Edgar Pangborn La compagnia della gloria

CAPITOLO 1 CON UN PO’ D’AMORE

Se mi è sfuggito qualche altro aspetto dell’infinito, posso trovarlo in un filo d’erba.

DEMETRIOS.


Il vecchio faceva oscillare il bastone di noce; ne apprezzava il sostegno, ma non ne aveva realmente bisogno, poiché non era più cieco di Omero. Mentre camminava per Harrow Street, incontrò un ragazzo che conduceva un cavallo dal maniscalco, e alcune ragazze che tornavano dal ruscello con le ceste del bucato. — Buona giornata a te, Garth! Come sta Frankie?

— Buona giornata anche a te, Demetrios, — disse il ragazzo, sorridendo con calore e un po’ di timidezza. — Frankie sta bene. — Garth s’era soffermato, e accarezzava il collo del cavallo; adocchiava le ragazze che, nei loro camici bagnati, avevano posato le ceste e si stavano riassettando i capelli, ma stava anche attento al narratore. Nessuno ignorava il narratore.

La faccia di Demetrios, così simile a quella d’un falco pellegrino, sembrava volare verso di te, anche quando era immota. La lunga mano destra, con quelle giunture prominenti, anche quand’era posata sul bastone additava terre lontane, visioni di luoghi stranieri. Demetrios era alto… il che era comodo, per uno che guardava al di sopra delle teste chine e intente. I capelli grigi, lievemente inargentati, gli cadevano lisci sulle spalle. Aveva sessant’anni, e non era vecchio, bensì stagionato, come il suo bastone di noce, come un vino che è rimasto nel tino abbastanza a lungo per maturare in un modo che forse non garba a tutti. Il giovanissimo Garth, all’età in cui l’amore d’un cuore buono deve traboccare, lo adorava: quale altro vecchio ricordava il nome d’un garzone di stalla e addirittura del suo fratellino? E alcuni erano incantati dalla bravura professionale di Demetrios come narratore, e non provavano per lui né simpatia né antipatia, ma gli rendevano omaggio ascoltandolo. Una ragazza che si chiamava Solitaire lo desiderava ed era desiderata da lui.

Uscito da una strada laterale, un venditore ambulante (uno straccivendolo più vecchio dì Demetrios) spinse accanto a loro la carriola e la appoggiò sul sostegno, asciugandosi la faccia con un pezzo di stoffa sudicia. Era un pomeriggio afoso e pesante di luglio; il vento, che ammucchiava masse grigie nell’aria sulle montagne, lì non si faceva ancora sentire, anche se tra non molto un temporale avrebbe potuto avventarsi sulla misera cittadina, rimescolando fango, spazzatura e liquame per le strade di Nuber e riversando parte del sudiciume nei canali dei fossati centrali, spostando la putredine da un luogo all’altro, come per tanto, tanto tempo aveva fatto la società umana. Anch’egli vecchio e avvezzo all’impudenza (qualunque pubblicità è pubblicità utile, dicevano nel Tempo Antico, così mi hanno riferito, fino a quando non ci si erano strozzati), lo straccivendolo si sentì in diritto di gracchiare: — Dimmy, vecchio colpo di vento! Hai qualche storia per noi… una con un gran bel paio di balle?

— Le tue sono forse flosce, Potterfield? — La voce più sommessa di Demetrios si poteva sentire a una distanza di sessanta piedi Una delle ragazze ridacchiò, coprendosi la bocca con una mano arrossata dal bucato e guardando di sottecchi Garth, che arrossiva facilmente: non aveva ancora quindici anni. Educata per raggiungere le ultime file della folla, la voce baritonale di Demetrios qualche volta sembrava acuta. Un tempo aveva cantato un po’, fino a che un musicista gli aveva detto che non aveva molto orecchio; la sua voce andava molto meglio per raccontare sogni. Una donna si affacciò generosamente a una finestra del pianterreno, con un fazzoletto sui capelli, e Demetrios chiese: — Posso sedermi qui, Madam, e raccontarti una storia, se vuoi ascoltarla?

