente, ma la mia memoria non è al suo meglio, ho bevuto un paio di birre, capisce, e stasera non sono quel che si dice in forma.»

«Ne parleremo lunedì», disse Falcón e interruppe la comunicazione.

Aveva la netta sensazione di girare in tondo, come un rapace trasportato dalle correnti ascensionali, mentre giù, sulla terra, gli sfuggivano forse cose interessanti. Scese dalla macchina, si appoggiò al tettuccio, battendosi il cellulare sulla fronte. Era normale per Montes, un uomo sposato, ubriacarsi il venerdì sera in un bar affollato, forse da solo? C’era stata davvero una reazione ambigua ai due nomi? Era parso più ubriaco alla fine della conversazione che al principio?


Ortega lo fece entrare nel cortile puzzolente, regno delle mosche. Non era irritato come era parso al telefono, avendo raggiunto lo stadio della sbronza affabile. Indossava una voluminosa camicia bianca fuori dai pantaloni corti di colore blu. Offrì da bere a Falcón. Egli stesso aveva in mano un bicchierone di vino rosso.

«Torre Muga», disse. «Buonissimo. Ne vuole?»

«Preferirei una birra.»

«Con qualche gamberetto? Del prosciutto… Ibérico de bellota? L’ho comprato oggi al Corte Inglés.»

Ortega andò in cucina e tornò perfettamente equipaggiato.

«Mi dispiace di essere stato scortese al telefono», si scusò.

«Non dovrei disturbarla con queste faccende al venerdì sera.»

«Esco solo il sabato e la domenica, quando lavoro», disse Ortega, reso del tutto mansueto dall’eccellenza del Torre Muga. «Sono un pessimo spettatore, riconosco tutte le tecniche, non mi immergo mai nella rappresentazione. Preferisco leggere. Sto divagando, mi scusi, questo è il secondo bicchiere e, come può vedere, è un bicchiere notevole. Devo cercare un sigaro. Ha letto il libro di… mi verrà in mente.»

Nonostante il caos, trovò la scatola di sigari.

«Cohiba», disse. «Ho un amico che va a Cuba regolarmente.»

«No, grazie.»

«Non offro spesso i miei Cohiba.»

«Non fumo.»

«Ne prenda uno per un amico», insistette Ortega, «sono sicuro che anche i poliziotti hanno degli amici. Purché non lo dia a quel cabrón del Juez.»

«Non è un mio amico», lo rassicurò Falcón.

Ortega gli fece scivolare un sigaro nel taschino.

«Mi fa piacere saperlo», disse, scostandosi. «Un cuore così bianco. È questo il libro. L’autore è Javier Marías. L’ha letto?»

«Un po’ di tempo fa.»

«Non so come ho fatto a dimenticare il titolo. È tratto dal Macbeth, naturalmente. Dopo aver ucciso il re, Macbeth torna con i pugnali insanguinati che avrebbe dovuto lasciare negli alloggi della servitù. Sua moglie è furiosa e gli ordina di tornare indietro. Macbeth rifiuta e deve farlo lei. Al suo ritorno, gli dice:

Le mie mani hanno lo stesso colore delle tue,

ma ho vergogna di avere un cuore così bianco.

«A quel punto la sua vergogna è solo un colore e non una macchia, si vergogna della propria innocenza nella cosa, vuole condividere la colpa di lui. È un momento magnifico, perché, ovviamente, al quinto atto sarà: ‘Via, macchia dannata’ e ‘tutti i profumi d’Arabia non addolciranno questa piccola mano’. Perché le sto dicendo questo, Javier?»

«Non ne ho idea, Pablo.»

Ortega bevve due lunghe sorsate e il vino gli gocciolò dagli angoli della bocca, facendo comparire macchie rosse sulla camicia bianca.

«Ah!» esclamò, abbassando lo sguardo su se stesso. «Sa cos’è questa? È una scena da film, una cosa che succede soltanto al cinema, mai nella vita reale. Come in… oh, via, dev’essere almeno in un centinaio di film… Ora non riesco a ricordare.»

«Il cacciatore.»

