Cordelia si svegliò lentamente, nel piacevole tepore della lussuosa coperta imbottita di piuma, e si stiracchiò. L’altra metà del letto era vuota. Toccò l’incavatura rimasta nel cuscino: vuota e fredda. Aral doveva essersi alzato in silenzio già da qualche ora. Non le importava; era bello dormire fino a tardi e risvegliarsi senza la tensione che le aveva attanagliato la mente e il corpo per tanto tempo. Quella era la terza notte di fila in cui il sonno la riposava davvero, accanto alla calda presenza del marito, entrambi finalmente liberi dall’ingombro dei tubi dell’ossigeno sulla faccia.
La loro camera da letto, all’angolo del primo piano della vecchia casa di pietra più volte rimodernata, quel mattino era fresca e silenziosa. Una delle finestre si apriva sul vasto prato verde che scendeva fino al lago, ancora immerso nei veli di nebbia che offuscavano la vista del paese sulla riva opposta. L’umidità delle mattinate invernali non la disturbava; era dolce sentirsene difesa e protetta sotto le morbide coltri. Quando si alzò a sedere, la rosea cicatrice del suo addome le inviò una fitta di dolore, ma se l’era aspettato e non la infastidì.
Droushnakovi socchiuse la porta e mise dentro la testa. — Milady? — chiamò sottovoce, ancor prima di vedere che era già sveglia. Seduta sul bordo del letto Cordelia agitò i piedi nudi avanti e indietro, per far circolare il sangue.
— Colazione — annunciò la ragazza bionda. Dal largo vassoio che aveva fra le mani si spandevano odori caldi e promettenti. Portava uno dei suoi vestiti più comodi: una gonna larga di lana grigia, ricamata a fiori, una blusa azzurra anch’essa di lana, e una camicia bianca. Il rumore dei suoi passi echeggiò solidamente sui listelli di legno mentre attraversava la stanza, poi fu smorzato dal tappeto tessuto a mano.
— Oggi ho appetito — constatò sorpresa Cordelia, annusando l’odore. — È la prima volta da tre settimane. — Tre settimane, tanto era trascorso da quella notte d’orrore in Casa Vorkosigan.
Drou sorrise e appoggiò il vassoio sul tavolo davanti alla finestra volta a est. Cordelia mise vestaglia e pantofole e fece rotta verso la tazza di caffè fumante. Drou le era venuta incontro, pronta a sostenerla con le sue mani forti, ma Cordelia non si sentiva più le ginocchia deboli come gli altri giorni. Sedette senza alcun aiuto e prese le tartine di pane caldo appena imburrato; c’era anche una caraffa dello sciroppo che i barrayarani ottenevano bollendo la resina di un albero, e il caffè espresso era un’ottima miscela di produzione locale.
— Ne vuoi una tazzina, Drou? Hai fame? — Cordelia la invitò a sedersi con un gesto. — Che ore sono?
La guardia del corpo scosse il capo. — No, grazie, milady. Ho già fatto colazione da un pezzo. Sono le undici.
Droushnakovi era stata una parte dello sfondo che lei aveva dato per scontato, sia all’ospedale che lì in quei giorni a Vorkosigan Surleau. Cordelia si scoprì a guardarla davvero per la prima volta da quando aveva ricominciato a sentirsi viva. La ragazza appariva energica e attenta come sempre, ma in lei c’era una sfumatura di tensione. Cordelia si rese conto che poteva notarlo solo perché ora si sentiva meglio; erano particolari a cui faceva caso quasi egoisticamente, perché avere intorno gente sana e di buonumore la aiutava molto a tenersi su di morale.
— Oggi mi sento meglio — disse. — Ieri ho parlato per telefono col capitano Vaagen. Pensa di aver visto un accenno di calcificazione nelle ossa del piccolo Piotr Miles. È incoraggiante, se uno sa interpretare le parole di Vaagen. Non dà false speranze, ma di quel poco che dice ci si può fidare.
Drou annuì; poi parve rendersi conto che stando in piedi non la metteva a suo agio e sedette. Si strinse nelle spalle. — Quei simulatori uterini mi sembrano così strani, così alieni.
— Non sono più strani di quello che la natura fa funzionare dentro di noi, se ci pensi bene. — Cordelia sorrise. — Io ringrazio Dio se la tecnologia ci aiuta a migliorare l’andamento naturale delle cose, riprogettandole in modo più razionale.
— Milady… lei come si è accorta d’essere incinta? Ha saltato una mensilità?
— Un periodo mestruale, vuoi dire? No, in effetti. — Ripensò a quell’estate, a quella stessa stanza calda di sole, al letto molto più disfatto di com’era adesso. Presto lei e Aral avrebbero avuto i rapporti di allora, anche se privi di quel qualcosa in più che era stato il loro obiettivo di genitori. — L’estate scorsa, mio marito e io credevamo che avremmo vissuto qui per sempre. Lui aveva chiesto di andare in pensione, io avevo dato le dimissioni… non vedevamo ostacoli. Io stavo uscendo dall’età migliore per partorire con il metodo organico, che sembra l’unico conosciuto su Barrayar, e volevamo cominciare subito. Così, un paio di settimane dopo il matrimonio, mi feci togliere l’impianto contraccettivo. Per un poco mi sentii quasi in colpa. A casa mia non avrei potuto levarmelo senza un permesso governativo.