— I grr… — La donna sputò un nocciolo di pesca sulla scala che stava sotto la sua finestra e si riprese. — I gradini non sono nostri, noi siamo qui in affitto. Ma siediti e racconta pure la tua storia, cara anima. Ci penserò io a mettere a posto chiunque dirà che non puoi farlo.

— Allora magari racconterò una storia per te, proprio per te, e con un po’ d’amore dentro, e Potterfield si dovrà rassegnare.

— Io non ho niente contro l’amore, — borbottò Potterfield, — come disse la mosca quando restò con le chiappe appiccicate al miele.

Demetrios sedette all’ombra e intrecciò le mani sul pomo del bastone di noce, e per un po’ chiuse gli occhi, rievocando, osservando l’oceano notturno della memoria e della riflessione, alla ricerca d’un mercantile pronto ad approdare al molo e ai magazzeni industriosi della sua mente. Ritrovò un timore abituale, che quel giorno nessuna nave navigasse; capitano giorni così, per la nostra afflizione. — Ero bambino, — disse. — Credo di non aver mai raccontato storie della mia infanzia. C’era una volta… no, non quella. Lasciatemi rimuginare. Il vento viene da est… non è un vento che porti il bel tempo… Tutte le storie incominciano nell’infanzia. Prima che si incominci a parlare.

«Sappiate allora che io che vi parlo sono nato in una piccola città, che a voi sembrerebbe grande. La sua popolazione era all’incirca di tremila abitanti, prima della Guerra dei Venti Minuti, che segna l’inizio dell’Anno Uno del nostro calendario, e credo che l’attuale popolazione qui, nella città di Nuber, sia di poco superiore… quattromila, forse, quattromila fedeli sudditi della Repubblica del Re, — disse, e nessuno rise. — La mia cittadina si chiamava Hesterville, ed era lontana non molte miglia, più a monte, dalla città di Hannibal, in quello che allora era lo stato del Missouri. Il Missouri è assai lontano”, a occidente… e non importa se non ne avete mai sentito parlare. Tra l’altro, a Hannibal era nato un uomo che si chiamava Sam Clemens, centoquarantacinque anni prima che io nascessi a Hesterville. Ho pensato a lui, perché anch’egli era un narratore, ma grandissimo. Le sue storie erano scritte nei libri, e i libri si moltiplicavano a migliaia… si chiama stampa, e voi ne avete sentito parlare; mi hanno detto che c’è un torchio a mano, qui a Nuber, voglio dire un altro oltre a quello autorizzato che adoperano nella Città Interna. Dunque, le storie dì Clemens venivano lette e conservate in tutto il mondo, che allora era più grande, e perfettamente rotondo. Egli le scriveva sotto un nome inventato, Mark Twain, più famoso del suo nome vero. I nomi sono importanti: ci servono per parlarci gli uni con gli altri. Le storie di Mark Twain dureranno, a meno che tutti i libri non siano andati perduti e distrutti; e anche in questo caso, per qualche tempo verranno ancora raccontati. Le mie storie sono scritte nell’aria. Chissà dove va a finire una storia, dopo che il poeta l’affida ai venti?»

Poi, io lo so, il vecchio si chiese se doveva raccontare un brano della storia di Huck Finn… Il contesto è scomparso. C’era la schiavitù nel 1993, ma i suoi metodi e il suo nome erano completamente diversi. Vi sovrintendevano esperti impassibili che la chiamavano Sospensione Temporanea della Normalità. Che poteva sapere, quella buona gente ignorante, della schiavitù ammessa apertamente? O del negro Jim? «Va bene, ANDRÒ all’inferno!»… che cosa potevano capirne quelli?Il contesto era andato perduto. In quanto al mondo prebellico di Huck, perduto da tanto tempo, già nella mia infanzia, che, a leggerne, pareva ancora più remoto dell’Arcadia di Pan… oh, di quello potrebbero capirne un poco, se fossi capace di comunicarglielo. Adesso è più vicino a noi di quanto non lo fosse in qualunque momento del ventesimo secolo, adesso che la flaccida carcassa di plastica della civiltà industriale è sepolta. Poco a poco l’aria perde quella sozzura; la terra, e persino il mare torturato e degradato, incominciano a riacquistare un po’ della bellezza che il progresso del dollaro aveva devastato e contaminato. Ci sono anche delle perdite. Sia pure. Se mi è sfuggito qualche altro aspetto dell’infinito, posso trovarlo in un filo d’erba.

