Capitolo sesto

«Oops… Scusate» fu l’unico commento del mago, e in un attimo anche lui si dileguò.

Un pescatore prese a bordo Fiord, provvedendo a rimorchiare il “Riccio”, e restò assorto in un tetro silenzio per tutto il viaggio di ritorno, fin quando ebbe ricondotto il “Riccio” al suo placido ormeggio. A quel punto sputò nell’acqua.

«Ci sono uomini nati per fare i maghi. E ci sono maghi nati per essere vermi da esca» disse, e cupamente lasciò la barca, diretto alla locanda.

Fiord legò il “Riccio” e si soffermò un momento sul molo, sentendosi come svuotata; nella testa le fluttuava un’immensa, azzurra foschia di fiordalisi. Niente più oro, e il drago scomparso…

«Fiordalisi» disse, e la sua stessa voce la fece trasalire. S’incammino verso la locanda, ma subito preferì cambiare strada: non aveva nessuna voglia di sentire i commenti di Carey in fatto di oro trasformato in fiori. C’era tutto il tempo, per quello, nei giorni futuri. Mesi, probabilmente. Ma dov’era andato il mago? si chiese.

E dov’erano spariti il drago e l’oro? Là dove finivano i sentieri di luce sul mare? Ne! paese celato sotto le onde? O in quel remoto paese chiamato memoria?

Sospirò. Nel chiaro, ventoso pomeriggio, ecco fuggita tutta la magia, proprio quando cominciava a credere che esistesse. E ora un brusio di voci le raggiunse l’orecchio, attraverso le acque del porto, dal molo dov’erano attraccate le belle navi della flotta regale.

Si fermò a guardare, sorpresa. C’era un gran movimento, su una delle navi: marinai che spazzavano il ponte, fischiettando; altri che caricavano a bordo casse e bauli e gabbie di galline bianche.

Qualcun altro era in partenza.

Continuò a guardare, tormentandosi i capelli tra le dita, sentendosi pungere gli occhi: «Bene, cosa ti aspettavi?» si disse, con voce così bassa e gonfia che non sembrava appartenerle. «Un cavallo che torna senza cavaliere, un principe che se ne arriva mezzo annegato… anche il più distratto dei padri non potrebbe fare a meno di notarle, quelle cose.»

Distolse gli occhi dalla nave e stancamente si trascinò via dal porto. A lungo vagabondò per le strade, fra i suoni pomeridiani del villaggio: cicalecci di donne attraverso i muriccioli degli orti, giochi di bambini tra gli alberi, grida, richiami. Il suo vagare la condusse, come sempre, al cancelletto di casa. C’era ancora la zappa, ritta fra le erbacce. Si fermò a guardarla, accigliata. Dov’erano i solchi, dov’erano le semenze per la primavera? Sua madre doveva pur nutrirsi.

Ignorando la faccia che appariva pallida e trasognata dietro i vetri, Fiord afferrò la zappa e attaccò le zolle ammorbidite dalla pioggia.

Diverse ore dopo, seduta sul muretto, esaminava il suo lavoro. Era sporca, sudata, le dolevano tutti i muscoli; aveva strisce di fango fin sui capelli. Ad un lato dell’orto si ammucchiava una grossa catasta di erbacce; e la terra smossa era pronta a ricevere patate, cavoli, carote, zucche. Il sole s’abbassava alle sue spalle, riempiendo l’orto di una luce pastosa, e la brezza marina le rinfrescava il viso accaldato. Per qualche tempo ignorò il mare, ma poi si arrese e si voltò. Le barche rientravano al porto, avanzando su una lunga striscia di fuoco d’argento.

Il cuore le doleva di nuovo, acutamente. Avvertì un tocco leggero sulla spalla: sua madre, in piedi dietro di lei. Rimasero ferme, in silenzio, l’arruffata testa di Fiord adagiata sulla spalla della madre. Il mare aveva attirato entrambe nel suo sogno, pensava Fiord, e forse non c’era modo di uscirne: prigioniere per sempre, all’inseguimento di un segreto che non era mai completamente reale né completamente illusorio.