— Sul serio? — Drou la ascoltava a bocca aperta, affascinata.
— Sicuro. È obbligatorio, per la legge betana. E prima di toglierlo occorre prendere la licenza di genitori qualificati. Io portavo l’impianto fin dai quattordici anni di età. Ho avuto un periodo mestruale a quell’epoca, ricordo. L’impianto inibisce le mestruazioni finché non ce n’è di nuovo bisogno. Così anch’io ebbi il mio, e mi fu tagliato l’imene, e potei forarmi gli orecchi per mettere gli orecchini. Quella sera ci fu una festicciola in mio onore…
— Ma lei ha… cioè, cominciato a fare del sesso a quattordici anni, allora? — domandò Droushnakovi, arrossendo leggermente.
— Avrei potuto. Ma bisogna essere in due, come sai. Non ho trovato un vero amante che alquanto più tardi. — Cordelia aveva un po’ di vergogna a rivelare quanto più tardi. A quell’età era poco propensa alle relazioni sociali. E non sei cambiata molto, si disse, con un filo d’asprezza.
— Non credevo che sarei rimasta incinta così presto — continuò. — Pensavo che ci aspettassero diversi mesi di esperimenti abbastanza, uh, piacevoli. Ma invece è successo al primo tentativo. Così non ho fatto in tempo ad avere neppure una mestruazione, qui su Barrayar.
— Al primo tentativo — le fece eco Drou. Si mordicchiò pensosamente un labbro. — E come si è accorta di… esserlo? Aveva un senso di nausea allo stomaco?
— Un po’ di affaticamento, prima ancora della nausea. Comunque avevo le mie strisce azzurre, e… — D’un tratto tacque, e scrutò il volto della ragazza. — Drou, sono domande accademiche oppure hai un interesse più personale nelle risposte?
Lei ebbe una smorfia angosciata. — Personale — confessò con voce rotta.
— Oh. — Cordelia si appoggiò all’indietro. — Vuoi che… credi di poterne parlare?
— Non… non lo so…
— Presumo che questo significhi sì — sospirò Cordelia. Sicuro. Proprio come giocare alla Mamma-Capitana per sessanta tecnici della Sorveglianza Astronomica Betana, anche se i problemi sentimentali e i rapporti sessuali erano cose che nessuno di loro le avrebbe scaricato in grembo. Ma viste le dannate idiozie con cui anche quel gruppo così selezionato riusciva a complicarsi l’esistenza di tanto in tanto, non c’era da meravigliarsi se una barrayarana… — Drou, tu sai che io sono felice di poterti aiutare, in ogni modo possibile.
— È stato la notte dell’attacco con la soltossina — mormorò lei, sull’orlo delle lacrime. — Non riuscivo a dormire. Sono scesa nel seminterrato, alla cucina della mensa, per mangiare qualcosa. Mentre tornavo su ho visto la luce accesa in biblioteca. C’era il tenente Koudelka. Neanche lui riusciva a dormire.
Kou, eh? Oh, bene, bene. Questo poteva essere positivo, dopotutto. Cordelia la incoraggiò con un sorriso. — Sei entrata?
— Noi… lui… lui mi ha baciato.
— Spero che questo lo abbia fatto anche tu.
— Sembra che lei lo approvi.
— È così. Siete i miei migliori amici, tu e Kou. Se soltanto vi decideste a ragionare nel modo giusto… ma continua. Suppongo che sia accaduto qualcos’altro. — A meno che Drou non fosse più ingenua di quel che lei credeva possibile.
— Noi… io… noi…
— Vi siete eccitati? — suggerì speranzosamente Cordelia.
— Sì, milady. — Drou avvampò in viso, e deglutì saliva. — Kou sembrava così felice quando… in quei momenti. E io ero felice di vederlo così, e… eccitata. Non mi importò, quando lui mi fece male.
Ah, sì, la barbarica usanza barrayarana d’introdurre una donna al sesso con la deflorazione non-anestizzata. Anche se, considerando quanto disagio comportava poi il loro metodo riproduttivo, questo inizio poteva essere un avvertimento utile. Ma Kou, dalla faccia che lei gli aveva visto in quei giorni, non sembrava affatto felice come un novello amante avrebbe dovuto essere. Cos’erano riusciti a farsi l’un l’altro, quei due? — Vai avanti.
— Mi è sembrato di vedere un movimento nel giardino posteriore, fuori dalla porta-finestra. Poi c’è stato il rumore di vetri rotti, più in alto., oh, milady! Mi sento così male! Se solo avessi fatto il mio dovere, invece di… quella cosa!
— Uhau, ragazza! Ma tu non eri in servizio. Se non fossi stata lì a fare quella cosa, avresti dovuto essere a letto. Non penserai mica che l’attentato sia andato così per colpa tua, o di Kou, vero? Anzi, se non foste stati lì, e più o meno vestiti, l’assassino sarebbe riuscito a fuggire. — E adesso non saremmo in attesa di un’altra decapitazione pubblica, o cos’altro sarà. Dio ci perdoni. Cordelia desiderò che fossero stati più presi da quel che facevano, e non avessero mai guardato fuori da quella dannata finestra. Droushnakovi aveva già fin troppe conseguenze a cui pensare, senza bisogno di arrovellarsi a morte con quelle complicazioni.
