«È tutto ciò di cui ho bisogno» disse Roran, poi la prese tra le braccia e la tenne stretta a sé. Infine sospirò. «Ma vorrei che questa guerra finisse. Vorrei tornare ad arare i campi, a seminare e a mietere il raccolto quand'è maturo. A mandare avanti una fattoria c'è da spaccarsi la schiena, ma almeno è un lavoro onesto. Uccidere non è onesto. È come rubare... sì, rubiamo la vita di altri uomini, e nessuno nel pieno delle proprie facoltà dovrebbe aspirare a tanto.»
«Come ho detto io.»
«Sì, infatti.» Per quanto fosse difficile, si sforzò di sorridere. «Me n'ero dimenticato. Sto qui a gettarti addosso i miei problemi quando tu ne hai già abbastanza.» E le posò una mano sul ventre.
«I tuoi problemi sono anche i miei, almeno finché saremo sposati» mormorò Katrina, strofinandogli il viso contro il braccio.
«Certi problemi non si dovrebbero condividere con nessuno, soprattutto non con le persone che ami.»
Katrina si ritrasse di un paio di pollici e Roran si accorse che lo sguardo le si faceva cupo e assente, come capitava sempre quando rimuginava sul periodo di prigionia trascorso nell'Helgrind. «No, certi problemi non si dovrebbero condividere con nessuno.»
«Ah, non essere triste.» La strinse ancor più forte e la cullò. Desiderava con tutte le sue forze che Eragon non avesse trovato l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale. Dopo un po', quando Katrina si fu calmata e anche lui non fu più tanto teso, le accarezzò la curva del collo. «Su, baciami dolcemente e torniamo a letto, perché sono stanco e voglio dormire.»
Allora lei rise e lo baciò con tutta la tenerezza di cui era capace, poi si distesero sulla branda. Fuori dalla tenda era tutto calmo e silenzioso, tranne il fiume Jiet, che scorreva oltre l'accampamento senza mai rallentare, senza mai fermarsi, e si riversava nei sogni di Roran, che si immaginava in piedi sulla prua di una nave, con Katrina al fianco, e fissava l'Occhio del Cinghiale, il gigantesco vortice.
Quali speranze abbiamo di sopravvivere? si domandò.
♦ ♦ ♦
GLÛMRA
Centinaia di piedi sotto Tronjheim la roccia si apriva in una grotta lunghissima. Da un lato c'era un immobile lago nero dalle profondità insondabili e dall'altro una sponda di marmo. Stalattiti marrone e avorio pendevano gocciolanti dal soffitto, mentre dal fondo si ergevano stalagmiti simili a pugnali; in alcuni punti si univano a formare gonfi pilastri più imponenti dei tronchi secolari della Du Weldenvarden. Sparsi tra i pilastri c'erano mucchi di concime costellati di funghi e ventitré basse casupole di pietra. Una lanterna senza fiamma brillava incandescente accanto a ogni porta. Fatta eccezione per quella luce, regnava l'oscurità.
Dentro una di quelle casupole, Eragon prese posto su una sedia troppo piccola per lui davanti a un tavolo di granito che gli arrivava appena alle ginocchia. Il profumo di formaggio di capra morbido, funghi a fette, lievito, stufato, uova di piccione e brace pervadeva la stanza. Di fronte a lui la madre di Kvîstor, Glûmra, della Famiglia di Mord, piangeva e si strappava i capelli e si colpiva il petto. Sul viso tondo si vedevano ancora i solchi luccicanti lasciati dalle lacrime.
Erano soli. Le quattro guardie - al gruppo si era aggiunto Thrand, un guerriero della scorta di Orik - aspettavano fuori insieme a Hûndfast, l'interprete, che Eragon aveva congedato non appena aveva saputo che la nana parlava la sua lingua.
