28

Martedì 30 luglio 2002


Nella sala operativa Cristina Ferrera, seduta a una scrivania, con le caviglie incastrate dietro le gambe della sedia, osservava le due stampe delle foto di Marty Krugman sulla riva del fiume. Le passò a Falcón.

Nella prima si vedeva Marty sulla sinistra, seduto su una panchina lungo il fiume. Non era lui il soggetto principale della foto. L’uomo che gli sedeva accanto era uno sconosciuto per Marty come per Falcón.

«La seconda è un ingrandimento dello sfondo di una fotografia più grande», spiegò Cristina Ferrera.

In quell’immagine Marty Krugman era girato di fianco sulla panchina e stava parlando con un uomo che Falcón riconobbe immediatamente: Mark Flowers.

«Queste erano sul computer?» domandò Falcón. «Non esistono negativi?»

Cristina gli porse un CD nella sua custodia.

«Usava due macchine. Per quello che riteneva interessante usava una reflex 35 millimetri, per gli scatti generici usava una digitale. Queste immagini sono state salvate solo su questo disco e sul suo computer portatile.»

«Mi rendo conto che è stato un lavoro lungo e noioso.»

«So che sarebbe stato meglio avere i negativi.»

«Vanno bene anche così», la rassicurò Falcón. «Niente di tutto questo finirà in un tribunale. Dov’è l’Inspector Ramírez?»

«È al piano di sotto, sta sistemando le stanze degli interrogatori. È molto eccitato, ha trovato qualcosa nell’appartamento di uno dei piromani.»

«Voglio che porti questa al laboratorio», le disse Falcón, tirando fuori la lametta da barba che aveva trovato nella finca. «È un tentativo piuttosto disperato, ma vorrei che facessero un test del DNA sui peli rimasti sulle lame e lo confrontassero con quello di Rafael Vega.»

«A proposito, il computer portatile della signora Krugman è nel deposito delle prove»», lo informò Cristina Ferrera, «ma tutto il resto l’ho lasciato nella casa.»

«Le chiavi?»

Cristina le spinse verso di lui sulla scrivania.

«Un’altra cosa», disse Falcón, porgendole il foglietto di carta sul quale aveva riportato la scritta in caratteri cirillici. «Ricorda la traduttrice russa che abbiamo impiegato per Nadia Kouzmikheva? Le chieda di tradurre questo. Per domani.»

Ramírez era seduto nella stanza degli interrogatori numero quattro, con i gomiti sulle ginocchia, la testa china. Dalle dita della destra si levava un filo di fumo. Non si mosse quando Falcón entrò, non si mosse fino a quando si sentì toccare su una spalla. Allora si raddrizzò sulla sedia lentamente, come se fosse pieno di dolori.

«Qual è il problema, José Luis?»

«Ho visionato una cassetta.»

«Quale cassetta?»

«Ho cambiato opinione sugli incendiari. Erano due grandissimi fessi. Tontos perdidos. Sono andati là con la mentalità dei ladruncoli e prima di dare fuoco alla finca hanno rubato un televisore e un videoregistratore. E dentro al videoregistratore…»

«…c’era una cassetta!» lo interruppe Falcón, galvanizzato dagli sviluppi del caso.

«E si trattava di quello che pensavo: pornografia infantile. Ma non pensavo di riconoscere uno dei partecipanti.»

«Non sarà Montes?»

«No, no, grazie a Dio. Sarebbe stato tremendo. Questo era uno del barrio. Ricorda che le ho parlato di un tipo che si era arricchito, ma non ne aveva mai abbastanza e che veniva continuamente a dirci quanto fosse diventato ricco e importante? Provava gusto a ficcarcelo in gola. È lui il cabrón del video.»

«Allora sulla cassetta è stato registrato quello che avveniva nella finca

«Immagino di sì, ma non ho visto più di un minuto di registrazione, mi sono sentito subito male.»

«Bisogna informare Elvira», affermò Falcón. «Ma c’è modo di farne una copia prima di mandarla di sopra?»