— Ma se solo…
— I «se solo…» hanno riempito l’aria come grandine, in queste ultime settimane. È l’ora di sostituirli con gli «adesso andiamo avanti», se vuoi sapere come la penso. — Cordelia si sforzò di restare sul concreto. Drou era barrayarana. Di conseguenza non aveva un impianto contraccettivo. E non sembrava che quell’idiota di Kou avesse pensato di prendere un altro genere di precauzione. Così Drou aveva trascorso le ultime tre settimane chiedendosi… — Vorresti provare una delle mie strisce azzurre? Ne ho ancora molte.
— Strisce azzurre?
— Sì. Te ne stavo accennando. Ho un pacchetto di strisce diagnostiche. Roba d’importazione; le ho comprate a Vorbarr Sultana. Basta metterne una a contatto della mucosa vaginale, e se diventa azzurra sei incinta. Io ne usato solo tre, quest’estate. — Cordelia andò ad aprire un cassetto del canterale e trovò la confezione dove l’aveva lasciata. — Ecco. — Ruppe il sigillo di una striscia e la diede alla ragazza, accennandole verso il bagno. — Vai a vedere come stanno le cose, e mettiamoci l’animo in pace.
— Si può sapere così presto?
— Fin da cinque giorni dopo il rapporto. — Cordelia alzò una mano. — Te lo giuro. Sono cose che so.
Incerta, e maneggiando la sottile striscia di carta come fosse una bomba inesplosa, Droushnakovi sparì nel bagno della camera da letto. Ne uscì pochi minuti dopo. Era scura in faccia, e aveva le spalle curve.
E adesso questo che significa? si chiese Cordelia, esasperata. — Ebbene?
— È rimasta bianca.
— Allora non sei incinta.
— Suppongo di no.
— Non riesco a capire se tu ne sia contenta o addolorata. Credimi, se vuoi fare un figlio ti conviene aspettare un paio d’anni, finché qui arriverà un po’ di tecnologia medica almeno decente. — Anche se il metodo organico era stato affascinante, per qualche giorno.
— Io non voglio… io vorrei… io non so… Kou non mi ha quasi rivolto la parola, da quella notte. Io non voglio essere incinta. Questo mi darebbe soltanto dei guai. Però penso che lui vorrebbe essere… di nuovo felice come quella sera, quando eravamo soli, e fare ancora… oh, Dio, le cose stavano andando così bene per un momento, e adesso tutto è rovinato, finito! — Drou aveva i pugni stretti e il volto contratto, pallido.
Piangi, ragazza. Lasciami tirare il fiato, almeno. Ma Droushnakovi ritrovò l’autocontrollo. — Mi scusi, milady. Non volevo far pesare tutta la mia stupidità su di lei.
Stupidità, sì, ma non stupidità unilaterale. Perché certe cose accadessero e andassero avanti occorreva un piccolo comitato di stupidi. — Sentiamo, cosa c’è che non va con Kou? Io credevo che fosse giù di morale solo perché ora soffre di colpa-da-soltossina, come tutti quanti in quella fortezza. — Da Aral e da me in giù.
— Io non lo so, milady.
— Hai cercato di capirlo col sistema radicale, cioè facendogli una domanda precisa?
— Lui si chiude, quando mi vede arrivare.
Cordelia sospirò. La sua attenzione si volse a quello che avrebbe indossato. Vestiti veri, quel giorno, non vestiti da degente. Nell’armadio di Aral c’erano anche delle cose sue, come l’uniforme della Sorveglianza Astronomica Betana, ben piegata. Incuriosita lei la tirò fuori e indossò i pantaloni. Stranamente, le andavano ancora alla perfezione; anzi erano un po’ larghi. Era stata malata. Con una smorfia aggressiva decise di tenerli addosso. S’infilò gli stivali d’ordinanza; poi scelse una camicia di lana che s’intonasse. Molto comodo. Si guardò allo specchio, controllò il suo profilo e sorrise nel vedersi snella.
— Ah, cara capitana — disse Aral, entrando in quel momento. — Ti sei alzata. Bene. — Guardò Droushnakovi. — Vedo che ci sei anche tu. Meglio ancora. Cordelia, credo di aver bisogno un momento del tuo aiuto; anzi ne sono certo. — Negli occhi di lui c’era un’espressione stranissima. Stupore, divertimento, preoccupazione? Comunque, stava cercando di apparire impassibile. Vestiva la sua solita tenuta di quand’era a Vorkosigan Surleau: i pantaloni di una vecchia uniforme e una blusa di velluto. Entrando in camera fu seguito da un Koudelka dall’aria tesa e fosca. Il giovanotto indossava una tuta nera da fatica con i gradi di tenente sul colletto e si appoggiava al suo bastone-spada. Drou indietreggiò contro il muro e incrociò le braccia sul petto.
— Il tenente Koudelka, a quanto mi riferisce lui stesso, ritiene suo dovere confessare un’infrazione commessa tempo fa. Presumo che speri di essere assolto — disse Aral.
— Questo non lo merito, signore — borbottò Koudelka. — Ma non posso più vivere con me stesso, se taccio ancora su ciò che ho fatto. — Tenne gli occhi bassi, evitando il loro sguardo. Droushnakovi lo fissava senza respirare. Aral andò a sedersi sul bordo del letto, vicino a Cordelia.