«Vado.» Fiord scese dal muretto.

«Entra a mangiare, Fiord» disse la madre, sottovoce.

Lei scosse la testa: «Non ho fame. Procurati delle semenze, e verrò a piantarle.»

«Prima di andar via pensa a lavarti, per lo meno» insisté la madre, in tono più familiare.

Attingendo al barile dell’acqua piovana, Fiord riempì bacinelle su bacinelle, rovesciandosele sulla testa, sulle gambe, sulle braccia, finché fu perfettamente pulita. Poi, scrollandosi i capelli fradici, scivolò via attraverso il villaggio, diretta alla spiaggia.

Seguì la linea della risacca, senza mai guardare il mare tranne una volta: alzò gli occhi sulla luce accecante che affondava dietro le guglie, spargendo una pioggia d’oro sulle acque vuote. Riabbassò la testa, arrancando nella sabbia verso la capanna. Apri l’uscio e trovò Kir, seduto su uno sgabello coi piedi sul davanzale, che osservava il tramonto.

Vedendola ferma sulla soglia le andò incontro. Senza parlare, le mise le braccia intorno alle spalle; dopo un momento, le mani di Fiord salirono timide a toccargli la schiena. Chiuse gli occhi, e sentì che le carezzava i capelli.

«Sei bagnata tu, questa volta» commentò Kir.

«Ho lavorato nell’orto.»

«Oh!» Trasse un lungo sospiro; si sciolse dall’abbraccio, fissandola col suo strano sguardo, chiaro, implacabile. «Sto per partire. Sarò via qualche tempo.»

«Lo so» bisbigliò lei. «Ho visto la nave.»

«Mio padre…» s’interruppe; un muscolo gli si contraeva sulla mascella. «Mio padre mi porta in visita da certi nobili, nelle Isole del Nord. Hanno una figlia.»

«Oh.»

«Tornerò.»

«Sei sicuro?»

Gli occhi di Kir lasciarono il suo viso, rivolti all’ultimo tremolante sentiero di luce che ancora attraversava il mare. «Tornerò. E tu lo sai, perché» mormorò. «Lo sai.» Le sfiorò la bocca con le labbra: erano fredde, e tuttavia Fiord sapeva che le stava dando proprio tutto il suo calore. «Se potessi amare qualcuno, amerei te. solo te» aggiunse, in un bisbiglio. La vide sorridere. «Lo trovi così strano?»

«Se tu potessi amare non sceglieresti me» disse lei, con la sensazione di compiere un passo enorme, un passo che l’allontanava da se stessa, dalla sua semplice vita, proiettandola in un mondo infinitamente complesso.

Si sedette, sfinita, e subito rimpianse di non averlo più accanto a lei. In silenzio, Kir camminava su e giù per la stanza, guardando fuori. Poi si fermò alle sue spalle, si chinò ad abbracciarla, stringendola forte, la testa sepolta fra i suoi capelli.

Fiord gli prese le mani, se le portò al viso. Disse: «Promettimelo.»

«Cosa?»

«Abbi cura di te, dovunque tu vada. Non annegare.»

«No. Non volevo annegare, quella notte. Nuotavo oltre le guglie, cercando di seguire la luce: ma più nuotavo, più mi sfuggiva, si allontanava da me. L’ho seguita finché è scomparsa, e mi sono trovato solo in quelle acque profonde, nel mare sempre più buio. Penso… penso che per la prima volta, quella notte, mio padre… ha avuto il sospetto di quale figlio io sia. L’ho visto guardarmi con occhi diversi. Occhi che per un momento mi hanno visto davvero. Ma rifiuta di crederci» tacque. Fiord gli sentiva battere il cuore. «Quella notte tu mi hai tirato fuori dall’acqua… prima di quella notte non avevo mai pianto. Nemmeno da piccolo. Mai vere lacrime. Tu mi hai fatto ricordare che per metà sono umano.» S’inginocchiò davanti allo sgabello dove lei sedeva, le prese le mani e se le portò alla bocca.

Fiord chiuse gli occhi, con un sospiro: un istinto irresistibile, disperato, la spingeva verso di lui.

