Capitolo settimo

Fiord mandò un grido. O meglio, cercò di gridare: ma aveva ancora le mani premute sulla bocca, e ne uscì un suono soffocato. Il drago-uomo sollevò la testa. La fissò come stordito, battendo le palpebre, l’acqua che gli ruscellava dai capelli. Si scrollò selvaggiamente, e riprese a fissarla. Fiord restò immobile come una delle guglie, come una roccia su cui molluschi e ricci potevano abbarbicarsi. Ma lui non la scambiò per uno scoglio; volse lentamente la testa a scrutare le stelle, le onde, la sabbia, e infine si guardò le mani.

Si toccò la bocca con le dita. E rapidamente, come se saggiasse le proprie corde vocali, disse: «Un pesce sta nella tana, due pesci filan la lana, tre pesci…» esitò. «Tre pesci… tre pesci…» sembrava spaventato, e poi addirittura disperato, come se si stesse dimenticando una formula magica essenziale per tenere in vita quel nuovo corpo. I suoi occhi tornarono su Fiord. Dopo un momento lei scostò le mani dalla bocca: si sentiva le ossa fragili come corallo secco. Il cuore le batteva disordinatamente.

«Tre pesci guardan la luna» disse. La voce sembrava provenire da qualche altra parte, dal pozzo sotto i ginestroni, forse. Le parve di varcare la soglia di un sogno, dove poteva accadere di tutto: la sua testa volar via e perdersi nella luna, le stelle marine rizzarsi sulla sabbia e danzare un minuetto…

Il terrore svanì dal volto del drago-uomo.

«Tre pesci guardan la luna, quattro pesci salgon la duna…» Era una delle filastrocche per bambini che Lyo gli aveva salmodiato quel mattino. «Cinque pesci restano a palla…» Cominciò a rabbrividire.

«A galla…» mormorò Fiord. «Cinque pesci restano a galla.»

«Sei pesci giocano a palla.»

Fiord avanzò d’un passo, sciogliendosi da quell’incantesimo che lui stava tessendo intorno a loro con la sua filastrocca: «Hai freddo!»

A quelle ignote parole il drago-uomo restò silenzioso, gli occhi sgranati. In quel momento, con la sua faccia immobile, i capelli neri d’acqua, assomigliava spaventosamente, misteriosamente a Kir.

Fiord chiuse gli occhi: improvvisamente anche lei si sentì di ghiaccio, il figlio perduto del re. Era strisciato fuori dal mare, faticosamente, aveva ritrovato il proprio corpo e la propria voce, e ora se ne stava carponi sotto le stelle, nudo come un verme, a contar pesci.

«Sette pesci entrano in stalla…» la sua voce appariva di nuovo tesa, come se il silenzio di Fiord lo sgomentasse «… otto pesci montano in sella, nove pesci…»

Fiord fece un altro passo, e lui smise di parlare. Avanzò ancora, e lui smise di respirare: irrigidito nella sabbia, la guardava avvicinarsi.

E infine lo raggiunse. Lui si accoccolò sulle ginocchia, alzando gli occhi. Raggi obliqui di luna gli illuminavano il viso: non sembrava spaventato. Quando era nel suo grande, massiccio corpo subacqueo, non poteva aver appreso la paura. La mano di Fiord si mosse automaticamente — un altro frammento di sogno — e gli sfiorò una spalla.

Al suo tocco, riprese a respirare. Aveva la pelle gelata. E ancora la scrutava, con faccia curiosa, tranquilla. Ma quando lei sollevò la mano, qualcosa gli guizzò negli occhi: e il drago posò la mano nel punto dov’era stata la sua.

Fiord rabbrividì di nuovo: come in un lampo, intuiva i complessi, misteriosi eventi che avevano imprigionato questo figlio di re dietro quei grandi occhi inumani, dentro quel corpo che aveva filamenti al posto delle dita, pinne al posto dei piedi, ed era coperto di squame, dimora per ogni crostaceo di passaggio. «Laggiù in fondo al mare, nessuno ti aveva mai toccato?» bisbigliò. «Come hanno potuto… come hanno potuto fare questo a te e Kir? Cos’è che può indurre la gente a fare queste cose?»