— Aggrappati bene al berretto — le mormorò con un angolo della bocca. — Questo ha colto di sorpresa anche me.
— Ahimè, io sospetto d’essere un passo più avanti di te.
— Non sarebbe la prima volta. — Vorkosigan alzò la voce. — Tenente, può procedere. Sorvoli pure sui preliminari, prego.
— Sì. — Koudelka si girò verso la ragazza bionda. — Drou… cioè, signorina Droushnakovi, è necessario che io le faccia le mie scuse. No, non proprio. Questo può sembrare volgare quanto idiota, e io non voglio sembrare volgare. Lei si aspetta giustamente qualcosa di più che semplici scuse. Merito una punizione, tutto ciò che vuole. Io ho osato sottoporla ad atti indegni.
La bocca di Droushnakovi restò aperta per almeno cinque secondi prima che la voce ne uscisse, secca e sbalordita. — Cosa?
Koudelka ebbe un fremito, ma non alzò lo sguardo. — Mi dispiace… mi scuso di… — balbettò.
— Tu! Tu, cosa? Come… come — ansimò Droushnakovi, inorridita e offesa. — Tu pensi che potresti… oh! — Era rigida, adesso, i pugni stretti, il respiro accelerato. — Tu, razza di sempliciotto! Tu, idiota! Deficiente! Tu… tu… tu… — La lingua le si bloccò. Tutto il suo corpo stava tremando. Cordelia la guardava come affascinata. Aral si passò una mano sulle labbra, pensosamente.
Droushnakovi fece tre lunghi passi verso Koudelka e con un calcio gli fece sfuggire dalle dita il bastone-spada. Lui quasi cadde, con un’esclamazione sbalordita, e mentre perdeva l’appoggio allungò vanamente una mano verso l’oggetto, che rotolò sul pavimento.
Drou lo spinse contro il muro con una spallata, torcendogli un braccio dietro la schiena e comprimendogli i nervi in un’esperta presa di lotta da professionista. Lui grugnì di dolore.
— Tu, scimunito! Atti indegni? Credi davvero che potresti mettermi le mani addosso senza il mio permesso? Oh! Se fosse così… se fosse così… se io… — Le sue parole si spezzarono in un grido oltraggiato che echeggiò dietro l’orecchio sinistro di Koudelka. Lui si contorse, con una smorfia.
— Per favore, non rompere il gomito al mio segretario, Drou. Le articolazioni nuove costano — disse Aral con calma.
— Oh! — La ragazza girò su se stessa, lasciando Koudelka. Lui vacillò e cadde in ginocchio. Con una mano sulla faccia, mordendosi le dita, la ragazza corse alla porta e uscì, sbattendola dietro di sé. Soltanto mentre si allontanava in corridoio lasciò che quel singhiozzo, aspro e doloroso, le uscisse di bocca. Cordelia sentì sbattere un’altra porta. Poi il silenzio.
— Scusa se te lo faccio notare, Kou — disse Aral dopo quella lunga pausa, — ma non credo che la tua auto-accusa reggerebbe, in tribunale.
— Non capisco. — Koudelka scosse il capo, chinandosi a raccogliere il bastone-spada; poi si tirò lentamente in piedi.
— Suppongo che il fatto di cui stiamo parlando sia quello accaduto fra voi la notte dell’attentato. È così? — domandò Cordelia.
— Sì, milady. Io ero andato in biblioteca. Non riuscivo a dormire. Ho acceso uno schermo per controllare alcune cifre. Lei è entrata. Ci siamo seduti, abbiamo parlato… e d’un tratto mi sono accorto che… be’… era la prima volta che mi succedeva, da quando ero stato colpito dal distruttore neuronico, e avevo pensato che non mi sarebbe successo per qualche anno… o mai più. E ho avuto paura. Voglio dire, paura che se non l’avessi fatto finché potevo… — Arrossì. — Così… l’ho presa, là sul divano. Senza chiederlo, senza dire una parola. E poi c’è stato quel rumore da fuori, e siamo corsi in giardino. Il giorno dopo… Drou non mi ha denunciato. Io mi aspettavo che facesse rapporto. Ma lei taceva.
— Ma se non l’hai violentata, perché si è arrabbiata a questo modo soltanto adesso? — domandò Aral.
— Era arrabbiata anche prima — disse Koudelka. — Il modo in cui mi guardava, in queste ultime tre settimane…
— Ciò che vedevi sul suo volto era paura, Kou — disse Cordelia.
— Sì. È quello che ho pensato anch’io.
— Paura d’essere incinta, non paura di te — specificò lei.
— Ah! — disse Koudelka, con voce debole.
— Non lo è, comunque. — Cordelia inarcò un sopracciglio nel sentire un altro «ah!», stavolta di sollievo. — Però è arrabbiata con te, ora. E non posso darle torto.
— Ma se non crede che io la abbia… allora perché?
— Non lo capisci? — Lei guardò Aral, accigliata. — Neppure tu riesci a capirlo?
— Be’…
— È perché l’hai appena offesa, Kou. Non allora, ma adesso, qui, in questa stanza. Ciò che hai detto ha rivelato a Drou, per la prima volta, che quella notte eri così preso da te stesso che non pensavi neppure minimamente a lei. Male, Kou. Molto male. Tu devi chiederle umilmente scusa. Lei era lì, ti ha dato se stessa nel suo ingenuo modo barrayarano, e tu hai apprezzato tanto poco ciò che stava facendo da non accorgertene neppure.