«Il cacciatore?»

«Una coppia si sposa prima che il marito vada in guerra in Vietnam, bevono da una doppia coppa e il vino si versa sull’abito da sposa. Un presagio…»

«Sì, sì! Un presagio terribile», disse Ortega. «L’imbarazzo al ricevimento di nozze. La candeggina nel bucato. Cose tremende, tremende.»

«Posso mostrarle queste fotografie?»

«Prima che io perda del tutto il collegamento visione-parola, vuole dire?»

«Be’… sì», ammise Falcón.

Ortega scoppiò in una risataccia esagerata.

«Lei mi è simpatico, Javier, molto simpatico. Non è che siano in molti a piacermi», disse Ortega, fissando il prato buio, la piscina senza illuminazione. «Non mi piace… nessuno, in effetti. Ho sempre trovato tutti quelli con i quali ho avuto a che fare nella mia vita… carenti. Pensa che questo succeda alle persone famose?»

«La fama attira un certo tipo di persone.»

«Sicofanti ossequiosi, deferenti e adulatori.»

«Francisco Falcón li odiava, gli ricordavano la sua fraudolenza, gli ricordavano come l’unica cosa che desiderasse più della fama fosse il vero talento.»

«Noi vogliamo essere amati per quello che siamo, non per quello che fingiamo di essere… O, nel mio caso, non per tutti i personaggi che ho finto di essere», osservò Ortega, sempre più drammatico. «Mi domando se al momento della mia morte io non cadrò a terra come in un attacco della sindrome di Tourette e tutti i personaggi che ho interpretato usciranno da me in un brusio compresso fino al silenzio, lasciando soltanto un guscio vuoto che il vento farà volare qua e là.»

«Non credo, Pablo», disse Falcón in tono scherzoso, «ha da perdere qualche chilo prima di diventare un guscio.»

«Io sono soltanto una serie di strati sovrapposti», continuò Ortega, senza ascoltarlo. «Ricordo ciò che mi diceva Francisco: ‘La verità di una cipolla, Pablo, è il nulla. Si sfoglia l’ultima buccia e si trova… il niente.’»

«Be’, Francisco certamente conosceva le cipolle», disse Falcón. «Gli esseri umani sono un po’ più complicati. Li si sbuccia…»

«E che cosa si trova?» lo interruppe Ortega, sporgendosi verso Falcón, in attesa ansiosa.

«Che a definirci è ciò che nascondiamo agli altri.»

«Mio Dio, Javier!», esclamò Ortega, ingurgitando un’abbondante quantità di Muga. «Dovrebbe assaggiare questo vino, sa. È veramente molto, molto buono.»

«Le fotografie, Pablo.»

«Sì, facciamo presto e non pensiamoci più.»

«Quando mi ha detto di aver visto due russi entrare in casa del signor Vega la Noche de Reyes erano forse questi?»

Ortega prese la foto e andò alla ricerca degli occhiali.

«Non ho visto i suoi cani stasera», osservò Falcón.

«Oh, i due carlini stanno dormendo, acciambellati nel loro odore canino. Una bella vita… la vita da cani», rispose Ortega. «Non le ho mai mostrato la mia collezione, vero?»

«Un’altra volta.»

«Io non sono definito da ciò che nascondo, ma da ciò che mostro agli altri», riprese Ortega, con un gesto ampio e lento del braccio a indicare le sue opere d’arte sparse sui tavoli e appoggiate alle pareti. «Sa qual è la cosa peggiore da dire a un collezionista?»

«Che non ci piace un pezzo?»

«No… che ci piace un pezzo particolare. Io ho un disegno di Picasso. Non è niente di speciale, ma lo si riconosce subito. Io divido le persone alle quali mostro la collezione in due gruppi, quelli che si avvicinano al Picasso dicendo: ‘Ah, questo mi piace’», e quelli che si rendono conto che una collezione è un tutto. Ecco fatto, Javier, le ho risparmiato un certo imbarazzo.»

«Non dimenticherò di dirle quanto mi piaccia il Picasso.»