Dopo l'aggressione, Eragon aveva cercato Orik con la mente e il capoclan aveva insistito perché corresse più veloce possibile negli alloggi dell'Ingeitum, dove sarebbe stato al sicuro. Eragon aveva obbedito, mentre Orik chiedeva ai clan di riaggiornarsi l'indomani mattina poiché si era verificata un'emergenza che richiedeva la sua immediata attenzione. Poi aveva marciato con i suoi guerrieri più baldi e gli stregoni più fidati fino al luogo dell'imboscata e insieme avevano esaminato la scena sia con la magia sia con mezzi più artigianali. Soddisfatto delle informazioni raccolte, Orik era tornato di corsa nelle sue stanze e aveva detto a Eragon: "Abbiamo un sacco di cose da fare, e in pochissimo tempo, per giunta. Prima che la consulta riprenda domani alla terza ora del mattino dobbiamo tentare di stabilire oltre ogni ragionevole dubbio chi ha ordinato l'attacco. Così avremo qualcosa su cui far leva contro gli altri clan. Altrimenti, senza sapere chi sono i nostri nemici, brancoleremo nel buio. Possiamo mantenere il riserbo sulla vicenda fino a domani mattina, ma non oltre. Di sicuro i knurlan avranno sentito l'eco del combattimento nei tunnel sotto Tronjheim e so che già adesso staranno cercando la causa di tanto rumore per paura di un crollo che potrebbe minare la città in superficie." Orik aveva pestato i piedi e maledetto gli antenati dei mandanti, chiunque fossero, poi si era portato le mani ai fianchi e aveva detto: "Se prima la minaccia di una guerra tra clan era solo nell'aria, adesso è alle porte. Dobbiamo muoverci in fretta se vogliamo evitare quell'infausto destino. Abbiamo knurlan da trovare, domande da fare, minacce da lanciare, nani da corrompere e pergamene da rubare... e tutto prima di domattina."
"E io?" aveva chiesto Eragon.
"Tu devi restare qui finché non sapremo se l'Az Sweldn rak Anhûin o qualche altro clan ha un contingente più grande radunato altrove, pronto a ucciderti. Più a lungo riusciremo a tenere nascosto ai tuoi assalitori se sei vivo, morto o ferito, più dovranno guardare le rocce dove posano i piedi."
Sulle prime Eragon fu d'accordo con la proposta di Orik, ma osservando il nano indaffarato a dare ordini a destra e a manca si sentì sempre più a disagio e inutile. Alla fine l'aveva preso per un braccio e gli aveva detto: "Se devo starmene qui a fissare il muro mentre tu cerchi i colpevoli, digrignerò i denti fino a ridurli a spuntoni. Ci dev'essere qualcosa che posso fare per aiutarti. Che mi dici di Kvîstor? Qualcuno della sua famiglia abita a Tronjheim? Sono già stati avvisati della sua morte? In caso contrario, andrò io a portare loro la notizia, perché è per difendere me che è morto."
Orik aveva chiesto alle sue guardie: in effetti la famiglia di Kvîstor viveva a Tronjheim, anzi, più precisamente sotto Tronjheim. Orik si era accigliato e aveva borbottato una strana parola nella lingua dei nani. "Sono abitanti del sottosuolo" aveva risposto, "knurlan che hanno abbandonato la superficie per trasferirsi nelle profondità della terra, tranne qualche sporadica incursione di sopra. In tanti vivono laggiù, soprattutto sotto Tronjheim e il Farthen Dûr, più che altrove, perché da lì possono uscire senza sentirsi proprio fuori, all'aperto, cosa che molti non potrebbero sopportare, essendo così abituati agli spazi chiusi. Non sapevo che Kvîstor fosse uno di loro."
"Ti dispiace se vado a trovare la sua famiglia? Tra queste stanze ci sono delle scale che conducono di sotto, o mi sbaglio? Potrei andarci senza che nessuno lo venga a sapere."