Lui rialzò la testa. — Dato se stessa? Come una carità?
— Mettersi in condizione di restare gravida io non la vedo come una possibile elemosina — borbottò Aral. — Mi sembra chiaro.
— Io non sono un… — Koudelka si girò verso la porta. — Sta dicendo che dovrei correrle dietro?
— Io le striscerei dietro, se fossi te — gli raccomandò lui. — Ma striscia in fretta. Scivola sotto la sua porta, rotolati per terra e lascia che lei ti calpesti finché non si sarà sfogata ben bene. Poi chiedile di nuovo scusa. Così, forse, potresti ancora salvare la situazione. — Aral sogghignò, senza preoccuparsi di mascherare il suo divertimento.
— E questa come la chiamerebbe? Resa senza condizioni? — esclamò Kou, indignato.
— No. La chiamerei una vittoria. — La voce di Aral si raffreddò di qualche grado. — Io ho visto battaglie fra uomini e donne finire con valorosi e solitari armistizi. Eroici cuori sepolti sotto lapidi di cecità e di egoismo. Non credo che tu voglia percorrere quella strada, se ti conosco bene.
— Lei è… milady! Lei sta ridendo di me? La smetta!
— Allora tu smettila di renderti ridicolo — disse bruscamente Cordelia. — Tira la testa fuori dalla sabbia. Cerca di pensare per sessanta secondi consecutivi a qualcuno che non sia te stesso.
— Milady. Mio Lord — disse Koudelka a denti stretti, con fredda dignità. S’inchinò e fece dietro front. Ma quando fu in corridoio, invece di andare a sinistra girò a destra, nella direzione opposta a quella presa da Droushnakovi, e i suoi passi s’allontanarono verso le scale.
Aral scosse il capo, con un sospiro. Poi ebbe un gesto sprezzante. — Be’, all’inferno tutti e due.
Cordelia gli poggiò una mano su un braccio. — Non dire così! Non è divertente per loro. — Il marito la fissò in silenzio, e lei, infine, si accigliò. — Santo cielo, comincio a pensare che volesse essere un violentatore. Strana ambizione. Da molto tempo andava in giro con Bothari?
Quella battuta non molto allegra li rese seri entrambi. Aral si fece pensieroso. — Credo che Kou abbia cercato di cullare il proprio ego in modo poco ortodosso. Però il suo rimorso era sincero.
— Sincero, ma un tantino distorto. Secondo me, il suo ego lo abbiamo cullato fin troppo. Forse è l’ora di mollargli un buon calcio nella coda.
Le spalle di Aral s’incurvarono. — Lui la desidera, mi sembra evidente. E tuttavia, cosa gli potrei dire? È inutile chiedere a qualcuno di comprare qualcosa se non è disposto a pagare il prezzo che costa.
Lei borbottò un assenso.
Soltanto all’ora di pranzo Cordelia notò che dal loro piccolo mondo mancava qualcosa.
— Dov’è il Conte? — domandò ad Aral mentre sedevano nella saletta dalla parte del lago, dove il maggiordomo aveva apparecchiato. Il tempo stava peggiorando. La nebbia mattutina s’era alzata solo per unirsi a una coltre di nuvole grigie, e dalle montagne soffiava un vento freddo. Cordelia aveva indossato una giacca sportiva del marito sopra il maglione di lana a fiori.
— Credevo che fosse alla scuderia, per l’addestramento del cavallo che intende presentare a quel concorso ippico — rispose lui con gli occhi fissi sul tavolo, a disagio. — Almeno, questo è ciò che mi ha detto.
Il maggiordomo, che stava servendo il consommé, disse: — No, mio Lord. È uscito questa mattina presto con una vettura da superficie e due armieri di scorta.
— Ah. Scusami — mormorò lui a Cordelia. Si alzò da tavola e uscì in corridoio. In uno dei magazzini sul retro dell’edificio era stato sistemato un impianto per le comunicazioni codificate via satellite, con un uomo di guardia all’esterno sui tre turni. I passi di Aral si allontanarono in quella direzione.
Cordelia assaggiò la minestra, che le scivolò in gola come piombo fuso. Depose il cucchiaio, bevve un sorso d’acqua e attese. Nel silenzio della casa poteva udire la voce del marito e un’altra, fortemente accentata, che gli rispondeva via radio, ma non riuscì a distinguere le parole. Dopo quella che le era parsa una piccola eternità — ma il brodo era ancora caldo — Aral fece ritorno e sedette, con espressione illeggibile.
— È andato alla capitale? — lo interrogò lei. — All’Ospedale Militare Imperiale?
— Sì. È stato là e se n’è andato. Va tutto bene. — Aral aveva i denti stretti.
— Vuoi dire che il bambino sta bene?
— Sì. Gli hanno negato l’ingresso; lui ha discusso un po’, infine è uscito. Nient’altro. — Aral prese il cucchiaio e mangiò in silenzio, con gli occhi sul piatto.