Con gli occhiali in mano, Ortega alzò le braccia ridendo fragorosamente, esultante come un tifoso dopo una vittoria importante. Poi li inforcò quasi con cautela, nemmeno fossero una trappola delicata e pericolosa che avesse teso per se stesso.

«La gente che gravita intorno al Picasso», riprese Ortega, «è quella attirata dalla celebrità. Non vede niente altro.»

«Ha mai mostrato la sua collezione a qualcuno che l’ha vista come un tutto e l’ha trovata…»

«Carente? Nessuno ha mai avuto il fegato di dirmelo in faccia. Ma so che qualcuno c’è stato.»

«Forse significa che lei ha avuto il fegato di esprimersi del tutto attraverso la collezione, il bello e il brutto. Ognuno di noi ha qualcosa di cui vergognarsi.»

«Deve vederla, Javier», disse Ortega con foga. «La collezione dell’attore.»

Ortega confermò che i due uomini delle foto erano quelli che aveva visto entrare nella casa dei Vega a gennaio, poi gettò le foto a Falcón e si riempì il bicchiere, accendendosi finalmente il Cohiba. Sulla camicia le macchie di vino si mescolavano con il sudore. Si tolse di scatto gli occhiali.

«Ricorda la nostra conversazione di stamani su Sebastián?» domandò Falcón. «Ci ha pensato su?»

«Sì, ho pensato alla nostra conversazione.»

«La psicologa di cui le ho parlato, Alicia Aguado, è una persona speciale.»

«In che senso?»

«Prima di tutto è cieca», disse Falcón. E spiegò a Ortega la faccenda del polso. «Le ho detto della sua preoccupazione per Sebastián e ha pensato che sarebbe stata una buona idea parlare anche con lei, ma si rende conto che la gente famosa non ama le intrusioni.»

«La faccia venire», disse Ortega, amabile e seducente. «Più siamo meglio stiamo.»

«Va bene domani?»

«Per il caffè. Alle undici. E poi, dopo che l’avrà riaccompagnata a casa, torni qui e io le mostrerò tutto ciò che deve sapere alla luce del giorno.»


Consuelo Jiménez indossava un vestito lungo di crepe blu e sandali dorati, le braccia nude abbronzate e muscolose: per lei la palestra non era solo un’occasione per socializzare. Lo fece accomodare nel soggiorno affacciato sul lingotto azzurro e liquido della piscina illuminata e gli porse un bicchiere di manzanilla gelida. Posò sul tavolino un vassoio di olive, aglio piccante e capperi, e si liberò dei sandali. Il ghiaccio nel suo tinto de verano tintinnò nel bicchiere.

«Indovini chi è venuto a trovarmi stamattina, tutto moine e complimenti?»

«Pablo Ortega?»

«Per essere uno dei grandi attori del passato è un po’ troppo facile da inquadrare», disse. «Probabilmente significa che la sua gamma è limitata.»

«Non l’ho mai visto sul palcoscenico», disse Falcón. «Lo ha fatto entrare in casa?»

«L’ho lasciato a cuocersi all’aperto per un po’. Mi interessava sentire che cosa aveva da dire a sua discolpa. Non aveva con sé il suo materiale scenico, Pavarotti e Callas, perciò sapevo che non era venuto per far divertire i ragazzi.»

«Dove sono i suoi figli?»

«Da mia sorella. Li porta al mare domani e sono troppo scatenati per cenare con noi, vorrebbero certamente vedere la sua pistola.»

«E Pablo Ortega che cosa voleva?»

«Parlare della morte di Rafael e delle indagini, naturalmente.»

«Spero che lei non gli abbia rivelato la mia… indiscrezione.»

«L’ho utilizzata», rispose Consuelo, accendendosi una sigaretta, «ma non apertamente. L’ho solo fatto sentire come se fosse seduto su un divano scomodo. Se ne è andato più a disagio di quando era arrivato.»

«Mi sto interessando al processo di suo figlio», disse Falcón.

«Personalmente credo che le condanne per la violenza sui bambini siano sempre troppo miti», affermò Consuelo. «Una volta ferito in quel modo, un bambino è segnato per sempre. Gli si toglie l’innocenza e per me questo non è molto diverso dall’omicidio.»

