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Giovedì Io agosto 2002


«Nottataccia?» si informò Ramírez, osservando il parcheggio davanti alla Jefatura.

«Brutti sogni. Brutta notte», rispose Falcón. «Sono rimasto sveglio a fantasticare sul modo di inchiodare i russi.»

«Mi spieghi.»

«Ho pensato di presentarmi da Ignacio Ortega e di dirgli di mettermi sul libro paga dei russi, di dirgli che mi piaceva l’idea dei centottantamila euro con i quali è stata pescata la signora Montes.»

«Era questa la somma?»

«Così mi ha detto Lobo. Potrei imbastire una storia per Ortega, dire che sono stato fatto provvisoriamente responsabile del Grupo de Menores in attesa che arrivi un sostituto di Montes…»

«Tanto per cominciare non sarebbe possibile», obiettò Ramírez.

«E poi lo potrei persuadere a fissare un incontro con i russi.»

«E lui le crederebbe?»

«Be’, no, ma lo farebbe comunque e, una volta saputo il luogo dell’incontro, potrei comunicarvelo di nascosto.»

«Non sono nemmeno sicuro che questa roba fantasiosa vada bene per un film di quart’ordine.»

«L’incontro avverrebbe in un garage in mezzo al deserto. Io arrivo con Ortega e ci sediamo davanti a un fusto di benzina in attesa dei russi. Si sente una macchina a una certa distanza e poi ci raggiungono Ivanov e Zelenov. Da quello che mi dicono si capisce che non credono nemmeno a una parola della mia storia. Proprio quando stanno per sghignazzarmi in faccia, la porta del garage viene sfondata e arrivate voi e li fate fuori tutti.»

«Perfino i miei bambini si inventerebbero qualcosa di meglio.»

«Forse, invece di farvi arrivare col mitra spianato, potremmo pensare a qualcosa di più raffinato. La porta del garage viene sfondata, questo è inevitabile, succede sempre così, ma voi vi limitereste a tenerli sotto tiro mentre io li disarmo. Poi la saracinesca principale si alza e fuori è tutto un lampeggiare di auto della polizia… anche questa è una cosa immancabile. Una delle auto fa marcia indietro, i russi sono ammanettati e mentre vengono spinti dentro la macchina, si girano e vedono noi due che diamo grandi pacche sulle spalle di Ortega e gli stringiamo la mano. Immediatamente pensano che Ortega li abbia venduti. Non sono ancora arrivati alla Jefatura che già è presente il loro avvocato, lo stesso che era nella cassetta trovata alla finca di Montes. Quattro ore dopo sono già fuori. Stacco sulla casa di Ortega, con Ignacio alla scrivania che ascolta Julio Iglesias sul suo impianto stereo meraviglioso, gli occhi chiusi finché un rumore strano glieli fa spalancare e… orrore, due spari con il silenziatore, fiori di sangue sullo sparato della camicia bianca, la faccia sfracellata.»

«E il pubblico che va a bersi una birra ancora prima dei titoli di coda», commentò Ramírez.

Cristina Ferrera si affacciò nella stanza per salutare.

«Dobbiamo parlare», disse Falcón.

Cristina Ferrera si ritirò nella sala operativa, Ramírez andò a chiudere la porta.

«Anche lei, Policía Ferrera», disse Falcón e Ramírez lo scrutò con attenzione.

Sedettero intorno alla scrivania.

«Noi qui siamo la voce dell’esperienza», cominciò Falcón, «e lei, Policía Ferrera, è la voce della moralità.»

«In qualità di suora mancata?»

«Ormai sei qui», le disse Ramírez, «perciò chiudi il becco e ascolta.»