Demetrios si accorse che il suo silenzio era durato troppo a lungo. Riaprì gli occhi e guardò raggiante il suo pubblico con esperta aria astuta, per far capire che non si era appisolato come un vecchio smemorato e rimbambito. Erano tutti attenti; alcuni ricambiarono il suo sorriso. Altri erano sopraggiunti mentre egli era distratto; si era accorto del loro appressarsi, ma aveva voluto seguire ancora un po’ i suoi pensieri. Nelle epoche in cui predomina l’analfabetismo, il narratore e il portatore di notizie divengono importanti; e la memoria di alcuni ascoltatori acquista poteri sorprendenti, che l’èra della macchina da scrivere e del quotidiano aveva perduto o sepolto. Demetrios studiò la piccola folla: alcune facce gli erano vagamente familiari, ma tutte non avevano nome, tranne la dolce faccia grassoccia di Garth.

Nel berretto di tela che aveva lasciato cadere capovolto ai suoi piedi c’erano alcune monete. Erano quasi tutti soldini d’ottone della Repubblica del Re di Katskil, coniati rozzamente con la faccia mascelluta di Brian II. (Come suo padre Brian I, affermava che la sua monarchia era un Governo Provvisorio, il cui sacro fine era la restaurazione degli Stati Uniti d’America… purtroppo irrealizzabile per ora.) Tra i soldini brillava un sorprendente frammento del passato, accettato come moneta legale ma di rarità estrema, un dieci centesimi di dollaro d’argento del Tempo Antico, che valeva almeno cinquanta dei soldini di Katskil. Chi mai, tra i presenti, poteva essere stato così munifico?

Quasi sicuramente era il giovane dai capelli scuri che sedeva in disparte dagli altri, e teneva al guinzaglio un canelupo grigio. La tunica e il perizoma di lino erano bianchi come la panna, segno non ufficiale di appartenenza all’aristocrazia; sebbene non esistessero disposizioni di legge al riguardo, nessuno indossava in pubblico il prezioso lino candeggiato. Gli individui comuni si accontentavano di indumenti raffazzonati dalle massaie inesperte o dai servi con rozzi tessuti di lana dai colori spenti, o con linolana… avanzi e brandelli di lana e di lino. Gli aristocratici si gloriavano della pulizia e del nitore, mentre a certi livelli il sudiciume era considerato sinonimo di virtù. La borsa di pelle di daino ed i mocassini del giovane dovevano essere stati confezionati dai servitori (virtualmente schiavi) che eseguivano lavori del genere per la Città Interna e per le grandi proprietà terriere dei sobborghi. Lo sguardo franco e innocente del ragazzo turbava Demetrios, che era ossessionato dal ricordo di un altro mondo, morto da quasi mezzo secolo. — Io credo che una storia voli sempre là dove c’è una scintilla di vita disposta ad ascoltarla. A Hesterville avevano quei congegni che sembrano fantasie fiabesche a quanti sono troppo giovani per averli visti. Nessuno, qui, eccettuato Potterfield, può ricordarli come me… telefoni, automobili, radio, macchine per smuovere la terra, aerei. Naturalmente, per voi sarà difficile crederci. Ti ricordi dei voli spaziali, Potterfield?

— Merda, — disse lo straccivendolo. — Era tutto un trucco, non è vero? Io non ho mai visto un razzo partire se non alla tivù, proprio come in tutti quegli sceneggiati di fantascienza, dove era tutto inventato.

— Cos’è successo alla tua tivù? — chiese il ragazzo dai capelli scuri.