Falcón le raccontò ciò che le aveva spiegato Montes sulla manipolazione della dichiarazione del bambino e del rifiuto di Sabastián Ortega di difendersi.

«Be’, questo non accresce esattamente la mia fiducia nella giustizia. Ma è vero che ho visto il lampo della vanità nel Juez Calderón quando lavorava sul caso di Raúl.»

«Non ha visto altro in lui?»

«Per esempio?»

«Ne abbiamo parlato a proposito… diciamo di Ramírez.»

«Vuole dire che è un uomo sempre alla ricerca di occasioni? Be’, a me era parso così, ma non era ancora fidanzato e perciò aveva libertà d’azione.»

«Già, immagino che ora sia diverso.»

«Oh, capisco, lei mi sta chiedendo come mai, visto che sta per accasarsi con la sua piccola cercatrice di verità, scodinzoli intorno a Maddy Krugman?»

«Esiste l’infedeltà prematrimoniale?»

«Era lì oggi pomeriggio», disse Consuelo. «Come sa, io non ho orari regolari, posso trovarmi qui quando la maggior parte della gente è al lavoro oppure, nel caso del Juez Calderón, quando dovrebbe essere al lavoro.»

«C’era anche Marty?»

«Ho pensato che la sua visita riguardasse le indagini sulla morte di Rafael», spiegò Consuelo, scotendo la testa.

«Non sarebbe una procedura normale.»

«Non mi sembra il tipo che si curi un gran che della procedura normale», fece notare Consuelo. «In ogni caso, perché le interessa? Forse pensa ancora a Inés?»

«No», rispose con decisione Falcón, quasi volesse sottolinearlo a se stesso.

«Bugiardo. Non commetta lo stesso errore due volte, Javier. So che è una cosa profondamente radicata nella natura umana, ma non bisognerebbe cedere, perché tutto il dolore della prima volta si ripresenterebbe la seconda… raddoppiato.»

«Continuo a sentir parlare donne piene di esperienza.»

«Le ascolti», suggerì lei, alzandosi e rimettendosi i sandali. «Ora le darò qualcosa da mangiare e non voglio parlare più di idioti innamorati o delle vostre indagini.»

Servì jamón sul pane abbrustolito con salmorejo, crostini con peperoni rossi alla griglia e filetti di acciughe, gambas allo ajillo, insalata di polpo e peperoni piquillo ripieni di riso col pollo e zafferano. Bevvero vino rosso freddo Basque rioja. Consuelo mangiò come se non avesse toccato cibo tutto il giorno e Falcón ritrovò l’appetito che il caldo estivo aveva soppresso.

«Le è consentito finire l’ultimo vergognoso peperone piquillo», disse Consuelo, accendendosi una sigaretta. «Ora ci sarà una pausa prima del piatto principale.»

«Ho letto in una rivista che lei sa fare tutto nei suoi ristoranti.»

«Si tratta di piatti semplici ben preparati. Non capisco quei ristoranti con menu lunghi come romanzi, ma dove si cucina male. Mai allargarsi troppo, né nella vita, né nell’amore.»

«Un brindisi a questo», propose Falcón e i bicchieri tintinnarono.

«Una domanda», disse Consuelo. «Non sulle indagini, ma è collegata a quanto è successo… prima. È una cosa alla quale penso ogni giorno da quando il passato di Raúl è venuto alla luce.»

«So che cosa sta per chiedermi.»

«Davvero?»

«Ci penso anch’io.»

«Sentiamo, allora.»

«Che ne è stato di Arturo?» disse Falcón. «Era questa la domanda che voleva farmi? Che cosa è successo al bambino di Raúl?»

Consuelo girò intorno al tavolo, gli prese la faccia tra le mani e lo baciò con forza sulle labbra. La scarica elettrica gli saettò lungo la spina dorsale collegata a terra dalla gamba della sedia.