«Credo abbiate capito che si vuole insabbiare tutto quanto», disse Falcón. «Si metterà tutto a tacere sui crimini commessi alla finca di Montes, perché la Jefatura teme un attacco da parte dei politici. I nostri capi credono che un grave scandalo, in cui sarebbero trascinati importanti personaggi pubblici, possa causare un crollo della fiducia nelle istituzioni delle quali si deve assolutamente difendere la dignità e l’integrità. Noi tre sappiamo che quanto avveniva alla finca di Montes è un’azione criminale grave e che i perpetratori dovrebbero essere svergognati davanti alla società e portati davanti alla giustizia. Il Comisario Lobo mi ha detto che tutto quanto succedeva alla finca sarà documentato. Non mi ha garantito che sarà divulgato, ha solo cercato di placare la mia indignazione assicurandomi che nessuno degli individui coinvolti se la caverà senza danno. Soffriranno tutti per la perdita di posizione sociale, di dignità e di ricchezza.»

«Ho già le lacrime agli occhi», disse Ramírez. «E la stampa?»

«Virgilio Guzmán mi ha detto che il suo giornale non ne farà cenno a meno che non lo faccia prima qualche altro mezzo di comunicazione. Non si sente bene, è dovuto andare dal medico che gli ha dato una cura.»

«Che le avevo detto di quel tipo?» gli fece notare Ramírez.

«I russi sono intoccabili, hanno ritirato la loro partecipazione finanziaria ai progetti immobiliari di Vega, hanno minacciato la famiglia di Vásquez. L’unica possibilità di arrivare a loro è attraverso Ignacio Ortega, che certamente non ha intenzione di recapitare ai russi il nostro biglietto da visita. Non abbiamo prove concrete, tali da poter essere presentate in tribunale, nemmeno sulle loro operazioni di riciclaggio. Non potremmo giustificare un arresto nemmeno se potessimo arrivare fino a loro.»

«Che possibilità abbiamo di incriminare Ortega?» domandò Ramírez.

«Gode di molte protezioni, è così che riesce a cavarsela. Come abbiamo potuto vedere dalla cassetta trovata alla finca, ha in mano le prove del sudiciume di molta gente. Per questo ci hanno negato l’accesso ai dati della Scientifica e tutto deve fare capo al Comisario Elvira. La sola cosa che abbiamo in mano è la cassetta.»

«Quale cassetta?» domandò Cristina Ferrera.

«I due che hanno incendiato la finca hanno rubato un televisore e un videoregistratore prima di appiccare il fuoco. Nel videoregistratore era rimasta una cassetta dove si vedono uomini fare sesso con minori», le spiegò Falcón. «Elvira ha l’originale, noi abbiamo tenuto una copia.»

«E i giornali di Madrid?» suggerì Ramírez.

«È una possibilità, ma dovremmo spifferare tutto e comprovarlo con informazioni che non possiamo più avere. Nessuna questione di anonimato in questo caso. Noi saremmo visti come traditori dalla Jefatura e ci ritroveremmo da soli, probabilmente con la carriera finita. E i mezzi di comunicazione sono imprevedibili, anche qui, a Siviglia. Quando si mette qualcuno con le spalle al muro, dobbiamo aspettarci che lotti con tutti i mezzi, giocando sporco. Potremmo finire per farci male tutti quanti, comprese le vostre famiglie, e senza la certezza di ottenere quello che vogliamo.»

«Mandiamo una copia della cassetta alle mogli di quei tali e passiamo ad altro», propose Ramírez.

«Ma Ignacio Ortega se la caverebbe», obiettò Falcón.

Silenzio per qualche minuto, rotto solo dal ditone di Ramírez che batteva metronomicamente sul bordo della scrivania.

«Una cosa che mi darebbe un gran piacere», disse dopo un po’ Ramírez, guardando il soffitto come per trarne un’ispirazione divina, «sarebbe di offrire al mio vecchio amico del barrio una visione privata della sua parte nella cassetta. Significa che potrei guardarlo in faccia e poi dirgli, mi dispiace, io non posso fare nulla, ma tu potresti dire due parole a Ignacio Ortega.»