— Fregata, — disse Potterfield. — Fregata, signore. Vedi, quando l’elettricità se ne andò, non funzionava più niente. — Strizzò l’occhio a Demetrios, per dimostrare che condivideva con lui un antico simulacro di saggezza divenuto inutile e inacidito. — Allora la mia ragazza gli tirò una bottiglia di lozione per le mani… vuota. Tanto, la tivù era sua. Abitavo insieme a lei, allora, all’incirca cinquant’anni fa. Adesso ho settant’anni com’è vero Gesù, visto che me lo chiedi.

— E ricordi anche le automobili? — disse Demetrios. — Ricordi i telefoni? Gli aerei a reazione?

— Ma certo. Anche adesso, se devo andare in qualche posto, penso sempre, oh, beh, telefonerò, e poi penso: oh, merda. — Potterfield si grattò sotto il perizoma bagnato, irritato da molti affanni, non ultima la vecchiaia. Pidocchi, ratti e pulci erano sopravvissuti in abbondanza alla catastrofe di tanto tempo prima. Negli ultimi due o tre decenni, dato che le acque, dopo essere cresciute, avevano mantenuto il loro livello con scarse fluttuazioni, prosperava in particolare una varietà di ratti a coda corta, piccoli e aggressivi, dal pelo scuro e feroci, con una simpatia per le nuove, meschine dimore umane che non venivano più costruite su fondamenta di cemento. Poteva essere una mutazione del prolifico topo dì campagna del Tempo Antico, pensava Demetrios, ma non c’era nessuno che potesse discuterne con lui e che conoscesse almeno la parola «genetica». — Adesso stiamo meglio, no? — disse Potterfield. Doveva aver avuto circa vent’anni, pensò Demetrios, quando il fuoco aveva divorato le città e le brevi epidemie si erano succedute, e le morti per radiazione e le malattie dalla virulenza travolgente, quando non c’erano più i mezzi per studiarle e per bloccarle. La grande Peste Rossa era venuta solo sedici anni dopo, quando Demetrios aveva ventinove anni e viveva a Nuber. Potterfield doveva essere un giovanotto semplice (se pure esistevano esseri umani dei quali si potesse dire una cosa simile), con un appetito per le semplici soddisfazioni (se pure esistono soddisfazioni che non si disperdano all’infinito, come le increspature di uno stagno). Ce n’erano stati tanti, come lui! Maschi e femmine di tutte le età, che superavano i quattro miliardi secondo le stime del 1990, nonostante il lieve decimo del tasso di natalità e le desolanti carestie della fine degli anni Settanta e dell’ inizio degli anni Ottanta. — Stiamo meglio adesso, senza tante cose che t’aggrediscono da tutte le parti. L’uomo ha la possibilità di pensare, — disse Potterfield. — Non lo credereste neanche, quanti pensieri profondi ho adesso. Continua con la tua storia, Dimmy… mi sono fermato qui perché tu mi svaghi, non è vero?

— Ti svagherai, se riuscirai a stare sveglio. Io ero cresciuto in quel mondo, — disse Demetrios, — fino ai tredici anni; non tranquillo, perché nessuno era tranquillo tranne gli spensierati che erano capaci di sentirsi a loro agio anche seduti su di un vulcano. Dato che ero un ragazzetto, certo, anch’io spesso ero spensierato. Io…

— Oh, Demetrios! — La donna alla finestra aveva finito di mangiare la pesca: si pulì la bocca sul braccio. — Vulcano? Devi proprio usare tante parole così difficili? Cos’è un vulcano?