Kir era alla finestra, a guardare i riflessi della marea. Fiord rimase seduta ad osservarlo, confusa. Emozioni ancora incerte salivano dentro di lei — amore, paura, senso di abbandono — ma prima di poterle sentire compiutamente, Kir la guardò di nuovo. «Tu mi conosci» dicevano i suoi occhi. «Tu sai chi sono.» Niente di meno. Niente di più.

Finalmente Fiord si alzò, apri l’armadio, prese una forma di pane, il burro, un coltello. «Sono fortunata» disse, e si sentì tremare la voce.

«Perché?»

Si volse a guardarlo, i capelli neri contro il crepuscolo, gii occhi di un azzurro più cupo del crepuscolo. «Che tu abbia preso solo per metà da tua madre» bisbigliò. «Perché sarebbe molto difficile dire di no al mare.»

I suoi occhi mutarono, non più occhi di mare. Lasciò la finestra, avvicinandosi a Fiord, le tolse il coltello, le prese la mano, se l’appoggiò alla guancia:

«Sì» disse, con voce roca «sei fortunata. Perché io emergerei dalla marea portandoti in dono perle e coralli, e non avrei pace finché non conquistassi il tuo cuore, e quello lo porterei via con me, e ti lascerei così come sono io adesso, immobile su una spiaggia nuda, a piangere per quel che il mare si è preso, sapendo di non poterlo riavere se non in un unico modo.» Le lasciò la mano e le diede un rapido bacio sulla guancia, senza lasciarle vedere gli occhi. «Devo andare. Salperemo al sollevarsi della marea. Tornerò.»

Uscì. Improvvisamente la casa parve troppo silenziosa, troppo vuota. Fiord si sedette al tavolo, occhi spalancati, corpo immobile, a sentire Kir, passo dopo passo, che le portava via il cuore.


Qualche ora dopo, in piedi sulla soglia, guardava la luna nei suo lento vagare in un cielo indaco, guardava il continuo spezzarsi e ricomporsi del sentiero di luce sull’acqua: la strada verso i sogni, verso le isole d’estate. Ascoltava il respiro del mare e udiva, nella memoria, il respiro di Kir.

«Che cosa hai fatto?» si chiese, a voce alta. «Che cosa hai fatto?» E poco dopo si rispose: «Mi sono innamorata del mare.»

«Lo immaginavo» disse una voce accanto alla soglia, e Fiord si sentì pungere la pelle come da un’infinità di aghi.

«Lyo!»

Il mago uscì dall’ombra, o smise di essere un’ombra. Sapeva di erica e salvia; il chiaro di luna indugiava ora qua ora là sulla sua figura, imprevedibilmente.

«Dove sei andato?» gli chiese Fiord, sbigottita.

«Su per la scogliera.»

«Come… come sei riuscito ad arrivarci, quando ti trovavi con me sul “Riccio”, in mare aperto?»

«Come? Il più rapidamente possibile.» Un angolo della bocca gli si incurvò in un breve, obliquo sorriso. Poi, bruscamente, il sorriso si spense. Il suo viso era una maschera pallida, sotto la luna; gli occhi, pozze d’ombra. «Più facilmente di come hai fatto tu a lasciare il mare.»

In silenzio, Fiord rinunciò a cercargli gli occhi e si sedette sul gradino, rosicchiandosi un’unghia. Annodò i capelli sulla nuca, poi li sciolse di nuovo, irrequieta. «Credevo di avere più buon senso» disse infine. «Lo sai cosa vuol dire essere innamorati?»

«Sì.»

«È come avere dentro di te uno sciame di zanzare.»

«Oh!»

«Non stanno mai ferme, e non se ne vanno… Cosa ci fai, qui? Credevo che te la fossi squagliata…»

Lyo fece una risatina: «Aspetto di essere pagato» si sedette accanto a lei; Fiord sentì le sue dita, leggere come ali di falena, sfiorarle la guancia. «Hai pianto. È una cosa terribile essere innamorati del mare.»