Il Conte rientrò poche ore più tardi. Cordelia sentì il ronzio della vettura avvicinarsi sulla strada d’accesso e girare sul lato nord della casa, dove si fermò brevemente. Ci fu il rumore di uno sportello che si richiudeva, quindi l’auto proseguì verso il garage, situato accanto alla scuderia sull’altro versante della collina. Loro due sedevano nel soggiorno del pianterreno, davanti alle nuove grandi finestre che davano sul giardino. Aral stava leggendo un dossier della Sicurezza su uno schermo portatile, ma nel sentire i passi pesanti degli stivali di suo padre che giravano sugli scalini dell’ingresso principale lo mise su «pausa» e aspettò con lei, corrugando le sopracciglia. Cordelia raddrizzò le spalle e assunse un’espressione ferma e compassata.
Il Conte Piotr entrò in soggiorno e si arrestò bruscamente un paio di passi oltre la soglia. Indossava la sua vecchia uniforme verde da generale, luccicante di gradi e di mostrine. — Ah, siete qui — disse. L’uomo in livrea che l’aveva seguito prese visione delle facce di Aral e di Cordelia e si affrettò a uscire di nuovo, senza chiedere il permesso. Il Conte Piotr non lo notò neppure; i suoi vecchi occhi grigi si fissarono su Aral.
— Tu. Tu hai osato coprirmi di vergogna in pubblico. Tendermi una trappola!
— Ti sei coperto di vergogna con le tue mani. Se non avessi preso quella strada, non avresti trovato nessuna trappola.
Il Conte si scurì ancor di più. Sul suo volto l’ira e l’imbarazzo lottavano con un’espressione di dignità oltraggiata. Erano le emozioni di chi si sente in colpa. Dubita delle sue ragioni, si disse Cordelia, con un palpito di speranza. Non spingiamolo a rinunciare al dubbio; può essere la nostra sola via d’uscita da questo labirinto.
Ma fu la dignità oltraggiata a prevalere. — Non avresti dovuto costringermi a questo passo — sbottò Piotr. — Vegliare sulla nostra eredità genetica è il compito e il dovere delle donne.
— Era dovere delle donne nell’Era dell’Isolamento — disse Aral con calma, — quando l’unica risposta al pericolo delle mutazioni genetiche era l’infanticidio. Ora ci sono altre soluzioni.
— Quanto doveva essere strano per le donne portare avanti le loro gravidanze, senza sapere se ci sarebbe stata vita o morte dopo quei nove mesi — disse Cordelia in tono leggero. Un sorso di quella coppa le era bastato per sempre, e tuttavia le donne barrayarane avevano sopportato e tirato avanti… l’incredibile non era che la loro cultura fosse così caotica, ma che non avesse deviato verso la completa follia.
— Rinunciando a controllare la tua donna, tu hai fatto un torto alla nostra famiglia — disse Piotr. — Come pensi di poter governare un pianeta, quando non riesci a governare la tua casa?
Un angolo della bocca di Aral s’incurvò leggermente. — In effetti è una donna difficile da controllare. Mi è sfuggita due volte. Che ogni volta sia tornata spontaneamente, è una cosa che ancora mi stupisce.
— Ottempera ai tuoi doveri! Verso di me come tuo Conte, se non come tuo padre. Tu sei un mio vassallo giurato. Hai scelto di ubbidire a questa donna straniera prima che a me?
— Sì, signore. — Aral lo guardò dritto negli occhi. La sua voce si abbassò in un sussurro. — Le cose stanno proprio in quest’ordine. — Piotr sbatté le palpebre. Aral continuò, aspramente: — Accantonare l’argomento dell’infanticidio per gettare sul tavolo quello della mia ubbidienza non ti aiuterà. Mi hai insegnato tu stesso le sottigliezze della retorica.
— Ai vecchi tempi avresti potuto essere decapitato per questa insolenza.
— Sì, l’attuale situazione è abbastanza peculiare. Come erede del Conte, le mie mani sono fra le tue, ma come Reggente sono io ad avere le tue mani fra le mie. Mi hai giurato ubbidienza. Ai vecchi tempi avremmo risolto questa incertezza con una piccola guerra. — Aral sorrise, o quantomeno scoprì i denti. Cordelia non poté reprimere un pensiero ironico: Soltanto per oggi: La Forza Irresistibile incontra l’Oggetto Inamovibile. Posti a sedere, cinque marchi. Bambini, mezzo biglietto.
La porta si aprì e il tenente Koudelka mise dentro la testa, nervosamente. — Signore? Scusate se vi interrompo, ma ci sono dei problemi con la console di comunicazione.
— Quali problemi, tenente? — chiese Vorkosigan, distogliendo la sua attenzione con uno sforzo. — L’intermittenza del satellite?
— L’impianto non funziona. Non si accende neppure.
— Qualche ora fa funzionava benissimo. Controlli l’energia.
— L’ho fatto, signore.
— Chiama un tecnico.
— Non posso. Non con la console di comunicazione.
— Ah, già. Chiedi al capoguardia di smontare i pannelli sul retro, e controlla se il guasto è visibile. Usa il telefono di casa per far venire un tecnico da Hassadar.
— Sì, signore. — Koudelka chiuse la porta, dopo uno sguardo perplesso alla rigidità con cui loro tre tacevano e aspettavano che uscisse.
Il Conte non ammorbidi la sua posizione. — Io diseredo quella cosa. Quell’essere, all’Ospedale Militare. Lo farò ufficialmente. Consideralo diseredato.