«Lo sapevo!» esclamò Consuelo, lasciandolo andare e sfiorandogli le guance con la punta delle dita così che i nervi lampeggiarono in tutto il corpo di Falcón.

Si domandò se quell’invasione fisica lo avesse reso diverso, vide se stesso con i capelli ritti e sfrigolanti e gli abiti fumanti. Aveva avuto il sapore di lei sulla bocca. Cominciarono a metterglisi in moto dentro piccoli ingranaggi che facevano muovere ruote dentate più grandi, cinghie collegate ad alberi di trasmissione, che a loro volta azionavano un qualche grosso stantuffo ormai arrugginito.

«Tutto bene, Javier?» si informò Consuelo tornando al suo posto a tavola. «Vado un attimo in cucina, tu intanto decidi come faremo a scoprire che cosa è accaduto al piccolo Arturo Jiménez.»

Falcón buttò giù d’un fiato mezzo bicchiere di vino, correndo il rischio di strozzarsi. Mantieni la calma! Consuelo tornò in compagnia di due filetti alla griglia spessi tre dita, con il sugo che si propagava dalla carne alle patate e all’insalata. Gli fu messo nelle mani altro Basque rioja e un cavatappi. Falcón stappò la bottiglia e versò il vino, provando il desiderio di mettersi carponi sul pavimento tra le gambe delle sedie, per scoprire che cosa indossasse Consuelo sotto il vestito blu. Mantieni la calma! Le osservò la vita, i fianchi, le natiche mentre la donna si muoveva intorno al tavolo, sentendosi scottare i globi oculari, il suo sistema di raffreddamento saltato. Consuelo sedette al suo posto.

Falcón bevve. Era ubriaco.

«Come faremo a ritrovare Arturo?» domandò lei, ignara del subbuglio all’altro capo della tavola. «Non sono mai stata in Marocco.»

«Ci andremo insieme», disse lui, le parole uscite di bocca prima che potesse impedirlo.

«Che cosa fai quest’estate?»

«Sono libero a settembre.»

«Allora andremo in settembre», disse Consuelo. «La proprietà di Raúl Jiménez può pagare le spese.»

«Questo filetto è fantastico.»

«Tagliato dalle mani di Rafael Vega.»

«Mio Dio, certo che ci sapeva fare!»

«Non ti stai concentrando», gli fece notare Consuelo.

«Troppe cose tutte in una volta», protestò Falcón bevendo altro vino. «Credo di essere vicino al punto di rottura.»

«Non esplodere qui. Ho appena fatto imbiancare la stanza.»

Falcón rise, si versò altro vino.

«Dovremmo dar vita a una fondazione benefica», disse, «che abbia come scopo la ricerca di bambini scomparsi.»

«Deve essercene già una.»

«Useremo poliziotti in pensione. Ho proprio l’uomo adatto. È l’Inspector Jefe del Grupo de Menores e sta per essere collocato a riposo.»

«Frena, Javier, parli troppo in fretta, mangi troppo in fretta e bevi come una spugna.»

«Vino?» domandò Falcón. «Abbiamo bisogno di vino.»

«Ti ubriacherai e non ce la farai a…»

I loro sguardi si incontrarono al di sopra della tavola e cose troppo complicate per poterne parlare furono comprese all’istante. Falcón lasciò cadere forchetta e coltello, Consuelo si alzò. Si baciarono, lei gli infilò le mani sotto la camicia e ogni sorta di pensieri riguardanti l’igiene personale si fecero strada nel cervello di Falcón. Le tirò giù la lampo, fece scorrere un dito nel solco della colonna vertebrale e non incontrò nessun indumento. Le mani di lei gli trovarono la schiena. L’adrenalina gli corse furiosa nell’organismo.

Controllati, pensò, o non arriverai nemmeno a toglierti i pantaloni.

Lo salvò Consuelo.

«Non qui», gli disse, «non voglio che la puta americana venga a ficcare il naso con la sua macchina fotografica.»

Lo condusse su per le scale, tenendolo per un polso.

«Sai, non lo faccio da tanto tempo», le disse Falcón.

«Anch’io. Forse dovremmo accendere l’aria condizionata.»

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