«Sì» bisbigliò Fiord, gli occhi che vagavano sull’acqua. Le onde si raccoglievano e s’infrangevano invisibili nel buio, spingendosi verso di lei, ritraendosi. Non erano mai silenziose, né mai parlavano… Con la coda dell’occhio guardò il mago: «Tu sai di Kir.»

«So.»

«E come? Come puoi sapere una cosa così?»

Lyo si chinò a raccogliere un luccicante sassolino e con gesto distratto lo lanciò nell’acqua: «Io ascolto» disse, enigmatico. «Se ascolti con sufficiente attenzione, cominci a sentire le cose… il dolore che si nasconde dietro il sorriso, la voce che risuona dentro il drago di fuoco, il segreto nella voce della giovane sguattera e dietro a tutti i discorsi sull’oro…»

«Oro, già» disse lei, cupamente. «Non farti vedere dai pescatori.»

«No.»

«Se non altro ci hai provato. Se non altro hai fatto vedere un po’ di magia.»

«Forse» disse Lyo, ridacchiando di nuovo. «Ma non mi aspetto certo di essere soverchiato dalla loro gratitudine… Ma non solo so trasformare l’oro in fiordalisi, so anche pensare. E ciò che penso è: «Qui c’è qualcosa che manca».»

«Cioè?»

«C’è Kir. C’è suo padre, il re. Ci sono due mogli. Supponi questo: supponi che entrambe, nello stesso periodo, abbiano concepito un figlio del re. Il figlio della regina terrena le fu rapito alla nascita e un altro bambino, un figlio del mare, messo di nascosto nella sua culla. Poi la regina è morta. Ma che ne è stato del suo vero figlio? Il fratellastro di Kir?»

In silenzio, Fiord cercò di immaginarsi un’ombra riflessa di Kir. Un brivido le serpeggiò lungo la schiena: da qualche parte, nella notte, un figlio di re vagava senza nome, erede del mondo che Kir voleva così disperatamente lasciare…

«Forse è morto.»

«Forse. Ma io penso che sia vissuto. E penso che stia tuttora vivendo, unica prova dell’amore segreto del re. Lo sospetta, Kir, che potrebbe avere un fratello?»

Fiord scosse la testa, stancamente: «Non ci ha ancora pensato. Ha appena intuito chi è lui.»

«Perché te l’ha detto?» le chiese il mago, curioso.

«Non lo so. Perché continuavo a pensare al mare, e anche lui. Perché…» la voce le morì in gola; seppellì la testa fra le braccia, soffocando un singhiozzo. «… Una sera è quasi annegato. Appena in tempo l’ho tirato fuori dalla risacca. E un’altra sera ha lasciato impronte bagnate per tutta la casa… Perché aveva bisogno di parlarne con qualcuno, e c’ero io invece della vecchia. Perché io lavoro alla locanda, e lui può andare e venire quando vuole, e nessuno si sognerebbe di cercarlo qui. Qualche settimana fa tutto quel che facevo era sfregare pavimenti. Non so come mai le cose si siano così complicate.»

«Succede a volte, quando non si fa attenzione. Mi permetterai di aiutarvi entrambi?»

«Per il momento va tutto bene. Sta partendo per conoscere la figlia di un lord.»

«Tornerà.»

«Quasi vorrei che non lo facesse. Quasi vorrei che si spingesse il più lontano possibile e non tornasse più…» Vide la faccia di Kir nell’acqua scura; sentì il tocco delle sue mani, delle sue labbra, invitarla negli abissi con baci gelati e promesse di perle e fiori marini; e lo rivide, abbandonato nella risacca, piangere e aggrapparsi a lei sulla terraferma, così come lei gli si sarebbe aggrappata nel mare.

Ricordando il suo tormento, gli occhi le si riempirono di nuove lacrime.

E Lyo ripeté gentilmente: «Mi permetterai di aiutarvi?»

«Sì» bisbigliò Fiord. «Ma fai attenzione. Bisogna sempre fare attenzione, col mare.»