Orik aveva riflettuto un momento, poi aveva annuito. "Hai ragione. Il percorso è abbastanza sicuro e a nessuno verrebbe mai in mente di cercarti tra gli abitanti del sottosuolo. Il primo posto in cui verrebbero a controllare è qui, e ti troverebbero. Va', e non tornare finché non ti mando un messaggero, nemmeno se la Famiglia di Mord ti mette alla porta e devi startene seduto su una stalagmite fino a domani mattina. Però attento, Eragon; quella è gente solitaria, ed estremamente suscettibile se ferita nell'onore; inoltre ha strane abitudini. Procedi cauto, mi raccomando, come se stessi camminando su una lastra di scisto marcio, eh?"
E così, dopo che Thrand fu aggiunto alla sua scorta, accompagnato da Hûndfast, con uno spadino da nano legato in vita, Eragon si era avviato alla più vicina scalinata che conduceva di sotto ed era sceso nelle viscere della terra, più giù di quanto non avesse mai fatto prima. A tempo debito aveva trovato Glûmra e l'aveva informata della morte di Kvîstor, ed eccolo lì seduto ad ascoltarla piangere il figlio trucidato, con gemiti, grida e poi frammenti di parole nella lingua dei nani, cantati in una tonalità ossessiva e dissonante.
Sconcertato dall'intensità del suo dolore, Eragon distolse lo sguardo. Fissò la stufa di steatite verde appoggiata e le consunte incisioni geometriche che ne adornavano i profili. Esaminò il tappeto verde e marrone davanti al focolare, la zangola in un cantuccio e le provviste appese alle travi del soffitto. Guardò il pesante telaio di legno sotto una finestra rotonda con pannelli di vetro color lavanda.
Poi, al culmine della disperazione, Glûmra incrociò lo sguardo di Eragon, si alzò dal tavolo, andò al piano di lavoro della cucina e posò la mano sinistra sul tagliere. Prima che lui potesse fermarla, prese un coltello e si mozzò la prima falange del mignolo, poi gemette e si piegò in due.
Eragon si alzò, lasciandosi sfuggire un grido involontario. Si domandò quale follia avesse sopraffatto la nana e se doveva tentare di fermarla prima che si facesse ancora del male. Aprì la bocca per chiederle se voleva che le curasse la ferita, ma poi ci ripensò, ricordando l'ammonimento di Orik sulle strane abitudini e il profondo senso dell'onore degli abitanti del sottosuolo. Potrebbe considerare la mia offerta un insulto, si disse. Così chiuse la bocca e riprese il suo posto sulla sedia troppo piccola.
Un minuto dopo Glûmra si raddrizzò, trasse un profondo respiro e poi, tranquilla, in silenzio lavò l'estremità infiammata del dito con il brandy, gli strofinò sopra un balsamo giallo e fasciò la ferita. Con il volto di luna ancora pallido per il forte dolore, si accasciò sulla sedia di fronte a Eragon. «Ti ringrazio per avermi portato di persona la notizia della morte di mio figlio, Ammazzaspettri. Sono felice di sapere che è morto con valore, come si conviene a un guerriero.»
«È stato davvero coraggioso» rispose Eragon. «Aveva capito che i nostri nemici erano veloci come elfi, tuttavia si è scagliato nella mischia per proteggermi. Il suo sacrificio mi ha dato il tempo di schivare le loro spade e anche di intuire che erano protette da pericolosi incantesimi. Se non fosse stato per il suo gesto, dubito che sarei qui adesso.»
Glûmra annuì piano, gli occhi fissi sul pavimento, e si lisciò il vestito. «Sai chi è responsabile di questo attacco contro il tuo clan, Ammazzaspettri?»
«Abbiamo solo dei sospetti. Mentre noi due parliamo, il grimstborith Orik sta cercando di scoprire la verità sull'accaduto.»
