11 Il Festival Rosso

Secondo l’opinione di molti, Iperione era la più bella delle dodici regioni di Gea. Ma, a dire il vero, pochi avevano viaggiato a sufficienza per fare un vero confronto.

A ogni modo, Iperione era un bel paese: dolce, fertile, immerso in un eterno pomeriggio bucolico. Non c’erano montagne frastagliate, ma solo una grande abbondanza di fiumi. (Iperione veniva sempre considerato maschile, anche se nessuna delle regioni di Gea poteva dirsi maschio o femmina. Il loro nome derivava da quello dei titani della mitologia greca, i primi figli di Urano e Gea). C’era Ofione, largo e lento, e fangoso per gran parte del suo corso. In esso confluivano nove grandi affluenti, che prendevano il nome dalle Muse. A nord e a sud il terreno saliva gradualmente, come in tutte le regioni di Gea, fino a terminare al piede di pareti di roccia alte tre chilometri. In cima a queste pareti c’erano delle strette strisce di terra, che venivano chiamati gli Altopiani e in cui si potevano trovare piante e animali che erano sempre gli stessi, fin dall’epoca della gioventù di Gea. Più avanti, il terreno continuava a sollevarsi, e infine non era più in grado di sostenere un fondo roccioso. Laggiù cominciava a vedersi il corpo nudo di Gea, che si sollevava fino a diventare verticale e a formare un arco che copriva la terra sottostante: un arco di materia traslucida che permetteva il passaggio della luce solare. A quell’altezza, l’aria non era fredda, ma le pareti sì. Lassù il vapore si condensava sotto forma di uno spesso strato di ghiaccio. Il ghiaccio si spezzava continuamente, cadeva sulle montagne degli altopiani, si scioglieva e formava cascate che precipitavano dalle alte pareti di roccia e proseguivano infine placidamente nei Fiumi delle Muse. Alla fine, come capitava a tutte le cose, convergevano nel flusso di Ofione, che tutto univa.

La parte occidentale e quella centrale di Iperione erano coperte di fitte foreste. Per parte della sua lunghezza, Ofione era più un lago che un fiume, e diventava palude in una zona che iniziava dall’ancoraggio del cavo verticale centrale e che proseguiva in direzione nordest. Ma per gran parte della sua superficie, Iperione era una prateria: una regione di basse collinette, con cieli aperti e con quelle che sembravano le onde di un mare di graminacee color oro. La zona era chiamata Prateria dei Titanidi.

Le graminacee erano selvatiche, e così pure i titanidi. Dominavano la terra senza opprimerla, costruendo un limitatissimo numero di edifici, accontentandosi di condurre al pascolo varie razze di animali che scavavano nel terreno per succhiare il latte di Gea. Non avevano nemici che contestassero loro il possesso della terra, non avevano predatori naturali. Non era mai stato fatto un censimento del loro numero esatto, ma centomila poteva essere una buona valutazione. Se ce ne fossero stati il doppio, il territorio sarebbe stato sovraffollato. Mezzo milione, e sarebbero morti tutti di fame.

Per creare i titanidi, Gea si era ispirata agli esseri umani. Amavano i loro piccoli, che alla nascita erano già in grado di camminare e di parlare, e che perciò, rispetto ai bambini degli uomini, richiedevano molto meno tempo da parte dei genitori. I bambini dei titanidi diventavano autonomi in due anni terrestri, e in tre erano sessualmente maturi. Quando il bambino lasciava la casa, il genitore provava subito il desiderio di averne un altro.

Tutti i titanidi potevano avere figli.

Tutti i titanidi volevano averne, e il maggior mumero possibile. La mortalità infantile era bassissima, le malattie erano sconosciute. La durata della vita era molto lunga.

Una situazione simile non poteva che portare al disastro. Invece, nonostante le aspettative, la popolazione dei titanidi era stabile da settant’anni, e questo grazie al Festival Rosso.