— Chiedo scusa, Madam. Un vulcano è una montagna con un buco in cima. Di tanto in tanto, dal buco esce il fuoco della terra, in un fiume di materia fusa che scende dal fianco della montagna e brucia tutto. Sapevi, mia cara, che l’interno della Terra è un nucleo di fuoco? Ogni giorno, tu cammini sopra una cantina piena di fuoco, mia cara. E adesso basta con le domande, o non racconto più niente. — Ma era il ragazzo, Garth, che si mostrava allarmato, e addirittura lanciava occhiate timorose intorno ai propri piedi; la donna era soltanto divertita, e non ci credeva. — Sì, ero cresciuto in quel mondo, e mio padre era un dottore e un saggio. Mia madre dipingeva quadri. Ce n’è qualcuno a Nuber; lei era più brava di tutti i pittori che voi conoscete… e naturalmente aveva a disposizione materiale migliore per lavorare. Mio padre era conosciuto come il dottor Isaac Freeman di Hesterville, e il mio nome… oh, il mio nome era Adam Freeman. Non ho mai parlato, prima, di queste cose. — E adesso che cosa ti prende? Perché continui a parlarne e con tanto impaccio? Non è questo che i tuoi ascoltatori vogliono, Demetrios. Vogliono romanzi d’amore e d’avventura, fiabe, persino allegorie, se sei cauto, ma certo non la storia di come stavano realmente le cose. Beh, il vento soffia da est. — Debbo trovare il filo, care anime. Allora il mio nome non era Demetrios. Era Adam Freeman.

«Il mio nome è Demetrios da quarantasette anni… quanto basta per aver visto salire le acque e diventare il Mare di Hudson. Ho veduto un altro messia, diciassette anni fa, e il suo martirio per mano di coloro che egli voleva salvare. Parlo dell’uomo Abraham, che alcuni chiamano profeta, legato alla mota sulla Piazza della Forca di questa città.»

— Non era un profeta? — chiese il giovane con il canelupo. — Chiedo scusa… Non volevo interromperti.

— Tutti gli uomini sono profeti, — disse Demetrios, scrutandolo. La sua presenza era un po’ strana, ma non molto. I cittadini della Città Interna, che potevano andare ovunque volessero, si facevano vedere non di rado per le strade aperte, soprattutto in compagnia di cani e di servitori che li proteggevano, e benché di solito non si prendessero il disturbo di fermarsi ad ascoltare i narratori agli angoli delle strade, non v’era motivo di stupirsene. — E poiché gli uomini non sono mai d’accordo, forse nessuno dovrebbe portare quel nome. Io mi chiamo Demetrios, che significa «appartenente alla terra» o «sacro alla terra». Nei tempi più antichi c’era una dea, Demetra, che veniva venerata come spirito della terra, madre di tutto. Era adorata anche sotto altri nomi. Demetra era il nome con cui la chiamavano i greci… Tu ne hai sentito parlare, signore?

Il ragazzo apparve turbato, forse nel sentirsi chiamare «signore» da uno tanto più vecchio; ma quasi tutti coloro che vestivano di lino bianco l’avrebbero considerato un loro diritto naturale. — So chi erano, — disse il giovane, e sorrise, senza arroganza. — Conosco alcuni libri.

Demetrios annuì. — Allora ti sarai accorto che sono pieni di vita. Io sono Demetrios. Se qualcuno mi chiamasse per strada con quel nome, Adam Freeman, non capirei che si sta rivolgendo a me. Mio padre mi chiamava Ad; per mia madre, che era irlandese, ero invece Adam-bach.

«Avevo tredici anni nel 1993, vecchio calendario. Ora ricordo, care anime, che un continente intero si estende ad ovest, a nord e a sud di qui, tutto ciò che le acque dell’oceano non hanno sommerso; e che in quella regione la nostra intera nazione di Katskil è come una piccola unghiata di sporco su di una grande coperta. Quella è l’immensa regione di cui parlate, quando dite “Stati Uniti d’America”. Fino all’anno 1993, dopo il quale non esiste più storia scritta, a quanto sappiamo, se non quella della nostra piccola unghia, il resto del mondo era spartito in altre divisioni territoriali, grandi e piccole… beh, forse lo è ancora, ma nessuno parla più attraverso gli oceani. Tutte quelle divisioni si chiamavano nazioni, ed erano libere di farsi guerra l’una con l’altra con armi che potevano trasformare la terra in un mucchio di macerie… come è adesso, comunque. Tutte quelle divisioni si chiamavano nazioni e le alleanze di nazioni, care anime, non hanno il buon senso di evitare la stupida passione della guerra. Le nazioni non conoscono la giustizia e la carità più di quanto non conoscano l’amore, perché sono, in sostanza, masse, folle organizzate. I singoli individui possono amare ed essere amati; possono essere generosi e buoni, longanimi, anche coraggiosi; le nazioni non possono esserlo mai. Una folla non può mai né pensare né sentire. Pensare è un’attività solitaria, e sentire è l’esperienza del cuore isolato.»