«Sono stati quelli dell'Az Sweldn rak Anhûin?» gli domandò la nana, e quell'astuta domanda sorprese Eragon, che cercò di dissimulare la propria reazione. In risposta al suo silenzio, la nana aggiunse: «Tutti sappiamo della faida in corso tra voi, Argetlam; ogni knurla tra queste montagne lo sa. Alcuni di noi hanno visto con favore la loro opposizione nei tuoi confronti, ma se davvero hanno pensato di ucciderti, allora hanno agito male e hanno firmato la loro condanna.»
Eragon inarcò un sopracciglio, interessato. «Condanna? In che senso?»
«Sei stato tu, Ammazzaspettri, a uccidere Durza e a permetterci così di salvare Tronjheim e i cunicoli sotterranei dalle grinfie di Galbatorix. La nostra razza non lo dimenticherà mai, almeno finché Tronjheim resterà in piedi. E poi qui sotto corre voce che il tuo drago riparerà l'Isidar Mithrim... è vero?»
Eragon annuì.
«È gentile da parte tua, Ammazzaspettri. Hai fatto molto per il nostro popolo, e qualunque sia il clan che ti ha attaccato, ci ribelleremo e ci vendicheremo.»
«L'ho giurato di fronte a tre testimoni e lo ripeto anche qui davanti a te: punirò chi ha assoldato quegli assassini codardi che ci hanno attaccato alle spalle e farò loro rimpiangere di aver anche solo preso in considerazione l'idea di compiere un gesto così malvagio. Tuttavia...»
«Grazie, Ammazzaspettri.»
Eragon esitò, poi inclinò il capo. «Tuttavia non dobbiamo fare niente che possa scatenare una guerra tra clan. Non adesso. Se ci sarà da usare la forza, sarà il grimstborith Orik a decidere quando e dove sguainare le spade, non sei d'accordo?»
«Penserò a quello che hai detto, Ammazzaspettri» rispose Glûmra. «Orik è...» Qualunque cosa stesse per dire, la frase rimase in sospeso. La nana chiuse le pesanti palpebre e si piegò in due per un istante, premendo la mano mutilata contro l'addome. Quando la fitta fu passata, si raddrizzò e avvicinò il dorso della mano alla guancia, poi prese a dondolarsi e a gemere: «Oh, il mio povero figlio... il mio bellissimo figlio.»
Si alzò e girò barcollando intorno al tavolo, diretta verso una piccola collezione di spade e asce appese alla parete dietro Eragon, accanto a una nicchia chiusa da un drappo di seta rossa. Per paura che potesse farsi ancora del male, Eragon balzò in piedi, rovesciando la sedia di quercia nella fretta. Poi le si avvicinò, ma a quel punto si rese conto che la nana si stava incamminando verso la nicchia, non verso le armi, e per fortuna riuscì a ritrarre il braccio prima di offenderla.
Quando Glûmra aprì la tenda, gli anelli di ottone cuciti lungo il bordo in alto tintinnarono. Apparve una mensola profonda e buia su cui erano incise rune e forme dai dettagli così fantastici che Eragon non sarebbe riuscito a capirle tutte neppure se fosse rimasto a studiarle per ore. Sul ripiano in basso c'erano le statue delle sei principali divinità dei nani e di altre nove entità che però lui non conosceva, tutte con lineamenti e posture esasperati perché non ci fossero dubbi sul soggetto ritratto.
Glûmra prese dal corpetto un amuleto d'oro e d'argento, poi lo baciò e lo portò alla gola inginocchiandosi davanti alla nicchia. Cominciò a intonare un lamento funebre nella sua lingua; la voce si alzava e si abbassava seguendo gli strani disegni della musica dei nani. La melodia fece venire le lacrime agli occhi a Eragon. Glûmra cantò per diversi minuti, poi tacque con lo sguardo ancora fisso sulle statuine; nel frattempo i lineamenti trasfigurati dal dolore si addolcirono, e dove prima Eragon aveva percepito solo rabbia, pena e sconforto, trovò quieta accettazione, pace e sublime superiorità. Dal viso della nana sembrava emanare un fioco bagliore. La trasformazione di Glûmra fu così completa che Eragon quasi non la riconosceva.