Ramírez lo fissò attentamente.

«Non dica quello che immagino stia per dirmi».

«Elvira è dalla nostra parte.»

«Ma certo!» ribatté Ramírez. «Finché qualcuno non gli pesterà i coglioni.»

«Per questo dobbiamo fare una copia della cassetta, perché glieli stanno già pestando», disse Falcón. «Ma per il momento con le babbucce ai piedi.»

«Lasci fare. Quando avranno sentito parlare della registrazione, specialmente se è stato ripreso qualcuno di importante, piomberanno qui con gli stivali da cowboy.»

Ramírez batté i tacchi sul pavimento della stanza.

«Chi sa della cassetta?»

«Nessuno. Il televisore e il videoregistratore erano stati buttati dietro la porta dell’appartamento, solo quando ho portato qui i due incendiari ho pensato di andare a controllare se il videoregistratore fosse carico.»

«Bene. Allora noi copiamo la cassetta, consegniamo l’originale e stiamo a vedere che cosa succede.»

«Sa come si copia una cassetta?»

«So che servono due videoregistratori.»

«Non possiamo farlo qui», disse Ramírez. «E nemmeno possiamo chiedere a qualcuno di spiegarci come si fa in poche parole facili da capire, altrimenti lo saprà tutta la Jefatura.»

«A casa lei ha certamente uno di questi apparecchi e l’ho anch’io», insistette Falcón. «Si faccia spiegare da uno dei suoi figli come si fa e porti il videoregistratore a casa mia, dove nessuno ci disturberà.»

Falcón preparò la cassetta nell’apparecchio per far vedere ai due che cosa avevano rubato. Ramírez gli dette i dati del furgone, il rapporto sulle ricerche nei garage, una copia della registrazione video della televisione a circuito chiuso e il cappello usato da uno dei fermati, di nome Carlos Delgado.

«Ha una foto di Ignacio Ortega da mostrare ai due?» domandò Ramírez.

«Non una chiara», rispose Falcón. «Ma sapranno il suo nome e avranno una gran paura di dirlo, sono sicuro. Bussi alla porta quando avrà bisogno di usare la cassetta.»

«Vediamo chi sarà il primo a ottenere una confessione. Chi perde paga da bere», disse Ramírez.

Vennero scortati nella stanza gli incendiari. Ramírez prese con sé Pedro Gómez, Falcón fece sedere Carlos Delgado e spiegò l’uso del registratore.

«Che cosa hai fatto sabato notte e la domenica mattina presto, Carlos?»

«Dormito.»

«Eri col tuo amico Pedro?»

«Dividiamo l’appartamento.»

«E lui era con te quella notte?»

«È nella stanza accanto, perché non glielo chiede?»

«C’era qualcun altro?»

Carlos scosse il capo. Falcón gli mostrò una foto del furgone.

«È tuo?»

Carlos guardò la foto, fece segno di sì.

«Lo hai usato sabato notte o domenica mattina?»

«Siamo andati a trovare la zia di Pedro a Castillo… Domenica mattina verso le undici.»

«Sai chi ha usato il tuo furgone sabato notte e domenica mattina presto?»

«No.»

«Questo cappello è tuo?»

«Sì», rispose Carlos. Poi, dopo qualche istante: «Con chi ce l’avete voialtri? Mi chiede del furgone… del cappello. Di che cosa cazzo si tratta?»

«Stiamo indagando su un reato sessuale molto grave.»

«Reato sessuale? Mai commesso nessun reato sessuale.»

Falcón gli chiese di avvicinarsi al televisore. Sullo schermo scorrevano le immagini riprese dalla telecamera del garage, immagini in bianco e nero del furgone che si fermava, di Carlos che scendeva, riempiva le taniche, entrava. Falcón fermò la cassetta.

«Quel furgone ha la stessa targa di quello delle foto che è tuo, secondo quanto mi hai detto.»

«Noi non abbiamo commesso nessun reato sessuale.»