I fiumi di Iperione, cioè Ofione e le Muse, suddividevano il territorio in otto regioni note come le Chiavi (musicali): aree amministrative approssimative, analoghe alle province delle nazioni terrestri. Le Chiavi non avevano un grande significato. Ciascuno era libero di passare dall’una all’altra. Ma i titanidi non amavano i viaggi, e tendevano a risiedere nella regione di nascita. Tra la specie dei titanidi, la divisione più importante era quella in accordi, che erano analoghi alle razze degli uomini. Come per gli uomini, si potevano incrociare tra loro gli accordi senza danno. Diversamente dagli uomini, non c’erano attriti razziali tra loro. Gli accordi riconosciuti era novantaquattro. Vivevano fianco a fianco, in tutte e otto le Chiavi di Iperione.

La Chiave che aveva l’area più vasta era quella chiusa tra i fiumi Talia, Melpomene e un’ansa meridionale di Ofione. Era la Chiave di Mi, e conteneva Titantown e la Casa del Vento. A Sud c’era la Chiave di Re Minore; a ovest Do Diesis e Fa Diesis Minore.

A venti chilometri di distanza da Titantown, nella Chiave di Mi, c’era una roccia solitaria che sorgeva tra la palude e un ampio pianoro bordato di basse colline. La roccia era chiamata Amparito Roca. Era alta 700 metri e larga circa altrettanto, aveva le pareti lisce ma scalabili, ed era giunta da una distanza indeterminata, durante la Ribellione di Oceano, molte megariv prima. L’area a forma di cratere accanto a cui si trovava era stata prodotta dalla roccia stessa, allorché era rimbalzata prima di fermarsi definitivamente, ed era nota come Grandioso.

Una volta ogni dieci chiloriv, o 420 giorni terrestri, periodo noto anche come Anno di Gea, titanidi provenienti da tutte le Chiavi di Iperione raggiungevano Amparito Roca sotto forma di chiassose, pittoresche carovane, portandosi vettovaglie sufficienti per festeggiamenti della durata di due ettoriv. A Titantown la tendopoli chiudeva baracca e i titanidi smontavano le tende, lasciando che i turisti umani si arrangiassero come meglio credevano. Tutti i titanidi prendevano parte al viaggio, ma, degli umani, solo i residenti e i pellegrini potevano assistere al grande festival.

Era la principale ricorrenza dei titanidi, Natale e Mardi Gras e Cinco de Mayo e Tet in un’unica pantagruelica festa, come se tutta la gente della Terra si fosse radunata una volta all’anno in un unico posto, per trascorrere una settimana bevendo e cantando.

Era un periodo di grande felicità e di grandi delusioni. A volte, sogni iniziati dieci chiloriv prima potevano giungere a maturazione al Festival Rosso. Ma, molto più spesso, non approdavano a niente. La folla che riempiva il cratere di Grandioso il primo giorno del Festival si riduceva presto a pochi individui, e coloro che ripartivano l’ultimo giorno cantavano e ridevano molto meno di coloro che arrivavano. Tuttavia, nessuno si lasciava mai prendere dalla disperazione. Si poteva vincere o perdere; tutto dipendeva da come girava Gea.

Il premio che si poteva vincere nel cratere di Grandioso era il diritto di avere figli.

Il Festival Rosso iniziava con l’esecuzione di una marcia, suonata dalla Prima Banda in Marcia della Chiave di Mi, forte di trecento membri. Questa volta suonavano In parata, di John Philip Sousa. Robin, appollaiata su una cengia, a cinquanta metri d’altezza sulla parete color mattone di Amparito Roca, non aveva modo di sapere che cosa la attendeva. Ascoltò le note iniziali, un assolo di tromba, assai notevole per la sua purezza, poi dovette tenersi stretta alla roccia quando tutto l’insieme attaccò, in fortissimo, tre note calanti che si persero ancor prima che potesse udirle, ma che avevano un volume e una chiarezza che erano a dir poco miracolose. L’aria tremava ancora, stupita di avere potuto contenere un simile suono, mentre le trombe ripetevano la sfacciata affermazione di prima, solo per essere di nuovo inghiottite dall’arrivo in massa degli archi, tesi questa volta allo spasimo.