«Stasera Kvîstor cenerà nel palazzo di Morgothal, lo so» disse la nana, poi baciò di nuovo l'amuleto. «Vorrei tanto poter spezzare il pane insieme a lui e a mio marito Bauden, ma non è ancora arrivato per me il momento di dormire nelle catacombe di Tronjheim, e Morgothal rifiuta l'ingresso nel suo palazzo a chi vuole accelerare il proprio arrivo. Ma a tempo debito la nostra famiglia sarà riunita, tutti i nostri antenati da quando Gûntera creò il mondo dalle tenebre. Ne sono sicura.»
Eragon le si inginocchiò accanto e con voce roca le chiese: «Come fai a saperlo?»
«Perché è così.» Con gesti lenti e rispettosi, Glûmra sfiorò i piedi cesellati di ogni divinità con la punta delle dita. «E come potrebbe essere altrimenti? Il mondo non può essersi creato da solo, così come una spada o un elmo hanno bisogno di qualcuno che li forgi, e poiché gli unici esseri capaci di plasmare i cieli e la terra sono quelli dotati di potere divino, è negli dei che dobbiamo trovare le risposte alle nostre domande. Ho fiducia nel fatto che garantiranno la giustizia in questo mondo, e grazie alla mia fede io mi libero del fardello delle sofferenze terrene.»
Parlava con tanta convinzione che Eragon provò l'improvviso desiderio di condividerne i pensieri. Sarebbe stato bello allontanare i dubbi e le paure e sapere che, per quanto orribile potesse sembrare il mondo a volte, la vita non era solo mera confusione. Avrebbe voluto essere certo che la sua vera essenza non sarebbe svanita nel nulla se anche una spada gli avesse mozzato la testa e che prima o poi avrebbe incontrato di nuovo Brom, Garrow e tutti quelli a cui aveva voluto bene e che aveva perduto. Sentì crescere dentro di sé un disperato desiderio di speranza e conforto, che lo disorientò e gli fece tremare le gambe.
Eppure...
Una parte di lui era riluttante ad abbracciare le divinità dei nani e a far dipendere la propria identità e il proprio benessere da qualcosa che non capiva. Faticava anche ad accettare che, se esistevano delle divinità, quelle dei nani fossero le uniche. Era sicuro che se avesse chiesto a Nar Garzhvog o a un membro delle tribù nomadi o anche ai sacerdoti neri dell'Helgrind se i loro dei esistevano davvero, ciascuno avrebbe sostenuto la supremazia della propria fede con lo stesso vigore con cui Glûmra difendeva la sua. Come faccio a sapere quale religione è quella autentica? si domandò. Solo perché qualcuno abbraccia una certa fede non significa che sia la strada giusta... Forse nessuna religione contiene tutte le verità del mondo. Forse ognuna ne contiene dei frammenti, e spetta a noi scoprirli e metterli insieme. O forse hanno ragione gli elfi, e gli dei non esistono. Ma come faccio a esserne sicuro?
Con un lungo sospiro, Glûmra mormorò una frase nella lingua dei nani, poi si alzò e richiuse il drappo di seta della nicchia. Anche Eragon si alzò e sussultò stirando i muscoli ancora doloranti dopo lo scontro, poi la seguì al tavolo e tornò a sedersi. Da una credenza di pietra incassata nella parete, la nana prese due tazze di peltro, poi staccò dal soffitto una bisaccia piena di vino e versò da bere. Alzò la tazza e pronunciò un brindisi nella lingua dei nani che Eragon si sforzò di imitare, poi bevvero.
«È bello sapere che Kvîstor continua a vivere, che indossa vesti degne di un re e si gode il banchetto nel palazzo di Morgothal. Che possa farsi onore al servizio degli dei!» esclamò Glûmra, e bevve altro vino.