«Ma quel furgone è il tuo?»

«Sì.»

«E quella persona che paga la benzina sei tu?»

«Sì, ma io non…»

«Basta così, non mi serve di sapere altro.»

«Che cosa sarebbe questo reato?» insistette Carlos. «Qualcuno ha violentato la ragazza del distributore?»

«Che cosa avete fatto delle taniche una volta riempite?»

«Siamo tornati a casa.»

«Direttamente?»

«Sì. Abbiamo comprato la benzina per la zia di Pedro.»

«Ma eravate già stati in quel distributore e in un paio di altri dove avete riempito due taniche in ognuno. E ne avete riempite altre lungo la strada per Aracena. Che cosa ci siete andati a fare?»

Silenzio.

«Perché siete andati fino ad Almonaster la Real con tutta quella benzina nel furgone?»

«Non ci siamo andati.»

«Non ci siete andati», ripeté Falcón. «Carlos, lo sai, vero, che l’incendio doloso è un crimine grave? Ma non è la sola cosa che ci interessa. Vogliamo mettervi dentro per molto, molto tempo anche per un reato sessuale.»

«Io non ho commesso nessun…»

«Quando siete stati prelevati nel vostro appartamento, l’Inspector Ramírez l’ha perquisito e ha trovato in vostro possesso un televisore e un videoregistratore.»

«Non sono nostri.»

«Che cosa facevano nel vostro appartamento e con le vostre impronte sopra?»

«Quella roba non è nostra.»

«Vieni con me.»

«Non voglio venirci!»

«Andiamo solo là, al televisore.»

«No.»

Falcón spinse il televisore vicino al tavolo, tolse la cassetta registrata nel garage e la sostituì con l’altra, alzò il volume e premette il tasto «play». L’urlo dal televisore fece sobbalzare perfino lui. Carlos Delgado balzò in piedi, facendo rovesciare la sedia, agitò le mani in direzione dello schermo, poi si afferrò i capelli folti e ricciuti, come per sostenersi.

«No, no, no! Lo spenga! Noi non c’entriamo per niente!» gridò.

«Era in vostro possesso.»

«Lo spenga. Lo spenga!»

Falcón fermò la cassetta. Carlos era sconvolto. Tornarono a sedersi al tavolo.

«La violenza sessuale sui bambini è un reato gravissimo», disse Falcón. «Chi subisce una condanna per crimini di questo genere finisce in carcere per molti anni e in carcere se la passa malissimo. La maggior parte di quella gente preferisce l’isolamento per tutti i sette, dieci anni.»

«Il televisore e il videoregistratore li abbiamo rubati.»

«Dove?»

Carlos raccontò tutto. Erano stati pagati millecinquecento euro per comprare la benzina e portarla alla finca, dopo aver avuto le chiavi e le indicazioni per recarvisi. Avevano dato fuoco alla casa secondo le istruzioni ricevute e avevano rubato gli apparecchi prima di allontanarsi. Tutto qui. Non avevano idea di che cosa contenesse il videoregistratore, avevano voluto soltanto un piccolo guadagno extra. Falcón annuì, incoraggiando altri particolari a discolpa.

«Chi vi ha pagato?»

«Non so come si chiama.»

«Come mai lo conosci? Come mai ti conosce? Non si chiede al primo che passa di incendiare una casa. È un affare serio, no? Bisogna potersi fidare e ci si fida solo di chi si conosce.»

Silenzio da parte di Carlos, che deglutì a fatica.

«Hai paura di quell’uomo?» domandò Falcón.

Carlos scosse la testa.

«Quanti anni hai?»

«Trentatré.»

«Sei sivigliano. Hai mai vissuto fuori Siviglia?»

«No.»

«Hai ancora amici d’infanzia?»

«Pedro. Pedro è l’unico.»

«Avete la stessa età?»

Carlos annuì, incapace di comprendere dove volesse arrivare Falcón.

«Quando hai visto l’ultima volta il tuo vecchio amico d’infanzia, Salvador Ortega?»