Lui l’ascoltava così come, in mare, il drago ascoltava i pescatori: attento a ogni modulazione della voce, a ogni mutamento di tono. Avvertendo una nota più intensa, colse inaspettatamente una parola nuova.

«Kir» ripeté.

Fiord si torturava i capelli tra le mani, profondamente incerta: «Dovrei portarti dal re…» disse, e fu inorridita all’idea. «Ma come… come posso entrare neìia sua grande casa insieme a te, nel cuore della notte, e spiegargli… io, Fiord, quella che lava i pavimenti alla locanda… che tu sei il suo figlio umano e Kir il suo figlio marino… No, non posso. E non potrei comunque…» aggiunse, con enorme sollievo «… il re è andato via con Kir!… Lyo. Lyo può suggerirmi cosa fare di te!» Il drago ascoltava paziente, battendo i denti. Fiord gli mise un braccio intorno al corpo, l’aiutò ad alzarsi. «Se non altro, posso trovarti una coperta. Riesci a camminare? Non molto bene, vero? Ma non c’è da stupirsi: sei appena nato.»

Lo condusse alla capanna, l’avvolse in una vecchia trapunta e riattizzò il fuoco sotto un paiolo di zuppa d’ostriche. La luce delle fiamme gli balzò sul viso, riempiendolo di stupore. Aveva i capelli d’oro come la catena del drago e gli occhi azzurri, sotto sopracciglia bionde. Come Kir, era alto, snello, ampio di spalle; come il drago, era in costante movimento. Continuò a camminare avanti e indietro per la stanza, mordicchiando una fetta di pane. Si bruciò le dita sul fuoco, si punse con un ago, sussultò a vedersi nello specchio, inciampò in un lembo della coperta, e lasciò cadere tutto quel che prendeva in mano, compreso il pane e la ciotola di zuppa. Fiord lo convinse a sedersi, alla fine, gli strinse le dita intorno ad un cucchiaio, e gl’insegnò a mangiare. Il suo primo boccone di zuppa — latte caldo, ostriche, burro fuso, sale, pepe — parve meravigliarlo enormemente; davanti alla sua espressione stupefatta, Fiord scoppiò a ridere. Un sorriso di risposta gii guizzò sul viso, riflettendo il sorriso di Fiord. Era un sorriso sorprendentemente diverso da quello di Kir: gaio e dolce, e privo di ogni amarezza. Fiord rimase a fissarlo, silenziosa, dimenticando di mangiare. Lui aspettava, allarmato dal suo silenzio, ma curioso e paziente com’era stato il drago, quando affiorava dalle onde e protendeva il suo corpo massiccio fra le barche dei pescatori, per ascoltarli.

«Mi chiedo se tu abbia mai avuto un nome» bisbigliò infine Fiord. «Mi chiedo come ti chiamava tua madre, prima di morire. Devi assomigliarle molto. Mi chiedo se in fondo al mare ti abbiano mai tolto la catena, ti abbiano mai fatto riprendere la tua forma d’uomo… Mi chiedo se ti abbiano mai insegnato qualcosa, foss’anche un semplice “sì” e “no”.»

«Sì e no» ripeté il drago, prontamente. «Buio e luce, sole e luna, giorno e notte; dentro e fuori van pel mondo, zitti zitti in girotondo.»

«Oppure ti han tenuto in catene fin dal giorno che sei stato sottratto alla tua culla? È davvero la prima volta che torni ad essere umano?»

«Umano.»

«Come me. Come i pescatori.»