Un uomo dalla faccia impenetrabile che stava in mezzo agli spettatori prese una decisione e si allontanò. La sua immagine rimase nella memoria di Demetrios e lo irritò; non sarebbe stato facile riconoscerlo, ad un secondo incontro, poiché aveva lineamenti neutri, blandi e freddi.

— Nel 1993, a tredici anni, leggevo il giornale dì Chicago, smilzo e censurato, per scoprire quello che si poteva capire tra le righe, con le cupe interpretazioni di mio padre. Noi, cioè io e i miei genitori, che mi trattavano da adulto, apprendevamo dalla radio e dalla televisione quello che ci chiedevano di pensare, in modo da poter fingere di pensarlo in presenza degli estranei. Noi sapevamo…

— Senti, — disse Potterfield, — tu non stai mica raccontando una storia, stai solo blaterando sui tempi andati… e a chi interessa?

— Ah, Potterfield! C’erano una volta due sposini che si chiamavano Adamo ed Eva, e avevano due bambini, uno che si chiamava Caino e…

— Oh, merda! Dimentica quello che ho detto.

— Noi sapevamo che sarebbe scoppiata la guerra, e nel 1993 scoppiò. Il 24 giugno 1993; secondo la vecchia religione che già allora andava lentamente disgregando, era il giorno di san Giovanni Battista, anche se non posso dire che qualcuno lo notasse. Adesso noi la chiamiamo Guerra dei Venti Minuti, anche se ricordo di aver visto il bagliore d’una bomba all’orizzonte, la seconda notte. È impossibile dire quale delle principali divisioni del mondo avesse deciso di suicidarsi. Noi…

— Ma no, — disse Potterfield. — Furono i russi.

— È quello che continuava a ripeterci automaticamente la tivù fino a che non venne a mancare la corrente. Io ricordo una trasmissione dell’America Meridionale, captata dalla radio della nostra auto, che accusava noi. La batteria della radio si scaricò presto e allora ci fu il grande silenzio. Secondo me furono gli Stati Uniti a scatenare l’ultima follia, ma che importanza ha, ormai? Altre nazioni erano quasi altrettanto marce, l’intera società era un Watergate…

— Diavolo! — Potterfield balzò in piedi e afferrò le stanghe della sua carriola. — Non voglio starmene più qui a sentire certe cattiverie. — Se ne andò sferragliando, e si soffermò all’angolo per tendere la mano contro Demetrios, facendo le corna con le dita per scongiurare il malocchio.

Rivolgendosi soprattutto al ragazzo dai capelli scuri; Demetrios osservò: — Ecco che se ne va, forse, l’ultimo patriota americano. — Una delle quattro lavandaie si alzò per andarsene, ma la sua compagna la trattenne, dubbiosa.

Garth lasciò avvicinare di un paio di passi il suo vecchio ronzino. — Il vecchio Potterfield non ha mai capito niente.

— Sì, — disse Demetrios. — È questo che lo rende diverso da voi e da me. — La donna alla finestra era impassibile. — Le bombe erano dirette alle grandi città e alle aree di lancio. Una cancellò Chicago, duecentocinquanta miglia da Hesterville. Erano bombe che, nel gergo folle di quel tempo, venivano chiamate «pulite». Questo voleva dire semplicemente che uccidevano più gente con l’esplosione e con il fuoco di quanta ne ammazzassero avvelenando l’atmosfera; quelli che le lanciavano lo giudicavano più conveniente, perché si illudevano di restare vivi, mentre difendevano la libertà o quel diavolo che pensavano di difendere. Immagino che in tutta la storia la gente abbia sempre immaginato che, se dai all’orrore un nome grazioso, non è più orrore.