Carlos era attonito, batteva le palpebre senza capire.

«Non conosco nessun Salvador Ortega».

Falcón avvertì una sensazione di gelo alla bocca dello stomaco.

«L’uomo che vi ha dato millecinquecento euro per dare fuoco alla finca si chiama Ignacio Ortega?»

Carlos fece segno di no e Falcón, guardandolo negli occhi, si rese conto che davvero non aveva mai sentito quel nome, che non gli ispirava nessuna paura, nessun terrore, nessun ricordo orripilante.

«Dimmi come si chiama l’uomo che vi ha pagato per bruciare la. finca. Parla chiaro, per favore.»

«Alberto Montes.»

Falcón uscì dalla stanza e bussò alla porta di Ramírez. Si appoggiò alla parete, assalito dalla nausea.

«Ha già confessato?» domandò Ramírez, richiudendo la porta alle sue spalle.

«Non ho ottenuto il risultato giusto, però», disse Falcón. «Avrei dovuto riflettere di più, mi sono fidato troppo del mio istinto cretino. Ha fatto il nome di Alberto Montes.»

«Joder!» imprecò Ramírez, battendo il pugno sul muro.

«E questo spiegherebbe tutto», riprese Falcón. «È precisamente ciò che avrebbe fatto Montes. Preso dal panico o forse finalmente disgustato di se stesso o tutte e due le cose, vuole liberarsi del problema, radere al suolo tutto quanto. Se non che… tutta la sierra prende fuoco, migliaia di ettari di boschi distrutti. Ha sbagliato di nuovo. E si butta dalla finestra.

«Non appena ho visto Ignacio Ortega ho pensato che fosse un bastardo e non ho riflettuto. Quello si muove su un piano diverso. La ragione per cui ci stanno facendo pressioni è che lui ha detto a quella gente di farlo. Non farebbe mai qualcosa di così stupido e grossolano come un incendio doloso. Ha cominciato dal primo nome sulla lista dei suoi clienti e li ha avvertiti di fermarci subito, se non volevano problemi.»

Carlos e Pedro furono rimandati in cella senza prendere la loro deposizione. Falcón si mise in tasca il nastro con la confessione di Carlos e ritirò il computer portatile di Maddy Krugman dal deposito. Ramírez andò a casa. Si ritrovarono più tardi a casa di Falcón e duplicarono la cassetta. Le immagini non erano molto chiare, ma si capiva che erano state riprese da una telecamera nascosta nella parete di una particolare stanza. Si vedevano solo quattro clienti. L’uomo d’affari del barrio di Ramírez, un noto penalista, un presentatore della televisione e uno sconosciuto.

«È così che i russi riescono ad avere quello che vogliono», disse Ramírez mentre impacchettavano tutto quanto. «Non so perché questa gente lo faccia. Non sono un intelligentone di avvocato o di uomo d’affari e non riesco a immaginare nessun genere di eccitazione sessuale che mi farebbe correre un rischio simile.»

«Non si tratta di sesso», spiegò Falcón. «Si tratta di fare del male, male fatto a sé o ad altri. Il sesso entra ben poco in quello che succede nella cassetta.»

«Comunque.» Ramírez versò altre due birre. «Qui abbiamo finito. Abbiamo la copia della cassetta. E ora? Siamo fregati, no? Questo non ci porta da nessuna parte. Appena salta fuori che Montes ha pagato quei due, finiamo nella merda. Dobbiamo tenere la bocca chiusa, se non vogliamo che ci sparino un clistere di chiodi nelle budella.»

«Elvira mi ha fatto la predica su come in questi casi non si debba essere troppo zelanti nella ricerca della giustizia», disse Falcón. «Le istituzioni sono protette da personaggi potenti che vogliono conservare il potere e che faranno in modo che io non abbia mai ciò che voglio. Ma quando si vedono certe cose e quella finca là, nella sierra, e si arriva a capire quale livello di corruzione abbia reso possibile tutto questo, comincio a pensare che forse dovremmo fare piazza pulita e ricominciare da capo. Mi sono reso conto di essere troppo ingenuo nel muovermi a certi livelli.»