Era così assorto a seguire le sue parole, a scrutare ogni movimento delle sue labbra, che dimenticò di avere la ciotola: la teneva inclinata in avanti e Fiord dovette raddrizzargliela tra le mani, prima che ne rovesciasse il contenuto. Lo persuase a mangiarne qualche altro cucchiaio. Aveva gli occhi gonfi di stanchezza: la fatica di uscire dal mare doveva averlo stremato. Mangiò lentamente, la testa ciondoloni, e di colpo, posata la ciotola, ruzzolò giù dalla sedia. Fiord lo fece sdraiare su una coperta stesa accanto al fuoco: e già dormiva, quietamente, prima ancora che gli gettasse addosso un’altra coperta.

Restò a guardare la luce del fuoco che stendeva braccia protettive su di lui. “Due volte in un solo giorno” pensò “due principi sono entrati in casa mia. Uno nero, uno luminoso, uno il giorno, uno la notte…” Anche lei era esausta, e si lasciò cadere sul letto senza neppure spogliarsi.

Si svegliò nel buio, al rombare dell’alta marea; attraverso la soglia, i raggi della luna formavano una pozzanghera di luce. Sorpresa, guardò l’uscio aperto: cigolava, e d’improvviso si chiuse con un tonfo, facendola trasalire.

Vide le coperte sparpagliate davanti al focolare, vuote. Era sola. Scese dal letto e andò alla finestra: la luna inondava il mare di un bagliore lattiginoso, abbacinante. Battendo le palpebre, Fiord aguzzò lo sguardo, e infine lo vide: il drago, in un turbinio di filamenti, prendeva il sentiero argentato tra le guglie per tornare ai suoi abissi.


Quel giorno, alla locanda, lavorò come ubriaca. Carey continuava a parlare della catena d’oro e a lamentarsi di averla perduta per sempre, e le sue incessanti recriminazioni finirono per diventare, alle orecchie di Fiord, un rumore di fondo mescolato alle stridule voci dei gabbiani. Anche Marli, con tutto il suo buon senso e il suo umorismo, appariva arrabbiata.

«Come ha potuto essere così stupido?» ripeteva Carey. «Com’è possibile che uno capace di trasformare l’oro in quel che vuole, l’abbia trasformato in una dannata distesa di fiordalisi? Tutto quell’oro, Marli!… Fiord, tu eri con lui. Ti è passato per la mente che potesse fare una cosa tanto idiota?»

Fiord scosse la testa, reprimendo uno sbadiglio. Carey si piazzò davanti a lei, come ad esigere qualcosa, una parola di spiegazione, di speranza; non ricevendo nulla, fece un sospiro esasperato e si volse a fissare la finestra. «Credo proprio che scapperò via di qui» disse.

«Oh, per favore!» sospirò anche Marli. «Smettila una buona volta di blaterare su quell’oro! È sparito, finito, chiuso! Ne abbiamo fatto a meno fino adesso, no?, e se avere una vita tranquilla non ti rende felice, non credo che ci riuscirebbe la ricchezza, visto come sei fatta.»

«Ma anche a te dispiace, ammettilo.»

«D’accordo, mi dispiace. Sarebbe fantastico non dover strofinare pavimenti e ascoltare le tue lagne tutti i santi giorni. E se intendi andartene, fallo, ragazza mia, per amor del cielo, e dacci un po’ di pace!»

«Benissimo, lo farò» sbottò Carey. Fiord alzò gli occhi a fissarla: c’era in lei un atteggiamento così teso, così rigidamente freddo, che le faceva ricordare la disperazione di Kir, la sua rabbia impotente.

«Non andartene» mormorò. Carey posò su di lei il suo sguardo infelice, furibondo. «Forse tornerà. È un mago. Ha grandi poteri.»

La rabbia si dileguò dal viso di Carey. Si avvicinò a Fiord, le strappò di mano la scopa: «Sì, hai ragione. Se ha potuto trasformare l’oro in fiordalisi, perché non può ritrasformarli in oro? Può, non è vero? Se solo potessimo trovarlo, se solo potessimo chiederglielo…»

«Quei fiori saranno già finiti nelle Isole del Sud, a questo punto» obiettò Marli. «E così il mago, se ci tiene alla pelle. Li hai sentiti i pescatori, ieri, quando sono venuti qui: se avessero potuto acciuffarlo, l’avrebbero messo in un barile di birra e scaraventato in mare.»

