Capitolo terzo

Quella notte Fiord rimase con sua madre. Era convinta che il mare, seccato dalle sue continue molestie, avesse mandato un mostro degli abissi a divorarla. La madre non le chiese perché fosse rimasta con lei, ma la presenza di Fiord sembrava stimolarla, strappandola alla sua eterna contemplazione. Prese a osservare la figlia. Di quando in quando una domanda le tremava negli occhi; pareva sul punto di parlare. Ma Fiord distoglieva lo sguardo. Benché avesse la mente piena di draghi marini inghirlandati d’oro, Fiord serbava il suo segreto, come un’ostrica la perla: non voleva ammettere che la madre potesse avere ragione, che davvero esistesse un regno di luci e ombre nascosto fra gli ondeggianti banchi di alghe, in fondo al mare.

E Kir. Prima di addormentarsi evocò nitidamente la faccia del giovane: pallida e bruna e irrequieta, spiccava contro la selvaggia vastità azzurra del mare. Quale messaggio aveva mandato? si chiedeva nel sonno. E a chi?

Le promesse di primavera non si rivelarono altro che sogni, il mattino dopo. Erano cominciate le piogge d’aprile.

Mentre raggiungeva la locanda, inzuppandosi fino al midollo, Fiord continuò a riflettere sul drago, e in quel grigiore malinconico sentì che le sue paure si andavano vìa via dileguando. Al mondo non poteva esistere una creatura così gigantesca, ne era certa; né l’oro che le cingeva il collo poteva essere reale. E se davvero avesse voluto divorarla, l’avrebbe strappata allo scoglio come un anemone, paralizzata e impotente com’era. Un altro ricordo contribuì a rinfrancarla: il mostro non aveva denti. Attraverso i fanoni delle fauci potevano passare soltanto minuscoli granchi e frammenti d’alga — era destinato a una dieta liquida, o quasi. In definitiva, concluse, non era altro che una creatura marina di passaggio, emersa a prendere una boccata d’aria; e adesso, probabilmente, stava già terrorizzando le navi nelle Isole del Sud. Ma chi mai gli aveva messo al collo quella catena?

Il pensiero del mostro continuò a ossessionarla mentre spazzava le scale e rifaceva i letti e rovesciava secchi di cenere nei bidoni, dietro la cucina. La pioggia rendeva tutti irritabili e di cattivo umore. I clienti seminavano sui pavimenti scie d’acqua e di sabbia, e non la finivano di lamentarsi per questo o quel motivo. Alcuni pescatori rientrati anzitempo — il mare era così gonfio, così rabbioso! — passavano alla locanda, trascinandovi altra acqua, altra sabbia. Alla fine della giornata Fiord si sentiva a pezzi, strapazzata come le piastrelle del pavimento, e non meno fradicia. Carey scoppiò in lacrime.

«Le mie mani!» gemette. «Sembro un vecchio gambero decrepito!»

«Non preoccuparti» sospirò Marli. «Magari troverai un vecchio e ricchissimo gambero che s’innamora di te.»

«Non succederà! Mai! Non uscirò mai da questo buco! Continuerò a fregare pavimenti fino a novant’anni, e a pulire camini e rifare letti fino al giorno della mia morte! Le uniche perle che vedrò saranno sulle dita degli altri, e non indosserò mai velluti, non dormirò mai tra lenzuola di pizzo e seta! E mai…»

Oh, per piacere, Carey! Già ho la testa che mi scoppia, non ti ci mettere anche tu!

«E mai…»

«Non indovinerete mai…» esclamò il ragazzo di Marli, Enin, affacciandosi all’uscio del ripostiglio, dove le tre appendevano i grembiuli e riponevano secchi e strofinacci. Poi vide le lacrime di Carey e arretrò nervosamente. «Oh!»

«Enin!» lo chiamò Marli. Anche lui grondava acqua; era appena rientrato in porto e indossava ancora l’incerata. Fiord tuffò strofinaccio e spazzolone in un secchio vuoto, spingendolo contro il muro; poi fece qualche piegamento per sgranchirsi le ossa. Riapparve la testa di Enin: una morbida barba bionda gli incorniciava il viso abbronzato, lucido di pioggia. Gli occhi, azzurro chiaro, apparivano tondi come monete. Carey sbatté il suo spazzolone nel secchio, irritata e lacrimosa. Enin la scrutava con cautela.