E ancora lo stava guardando, il mare, molto tempo dopo che Lyo l’aveva lasciata. La luna adesso era sospesa sulle dune, regina dei pesci in un cielo fitto di stelle. La marea s’era acquetata. Lunghe, lentissime onde le sussurravano di magie nascoste in quelle tenebre: grandi isole galleggianti che scivolavano appena sotto la superficie, aguzze torri d’avorio percorse da spirali, come il corno del narvalo. Il mondo di Kir, il mondo tanto desiderato che sempre gli sfuggiva, elusivo come il chiaro di luna, come l’acqua…

«Oh!» Un nodo le pungeva la gola, le stelle si appannavano nei suoi occhi. «Vorrei che tu fossi un po’ più umano!» Cercò di scacciare le lacrime. «No» sospirò, parlando alle onde, visto che non aveva nient’altro di Kir. «No, se tu fossi umano non mi avresti mai dedicato un pensiero. Una ragazza che lavora alla locanda… non avresti neppure saputo il mio nome. Vorrei… ecco, vorrei solo che tu fossi un po’ più umano. Perché tu non continui a staccarti da me per rivolgerti al mare…»

Qualcosa si mosse nel buio. Qualcosa saliva dall’acqua, le invadeva il campo visivo fino a coprire una stella, e poi un’altra. La pelle percorsa da brividi pungenti, Fiord sgranò gli occhi: era il paese del mare che sorgeva dagli abissi? Era un’isola che vagava nella notte? Era un’onda, una nera onda colossale che ingigantiva sul ciglio della marea? No, le onde della risacca continuavano a infrangersi uniformi, serene, sulla sabbia. E quella massa di tenebre saliva, saliva… finché, dal nero profilo stagliato contro le stelle e la spuma, Fiord capì che cos’era.

Si alzò lentamente. Il drago nuotava nella risacca, più vicino alla riva di quanto l’avesse mai visto. Lyo l’aveva liberato, e tuttavia indugiava, solo nella notte, con la nostalgia dei pescatori. L’aveva forse attirato la lampada della capanna? Di colpo si ritrovò a correre attraverso la spiaggia: uno strano impulso la spingeva verso il mostro, desiderosa di vederlo più chiaramente. Eccolo inghiottire altre stelle. Dietro la sua schiena gigantesca spari una guglia, poi l’altra. Fiord continuava a correre: e poi, bruscamente, si fermò.

Il drago stava uscendo dal mare.

Dalla gola le sfuggì un gemito, ma rimase ferma, incapace di muoversi, come paralizzata. Vedeva il riflesso della luna nei suoi grandi occhi, la montagna del suo dorso, le enormi pinne laterali che lo spingevano attraverso le acque basse. «Lyo!» mormorò, ma come in un sogno, senza voce. Stava uscendo per morire, si chiese, come talvolta facevano le balene? O usciva come i leoni marini, solo per allungare il grande corpo sulla sabbia asciutta, e dormire?

Puntava diritto verso di lei: i suoi occhi fiammeggianti l’avevano vista. Fiord cominciò ad arretrare, passo dopo passo; il mostro lanciò un grido lamentoso, come una sirena da nebbia, e lei si fermò di nuovo. “Non può divorarmi” pensava freneticamente. “Potrebbe travolgermi, ma io sono più svelta. Che cosa vuole?”

Sorretto dalle grandi pinne laterali, si rizzò sull’acqua. Le onde giocavano coi suoi filamenti, li arrotolavano, li distendevano, delicati nastri di fumo. E ancora avanzava, spinta dopo spinta, finché nella risacca non rimase che l’enorme, piatta pinna caudale, e poi solo le ultime volute dei filamenti posteriori.

E infine, con un ultimo strappo, fu completamente fuori. A meno di sei metri da lei. Fiord aveva le mani premute sulla bocca, pronta a gridare, pronta a correre verso il villaggio, se lui avesse deciso di acquattarsi sulla capanna. Ma il drago afflosciò le pinne, ritrasse i filamenti: era completamente immobile, tranne il soffio di immensi respiri che gli uscivano dalle fauci.

Poi chiuse gli occhi, e scomparvero le due grandi lune scarlatte. E poi tutto scomparve.

Un giovane, nudo come un pesce, se ne stava carponi sul sentiero che il drago aveva tracciato uscendo dal mare.

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