«Ma…» insisté Carey, caparbia.

«Ma cosa?»

«La magia era reale. Era reale, Marli!» riprese ancora Carey.

Marli aggrottò la fronte, incerta. Fiord chiuse gli occhi, col pazzo desiderio di acciambellarsi sotto il tavolo e farsi una dormita; le balenò nella mente la figura del drago che solcava le onde luminose. E mentre risentiva la sua voce — sì e no, buio e luce — per un attimo afflosciò la testa sulla scopa, rialzandola poi di scatto.

«Fiordi» esclamò Marli. «Stai crollando dal sonno!»

«Scusa.»

«Cos’è che hai fatto stanotte, ragazzina? Un appuntamento con amanti fantasma?»

«Sì» disse lei, sbadigliando. Inaspettatamente, Carey scoppiò a ridere.


La capanna era vuota quando Fiord vi fece ritorno, quel pomeriggio. Seduta sul gradino del focolare, fece una frugale cena a base di pane e formaggio, e ancora prima che il sole tramontasse s’infilò a letto, con un sospiro di sollievo. Dormì profondamente, senza sognare, e riapri gli occhi nel cuore della notte, convinta che fosse già mattino. Si chiese come mai fosse ancora buio.

Udì qualcuno che si muoveva nella casa. «Kir?» domandò. «Lyo?»

Insonnolita, si guardò intorno; l’uscio era aperto e la luna pendeva sulla soglia come una lanterna. A quel punto si svegliò completamente.

Una mano le sfiorò il viso in una leggera carezza: «Uccellin che vai sul mare, che paese vuoi cercare? Vado al sol di Gibilterra. Facciamo un salto e tutti giù per terra!»

«Sei tornato!»

«Sei tornato!» ripeté il drago. Aveva già provveduto ad avvolgersi nella coperta; e ora, con un lembo, si asciugava i capelli. «Fiord!» disse, e lei ebbe un sussulto.

«Chi ti ha insegnato questo nome?»

Seppellendosi nella coperta, il drago allungò una mano sul focolare freddo. Fiord scese dal letto e accese il fuoco: le fiamme servirono a snebbiarle la mente e a scacciare le tenebre dalla stanza. «È stato Lyo!» esclamò, mentre il drago s’inginocchiava a scaldarsi. «È stato con te sul mare?»

Il drago si toccò la bocca, come a tastarvi le parole. Poi, con voce solenne, da studioso, disse: «Un Ignus Dracus, una specie di draghi che hanno origine nelle calde, luminose acque dei Mari del Sud… Oops! Scusate.»

Fiord sorrise: «È per opera sua che hai ripreso la forma umana? Se è così, non si può certo dire che il suo incantesimo abbia funzionato molto, ieri notte… Ma forse questa volta conserverai il tuo corpo d’uomo…» Appena in tempo gli tolse di mano la spazzola, che stava per gettare tra le fiamme. «Ma io non posso fare molto per te, sai: posso solo insegnarti delle parole…» esitò, come stentando lei stessa a trovare parole in grado di spiegargli quel che intendeva. «Come potrai capire quel che significano? Come potrai usarle per dirmi dove sei stato? Cosa mi potrai dire?»

«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare» sentenziò. «Dire, fare, baciare, lettera, testamento…»

Fiord si voltò a guardarlo, e il drago s’interruppe. Ma qualcosa parlava, nei suoi occhi: quando le avesse insegnato il linguaggio, dicevano i suoi occhi, lui avrebbe avuto ben altro da raccontarle che non parlare d’alghe e gamberi o snocciolare filastrocche infantili. Improvvisamente si cinse il collo tra le mani.