Marli sorrise, perché la faccia di Enin era la cosa più allegra che avesse visto in tutto il giorno: «Allora» domandò «che cos’è che non indovineremo mai?»

«Non indovinerete mai che cosa c’è laggiù sul mare!»

«Affascinanti sirene, immagino, in una barchetta di vimini.»

«No.» Il giovane scosse la testa. Esitò, come se non trovasse le parole. «No. È…»

«Un mostro marino?»

«Sì!» disse. Una scopa piombò sul pavimento. «Ehi, ragazze, tutto a posto, qui?… Marli, è enorme! Grande come la locanda! Se n’è venuto dritto verso le nostre barche, la mia e quella di Tull Olney… eravamo i più lontani… e ci ha guardati pescare!»

«Oh, Enin!» mormorò Marli, toccandosi la fronte.

«Rosso come il fuoco! Lo potevamo vedere benissimo, anche attraverso la nebbia e la pioggia. E c’è un’altra cosa… che non potrai mai indovinare…»

«Porta una catena d’oro intorno al collo» disse Fiord.

«Ha una catena d’oro… oro massiccio, Marli, giuro! Piantala di ridere, e ascolta!…» Di colpo smise di parlare, e Marli smise di ridere, e Carey smise di tirar su coi naso: tutti gli occhi si puntarono su Fiord.

«L’ho visto» disse lei, imbarazzata dall’improvviso silenzio. «L’ho visto, sì. Ieri. Dietro le guglie. L’oro mi accecava.»

Il lungo, lento sospiro di Carey parve un rifluire di marea: «Oro.»

«Ma cos’è?» Marli era sconcertata. «Un grande pesce? Un leone marino con un segno più chiaro sul collo?»

«No, no! Molto più grosso. Più simile a… a un drago, sì. È la cosa che più gli assomiglia. E l’oro è… oh, Marli, non ci crederesti…»

«Hai ragione, Enin. Non ci crederei» sospirò la ragazza. «Probabilmente una povera creatura marina che si è persa, con una catena d’ancora impigliata al collo, magari una catena dorata della flotta regale.»

«No.»

«No» gli fece eco Fiord. «È veramente oro. Ho visto il sole che ci si specchiava, come… come burro fuso.»

«Perché non ce ne hai parlato?» sbottò Carey.

«Perché mi spaventava» rispose Fiord, stizzosamente. «Tutto incatenato a quel modo! Come un cane. Non volevo pensare a chi poteva avergli messo quel collare. Gli anelli sono così larghi che ci si può passare attraverso con la barca.»

Cadde il silenzio. D’improvviso Carey disse: «Entra, Enin, e chiudi.»

Aveva un tono di voce così stridulo e secco che il ragazzo obbedì prontamente. Il brusio della locanda svanì dietro la porta.

«Perché?» le chiese, perplesso.

«Perché è nostro» disse lei, fieramente. «È il nostro oro. Appartiene a noi, al villaggio. Non al re, non agli ospiti estivi. A noi. Dobbiamo trovare un modo per impadronircene.»

Enin la fissava, respirando pesantemente. Marli si coprì gli occhi con le mani: «Oh, Carey!»

«Però ha ragione» disse Enin, lentamente. «Ha ragione.»

«Sarà il nostro segreto» insisté Carey.

«Sì.»

Marli si volse di scatto a prendere il mantello dall’attaccapanni e se lo gettò addosso così rapidamente che si gonfiò come una vela: «Secondo me…» disse, con voce tesa «… sarebbe meglio che tu gli dessi un’altra occhiata, a questo drago, prima di metterti a contare i tuoi pezzi d’oro. Secondo me…»

«Oh, Marli…»

«Penso che tu e Tull avete bevuto troppa birra, a colazione, e siete finiti nel punto dove il cielo tocca il mare, e avete sentito cantare nella nebbia, e le vacche marine si sono trasformate in sirene, e vascelli fantasma. Ecco dove siete stati. Altro che draghi. Altro che catene d’oro.» Spalancò bruscamente la porta. «Ho mal di testa e svengo dalla fame. L’unico oro che voglio vedere adesso è un bel boccale di birra fresca.»