— Signore, questa è una minaccia non operativa. Tu puoi diseredare soltanto me. Previo permesso imperiale. E ciò ti costringerebbe a chiederlo presentando umilmente una petizione a… uh, a me. - Aral ebbe un sorriso ironico. — Naturalmente te lo concederei, stanne certo.
Un nervo si contrasse su una guancia di Piotr. Non la Forza Irresistibile e l’Oggetto Inamovibile, dopotutto, ma la Forza Irresistibile e una Palude Intransitabile. La lancia scagliata da Piotr si perse sott’acqua, e i suoi piedi annasparono nel fango. Judo mentale. Il vecchio era squilibrato, e adesso lottava con furia per rimettersi in guardia. — Pensa a Barrayar. Pensa all’esempio che stai dando.
— Oh, — sospirò Aral. — Ci ho pensato, sì. — Fece una pausa. — Tu non hai mai comandato dalle retrovie, e io neppure. Dove un Vorkosigan va, altri possono trovare motivo di seguirlo. Un po’ di… ingegneria sociale, è mia prerogativa.
— Il tuo modo di fare andrebbe bene su altri mondi, ma la società di Barrayar non può permettersi questi lussi. Riusciamo appena a sfamare i nostri poveri. Non possiamo permetterci di mantenere milioni di invalidi!
— Milioni? — Aral inarcò un sopracciglio. — Ora estrapoli da uno all’infinito. Un argomento debole, signore.
— È una questione di diritto — disse pacatamente Cordelia. — Ogni padre e ogni madre devono essere liberi di decidere se il loro fardello è sopportabile.
Piotr si volse di scatto verso di lei. — Sì, e chi pagherà per questo, eh? L’Impero. Il laboratorio di Vaagen è mantenuto dai fondi per la ricerca militare. Tutto Barrayar paga per prolungare la vita del tuo mostro.
Addolorata, Cordelia replicò: — Forse si rivelerà un investimento migliore di quel che lei crede.
Piotr sbuffò. Inclinò la testa, affondando duramente il collo fra le spalle ossute, e li fissò entrambi. — Voi siete decisi a gettare questo disonore su di me. Sulla mia casa. Io non posso convincervi, né darvi ordini… benissimo. Ma ci saranno delle conseguenze. Io non permetto che il mio nome sia dato a quell’essere. Questo posso proibirlo, per intanto.
Aral aveva le labbra strette, le nari dilatate. Non s’era mosso dalla sedia, e lo schermo portatile giaceva sulle sue mani acceso, dimenticato. Non si permise un fremito d’emozione a quelle parole. — Va bene, signore.
— Lo chiameremo Miles Naismith Vorkosigan, allora — disse Cordelia, sempre più rattristata da quella rottura. L’addome le doleva per la tensione muscolare. — Mio padre non se la prenderà a male.
— Tuo padre è morto — sbottò Piotr.
Annientato in una fiamma di plasma dieci anni prima, in un incidente nello spazio… a volte Cordelia immaginava, chiudendo gli occhi, di rivedere ancora quel fulmine di luce bianca, come se le fosse rimasto stampato sulla retina. — No, signore. Non finché io vivo e lo ricordo.
Piotr parve colpito allo stomaco da quella frase. Su Barrayar, le cerimonie per i defunti erano pregne di un’arcaica adorazione degli antenati, come se solo la memoria di chi restava tenesse in vita le loro anime. Che la sua stessa mortalità gli scorresse più fredda nelle vene, quel giorno? S’era spinto troppo avanti, e lo sapeva, ma non poteva tornare indietro. — Niente vi può convincere, è così? E sia, allora ascoltate ciò che dico. — Il vecchio si girò di nuovo a guardare Aral. — Lascerai questa casa. E anche Casa Vorkosigan, in città. Prendi con te la tua donna e vattene. Oggi stesso!
Lo sguardo di Aral parve raccogliere in un breve attimo la sua infanzia da quelle mura. Poi spense lo schermo, lo poggiò sul tavolo con cura e si alzò. — Molto bene, signore.
L’ira di Piotr era sfumata di angoscia. — Rinunci alla tua casa? Per una cosa simile arrivi a questo punto?
— La mia casa non è un luogo. È una persona, signore — disse gravemente lui. Poi aggiunse, con riluttanza: — Alcune persone.
E intendeva anche Piotr, oltre a Cordelia. Lei scosse il capo. Era di pietra, il vecchio? Perfino in quel momento Aral gli mostrava una cortesia che le faceva stringere il cuore.
— Restituirai le tue rendite e i titoli azionari ereditari alle casse del distretto — rincarò disperatamente Piotr.
— Sì, signore. Come desideri. — Aral si avviò alla porta.
Piotr si schiarì la gola. — Dove andrai a vivere?
— Da tempo Illyan insiste che mi trasferisca alla Residenza Imperiale, per motivi di sicurezza. Evon Vorhalas mi ha persuaso che ha ragione.
Cordelia s’era alzata insieme a suo marito. Andò alla finestra e lasciò vagare lo sguardo sul panorama verde e bruno. Il vento s’era placato, e al centro del lago stagnavano banchi di nebbia. L’inverno si preannunciava umido e freddo…
— Così, alla fine anche tu metti su arie imperiali — lo accusò Piotr. — Ambizione. È di questo che si tratta, vero?