«Catena» disse Fiord.

«Catena.» E vide nei suoi occhi un lampo di umana sofferenza.

Gli prese le mani, avvicinandole al bagliore delle fiamme: «Questo è il fuoco.»

«Fuoco.»

Lo fece alzare, lo condusse sulla soglia: «Quelle sono le stelle. E quella è la luna.»

«Stelle. Luna.»

«Sabbia» disse ancora, indicando la spiaggia. «Mare.»

«Sabbia» ripeté lui. Fece una pausa, scrutando l’irrequieta risacca, e poi bisbigliò: «Mare.» Un’onda di fuoco gli comparve negli occhi, e Fiord si chiese se nascondesse odio o amore.

Continuò a vagare per la stanza toccando tutto quel che vedeva e ricordando gran parte delle parole che Fiord gli diceva. A un certo punto, volgendosi a guardarla con la stessa attenzione con cui esaminava il resto, le posò una mano sull’aggrovigliata massa di capelli.

«Capelli» disse lei.

«Capelli.» Si chinò a scrutarla negli occhi, e poi le studiò il naso con tale serietà da strapparle una risata. Ebbe un sussulto, e guizzò via con l’eleganza di un pesce. Poi sorrise anche lui.

«Naso.»

«Naso.»

«Occhi.»

Si avvicinò di nuovo. Anche le ciglia erano d’oro, notò Fiord, su una pelle color latte che il sole non aveva mai sfiorato.

Con un sospiro, la fanciulla cercò di staccarsi da quel suo azzurro sguardo d’estate, e richiamò la sua attenzione sul pavimento: «Piedi.»

Non rispose. Stava ciondolando dal sonno, come la notte prima. Metteva a dura prova le sue forze spingere sulla terra asciutta quel suo colossale corpo di drago, intuì Fiord. Lo fece sdraiare accanto al fuoco; e lui, prima di addormentarsi, le raccontò una storia.

«C’era una volta un re» disse, con la voce di Lyo. «Un re che aveva due figli: uno avuto da una giovane regina, sua sposa, e l’altro da una donna del mare. I due bambini nacquero nello stesso tempo, e la regina mori poco dopo aver dato alla luce il suo figlio umano: e questo venne rapito dalla culla, e al suo posto fu messo il figlio marino… Perché? Nessuno lo sa veramente: solo la donna nascosta in fondo al mare, e il re. E forse neppure il re lo sa. Perché?… Perché c’è il vento, perché c’è il mare, perché c’è tutto da imparare…» Tacque, notando l’espressione mutata sul viso di Fiord. Allungò una mano a toccare la sua, e subito s’addormentò.

Quando Fiord si svegliò, il mattino dopo, il drago non c’era più. Andò al lavoro con la mente in subbuglio: non riusciva a capire quella sua strana metamorfosi che durava solo poche ore.

Camminando lungo la spiaggia, verso la locanda, continuò a cercare segni del drago; e così fece la sera, rincasando. Lasciò la porta spalancata, perché vi entrasse la mite brezza primaverile, e si accinse a preparare la cena. Poco dopo un’ombra si disegnò sulla soglia, cadendo sulla padella dove friggevano patate e salsicce.

«Lyo!»

Il mago s’appoggiava allo stipite, sorridendo: «Continuava ad arrivarmi un odorino fantastico. Ho seguito il mio naso.»

Fiord lo vide più magro e sottile di come se lo ricordava, e si domandò che cosa e dove mangiasse. Certo non al villaggio. Levò la padella dal fuoco e gliela porse. Lyo prese una patata sfrigolante, la fece saltellare tra le dita e se la mise in bocca.

«Hmm… è così buona che dev’essere magica.»

«Lyo, dov’è il drago?»

«In m-mare» farfugliò lui, a bocca piena. Fiord gli gettò uno sguardo perplesso, giocherellando col forchettone.

«Bene, e perché, per una volta, non potresti fare un incantesimo che funziona?»