«Ma… Marli…» disse Enin, correndole dietro.

Carey guardò Fiord, con occhi improvvisamente tristi: «Cos’è stato? Un sogno? Un’allucinazione?»

Fiord si passò le dita tra i capelli: «Non avevo bevuto nessuna birra, quando l’ho visto» sospirò. «Non so cosa fosse. Ma non è il nostro oro. E non vorrei certo essere sorpresa a rubarlo da chi gli ha fatto quella catena, chiunque sia.»

Rimasero entrambe in silenzio. Visioni d’oro riempivano i loro occhi, tanto oro che l’aria umida sembrava illuminarsi íutt’intorno. Poi, allungando una mano a prendere il mantello, Carey sbottò: «Sciocchezze. Chiunque sprechi tutto quell’oro per mettere in catene il suo cucciolo marino, non si accorgerà neppure che manca.»

Tornando alla capanna, Fiord tenne gli occhi ben aperti, per individuare l’eventuale ricomparsa del misterioso animale. Ma non v’erano fuochi, in quel mondo grigio, né oro: solo il mare, che si gonfiava imbronciato tra le guglie. Nubi cariche di pioggia nascondevano il sole del tramonto, e non ne trapelava il più pallido barlume. Una luce ingannevole distolse dall’acqua l’attenzione di Fiord: erano i ginestroni, che accendevano di lampi dorati la scogliera, sopra la capanna. E, tutto solo davanti alla capanna, un cavallo nero.

Il suo cavaliere, evidentemente, era dentro. Meravigliata, Fiord attraversò di corsa l’ultimo tratto di spiaggia che la separava dalla casa, notando che la metà superiore dell’uscio era aperta. Kir era appoggiato alla metà inferiore, così assorto a scrutare l’orizzonte che non si accorse di lei finché non fu quasi sulla soglia.

Volse la testa, gli occhi ancora pieni di mare, e i suoi pensieri la investirono come un’onda, rovesciandole addosso un senso pungente, selvaggio, di inquietudine e disperazione. Fiord si fermò a fissarlo, un piede sul gradino. Ma Kir stava già aprendo la porta, ed era come se il suo viso si fosse improvvisamente chiuso.

Non disse nulla. Fiord entrò in casa e si tolse il mantello, posando sul tavolo un mucchio di molluschi — erano dei pettini — che le aveva dato il locandiere. Il principe aveva acceso il fuoco, notò con sorpresa: con le sue mani regali aveva raccolto i pezzi di legna sparsi sulla spiaggia e li aveva accatastati sulla griglia del focolare. Ma evidentemente non aveva mai visto un pettine, dalla bella conchiglia a forma di pinna raggiata.

«Cos’è?» domandò, giocherellando con uno dei gusci.

«La mia cena.» Fiord si avvicinò al fuoco, per strizzarsi l’acqua dai capelli. Poi, ricordando un minimo di buone maniere, aggiunse, goffamente: «Sei invitato, se ti va.»

Il giovane lasciò cadere la conchiglia: «Allora cucini, anche.»

«Devo pur mangiare» disse lei, semplicemente. Continuò a ravviarsi i capelli tra le dita, mentre Kir camminava su e giù per la stanza, dal focolare all’uscio e viceversa.

«Hai dato al mare il mio messaggio?» le chiese bruscamente. Fiord annuì, fece per parlare, ma lui s’era di nuovo allontanato; e prima che potesse rispondere aggiunse, con amarezza: «Che stupido. Sono solo un gioco da bambini, i tuoi malefici, il mio messaggio. Probabilmente se ne stanno là fuori, sul ciglio della marea, tra i detriti. Non è gettandogli delle cose che si può parlare al mare.»

Fiord corrugava la fronte, nello sforzo di capirlo. Era stupita.

«Perché volevi che il mare avesse l’anello di tuo padre?» gli chiese.

«Perché, secondo te?» replicò Kir.

