Patricia A. McKillip Una culla in fondo al mare

Capitolo primo

Nessuno sapeva con certezza dove abitasse Fiord in quell’ultimo anno, dopo che il mare s’era preso suo padre e ne aveva scaraventato sulla spiaggia la barca — povera conchiglia vuota, avvolta da un intrico di reti come in un sudario. Tornava a casa quando lo decideva lei, e se ne stava seduta al focolare di sua madre, senza parlare, volgendo uno sguardo corrucciato per la piccola stanza silenziosa, coi galleggianti di vetro trovati da suo padre — variopinte bolle di luce — ancora sull’impolverato davanzale; e la stessa coperta a scacchi ancora posata sul letto dove lui dormiva; e l’uscio aperto, nelle sere tranquille, sullo stesso scorcio del villaggio e del porto, coi pescherecci che rientravano ai sollevarsi della marea. Certe volte la madre si riscuoteva e preparava la cena; certe volte Fiord si fermava a mangiare, certe volte no. Odiava l’espressione perduta sul volto della madre, i suoi gesti stanchi. I suoi capelli cominciavano a ingrigire; non sorrideva mai, non cantava mai. Il mare, pensava Fiord, s’era preso anche sua madre, così come s’era preso suo padre: e aveva lasciato un’estranea a vagare disperatamente fra i tegami.

Quell’anno Fiord compiva quindici anni. Lavorava come sguattera alla locanda del villaggio — badava a stufe e caminetti, puliva le camere, strofinava i pavimenti e correva su e giù dalla cucina con i pasti degli avventori. Il villaggio era piccolo, povero, uno dei tanti villaggi insinuati tra le pieghe rocciose dell’isola. Questa era la più grande dell’arcipelago: sette isole sparpagliate nel tempestoso mare nordico, e governate da oltre quattrocento anni dalla stessa famiglia. Il re era solito trascorrervi l’estate, e la sua sontuosa dimora sorgeva su un picco sovrastante il porto del villaggio. Durante i mesi del suo soggiorno i ricchi dell’isola venivano a stabilirsi nella locanda per condurre i loro affari alla corte estiva o anche solo per dare un’occhiata al re, quando, in compagnia del figlio — il bruno, taciturno principe Kir — usciva a cavalcare sulle lunghe spiagge scintillanti. D’inverno la locanda tornava tranquilla, frequentata solo dai pescatori: venivano la sera, prima di rientrare nelle loro case, a bere birra e raccontarsi storie di pesca. Ma anche allora il padrone della locanda, un uomo corpulento e gioviale, s’impermaliva e dava in escandescenze se individuava la più piccola ragnatela in qualche remoto angolo del soffitto, o delle impronte di sabbia bagnata sul pavimento. Ci teneva che il suo locale fosse sempre tirato a lucido e pieno di buoni odori.

E in modo particolare sorvegliava Fiord, perché c’era in lei una certa aria di trascuratezza. Era cresciuta, senza rendersene conto, coi vestiti che le pendevano flosci in certi punti e stringevano troppo in altri. I suoi capelli, di una strana tinta tra il sabbia chiaro e il color fango, erano spesso sporchi e scarmigliati: quasi si fosse messa a testa in giù, pensava l’oste, per usarli come scopa. Qualche volta, la sera, le regalava degli avanzi: una forma di pane fresco, una dozzina di arselle, un paio di cefali. Ma non si era mai preoccupato di chiederle dove li portasse.

La madre, che aveva semplicemente smesso di pensare e passava le giornate ad ascoltare il flusso e riflusso della marea, ogni tanto si scuoteva e allungava una mano sull’aggrovigliata chioma di Fiord, mormorando: «Vai e vieni come una bestiola selvatica, bambina. Certe volte, quando alzo gli occhi, ti vedo. Certe volte no…»

Fiord sedeva muta come un pesce, e ben presto l’attenzione della madre si volgeva di nuovo all’incessante richiamo del mare.

Sua madre era stregata, pensava Fiord. Stregata dal mare.

Conosceva quella parola perché gliene aveva parlato la vecchia che fino a qualche tempo prima abitava nella capanna sulla spiaggia, dove ora Fiord s’era stabilita. Le aveva raccontato storie di incantesimi e magie; le aveva insegnato cosa fare con specchi, ciotole di latte, rami di salice sepolti al chiaro di luna, svariati tipi di nodi, acqua di mare spruzzata lungo la riva, nel sentiero del vento. Sembrava che i suoi incantesimi non funzionassero mai; come quelli di Fiord, del resto. Ma per qualche ragione lei ne era affascinata, come se annodando uno spago si potessero legare insieme due pezzi di vita, o gettare un ponte magico tra cose oscure e lontane.