«Be’, sa che quando si tratta di fare piazza pulita», disse Ramírez, battendosi il petto, «nemmeno il mio passato è senza macchia. Credo che il prete che ha ascoltato la mia confessione sia invecchiato di dieci anni.»

«Ma di che sta parlando, José Luis? Di qualche favore dalle prostitute?»

«Brutte faccende», disse Ramírez, stringendosi nelle spalle. «In quel genere di atmosfera nessuno se la cava senza danni.»

«Lei non è certo al livello di quella gente.»

«E lei sa una cosa di quella gente?»

La birra cominciava a fare effetto nello stomaco vuoto di Ramírez. «Quel cabrón del barrio, quello ha successo, è ricco, ha un paio di case qui, qualche altra là, la barca a vela e lo yacht, più macchine che pantaloni eppure non gli basta. Capisce, non si può mangiare più di tante aragoste, non si può bere più di tanto champagne, non ci si può scopare più di tante belle ragazze a pagamento… perché poi?»

«È l’eccitazione del frutto proibito. Perciò, forse, prima mi sbagliavo», disse Falcón. «Forse a questo livello non si tratta di fare del male a qualcuno, forse si tratta di potere. Il potere di fare certe cose impunemente.»

«Meglio che vada. Ho capito dove va a parare la serata», disse Ramírez. «Ma lasci che le dica una cosa: quando avranno scoperto di Montes, faranno in modo di farci vivere nella paura.»

«Ha visto le foto di Marty Krugman cha ha stampato Cristina?»

«Non ho riconosciuto il tizio che parlava con Marty.»

«Si chiama Mark Flowers. È addetto alle comunicazioni presso il consolato americano.»

«Ah! Krugman il matto non è poi tanto matto.»

«Probabilmente c’è una spiegazione plausibile.»

«Sì, erano amanti. Buonanotte», salutò Ramírez.


Alla disperata ricerca di una buona notizia Falcón telefonò ad Alicia Aguado e fu contento di sentirla molto euforica a proposito di Sebastián. Era avvenuta la svolta importante, Sebastián Ortega aveva rivelato come Ignacio Ortega avesse abusato sessualmente di lui e, nonostante l’orrore di ciò che il ragazzo aveva dovuto subire, la breccia che si era aperta l’aveva resa felice: il processo di guarigione era cominciato. Falcón agognava una soddisfazione professionale di quel genere, ma, al contrario, in sere come quella, con le radici della fortuna esposte all’aria, vedeva il suo lavoro come un disperato tentativo di puntellare ciò che crollava da tutte le parti, un cerotto appiccicoso applicato su un ascesso puzzolente e delle dimensioni di una zucca nel corpo della società. Le augurò buona fortuna e riattaccò. Nascose la cassetta dietro due porte chiuse a chiave del vecchio studio di Francisco e, tornato nello studio, si accertò di avere le chiavi della casa dei Krugman, il computer portatile di Maddy, la stampa della foto di Mark Flowers e la rivoltella carica. Si diresse a Santa Clara e parcheggiò l’auto nel vialetto di Consuelo. Entrò per spiegarle il suo impegno per la notte e Consuelo insistette per dargli qualcosa da mangiare. Non era come al solito, sembrava distratta, silenziosa, preoccupata, addirittura abbattuta. Disse che sentiva la mancanza dei figli, era in pensiero per loro nonostante la protezione della polizia, ma dava l’impressione che ci fosse dell’altro. Alle ventidue e trenta Falcón attraversò la strada ed entrò nella casa dei Krugman, salì al piano superiore e rimise il computer portatile di Maddy nella sua stanza di lavoro, andò in camera da letto, spense il cellulare, si sdraiò sul letto e si appisolò.