La Prima Banda non aveva mai saputo cosa fossero le uniformi. E neppure cosa fossero i direttori d’orchestra. Le prime le avrebbero dato fastidio, dei secondi non aveva bisogno. Quando si trattava di musica di gruppo, composta per essere eseguita come era scritta, l’unica cosa che occorresse a un titanide era un metronomo. Il resto era già tutto sulla carta, e veniva eseguito esattamente come scritto, perfetto fin dalla prima volta. I titanidi non avevano bisogno di prove d’orchestra. Si costruivano da soli gli strumenti; dopo pochi minuti di esercizio, erano capaci di suonare qualsiasi strumento a fiato o ad arco, percussione o tastiera che incontravano, e gli strumenti da loro costruiti non erano quasi mai uguali.

Quella musica riuscì a commuovere Robin. Fu un risultato notevole, anche se la banda non poteva certo rendersene conto; Robin non aveva mai amato la musica di marcia, poiché la associava alle militaristiche esibizioni dei penisti, ai soldati e all’aggressività. Ora i titanidi le fecero capire che era anche esuberanza, e pura, sfacciata vitalità. Si strofinò i gomiti dove si era appoggiata alla roccia e si sporse in avanti, attenta a ogni nota.

Quel festival era un tipo di celebrazione che lei poteva capire. Nell’aria c’era una promesa, una vibrante eccitazione che aveva un piacevole sapore. L’aveva già captata ancor prima di giungere alla nube di polvere che contrassegnava la presenza delle colonne di titanidi in marcia verso il Festival, l’aveva avvertita anche se era ancora sconvolta dalla caduta, dall’incontro con l’angelo, dal lungo periodo in cui era rimasta inerme sulla riva di Ofione. Quando era giunta alla colonna che si recava al Festival, tutti le avevano dato il benvenuto, senza riserve. Chissà come, tutti sapevano che lei era un pellegrino, anche se la stessa Robin non era ancora certa di rientrare nella categoria. Comunque i titanidi l’avevano coperta di doni, di cibo, bevande, canti e fiori. Se l’erano presa in groppa, dove aveva dovuto farsi posto in mezzo a zaini e sacchi di cibo, e l’avevano fatta salire sui loro carri, che cigolavano e dondolavano sotto carichi enormi. Si era chiesta quale mai, nel nome della Grande Madre, potesse essere quel carico, che appesantiva a quel modo dei carri che giungevano ad avere fino a dodici ruote, e che erano tirati da squadre di titanidi composte di un numero di individui che poteva andare da due a venti.

Ora, osservando il cratere di Grandioso che si stendeva sotto di lei, le parve di capirlo. Buona parte del carico doveva essere costituito di costumi fatti di gemme. Anche quando erano nudi, i titanidi cercavano di rendersi appariscenti come caleidoscopi al neon, e questo, per un titanide, non era mai abbastanza. Anche in città, senza che ci fosse una particolare occasione, riuscivano sempre a mettersi addosso almeno un chilo di pendagli, collanine, braccialetti e campanellini vari. Dove avevano la pelle nuda, la dipingevano; dove avevano del pelo, lo tingevano, facevano treccioline, lo decoloravano. Si foravano non solo le orecchie, che erano più lunghe di quelle dei terrestri, ma anche le narici, i capezzoli, le grandi labbra e il prepuzio, e ci infilavano qualcosa che luccicasse o che brillasse. Si foravano gli zoccoli, che erano durissimi e rosso-trasparenti come rubini, e inchiodavano in essi gemme di colori contrastanti con lo sfondo. Era raro vedere un titanide non adorno di qualche fiore appena colto: lo portavano infilato nei capelli o dietro le orecchie.