Aral sogghignò amaramente, irritato. — Al contrario, signore. Se mi resta soltanto la mezza-paga di ammiraglio in congedo, non posso permettermi di affittare una casa.
Lo sguardo di Cordelia fu attratto da un movimento più in alto, fra le nuvole. Un piccolo velivolo antigravità stava scendendo di quota, con una strana curva. — Ma… quell’aereo ha qualcosa che non va — mormorò fra sé, perplessa.
Il velivolo scese ancora, avvicinandosi. Ondeggiava stranamente, e si lasciava dietro una scia di fumo scuro. D’un tratto deviò verso la tenuta. — Dio mio, viene da questa parte… e se fosse pieno di bombe?
— Cosa? — esclamarono all’unisono Piotr e Aral. I due uomini vennero alla finestra accanto a lei, il marito a destra e il suocero a sinistra.
— Ha lo stemma della Sicurezza Imperiale — disse Aral.
Piotr strinse gli occhi. Non aveva più una vista molto buona. — Ne sei certo?
Cordelia pensò che avrebbero potuto fuggire lungo il corridoio e uscire dalla terrazza posteriore. Oltre la strada c’era una buca, e forse, sdraiandosi là dentro… ma l’aereo stava rallentando, era danneggiato, e pochi istanti dopo fu chiaro che cercava di compiere un atterraggio verticale sul prato di fronte alla casa. Uomini in livrea marrone e con l’uniforme verde e nera della Sicurezza corsero fuori con le armi spianate, e mentre il piccolo velivolo toccava l’erba con un tonfo sordo lo accerchiarono cautamente. Il danno era più visibile, adesso: sulla carlinga c’era uno squarcio prodotto da un’arma a plasma, il cui raggio aveva bruciato la vernice fino ai timoni di coda, semidistrutti. Era incredibile che il pilota fosse riuscito a far manovra in quelle condizioni.
— Ma chi… — mormorò Aral.
Quando una figura si mosse dietro il parabrezza danneggiato, Piotr mandò un’esclamazione. — Sangue del demonio, è Negri!
— Dietro di lui c’è qualcuno… andiamo! — Aral corse alla porta. Cordelia e Piotr lo seguirono fuori dall’ingresso principale e lungo il prato, un po’ camminando e un po’ correndo.
Le guardie dovettero usare una vanga per sbloccare lo sportello della carlinga. Negri cadde fra le loro braccia. Lo portarono qualche metro più in là e lo deposero sull’erba. L’uomo aveva una bruciatura lunga un metro su tutto il lato sinistro del corpo, dalla coscia alla spalla. Metà dell’uniforme gli era bruciata addosso, e sotto i lembi di tessuto annerito si vedeva la carne nuda, rossa e sanguinante, ustionata in profondità. Era ancora lucido, scosso da tremiti incontrollabili.
L’altro passeggero, assicurato dalla cintura di sicurezza al sedile posteriore, era l’Imperatore Gregor. Il bambinetto stava piangendo di spavento, ma quasi in silenzio, ingoiando penosi sorsi d’aria mentre sopprimeva i singhiozzi. Una tale volontà di controllarsi, in un bambino di cinque anni, sembrò sinistra a Cordelia. Perché non gridava? Lei l’avrebbe fatto, sentiva il bisogno di farlo. Gregor indossava roba da poco prezzo, pantaloncini azzurri e un maglione con un gattino ricamato sul petto. Gli mancava una scarpa. Un uomo della Sicurezza gli slacciò la cintura e lo tirò fuori dalla carlinga. Il bambino parve non accorgersi neppure d’esser stato deposto al suolo; guardava Negri steso poco più in là, e i suoi occhi erano confusi, inespressivi, inorriditi.
Koudelka e Droushnakovi uscirono da due diverse porte dell’edificio e li raggiunsero in fretta. Appena Gregor vide la ragazza bionda partì di corsa verso di lei, dritto come una freccia, e le si aggrappò addosso. — Drou, aiuto! — gemette, come se solo allora osasse far sentire la sua voce. Lei lo prese in braccio e lo strinse a sé.
Aral s’era inginocchiato accanto al Capo della Sicurezza. — Negri, cos’è successo?
L’uomo alzò la mano non ustionata e gli afferrò il colletto della giacca. — Ha fatto un colpo di stato… alla capitale. Le sue truppe hanno preso il Quartier Generale della Sicurezza, le stazioni televisive, la centrale telefonica. Perché non rispondevate? Abbiamo… combattuto alla Residenza Imperiale. La Sicurezza… infiltrata. Traditori e spie. Stavamo… per arrestarlo e lui ha agito in preda al panico. Ha colpito troppo presto… credo che abbia Kareen…
— Lui chi? — domandò Piotr. — Negri, chi è stato?
— Vordarian.
Aral annuì cupamente. — Sì.
— Portate via… il bambino — ansimò Negri. — Ci inseguono… fra poco saranno qui. — Per qualche momento socchiuse gli occhi, col respiro rotto da sibili rauchi. D’un tratto il suo sguardo tornò ad accendersi di una luce febbrile. — Dite a Ezar che io… — Una serie di brividi violenti come convulsioni lo scossero. Poi si fermarono. Tutto di lui si fermò. Anche il respiro.