«Due parole?» ripeté Falcón.

«Lo ammazzerebbe certamente, conosco quell’individuo, non permetterebbe a nessuno di tenergli quella spada di Damocle sulla testa e di restare vivo.»

Di nuovo silenzio. Alzando lo sguardo, Cristina Ferrera vide che i due uomini avevano gli occhi fissi su di lei.

«Non parlate sul serio, vero?» disse.

«E poi lo arresterei per omicidio», concluse Ramírez.

«Non riesco a credere che possiate anche solo chiedermi di immaginare una cosa del genere», disse Cristina Ferrera. «Se davvero fate sul serio, allora non avete bisogno di una guida morale, avete bisogno di un trapianto totale di coscienza.»

Falcón rise e Ramírez si unì a lui sghignazzando rumorosamente. Il sollievo si diffuse sul delicato viso di Cristina.

«Be’, nessuno potrà dire che non abbiamo esaminato tutte le possibilità», disse Falcón.

«Torno al computer», annunciò la ragazza, uscendo e richiudendo la porta dietro di sé.

«Prima parlava sul serio?» domandò Ramírez sporgendosi sulla scrivania.

Non un muscolo si mosse sulla faccia di Falcón.

«Joder!» esclamò Ramírez. «Sarebbe stata davvero bella!»

Squillò il telefono, così forte da far sobbalzare i due uomini. Falcón si portò il ricevitore all’orecchio e ascoltò attentamente mentre Ramírez rigirava tra le dita una sigaretta spenta.

«Ha preso una decisione molto coraggiosa, signor López», disse Falcón riattaccando.

«Una buona notizia finalmente?» Ramírez si mise la sigaretta tra le labbra.

«Era il padre del bambino che, stando all’accusa, sarebbe stato violentato da Sebastián Ortega. Il bambino, Manolo, sta tornando a Siviglia e verrà dritto qui alla Jefatura per dare una versione diversa e assolutamente vera dei fatti.»

«Non sarà un gran bel regalo di matrimonio per il Juez Calderón.»

«Ma sa che cosa significa, non è vero, José Luis?»

La sigaretta mai accesa cadde in grembo a Ramírez.


Il telefono squillò di nuovo. Era il Juez Calderón, per confermare che era pronto il mandato di perquisizione per la cassetta di sicurezza a nome di Emilio Cruz presso il Banco Banesto. Falcón prese la chiave e i due uomini uscirono diretti all’Edificio de los Juzgados, dopo che Falcón ebbe informato Cristina che Manolo López sarebbe venuto con sua madre per deporre nuovamente e che lei avrebbe dovuto leggersi il fascicolo di Ortega, preparare le domande e interrogare il bambino.

Nell’Edificio de los Juzgados ritirarono il mandato dalla segretaria di Calderón e risalirono in macchina alla volta del Banco Banesto, dove chiesero di parlare con il direttore. Mostrarono i documenti e furono accompagnati nel caveau, Falcón firmò e il direttore, una donna, precedette i due poliziotti fino alle cassette di sicurezza, inserì la sua chiave, la girò una volta e li lasciò soli. Falcón usò la sua chiave e insieme tirarono fuori la cassetta di acciaio inossidabile e la posarono sul tavolo al centro della stanza.

In cima alle carte contenute nella cassetta videro un vecchio passaporto spagnolo e qualche biglietto di viaggio, un passaporto rilasciato nel 1984, con la fotografia di Rafael Vega, ma con il nome di Oscar Marcos. I biglietti erano tenuti insieme da una graffetta metallica ed erano in ordine di data. Il primo viaggio era stato effettuato da Siviglia a Madrid il 15 gennaio 1986, con ritorno a Siviglia il 19 gennaio. Quello successivo era del 15 febbraio 1986, in treno da Siviglia a Madrid, Barcellona e infine Parigi. Il 17 febbraio era stato emesso un biglietto da Parigi a Francoforte e Amburgo, il 19 febbraio da Amburgo a Copenaghen e il 24 febbraio da Copenaghen a Stoccolma. Il viaggio di ritorno era cominciato il primo marzo, in aereo da Oslo a Londra. Tre giorni a Londra e poi in volo a Madrid e da lì in treno fino a Siviglia.