La casa della vecchia era a un paio di miglia dal villaggio, addossata a uno sperone della scogliera, lontana dalla linea della marea: una capanna costruita con legname di recupero, tronchi e rifiuti gettati a riva dalle onde. Era protetta dai rigidi venti invernali grazie agli scogli e a fitte siepi di ginestroni che invadevano i campi nell’autunno e ricadevano giù dalle rocce, fino a circondarne le pareti. La vecchia si guadagnava da vivere col suo lavoro di tessitrice; spesso, da bambina, Fiord le sedeva accanto e guardava la navetta saettare nel telaio, avanti e indietro. E intanto lei le raccontava strane, meravigliose storie di un paese sotto il mare, dove le case erano fatte di perle, e dai relitti delle navi naufragate pioveva nelle acque profonde una costante polvere d’oro, come luce. Era molto, molto vecchia: occhi e capelli avevano il fragile colore argenteo della sabbia sotto la luna. Un giorno, poco tempo dopo la morte del padre di Fiord, era scomparsa, lasciando sul telaio un pezzo di stoffa incompiuta, l’uscio aperto e gli scaffali pieni di quelle strane cose che lei chiamava “fatture”.

Sera dopo sera, Fiord era andata alla capanna ad aspettare il suo ritorno. Non tornò mai. La gente del villaggio aveva fatto delle ricerche, per qualche tempo, e poi aveva smesso: «Era molto vecchia» dicevano. «È uscita a fare un giro, e si è dimenticata la strada per tornare.»

«Certe volte la vecchiaia ti riduce così» le aveva detto l’oste. «Un mattino mia nonna era uscita per farsi aggiustare la zappa: be’, è stata via tre giorni, e poi ce la siam vista tornare su un carro di passaggio. Non ci ha mai detto dov’era stata, ma la zappa era a posto.»

E Fiord, ormai abituata ad aspettare nella capanna deserta, aveva deciso di rimanerci. In ogni caso quello era un periodo molto difficile per lei: era sempre nervosa e brusca con tutti, e in quella casa non c’era nulla che le ricordasse i suoi genitori, entrambi, in un modo o nell’altro, perduti nel mare.

Poteva sedersi sul gradino, fuori dall’uscio, e ascoltare la risacca o lanciare sguardi astiosi agli spruzzi delle onde che si infrangevano contro le “guglie”, come venivano chiamati i due grandi, frastagliati picchi di roccia che emergevano dall’acqua, nel punto dove si faceva più profonda. Sembravano i pilastri di un cancello scomparso. Erano rimasti solo quelli, dell’antica scogliera che un tempo abbracciava gran parte della baia: il mare aveva continuato a rosicchiare la costa, senza tregua, spingendola sempre più indietro. E non aveva ancora finito, Fiord lo sapeva. Prima o poi avrebbe eroso anche questa spiaggia, questa scogliera, e la capanna della vecchia sarebbe stata sommersa. Non c’era nulla che potesse salvarsi dalla sua lenta, inesorabile opera di demolizione. Certe volte Fiord preparava strani miscugli con ingredienti presi dallo scaffale delle fatture, e li gettava nel mare, con la vaga speranza che potessero disturbare il suo incessante lavorio.

«Se lo detesti così tanto, il mare, perché non te ne vai?» le disse Marli un giorno.

Marli lavorava con lei alla locanda: di pochi anni più vecchia, era molto graziosa, e ogni mattina veniva al lavoro con un sorriso segreto negli occhi. Lo stesso sorriso che guizzava sul viso di un giovane pescatore, giù al porto. Marli era linda ed energica; tutto l’opposto di Carey, la terza ragazza, sempre immersa nelle fantasticherie, sempre a sognare che un giorno o l’altro il figlio del re sarebbe capitato nella locanda e si sarebbe innamorato follemente dei suoi occhi verdi, delle sue trecce di corvo. Carey era lenta, sbadata, maldestra. Quanto a Fiord, aggrediva il lavoro con ferocia, come se andasse alla guerra armata di strofinacci e secchi del carbone.

«Andarmene?» disse, vagamente, in ginocchio nell’acqua saponata.

Marli la guardava aggrottando la fronte: «Sono mesi che non ti vedo sorridere. A malapena apri bocca. Non fai altro che fissare con odio le onde, tutte le volte che passi davanti a una finestra. Potresti trasferirti all’interno, nei villaggi dei contadini. O addirittura in città. Sarà magari un’isola, questa, ma non mancano i posti dove il mare non si sente neanche.»

Fiord volse la testa di scatto, come a respingere la voce bonaria di Marli e il suono della marea incombente.

«No!» rispose seccamente, senza saper bene perché.

Carey fece una risatina: «Te la immagini Fiord in città? Con le sue sottane troppo corte e i capelli che sembrano ciuffi di alghe secche? Fiord le scoccò un’occhiata truce.»

«No» sospirò Marli. «Davvero non ce la vedo. Fiord, dovresti proprio…»

«Lasciatemi in pace!»