Dopo aver vuotato la sua tazza, Eragon fece per congedarsi, ma la nana lo fermò con un gesto della mano. «Hai un posto dove stare, al sicuro da chi ti vuole morto, Ammazzaspettri?» gli chiese, ed Eragon le rispose che sarebbe dovuto restare nascosto sotto Tronjheim finché Orik non gli avesse mandato un messaggero. Glûmra annuì con un breve e risoluto cenno del mento, poi disse: «Allora tu e i tuoi compagni dovete aspettarlo qui. Insisto.» Eragon tentò di protestare, ma lei scosse il capo. «Non permetterò agli uomini che hanno combattuto con mio figlio di languire in queste buie e umide grotte, almeno non finché avrò fiato in corpo. Raduna i tuoi compagni, così mangeremo insieme e rallegreremo questa triste serata.»
Eragon capì che andandosene avrebbe indispettito Glûmra, così chiamò le guardie e l'interprete. La aiutarono a preparare una cena a base di pane, carne e pasticci, e quando fu tutto pronto mangiarono e brindarono e parlarono fino a tarda sera. Glûmra era particolarmente vivace; bevve e rise più degli altri, ed era sempre la prima a fare un commento arguto. Sulle prime Eragon rimase sconvolto dal comportamento della nana, poi si accorse che il sorriso non le arrivava mai fino agli occhi, e che quando pensava che nessuno la stesse guardando la gioia le svaniva dal viso per lasciare il posto a una sobria pacatezza. Concluse che intrattenerli era il suo modo di celebrare la memoria del figlio e di allontanare il dolore per la morte di Kvîstor.
Non ho mai conosciuto nessuno come te, pensò mentre la osservava.
La mezzanotte era passata da un pezzo quando qualcuno bussò alla porta della casupola. Hûndfast fece entrare un nano in armatura che sembrava nervoso e a disagio; continuava a guardare la porta, le finestre e gli angoli bui. Con una serie di frasi nell'antica lingua, spiegò a Eragon che era il messaggero di Orik e poi disse: «Sono Fam, figlio di Flosi... Argetlam, Orik vuole che tu torni al più presto. Ha notizie importanti sugli eventi di oggi.»
Sulla soglia, Glûmra afferrò il braccio sinistro di Eragon con dita d'acciaio e mentre lui chinava il capo per guardarla negli occhi duri, gli disse: «Ricorda il tuo giuramento, Ammazzaspettri, e non lasciare che gli assassini di mio figlio restino impuniti!»
«Non accadrà, te lo prometto.»
RADUNO DI CLAN
Vedendo Eragon avanzare verso di loro, i nani di guardia fuori dall'alloggio di Orik spalancarono i due battenti della porta.
L'ingresso era lungo e finemente decorato, e al centro della stanza erano disposte una in fila all'altra tre sedute circolari imbottite di stoffa rossa. Arazzi ricamati impreziosivano le pareti insieme alle onnipresenti lanterne senza fiamma, mentre sul soffitto era stata scolpita una battaglia molto famosa nella storia dei nani.
Orik stava confabulando con un gruppo di suoi guerrieri e parecchi altri nani dalla barba grigia appartenenti al Dûrgrimst Ingeitum. Mentre Eragon si avvicinava, si voltò verso di lui, cupo in volto. «Bene, non ci hai messo molto! Hûndfast, adesso puoi tornare nei tuoi appartamenti. Dobbiamo parlare in privato.»
L'interprete fece un inchino e sparì sotto un arco sulla sinistra; l'eco dei suoi passi risuonò sul lustro pavimento di agata. Non appena fu sicuro che non avrebbe potuto sentirlo, Eragon chiese: «Non ti fidi di lui?»
Orik si strinse nelle spalle. «Al momento non so più di chi fidarmi; meno gente sa ciò che abbiamo scoperto, meglio è. Non possiamo rischiare che la notizia giunga a un altro clan prima di domani. In quel caso la guerra sarebbe inevitabile.» I nani dietro di lui borbottarono qualcosa tra loro; avevano l'aria sconcertata.