«Questa roba», disse Ramírez, che stava guardando le carte sotto i biglietti, «deve essere in codice, perché sembrano lettere di un bambino al padre.»

Falcón telefonò a Virgilio Guzmán, proponendogli di vedersi subito a casa sua in Calle Bailén. Vuotarono il contenuto della cassetta di sicurezza in un grosso sacchetto di plastica, Falcón informò che la cassetta era vuota, lasciò una ricevuta e restituì la chiave. Poi si diressero verso Calle Bailén e Falcón lesse le lettere mentre aspettavano Virgilio Guzmán. Ogni lettera aveva la sua busta attaccata con una graffetta, erano state tutte impostate in America e indirizzate alla casella postale a nome di Emilio Cruz. Le lettere avevano un senso prese singolarmente, ma non nel loro insieme.

Arrivò Guzmán e sedette alla scrivania per esaminare le carte, il passaporto e i biglietti.

«Fine febbraio dell’86 a Stoccolma», disse. «Sapete che cosa era successo in quella data?»

«No.»

«Il 28 febbraio del 1986 il primo ministro svedese, Olof Palme, fu assassinato mentre usciva da un cinema con la moglie», disse Guzmán. «L’assassino non venne mai trovato.»

«E tutte quelle lettere?» domandò Ramírez.

«Conosco qualcuno che può aiutarmi a decifrarle, ma immagino che siano le istruzioni per un’ultima operazione diretta dal suo amico Manuel Contreras. Aveva la copertura perfetta, addestramento completo. Era il genere di cose che si facevano nell’ambito dell’Operazione Condor. Nessun modo di risalire fino al regime di Pinochet e finalmente una spina tolta dal fianco del presidente. Perfetto.»

«Allora perché conservare tutta questa roba?»

«Non lo so, se non, forse, perché uccidere un primo ministro di una nazione europea non è cosa da poco e Vega aveva sentito la necessità di un minimo di sicurezza nel caso le cose fossero cambiate in futuro.»

«Come ora, per esempio?» disse Falcón. «Il regime di Pinochet è caduto…»

«E Manuel Contreras è in prigione tradito dal generale, il suo vecchio amico.»

«E Vega pensa che sia arrivato il momento di pareggiare i conti? Di far vedere di che cosa fosse capace il regime di Pinochet?» ipotizzò Falcón. «Una strategia senza via di uscita. Si può mandare in carcere Pinochet, ma si mette fine anche a se stessi.»

«Ed è quello che ha fatto», affermò Guzmán. «È morto con quel biglietto nel pugno. E tu hai fatto quello che lui voleva che facessi, indagando sulla sua morte hai trovato la chiave della cassetta di sicurezza e ora il suo segreto sarà rivelato al mondo intero.»

Fotocopiarono le lettere trovate nella cassetta e Guzmán le prese per mandarle all’amico che li avrebbe aiutati a decifrarle, un ex membro della DINA che ora viveva a Madrid, rivelò il giornalista.

«Conosci il tuo nemico», disse, per spiegare quell’amicizia. «Le metto nello scanner e gliele mando per e-mail. Le leggerà come fossero un libro, avrete la risposta oggi pomeriggio.»

Falcón e Ramírez tornarono alla Jefatura in tempo per vedere la signora López e Manolo, che era già al lavoro sulla deposizione registrata in video e simpatizzava con Cristina Ferrera. All’una il bambino aveva finito: Falcón telefonò ad Alicia Aguado, le fece ascoltare la deposizione al telefono e la psicologa decise di farla ascoltare anche a Sebastián Ortega.