«Non lo so.» Anche lei si sentiva stupida. Qualcosa nella sua voce indusse Kir a guardarla di nuovo, come se non l’avesse vista veramente quand’era entrata, fradicia di pioggia, con le mani rosse e gli occhi stanchi. Una nuova espressione gli si dipinse sul volto, e Fiord vi scorse una tale infelicità che si affrettò ad aggiungere, debolmente: «Non lo so, se il mare ha ricevuto il tuo messaggio. Ma dopo che l’ho gettato in acqua, è emersa la più grossa creatura marina che io abbia mai visto. E ha sollevato la testa a guardarmi. Intorno al collo aveva una massiccia catena d’oro…»

«Cosa?»

«Una catena. D’oro. Io…»

«Ti stai prendendo gioco di me?» l’interruppe Kir, con voce così bassa e glaciale che Fiord sentì l’impulso di avvicinarsi ancor di più alle fiamme.

Scosse la testa, ricordando la gigantesca muraglia color fuoco che sorgeva dalle onde ed eclissava il sole, e i liquidi riflessi d’oro che diffondeva tutt’intorno: «Era una specie di drago. Ma al posto delle ali aveva le pinne e lunghi filamenti simili a nastri. Era più grande di questa casa, e la catena d’oro veniva dall’acqua come se… come se cominciasse laggiù… in fondo al mare.»

Alla luce delle fiamme, la pallida faccia del giovane assunse bagliori madreperlacei. Corse alla porta; la spalancò e ne entrarono fiotti di pioggia e vento. Rimase immobile, in silenzio, gli occhi puntati sul mare vuoto oltre le guglie. Fiord, coi vestiti ancora fradici, cominciò a rabbrividire. Alla fine si mosse, per fermare quei brividi. Versò dell’acqua in un paiolo e vi gettò i molluschi, perché il bollore ne aprisse i gusci; poi appese il paiolo sul fuoco e s’inginocchiò ad aggiungere altra legna. Kir chiuse la porta e le venne vicino, lasciandosi dietro una scia d’impronte bagnate.

Lo sguardo di Fiord ne era come attratto, irresistibilmente. Sentì Kir che bisbigliava: «Tutto quell’oro per incatenare in fondo al mare un essere marino…»

«Ma perché…» disse lei. «Perché mai… Chi può…»

«Dev’esserci un modo. Dev’esserci!» bisbigliava Kir, i pugni stretti. Fiord alzò gli occhi a guardarlo.

«Per fare cosa?»

«Per andare là.»

«Là dove?»

«In quel paese… in fondo al mare.»

Fiord si alzò, mentre lui si riavvolgeva nel mantello.

«Adesso?»

«Non adesso» rispose Kir, impaziente. «Adesso devo andar via.»

«Non ti fermi a cena?»

Scosse la testa, l’attenzione già lontana da lei, rivolta alla marea della sera.

Fiord si grattò la testa con un cucchiaione, aggrottando la fronte: «Tornerai?» gli chiese improvvisamente, ansiosamente.

Kir la guardò come da una distanza remota: più lontana del sonno, sembrava, più lontana del luogo dove iniziavano le maree.

«Da dove?»

Fiord si sentì avvampare: «Qui» disse, con voce roca. «Tornerai qui?»

«Oh!» sembrava sorpreso. «Ma sì, naturalmente.»

Uscì. Fiord sentì nitrire il cavallo, e poi il tonfo degli zoccoli che s’allontanavano lungo la spiaggia, nella notte ormai incombente. Fissò la porta, cercando di immaginare la figura del giovane: nero e umido come la notte in cui galoppava, irrequieto come i gabbiani e il vento, con un cenno di spuma nel colore della pelle. Uno strano turbamento le affiorò negli occhi. Fece qualche passo, posando il piede su una delle impronte. Aveva lasciato acqua dappertutto. Poi si bloccò, trattenendo il respiro: le era parso di intravedere un’immagine, fugace, elusiva come i guizzi di luna sul mare. Una ciocca di capelli venati di grigio… una perla… un messaggio.

Sbatté le palpebre, scuotendo la testa finché quegli strani pensieri, quelle bizzarre immagini si confusero in una massa informe e senza senso, innocua. Prese la scopa e spinse le impronte verso il focolare: e qui s’offuscarono, e infine svanirono.

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