«Allora, di che si tratta?» domandò Eragon, preoccupato.
Orik fece un cenno ai suoi guerrieri, che si fecero da parte, rivelando tre nani legati e insanguinati, ammucchiati uno sopra l'altro nell'angolo. Quello in basso gemeva e scalciava, ma non riusciva a districarsi dagli altri due compagni di prigionia.
«Chi sono?»
«Ho chiesto a molti dei nostri fabbri di esaminare i pugnali dei tuoi assalitori» replicò Orik. «In base alla fattura delle armi, sono risaliti a Kiefna il Nasone, un forgiatore di spade del nostro clan che si è guadagnato un'ottima reputazione tra il nostro popolo.»
«Lui potrà dirci chi ha comprato i pugnali e chi sono i nostri nemici?»
Una brusca risata scosse il petto di Orik. «Non credo, ma siamo riusciti a scoprire che da Kiefna i pugnali sono arrivati a un armaiolo di Dalgon, una città a molte leghe da qui, il quale poi li ha venduti a una knurlaf con...»
«Una... knurlaf?»
Orik si accigliò. «Sì, vuol dire nana. A quanto pare, due mesi fa una nana con sette dita per ogni mano ha comprato quei pugnali.»
«E l'avete trovata? Non ci saranno tante nane che rispondono a quella descrizione.»
«Invece tra noi è una caratteristica molto diffusa» disse Orik. «Comunque, dopo mille peripezie siamo riusciti a rintracciarla a Dalgon. I miei guerrieri l'hanno interrogata a lungo. Appartiene al Dûrgrimst Nagra, ma per quanto ne sappiamo ha agito spontaneamente e non per ordine dei leader del suo clan. Da lei abbiamo appreso che un nano l'aveva incaricata di comprare i pugnali e poi di consegnarli a un mercante di vini che li avrebbe portati a Dalgon. La destinazione finale le era sconosciuta, ma facendo qualche domanda abbiamo scoperto che il vinaio si è trasferito in una delle città controllate dal Dûrgrimst Az Sweldn rak Anhûin.»
«Dunque sono stati loro!» esclamò Eragon.
«O loro, o qualcuno che voleva farcelo credere. Per affermare con assoluta certezza che i colpevoli sono gli Az Sweldn ci servivano altre prove.» Poi gli comparve uno strano brillio negli occhi e alzò un dito. «E così, per mezzo di un incantesimo molto, molto astuto, abbiamo seguito a ritroso gli spostamenti degli assassini attraverso i tunnel e le grotte sotto Tronjheim fino a un'area desertica al dodicesimo livello, accanto al palazzo ausiliare dell'ala meridionale nel quadrante ovest, lungo il... ah, be', non importa. Anche se prima o poi dovrò spiegarti com'è fatta Tronjheim, così, se mai ti capitasse di dover cercare un posto in particolare, lo troveresti anche da solo. Comunque siamo risaliti a un magazzino abbandonato e vi abbiamo trovato quei tre» disse indicando i nani legati. «Non si aspettavano di vederci, così siamo riusciti a catturarli vivi, anche se hanno cercato di uccidersi. Non è stato facile, ma siamo penetrati nella mente di due di loro - il terzo l'abbiamo lasciato agli altri capiclan, che potranno interrogarlo a loro piacere - e abbiamo carpito tutto ciò che sapevano su questa faccenda.» Orik indicò di nuovo i prigionieri. «Sono stati questi tre a fornire i pugnali e gli abiti neri agli assassini e a dare loro vitto e alloggio ieri sera.»
«Chi sono?» chiese Eragon.
«Bah!» esclamò Orik e sputò per terra. «Sono Vargrimstn, guerrieri caduti in disgrazia per gravi demeriti, ormai esclusi da ogni clan. Solo una persona coinvolta direttamente in qualche atto criminale, interessata a mantenerlo segreto, può accettare di confondersi con certa feccia. Questi tre hanno preso ordini dal Grimstborith Vermûnd dell'Az Sweldn rak Anhûin.»