Cristina Ferrera uscì con una volante e perlustrò il Polígono San Pablo alla ricerca di Salvador Ortega mentre Falcón accompagnava Alicia Aguado al carcere. Mostrarono la cassetta della deposizione di Manolo a Sebastián, che crollò. Alla fine scrisse una sua deposizione di quindici pagine nella quale descriveva in dettaglio i cinque anni di abusi sessuali subiti per mano di Ignacio Ortega. Nel frattempo telefonò Cristina per dire che Salvador si trovava alla Jefatura. Falcón le inviò per fax la dichiarazione di Sebastián per farla leggere a Salvador, il quale chiese di poter vedere Sebastián.

Cristina Ferrera lo accompagnò alla prigione e i due cugini parlarono per oltre due ore. Alla fine anche Salvador accettò di scrivere una sua deposizione, dando a Falcón anche un elenco di altri sette nomi di bambini, ora adulti, che avevano sofferto per mano di suo padre.


Alle cinque del pomeriggio Falcón stava mangiando un panino al chorizo e bevendo una birra analcolica quando ricevette la telefonata di Guzmán: aveva le lettere decifrate e voleva mandargli la traduzione via e-mail. Come previsto, si trattava di una serie di istruzioni per Vega. Dove e quando ritirare il passaporto a Madrid, il percorso da seguire per Stoccolma, informazioni sui movimenti e sull’assenza di misure di sicurezza per Olof Palme, dove andare a Stoccolma per prendere l’arma, come disporne dopo averla usata e infine la via da seguire per tornare a Siviglia.

«Domani il mio giornale pubblicherà tutta la storia», lo informò Guzmán.

«Non mi aspettavo niente di diverso, Virgilio», disse Falcón, «farà male soltanto a gente che se lo merita.»


Alle sei di sera Falcón aveva pronto un dossier con la nuova deposizione in video di Manolo López e quelle scritte di Sebastián e di Salvador.

«E che succede se la bloccano anche su questo?» domandò Ramírez, mentre Falcón lasciava l’ufficio.

«Che lei sarà il nuovo Inspector Jefe del Grupo de Homicidios, José Luis.»

«Io no, grazie. Dirò che devono rivolgersi all’Inspector Pérez quando sarà tornato dalle ferie.»

Oltre alle deposizioni, Falcón prese con sé anche il contenuto della cassetta di sicurezza di Vega e stampò le lettere decifrate, spedite da Guzmán per posta elettronica. Poi salì dal Comisario Elvira, il quale era di nuovo a colloquio con Lobo. Non lo fecero aspettare.

Falcón parlò del contenuto della cassetta di sicurezza e lesse le lettere decifrate relative alle istruzioni sull’assassinio e sul bersaglio. I due uomini rimasero immobili sulle sedie, ammutoliti.

«E chi avrebbe potuto sapere questo, a parte gli ovvi personaggi del regime?» domandò Lobo dopo un po’. «Voglio dire, crede che gli americani ne fossero a conoscenza?»

«Di Vega sapevano qualcosa», rispose Falcón. «Non ho idea se sapessero anche tutto o parte di questo, ma ne dubito. Flowers aveva detto di non sapere che cosa stava cercando e ora gli credo. Speravano soltanto che non fosse qualcosa che potesse riflettersi negativamente su di loro o sul governo del tempo.»

«Pensa che gli americani possano essere coinvolti nella morte di Vega o a questo punto ritiene che sia stato ucciso da Marty, o che si sia suicidato?»

«Mark Flowers mi ha dato un’enorme quantità di informazioni, l’unico problema è che non so che cosa sia vero e che cosa non lo sia», rispose Falcón. «Una parte di me crede che non siano coinvolti, perché in realtà volevano scoprire proprio questo, e cioè il contenuto della cassetta di sicurezza, che non hanno mai trovato. Ma credo anche che Flowers abbia forse potuto mettere fine all’incertezza, collaborando nel chiudere la bocca a Vega per sempre.»