Alle due del mattino spalancò gli occhi, destato da uno scatto sonoro al piano di sotto. Aspettò, ascoltando il completo silenzio di un abile ladro al lavoro. Per parecchi minuti non udì nulla, poi il cerchio di luce di una torcia elettrica avanzò nel corridoio fuori dalla camera da letto. Un ladro di prima classe, metodico, non un mariuolo da strapazzo, rumoroso, disposto a defecare sul pavimento. Il ladro entrò nella stanza da lavoro di Maddy Krugman. Si udì il rumore di una cerniera lampo che veniva fatta scorrere, poi il ladro accese il computer di Maddy.

Perfino il respiro sembra fragoroso quando un bravo ladro è al lavoro; tuttavia, mentre aspettava che il computer fosse pronto, lo sconosciuto impiegò il tempo a frugare tra le foto a stampa di Maddy e Falcón approfittò di quel fruscio per scendere dal letto, attendere che la circolazione fosse ripresa perfettamente nella mano destra, estrarre la pistola e percorrere il corridoio verso la luce che sobbalzava nella stanza.

«Sta cercando questa?» domandò, la rivoltella nel pugno.

Il ladro alzò lo sguardo dal computer il cui schermo luminoso illuminava la sua irritazione. Si raddrizzò sullo sgabello di Maddy e si passò le mani tra i capelli, con aria annoiata.

«Lei non m’interessa», disse Falcón. «Mi interessa sapere che cosa farà quando avrà trovato quello che lui vuole.»

«Lo chiamerò e ci incontreremo giù al fiume.»

«Lo chiami allora e gli dica che è stato fortunato. Si muova lentamente.»

Il ladro fece la telefonata che durò solo pochi secondi, dal momento che disse soltanto una parola: «Romany». Poi scesero insieme e il ladro si mise al volante dell’auto di Falcón per tornare in città. Parcheggiarono nel Paseo de Cristóbal Colón e discesero i gradini fino al sentiero pedonale lungo il fiume. Un uomo, là in piedi, si guardava intorno. Falcón gli giunse alle spalle uscendo dall’ombra. «Cercava questa, signor Flowers?» domandò, mostrando la stampa della foto, illuminata dalla piccola pila elettrica.

Flowers annuì, esaminando l’immagine. «Credo che dovremmo metterci a sedere», disse.

Il ladro scappò via, correndo su per i gradini. Flowers restituì la foto. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto.

«Mi scuso per averla sottovalutata, Inspector Jefe», disse alla fine, asciugandosi la fronte e la faccia. «Sono arrivato qui da Madrid dieci mesi fa. I madrileños hanno un’idea piuttosto confusa dei sivigliani. Avrei dovuto agire con maggiore sottigliezza.»

«Dieci mesi fa?»

«Dopo lo scorso settembre ci stiamo interessando più attivamente ai nostri amici nordafricani e al modo in cui arrivano in Europa.»

«Ma certo. E cosa c’entrava Marty Krugman in tutto questo?»

«Non c’entrava», rispose Flowers. «L’affare Vega era collaterale, anche se ci siamo presi un bello spavento quando abbiamo saputo del biglietto trovato nella sua mano. Poi abbiamo scoperto da dove veniva.»

«E cioè?»

«Era un graffito sul muro di una cella nella Villa Grimaldi, dove si torturavano i prigionieri a Santiago, in Cile, opera di un americano, un certo Todd Kravitz, rinchiuso là per un mese nel 1974 prima di essere fatto ‘scomparire.’ L’iscrizione intera diceva così: Saremo nell’aria sottile che respirerete dall’11 settembre fino alla fine del tempo. Abbastanza poetica da restargli impressa e perseguitarlo a trent’anni di distanza.»

«Aveva accennato al suo medico di avere problemi di sonnambulismo», disse Falcón, «ma non di scrittura inconscia.»

«Effetto della tensione nella psiche di un uomo che non capisce di essere colpevole», suggerì Flowers.

«Parliamo di Marty Krugman», riprese Falcón. «Perché non cominciamo da ciò che faceva e per chi lo faceva?»