Ma, a quanto pareva, quello che Robin aveva visto fino a quel momento non era niente. Perché in occasione del Festival Rosso i titanidi gettavano davvero al vento ogni ritegno e finalmente inalberavano i loro veri, sfarzosi ornamenti.

La musica raggiunse un acme di pulsazione e poi svanì, anche se continuò a echeggiare sulla roccia. A Robin pareva ingiusto lasciar morire una cosa viva come i suoni che aveva udito fino a quel momento, e infatti non li lasciarono morire. La banda attaccò Bandiera nazionale di E.E. Bagley. Da quel momento in poi, la musica non si interruppe più.

Ma, durante la brevissima pausa, Robin vide che qualcuno stava salendo fino a lei. Provò fastidio per quella che si annunciava come un’imminente interruzione, perché certo avrebbe dovuto scambiare qualche parola con la nuova venuta, che indossava camicia e calzoni verdi e stivali di cuoio consumati, mentre era salita lassù per ascoltare coscienziosamente le esecuzioni. La donna scelse quel momento per guardarla sorridendo. Il gesto pareva chiedere: "Posso unirmi a te?" e Robin annuì.

Certo, quella donna aveva una notevole agilità. Si arrampicò sulla roccia quasi senza usare le mani, mentre Robin, quando era salita, aveva impiegato quasi dieci minuti.

— Salve — disse, mettendosi a sedere accanto a Robin, con le gambe all’esterno della cengia. — Spero di non disturbare.

— Va benissimo. — Robin guardava la banda.

— In realtà, non marciano affatto — disse la donna. — La musica li agita troppo, e non riuscirebbero a tenere il passo. Se Sousa li vedesse, si metterebbe a urlare per la disperazione.

— Chi?

La donna rise. — Non farti mai sentire da un titanide. John Philip Sousa, il sesso e l’alcool sono ai primi posti della loro hit parade. E ti confesso che lo fanno piacere perfino a me, quando lo suonano come adesso.

Robin non sarebbe stata in grado di riconoscere una vera banda musicale in marcia neppure se l’avesse avuta sotto gli occhi, e la cosa le importava poco. I salti e le danze dei titanidi le andavano benissimo. Sousa doveva essere l’uomo che aveva scritto la marcia, ma anche questo aveva poca importanza. La donna però aveva detto che la musica la colpiva emotivamente, anche se lei non lo voleva, e ricordava che la stessa cosa era successa anche a lei. Voltò la testa verso la nuova venuta, per studiarla con attenzione.

La donna non era molto più alta di lei, e questo era una gradita novità. Da quando era arrivata su Gea, Robin aveva già visto troppi giganti. Vista di profilo, pareva serena e tranquilla, ma tutto il suo portamento smentiva quella sua strana aria innocente. Poteva avere solo pochi anni più di lei, ma Robin aveva l’impressione che la realtà fosse assai diversa. Il colore leggermente scuro della carnagione doveva essere frutto dell’abbronzatura. Adesso che era seduta, l’unica parte del corpo che muoveva erano gli occhi, cui non sfuggiva alcun particolare. Se pareva rilassata e senza nerbo, era solo un’illusione.

Si lasciò esaminare da Robin per un ragionevole periodo di tempo; poi mosse leggermente la testa e rivolse tutta l’attenzione su di lei. Gli occhi sorrisero prima delle labbra, ma quando queste si schiusero, Robin scorse una fila di denti bianchi e regolari. La donna le porse la mano, e Robin gliela strinse.

— Sono Gaby Plauget — disse.

— Che il sacro flusso ci… — Robin sgranò gli occhi.

— Non dirmi che la Congrega si ricorda ancora di me. Davvero? — Il sorriso si allargò, e strinse ancor di più la mano di Robin. — Tu devi essere Robin dalle Nove Dita. È tutto il giorno che ti cerco.

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