«Caso archiviato?» domandò Elvira.

Falcón si strinse nelle spalle.

«C’è qualcos’altro?» domandò Lobo, sbirciando il dossier in grembo a Falcón.

Falcón glielo porse e Lobo lesse, passando via via i fogli a Elvira. Man mano che scorrevano l’elenco di abusi sessuali i due uomini apparivano sempre più inquieti e quando ebbe finito Lobo guardò il parco fuori dalla finestra come soleva fare al tempo in cui occupava quell’ufficio. Parlando al vetro, disse:

«Posso indovinarlo, ma preferirei che mi dicesse che cosa vorrebbe lei».

«La mia richiesta minima per quanto riguardava i crimini commessi alla finca di Montes era che Ignacio Ortega venisse incriminato», rispose Falcón. «Non è stato possibile. Non sono d’accordo, ma lo capisco. Questo, però, è un caso separato. Niente di quanto succedeva alla finca di Montes verrà mai a galla in questo caso di violenza familiare. Voglio che venga nominato un Juez de Instrucción: non il Juez Calderón, ovviamente. Voglio arrestare Ignacio Ortega e voglio che risponda di queste accuse e di tutte le altre che potrebbero essergli contestate dopo aver parlato con le persone nell’elenco di Salvador Ortega.»

«Dovremo discuterne. Le faremo sapere», disse Lobo.

«Non voglio fare pressioni indebite sulla vostra decisione, ma desidero ricordarle ciò che mi ha detto ieri nel suo ufficio.»

«Me lo ricordi.»

«Ha detto: ‘Abbiamo bisogno di uomini come lei e come l’Inspector Ramírez, Javier. Su questo non deve avere dubbi.’»

«Capisco.»

«L’Inspector Ramírez e io vorremmo procedere all’arresto stanotte», disse Falcón prima di uscire.


Rimase seduto nel suo ufficio da solo, consapevole che Ramírez e Cristina Ferrera stavano aspettando notizie. Squillò il telefono e li udì balzare in piedi. Era Isabel Cano, gli domandava se avesse una risposta da darle sulla bozza di lettera da mandare a Manuela a proposito della casa di Calle Bailén. Non l’aveva ancora letta, rispose Falcón, ma non importava, perché aveva deciso che Manuela, se voleva la casa, avrebbe dovuto pagare il prezzo di mercato, meno la commissione di agenzia, e che non ci sarebbero state trattative.

«Che cosa ti è successo?»

«Il mio animo si è indurito, Isabel. E ora il sangue mi scorre freddo in vene d’acciaio. Mai sentito parlare del caso Sebastián Ortega?»

«Il figlio di Pablo Ortega, no? Quello che aveva rapito il bambino.»

«Precisamente. Ti dispiacerebbe occuparti del processo di appello?»

«Qualche nuova prova importante?»

«Sì», rispose Falcón. «Ma devo avvertirti che Esteban Calderón potrebbe non uscirne molto bene.»

«È più o meno ora che impari un po’ di umiltà», affermò Isabel. «Darò un’occhiata.»

Falcón riattaccò e sprofondò nel silenzio.

«Molto sicuro di sé, eh?» disse Ramírez nell’altra stanza.

«Noi siamo uomini di valore, José Luis.»

Questa volta il telefono squillò nella sala operativa. Ramírez si affettò a rispondere. Silenzio.

«Grazie», disse prima di riattaccare.

Falcón attese.

«José Luis?»

Ancora silenzio. Andò alla porta.

Ramírez alzò lo sguardo su di lui, la faccia bagnata di lacrime, la bocca allargata sui denti scoperti, lottando per dominare l’emozione. Fece un cenno con la mano a Falcón, non riusciva a parlare.

«Sua figlia», spiegò Cristina Ferrera.

Il sivigliano annuì, si asciugò gli occhi con il grosso pollice.