Lyo inarcò le sopracciglia, sorpreso; non disse nulla, perché stava masticando una salsiccia. «Cos’è che mi stai chiedendo?» disse poi, quando poté parlare.

«Ti chiedo perché non riesci a trasformarlo in principe per più di due o tre ore di seguito.»

«Perché non…»

«Prima trasformi l’oro in fiordalisi, poi trasformi il drago in uomo. Solo che…»

«Non sono stato io.»

«Non sei stato tu a trasformarlo?»

Lyo scosse la testa, allungando le dita a catturare un’altra salsiccia. Allora Fiord si decise a posare sul tavolo la padella, e si sedettero entrambi.

«Ma allora… chi è stato?»

Scosse di nuovo la testa. «Non ne ho idea. Non capisco. Anzi, è proprio questo che sono venuto a chiederti, in realtà.» Lyo appariva sconcertato quanto lei.

«Chiederlo… a me?»

«Volevo chiederti se sapevi come mai si fosse trasformato così di colpo. E in un momento così strano, di notte. Hai per caso visto qualcuno? Hai sentito qualcosa?»

«Ero sulla spiaggia, quand’è successo. Stavo guardando il mare… e lui se n’è uscito, semplicemente. Nessuna magia. E… paff… eccolo trasformato. È un ragazzo… oh, Lyo…» esitò, come a cercare le parole «… è così… così…»

Lyo pescò un’altra salsiccia: «Sua madre era molto bella, a quanto dicono.»

«E allora perché il re amava una donna del mare? Se aveva una moglie così?»

«Be’…» Lyo masticò per qualche momento, pensieroso. «Da quel che ho saputo, quasi non si conoscevano, prima di sposarsi. Mentre sospetto che da tempo il re conoscesse l’altra… la creatura del mare. Non era un semplice capriccio, credo, e lei l’amava veramente. E il re non immaginava, allora, che si sarebbe profondamente innamorato di sua moglie… Bene, si sposò e dimentico la donna del mare. Ma prima… poco prima del matrimonio, ebbero un ultimo incontro. Un incontro di troppo… Nove mesi dopo la regina morì, e il suo bambino fu portato negli abissi, e l’altro bambino… il figlio del mare… messo al posto suo, nella culla regale.»

«È triste.»

«Sì, molto triste.»

«Il drago non ha neppure un nome» Fiord si mise a bucherellare le patate con la punta del forchettone, meditando su quella storia incredibile. Lyo l’osservava, un sorriso segreto negli occhi. «Vorrei che il re e Kir tornassero. E allora…» abbassò il forchettone. «Che cosa dirà, Kir? Non ha una casa, né sulla terraferma né dentro il mare. E il drago… è umano solo per qualche ora della notte…»

«Uno strano paio di figli, per un re.»

«Lyo, devi fare qualcosa.»

«La sto facendo» si chinò di nuovo sulla padella. «Intendo finire la tua cena.»


Si distribuirono i compiti: Lyo insegnava al drago durante il giorno; e di notte, quando il drago usciva dal mare per venire alla capanna, Fiord gli faceva ripetere le parole che aveva apprese, e gliene insegnava di nuove.

Il ritmo delle sue giornate s’era fatto così singolare che le sembrava di vivere in una sorta di sogno, dove le cose si confondevano in un unico impasto. Certe volte, mentre rovesciava secchi d’acqua saponata sul pavimento della locanda, si sorprendeva a borbottare “strofinaccio”, oppure “sapone”; e continuamente le ronzavano nella testa brani di filastrocche infantili.

Una mattina Carey si presentò al lavoro con una quantità di pettegolezzi freschi freschi: «Ho saputo che il re ha portato Kir alle isole del Nord per fargli sposare la figlia di un aristocratico locale.»