«Un argomento difficile da affrontare con lei.»

«Non siamo in America, signor Flowers. Non ho addosso un microfono. Il mio unico interesse come Inspector Jefe del Grupo de Homicidios è scoprire chi abbia assassinato Rafael Vega e perché.»

«Devo prendere qualche precauzione», insistette Flowers.

Falcón si alzò, Flowers lo perquisì con mani esperte, trovò immediatamente la rivoltella. Tornarono a sedersi.

«L’affare Vega non era una vera e propria operazione del governo», spiegò Flowers. «Era più che altro un problema della CIA, per chiudere dei conti in sospeso.»

«Ma c’era stata collaborazione tra l’FBI e la CIA, una collaborazione che aveva permesso a Marty Krugman di uscire indenne dall’omicidio di Reza Sangari.»

«Per istruire un processo avevano bisogno che Marty cedesse e confessasse tutto, e io le ho già parlato dei suoi viaggi in Cile negli anni ’70. Non le ho detto, però, che le autorità cilene avevano finito per arrestarlo. Aveva passato tre settimane nella London Clinic, un altro centro di tortura in Calle Almirante Barroso. In tre settimane di torture non ha fatto nessun nome e l’unica ragione per cui non ha fatto la stessa fine di Todd Kravitz è che i tempi erano ormai diversi e i difensori dei diritti umani erano molto presenti. Non era comunque un uomo da crollare per qualche interrogatorio da parte dell’FBI.»

«E così le è parso che sarebbe stato il tipo adatto a spiare qualcuno che era stato un famigerato membro di quel regime?»

«La maggior parte degli europei pensa che gli americani non conoscano l’ironia, Inspector Jefe.»

«Per questo non gli avete rivelato nulla sulla vera identità di Rafael Vega?»

«È stato uno dei motivi. D’altronde, se si deve riferire sullo stato mentale di una persona, è meglio non essere influenzati dalla sua storia personale.»

«Che cosa c’era di tanto importante nello stato mentale di Vega?»

«Era un uomo di cui avevamo perduto le tracce nel 1982, quando si era sottratto al programma di protezione dei testimoni.»

«Allora era vero che aveva testimoniato in un processo sul traffico di droga?»

«Era una verità apparente. Aveva qualche informazione pericolosa su ufficiali dell’esercito americano e su membri della CIA coinvolti in uno scambio di droga contro armi avvenuto alla fine degli anni ’70, così abbiamo fatto un accordo. Avrebbe testimoniato in un processo di comodo e noi gli avremmo dato una nuova identità e cinquantamila dollari. Prese quella e questi e sparì. Non riuscimmo più a rintracciarlo.»

«Però sapevate della moglie e della figlia?»

«Non potevamo fare altro se non tenerle d’occhio, sperando che si facesse vivo con loro. Fu molto cauto. Non tornò per le nozze della figlia, come noi credevamo, e decidemmo che doveva essere morto. Cessammo la sorveglianza, ma inviammo qualcuno al funerale della moglie.»

«Questo quando?»

«Non tanto tempo fa, più o meno tre anni… non ricordo esattamente. Ma al funerale lo ritrovammo. Aveva creduto di essere al sicuro ormai. Facemmo qualche indagine, scoprimmo che era un uomo d’affari di successo e ritenemmo di non doverci più preoccupare… fino a quando non saltò fuori il collegamento con la mafia russa, diciotto mesi fa.»

«Avete pensato che Rafael Vega fosse di nuovo nel traffico d’armi?»

«Abbiamo pensato soltanto che fosse meglio tenerlo d’occhio. Ma le ho mentito a questo proposito, era stato effettivamente addestrato da noi, conosceva i nostri metodi, il tipo di persone che siamo. Così abbiamo cercato altri per questo lavoro ed è stato al quel punto che è entrata in scena l’FBI. Marty Krugman era il candidato perfetto… a parte una certa instabilità nel suo matrimonio.»