«Non ha niente», disse sottovoce. «Hanno fatto tutti gli esami possibili e non hanno trovato niente. Pensano a un virus.»

Si afflosciò sulla sedia, continuando a spremersi le grosse lacrime dagli occhi.

«Sapete una cosa?» disse Falcón. «Credo che sia il momento di andarci a bere una birra.»

Andarono in macchina tutti e tre fino al bar La Jota e in piedi al fresco bevvero birra e mangiarono bocconcini di baccalà, senza dare grande soddisfazione agli altri funzionari di polizia che ogni tanto si avvicinavano e cercavano di attaccare discorso. Erano troppo tesi. Alle venti e trenta il cellulare si mise a vibrare contro la coscia di Falcón. Lo portò all’orecchio.

«Siete autorizzati a procedere all’arresto di Ignacio Ortega con quei capi di accusa», disse la voce di Elvira. «Juan Romero è stato nominato Juez de Instrucción. Buona fortuna.»


Tornarono alla Jefatura, perché Falcón voleva che l’arresto avvenisse con una volante con i lampeggianti accesi, in modo che ai vicini di Ortega non passasse inosservato. Guidò Cristina Ferrera e parcheggiò l’auto davanti a una casa grande in El Porvenir, una villa che aveva due leoni di cemento sui pilastri del cancèllo, come aveva detto Sebastián.

Cristina Ferrera rimase in macchina. Ramírez suonò il campanello: aveva lo stesso suono elettronico di campane di quello di Vega. Venne ad aprire Ortega. Gli mostrarono il tesserino della polizia e Ortega guardò alle loro spalle l’auto con le luci lampeggianti.

«Vorremmo entrare», disse Ramírez, «a meno che non preferisca che parliamo in strada.»

Entrarono, la casa non aveva il solito gelo da mal di testa dell’aria condizionata, ma una temperatura perfetta.

«Questo sistema di aria condizionata…» cominciò Ramírez.

«Non è aria condizionata, Inspector», lo interruppe Ortega, «ma un impianto di climatizzazione perfetto.»

«Allora nel suo studio dovrebbe piovere, signor Ortega.»

«Posso offrirle da bere, Inspector?» domandò Ortega, disorientato.

«Non credo», rispose Ramírez, «non ci fermeremo a lungo.»

«Lei, Inspector Jefe? Un whisky di malto? Ho perfino del Laphroaig.»

Falcón sussultò: era il suo whisky preferito, e in casa gliene era rimasto ancora molto, intatto. I suoi gusti non erano così eclettici. Scosse la testa.

«Vi dispiace se bevo da solo?» si scusò Ortega.

«Questa è casa sua», disse Ramírez. «Non faccia complimenti.»

Ortega si versò un whisky meno pregiato sul ghiaccio e alzò il bicchiere guardando i due poliziotti, che erano soddisfatti nel vederlo nervoso. Ortega prese il telecomando con cui regolava la climatizzazione e fece per spiegarne il raffinato funzionamento a Ramírez, che lo interruppe subito.

«Noi non sappiamo perdere, signor Ortega», disse.

«Prego?»

«Non sappiamo perdere nemmeno un po’, non ci piace vedere tutto il nostro lavoro ben fatto andare sprecato.»

«Lo capisco», convenne Ortega, cercando di nascondere la sua apprensione per la presenza incombente e aggressiva del poliziotto.

«Che cosa capisce, signor Ortega?» intervenne Falcón.

«Il vostro lavoro deve essere frustrante, a volte.»

«Come mai lo pensa?» gli domandò Falcón.

Ora che aveva capito che aria tirava, anche l’atteggiamento di Ortega si fece ostile. Li guardava con sufficienza, come se fossero due patetici campioni di umanità.

«Il sistema della giustizia non sta certo nelle mie mani», ribatté. «Non sta a me decidere quale caso debba essere portato in tribunale e quale no.»