«Adesso ho deciso. Vi dirò come ho acquisito il nome di Demetrios, e solo questa storia. Lasciate perdere le automobili, gli aerei, le bombe e tutto il resto. Questo l’avete già sentito: lasciatelo pure arrugginire. E abbiate pazienza con me. Per raccontare la storia del mio nome devo parlare ancora un poco della fine del Tempo Antico.

«Ci furono le brevi epidemie, malattie che infuriavano per pochi giorni e passavano come tempeste di fuoco, lasciando i loro morti. Erano diverse dalle morti per radiazioni.»

— La Peste Rossa? — chiese il ragazzo dai capelli scuri.

— No, quella venne sedici anni dopo, solo… fammi pensare: sì, trentun anni fa. No, le brevi epidemie… potevano venire dai laboratori bellici, probabilmente dai nostri che erano stati sventrati. Quei metodi di guerra, si credeva, erano stati abbandonati molto tempo prima, ma questo lieto annuncio era stato dato da un governo che mentiva virtualmente su tutte le altre sue attività. E più tardi, ma prima che io nascessi, più tardi si seppe che al Pentagono interessava soltanto realizzare gas e malattie che non rappresentassero un pericolo per chi se ne serviva… vedete, mezzi puliti per annientare gli altri, che avevano la spudoratezza di essere stranieri.

— Il Pentagono?

— Oh… era un palazzone d’incubo nella città di Washington, e ospitava la macchina bellica… chiamata, naturalmente, Dipartimento della Difesa. Sì, credo che probabilmente le brevi epidemie furono create dall’uomo, ma sia chiaro, non c’erano né il tempo né i mezzi per studiarle mentre ci annientavano. Certamente la mentalità dei militari non è capace di rinunciare a giocattoli del genere.

«E noi lasciammo che quella mentalità l’avesse vinta, per colpa nostra. Avevamo sovrappopolato la Terra, riproducendoci fino a creare uno stato di carestia cronica, esaurendo senza freni le risorse naturali, senza pensare alle esigenze del futuro, e accumulando la putredine. La nostra razza cresceva come un tumore. L’intervento chirurgico che pose fine a quella crescita eccessiva fu compiuto, non dalla ragione, come sarebbe stato possibile, ma dalla carestia, dalle pestilenze e da una guerra idiota »

Indignata, con gli occhi sbarrati, la lavandaia che voleva andarsene afferrò la cesta e trascinò via l’amica. Se c’era qualcosa in cui la gente di Nuber credeva, in quegli anni, era che la Repubblica del Re era impegnata nell’imminente restaurazione degli Stati Uniti d’America e dell’Età dell’Oro. Ma le altre due ragazze rimasero, e Garth, e una donna stanca dall’espressione amichevole con la sporta della spesa, e una giovane coppia che si teneva per mano e che non ascoltava molto, e il ragazzo dai capelli scuri con il canelupo. Il cane si stirò e sbadigliò scoprendo i denti terribili, ridendo con una grande lingua rosea.

— E quell’intervento chirurgico fu poi aiutato, — disse Demetrios, — dalla sterilità e dalle deformità innate causate dalle radiazioni… dell’industria atomica e non solo delle bombe… che potrebbero continuare a perseguitarci per altri mille anni, o per cinquemila, se riusciremo a durare tanto tempo.

— Io ho messo al mondo un «mu», due anni fa, — disse la donna alla finestra. — Era senza ano. È vissuto un giorno. Da allora non ho più concepito. E non ho cercato di evitarlo. Mio marito dice che è la punizione di Dio.

— Una donna che per me era come una moglie, tanto tempo fa, — disse Demetrios, — Elizabeth di Hartford, concepì un mu con il cranio gonfio e sottile come un guscio d’uovo. Il cranio si spezzò durante il parto che costò la vita anche a lei. Ora, cosa immagini di aver fatto per essere punita in questo modo, Madam?

— Non lo sappiamo. Mio marito dice che tutto si spiegherà con la venuta del Messia, e potrebbe venire come chiunque, vedi. Come quell’Abraham. Come te, proprio te.

— No, no. Io sono soltanto un narratore arrugginito, nient’altro.

— E allora continua la storia del tuo nome, cara anima.

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