«Sa che sensazione ho in questo momento, signor Flowers?» disse Falcón. «La sensazione che lei mi stia raccontando quel tanto che basti a soddisfare la mia curiosità.»

«Tutta la storia richiederebbe troppo tempo.»

«Prima mi dice di non voler lasciare qualcosa in sospeso, poi di voler tenere d’occhio lo stato mentale di Vega.»

«Tutte e due le cose».

«Quali erano le ‘cose in sospeso’ che vi preoccupavano tanto?»

«Cominciavamo a pensare che avesse ricominciato a operare», rispose Flowers. «La nostra professione è come un vizio, Inspector Jefe. Scoprimmo che aveva comprato un passaporto a nome di Emilio Cruz e che aveva ottenuto visti per il Marocco.»

«Io avevo pensato che si stesse preparando una via di fuga.»

«Da che cosa avrebbe dovuto fuggire?»

«Forse da lei, signor Flowers.»

«Aveva comprato il passaporto a nome di Emilio Cruz prima che gli mettessimo Marty Krugman alle costole, prima che scoprissimo il suo collegamento con la mafia russa.»

«Perché aveva abbandonato il programma di protezione iniziale?»

«È come essere morti», spiegò Flowers. «Ho fatto anch’io la stessa cosa.»

«Vega aveva motivi fondati per credere che non fosse stato un incidente a distruggere la famiglia della figlia?»

«È successo a venti anni di distanza dalla sua fuga. Ecco uno degli effetti collaterali della nostra professione: non si riesce mai a credere che le cose siano quelle che sembrano. La gente muore in incidenti stradali tutti i giorni, Inspector Jefe.»

«E che cosa avete scoperto sul suo collegamento con i russi?»

«Permetteva ai russi di riciclare il denaro sporco per mezzo dei suoi progetti immobiliari e in cambio i russi lo aiutavano a soddisfare i suoi gusti pedofili. Mi risulta che gli piacesse guardare. El Salido, ricorda?»

«Allora a che vi serviva Marty Krugman? Sapevate già tutto.»

Silenzio da parte di Flowers. Un lungo sospiro annoiato.

«Quando gli avete detto che Rafael Vega era Miguel Velasco?»

«No, no, lei sbaglia, Inspector Jefe. Su questo non le sto mentendo», insistette Flowers. «Lei pensa che noi glielo abbiamo rivelato e che, a causa del suo coinvolgimento passato nella politica cilena, Marty Krugman si sia sentito spinto a ucciderlo.»

«Costringere qualcuno a bere acido…» disse Falcón.

«È un modo orribile di morire», convenne Flowers. «Sembra davvero un omicidio per vendetta. Ma io voglio essere chiaro in proposito. Noi non abbiamo rivelato la vera identità di Vega, non lo volevamo morto. Deve credere a quanto le ha detto Marty…»

«Allora che cosa volevate sapere?»

«Non ne siamo sicuri.»

«Non è molto convincente, signor Flowers», gli fece notare Falcón.

«Probabilmente perché è la verità e noi abbiamo creato questo grande mito dell’infallibilità americana.»

«Che ne dice di questa ipotesi…» disse Falcón. «Volevate conoscere il suo stato mentale perché temevate che avesse informazioni tali da compromettere ulteriormente importanti membri del governo americano del tempo. Il segretario di Stato, per esempio.»

«Temevamo, se avesse avuto in mano qualcosa, che potesse cercare di usarla contro di noi, ma non sapevamo di che cosa potesse trattarsi.»

«Chi sarebbero questi ‘noi’?»

«È tutto quanto dirò sull’argomento», affermò Flowers. «Lei mi ha detto di voler sapere se Krugman avesse ucciso Vega e io posso assicurarle che non è così. Si accontenti di questo.»

«Come posso esserne sicuro?»

«Perché Marty Krugman era con me la notte in cui Rafael Vega è morto, dalle due alle cinque del mattino», rispose Flowers. «Ho la registrazione certa dell’ora e della data perché l’incontro è avvenuto al consolato americano.»

Загрузка...