«Ma, ragazza mia, tu sembri…»

«So benissimo cosa sembro!» sbottò lei, anche se non ne aveva la più pallida idea.

«Chi potrebbe innamorarsi di te, con l’aspetto che ti ritrovi?» ridacchiò Carey.

L’occhiataccia di Fiord si mutò in uno sguardo così stupefatto che entrambe scoppiarono a ridere. In quel momento l’oste s’affacciò nella stanza.

«Vi voglio al lavoro nelle ore di paga» grugnì. «Nelle ore libere ridete quanto vi pare.»

«Vecchio brontolone!» sbuffò Carey.

«Ha ragione Carey» insisté Marli. «Hai due occhi così belli, Fiord! Ma nessuno può vederli, con i capelli come…»

«Non voglio che nessuno li veda!» l’interruppe Fiord. «Lasciatemi in pace, ho detto.»

Ma quella sera, alla capanna — dopo aver preparato un impasto di cocci e schegge di vetro e seghettati frammenti di conchiglie da gettare nel mare, per procurargli un’indigestione — Fiord prese dallo scaffale delle fatture un vecchio specchietto incrinato e si esaminò con una certa curiosità. Da sotto un cespo di capelli ispidi e sporchi, colse lo sguardo di due grandi occhi grigi punteggiati d’oro. A stento riconobbe la propria faccia: il naso troppo grande, le guance scavate, la bocca imbronciata. Un’estranea che abitava nel suo corpo.

«Che me ne importa» mormorò, abbassando lo specchio. Poco dopo lo riprese e si guardò un’altra volta. Tornò a posarlo, accigliata. Poi uscì dalla capanna e raggiunse una piccola macchia di ginestroni, dove la vecchia aveva scoperto un ruscello sotterraneo che serpeggiava verso il mare, e aveva scavato una buca per intrappolarlo. S’inginocchiò sul bordo del pozzo e tuffò la testa nell’acqua. Rabbrividendo rientrò nella capanna e gettò altra legna sul fuòco. E lì rimase, per oltre un’ora, a tirarsi i capelli con una spazzola fino a scioglierne tutti i nodi. A quel punto erano asciutti, ma continuò a spazzolarli, stanca e mezzo addormentata, finché le scivolarono crepitando sulle spalle, in una morbida massa striata di luce e buio. Ricordò che tanto tempo prima, quand’era piccola, la vecchia le spazzolava i capelli cantando:

Esci dal mare e vieni nel mio cuore,

mio nero, mio scintillante amore.

Prometti che nulla ci potrà separare,

mio nero, mio scintillante amore.

Fiord udì la propria voce che cantava nel silenzio. S’interruppe bruscamente, sorpresa, e udì allora il sottile, frusciante sussurro della marea che inondava la spiaggia. Strinse le labbra. Posò la spazzola e prese una pallottola di creta, trafitta di vecchi chiodi e frammenti di vetro come un puntaspilli. Spalancò l’uscio, e la luce del fuoco le guizzò davanti, scivolando sul gradino. Qualcosa, in fondo alla spiaggia, la fece indugiare sulla soglia, perplessa.

C’era una strana massa d’ombra lungo la battigia. Aggiustando gli occhi al chiarore lunare, Fiord cominciò lentamente a ricomporne i pezzi, la testa di un cavallo, nera contro lo scintillio delle onde; un lungo mantello scuro, qua e là luccicante di fili argentati, o acciaio, o perle… Non distinse nessuna faccia. Poi il misterioso cavaliere sentì il suo sguardo. D’improvviso un volto pallido, dai lineamenti confusi, si volse verso di lei, ancora immobile nella luce delle fiamme, i piedi nudi e la chioma che le fluiva leggera sulle spalle, come una nube aureolata di fuoco.

I due si fissarono a vicenda, attraverso la spiaggia. Poi il cavallo ebbe uno scarto, investito da un veloce ricciolo d’onda, e il cavaliere scostò il mantello per liberare le braccia (di nuovo quel luccichio… qualcosa di ricco, di insolito). Un colpo di redini, e il cavallo uscì dal mare, allontanandosi. Fiord richiuse la porta.

«Il re è tornato nella sua residenza estiva!» annunciò Carey, trafelata, la mattina dopo. Le ragazze erano nel ripostiglio sul retro, a infilarsi i grembiuli e a prendere secchi e scope. «Ho visto le sue navi nel porto.»

Sbadigliando, con le dita che s’impigliavano nei legacci del grembiule, Fiord mugugnò stizzosamente.

«È presto!» commentò Marli, stupita. «Siamo appena in primavera. La stagione delle piogge non è ancora finita!»

«C’è anche il principe Kir.»

«Come io sai?»