Ramírez gli strappò il telecomando di mano, osservò la miriade di tasti e lo gettò sul divano.

«Che ne dice di quei due ragazzini che abbiamo trovato sepolti alla finca di Almonaster la Real?» gli domandò Ramírez. «Che cosa ci può dire di loro?»

Falcón vide con sgomento il sorrisetto di Ortega. Quell’uomo aveva capito finalmente quale fosse il problema, ora sapeva di essere al sicuro, ora si sarebbe divertito davvero.

«Che cosa posso dire di loro?» ripeté in tono pacato.

«Come sono morti, signor Ortega?» riprese Ramírez. «Sappiamo che lei è intoccabile su questa faccenda, ma, come ho detto, noi non sappiamo perdere e ci piacerebbe tanto che lei ci dicesse quest’unica cosa.»

«Non so di che cosa stia parlando, Inspector.»

«Possiamo indovinare come è andata», disse Falcón, «ma vorremmo avere una conferma sul modo in cui sono morti e chi li ha seppelliti.»

«Nessuna trappola», lo rassicurò Ramírez, mostrandogli le mani aperte, «lei è al sicuro dalle trappole, non è vero, signor Ortega?»

«E ora vorrei che ve ne andaste, grazie mille», disse Ortega, voltando loro le spalle.

«Ce ne andremo non appena ci avrà detto quello che vogliamo sapere.»

«Non avete assolutamente nessun diritto di entrare in casa mia…»

«Ci ha invitato lei a entrare, signor Ortega,», gli fece notare Falcón.

«Quando ce ne saremo andati, vada pure a lamentarsi con i suoi amici altolocati», disse Ramírez. «Probabilmente potrebbe farci destituire, sospendere senza stipendio, cacciare dal corpo… con tutte le conoscenze importanti che ha!»

«Fuori!» esclamò Ortega, girandosi verso di loro, ringhiando.

«Ci dica come sono morti», insistette Falcón.

«Non ce ne andremo finche non l’avrà fatto», annunciò Ramírez allegramente.

«Si sono suicidati», disse Ortega.

«Come?»

«Il ragazzo ha strangolato la ragazza e poi si è tagliato le vene dei polsi con un pezzo di vetro.»

«Quando?»

«Otto mesi fa.»

«Chi li ha sepolti?»

«È stato mandato qualcuno a farlo.»

«Immagino che siano bravi a scavare fosse, i contadini russi», osservò Ramírez. «Tu quando è stata l’ultima volta che hai scavato un buco?»

Ramírez si era avvicinato a Ortega. Gli afferrò una mano. La sentì molle. Lo guardò dritto in faccia.

«Lo sapevo. Nessuna traccia di coscienza… ma forse, col tempo, le cose cambieranno.»

«Vi ho detto quello che volevate sapere, ora andateneve.»

«Andiamo via subito», assicurò Falcón.

Ramírez tirò fuori dalla tasca un paio di manette e le fece scattare intorno al polso della mano che stava ancora tenendo nella sua. Falcón tolse il bicchiere di whisky dall’altra, poi Ramírez gliele unì insieme dietro la schiena, concludendo con una pacca sulle spalle.

«Siete finiti tutti e due», disse Ortega. «Lo sapete bene.»

«La dichiaro in arresto», spiegò Falcón, «per violenze sessuali ripetute su suo figlio, Salvador Ortega, e su suo nipote, Sebastián Ortega…»

Davanti al volto sorridente di Ignacio Ortega, Falcón lasciò la frase a metà.

«Davvero pensate che un eroinomane e un disgraziato che è stato condannato per sequestro di persona e violenza sessuale su un bambino possano avere qualche possibilità di far finire me in galera?»

«Le cose sono cambiate», lo informò Falcón mentre Ramírez posava la mano sulla testa di Ortega. «Abbiamo voluto che avesse ben presenti i bambini della finca per farle capire che lei è stato appena toccato da mani scomparse.»

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