Fiord era assorta a contemplare una gigantesca bolla di sapone, in cui tremava un arcobaleno. Cercò di immaginarsi Kir sposato; immaginava la sua frustrazione, il suo panico, e si sentì percorrere come da un nero soffio di vento. Poteva anche sposarsi, ma non avrebbe mai saputo amare: e ci sarebbe stato un secondo bambino, intrappolato in un mondo non suo e desideroso di un altro. E un’altra giovane donna, crudelmente tradita dal mare. La bolla scoppiò. La storia si sarebbe ripetuta, ancora e poi ancora…

«Dov’è che l’hai sentito?» chiese Marli.

«Da una delle sguattere di cucina. Stava portando la cena a dei clienti, e li ha sentiti conversare. Dicevano che Kir era irrequieto e infelice, e il re pensava che il matrimonio l’avrebbe messo tranquillo.»

«Povero Kir!» disse Marli. Sorpresa, Fiord alzò gli occhi dal caminetto che stava pulendo.

«Perché dici così?»

«Perché non c’è magia in un matrimonio del genere. Certo, se poi si amassero, sarebbe diverso. Ma è ben difficile che le teste coronate facciano matrimoni d’amore. Devono sposare il potere, o la ricchezza, o la terra…»

«Be’, quello l’ottengono, se non altro» commentò Carey, mestamente.

Marli scoppiò a ridere: «Oh, Carey! Sei impossibile!»

«È più forte di me» ribatté Carey, ostinata. «Voglio diventare ricca. Voglio l’oro di quel drago. Solo allora sarò felice.»

Fiord cenò da sola, quella sera, e s’infilò a letto subito dopo il tramonto. Il drago la ridestò dai sogni per immergerla nel ruggito del mare, col vento che sbatacchiava l’uscio.

«Padella» gli insegnò «parete, cucchiaio, pane, sale.» Quando la casa non ebbe più oggetti da nominare, passò ad insegnargli delle frasi: «Ho fame. Ho sete. Dove sei? Sono qui. Cosa stai facendo? Mescolo le cipolle in un tegame, mi pettino i capelli…» Via via che la notte passava e il drago divorava parole come gamberetti, trasformarono la lezione in un sorta di gioco.

«Cosa stai facendo?» le chiese il drago, vedendola bere.

«Bevo dell’acqua. E tu cosa stai facendo?»

Il drago andò alla porta: «Apro la porta. E tu cosa stai facendo?»

«Metto legna sul fuoco. E tu cosa stai facendo?»

«Guardo le tue conchiglie. E tu cosa stai facendo?» chiese ancora, guardandola con un’espressione così buffa che Fiord si mise a ridere.

«Saltello su e giù. E tu cosa stai facendo?»

«Cammino a te.»

«Verso di te» lo corresse.

«Cammino verso di te. E tu cosa stai facendo?»

«Saltello ancora. E tu cosa stai facendo?»

«Cammino più vicino verso a te.»

«Più vicino a te.»

«A te. Più vicino. Sempre più vicino.»

Fiord s’irrigidì, silenziosa, guardandolo venire: drago in corpo di principe, con l’oro nei capelli e la luce del fuoco che gli scivolava sul viso.

«Vengo vicino. Molto vicino. Fiord deglutì:» Molto vicino.

«Ora ti sto toccando» le mise le mani sulle spalle. E Fiord vide nei suoi occhi una tale necessità di calore che lo cinse tra le braccia. «Ti sto toccando.»

«Sì» mormorò lei, e avvertì il lungo sospiro che gli attraversava il corpo. «Mi stai toccando.»

Lo guardò addormentarsi davanti al fuoco, così innocente e smarrito, e la sua solitudine le diede un gran senso di pena. Come Kir, era legato al mare — col corpo se non col cuore — e a lei era impossibile amarlo quanto le era impossibile amare suo fratello, che aveva corpo d’uomo ma in cuore un terribile desiderio di inseguire la marea.

«Oh, Lyo!» bisbigliò. «Cosa dobbiamo fare?»

Ma nessuna risposta le venne dal mago, addormentato chissà dove.

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