«Ho chiesto a un marinaio.» Gli occhi di Carey brillavano. Strinse il secchio tra le braccia, in preda a chissà quali fantasticherie. «Pensa a quanti bei vestiti, e gioielli, e cavalli, e giovanotti…»

«Pensa al lavoro, piuttosto…» sospirò Marli «… se restano qui finché finisce l’estate!»

«Non me ne importa!»

«Gioielli?» ripeté Fiord, mentre le tornava in mente un’ombra nera luccicante di luna.

«Ragazze, volete svegliarvi?» Impaziente, Marli afferrò il grembiule di Fiord, annodandole i legacci. «Questo posto sarà pieno zeppo, prima che venga notte!»

Già i primi stranieri erano nella locanda, a lasciare impronte di sabbia sui pavimenti, a esigere i caminetti accesi, a far confusione. Alla fine della giornata le ragazze erano troppo esauste per parlare. L’oste incontrò Fiord nel retrocucina e le diede delle ostriche da portare a casa; la studiò un attimo, inarcando le sopracciglia: «Ti sei lavata i capelli!»

Era poi così sorprendente?, si chiese Fiord, seccata, mentre infilava una viuzza del villaggio. Un momento dopo non ci pensava più. Stava scavalcando un muricciolo che dava sul cortile di Marl Grey: voleva infilargli dei sassolini aguzzi nelle tasche posteriori dei calzoni da pesca, stesi ad asciugare sul filo del bucato. Un paio di giorni prima il ragazzo l’aveva presa in giro, deridendo i suoi capelli in disordine, le sue sottane troppo corte.

«Vedremo come sarai buffo tu» borbottò tra i denti «quando ti siederai nella barca con questa roba.»

Poi andò a casa della madre. Non che l’avesse deciso di sua volontà: ci si era avviata quasi inconsciamente, passo dopo passo, attraverso il villaggio. Non voleva andarci. Odiava la casa silenziosa nell’ora in cui rientravano i pescherecci. Per quanto aguzzasse gli occhi, non avrebbe visto la barca azzurra di suo padre, che dondolava pigramente in fondo al molo, vuota, come sempre. E tuttavia Fiord sapeva che avrebbe guardato. Apri il cancello del giardinetto. Una zappa era appoggiata al muro, fra tormentate zolle di terra; già cominciavano a spuntarvi i cardi.

Entrò in casa, rovesciò le ostriche sul tavolo e sedette in silenzio accanto al fuoco. Una zuppa di pesce bolliva piano in un paiolo. Sua madre sedeva alla finestra, a scrutare il porto illuminato dal sole del tramonto. Volse la testa per un attimo, disturbata dal crepitare delle ostriche sul tavolo, ma subito la sua attenzione dileguò. Rimasero sedute a lungo, senza muoversi, senza parlare. A un certo punto la madre alzò una mano, ma subito la lasciò ricadere in grembo, sospirando. Poi si alzò a mescolare la zuppa.

«Il re è tornato» disse Fiord, bruscamente, spinta da un insolito bisogno di dire qualcosa. Inoltre, scoprì con sorpresa, voleva sentire la voce di sua madre.

«È presto» commentò lei, senza interesse.

«Stai lavorando in giardino?»

La madre si limitò a scrollare le spalle; quella zappa era tra le erbacce da mesi. Entrambe volsero di nuovo gli occhi alla finestra.

Sospeso sull’orizzonte, il sole incendiava le acque. I primi pescherecci erano già in porto; gli altri erano ancora prigionieri di quella fantastica luce d’argento. La madre sospirò piano. Il suo viso mutò, divenne delicatamente vivo, sembrò più giovane, più simile a quello che Fiord ricordava.

«È proprio come nel mio sogno…»

«Cosa?» esclamò Fiord, stupefatta.

«Ho sognato che guardavo il sole al tramonto. Poco prima che affondi dietro il banco di nebbie, quando brucia tra le nuvole e le barche sembrano navigare sulla luce… come se venissero da una terra che si può raggiungere a piedi, se solo si potesse camminare sulla superficie dell’acqua. È un paese che sta sotto il mare, ma nel mio sogno ho visto il suo riflesso, pallido e infuocato, in quella luce. E poi il sole è andato giù.»

Fiord aveva le guance rosse di rabbia: «Non c’è nessun paese!» esplose, e l’espressione segreta, sognante di sua madre svanì: il suo viso tornò ad essere quello di un’estranea. «Non c’è nessun paese magico sotto il mare! Smetti di cercarlo!»

Ma la madre si era di nuovo voltata a scrutare le onde. Fiord corse fuori e sbatté l’uscio così forte che un piccolo stormo di gabbiani, appollaiati sul tetto a godersi l’ultimo sole, si levò in volo stridendo. Alla finestra, la madre aveva di nuovo la faccia di chi dorme, e non sente altro, nei suoi sogni, che il sussurro del mare.

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