«Non ci sono dubbi?»
Orik scosse la testa. «No. Sono stati gli Az Sweldn rak Anhûin che hanno cercato di ucciderti, Eragon. Probabilmente non sapremo mai se sono implicati altri clan, ma se riveliamo questo tradimento, chiunque sia coinvolto nel complotto sarà costretto a disconoscere gli ex alleati, a rinunciare, o quanto meno a posticipare altri attacchi contro l'Ingeitum e, se amministriamo la cosa nel modo migliore, a dare a me il suo voto.»
Nella mente di Eragon balenò l'immagine della lama multicolore che spuntava dal collo di Kvîstor e dell'espressione di dolore del nano che cadeva a terra morente. «Come puniremo gli Az Sweldn rak Anhûin per questo crimine? Uccideremo Vermûnd?»
«Ah, lascia fare a me» rispose Orik, e si picchiettò il naso. «Ho un piano. Ma dobbiamo procedere con cautela, perché è una situazione molto delicata. Erano anni che non assistevamo a un tradimento di tale portata. Dato che non sei cresciuto tra i nani, non puoi capire quanto ci disgusta che uno di noi abbia attaccato un ospite. E che tu sia l'unico Cavaliere rimasto in grado di ostacolare Galbatorix non fa che peggiorare la gravità dell'affronto. Forse sarebbe necessario spargere altro sangue, ma al momento ciò porterebbe solo a una seconda guerra tra clan.»
«Però potrebbe essere l'unico modo per affrontare gli Az Sweldn rak Anhûin» gli fece notare Eragon.
«Non credo, ma se mi sbaglio e la guerra sarà inevitabile, dobbiamo assicurarci che siano da soli a combatterla, che perdano tutti gli alleati. Non sarebbe poi tanto male, no? Insieme, noi e gli altri clan potremmo schiacciarli nel giro di una settimana. Tuttavia combattere una guerra divisi in due o tre fazioni porterebbe il nostro paese alla rovina. Prima di sguainare le spade, dunque, è di cruciale importanza convincere gli altri clan di ciò che hanno fatto gli Az Sweldn rak Anhûin. Permetterai ai maghi degli altri clan di esaminare i tuoi ricordi dell'attacco, in modo da verificare che tutto sia andato come diciamo noi e che non sia stata una farsa inscenata a nostro vantaggio?»
Eragon esitò, riluttante all'idea di aprire la propria mente a sconosciuti, poi indicò con un cenno del capo i tre nani ammassati uno sopra l'altro. «E quelli? Non bastano i loro ricordi a convincere gli altri clan della colpevolezza degli Az Sweldn rak Anhûin?»
Orik fece una smorfia. «In teoria sì, ma per esserne del tutto sicuri i capiclan insisteranno per confrontare i loro ricordi con i tuoi, e se ti rifiuti l'Az Sweldn rak Anhûin sosterrà che stiamo nascondendo qualcosa e che le nostre accuse non sono altro che falsità e calunnie.»
«Benissimo» rispose Eragon. «Se devo, lo farò. Ma se qualche mago si insinua dove non dovrebbe, fosse anche per sbaglio, non avrò altra scelta se non estirpare dalle loro menti ciò che hanno visto. Non posso permettere che certe cose diventino di dominio pubblico.»
Orik annuì e disse: «Sì, mi viene in mente almeno un'informazione che ci danneggerebbe se fosse diffusa ai quattro venti, eh? Sono sicuro che i capiclan accetteranno le tue condizioni, perché tutti abbiamo segreti che non vogliamo vengano sbandierati, e sono altrettanto sicuro che ordineranno ai loro maghi di procedere noncuranti del pericolo. Questo attacco può scatenare un tale disordine nel nostro popolo che i grimstborithn si sentiranno costretti a stabilire la verità sull'accaduto, anche se così facendo rischiano di perdere i loro più rinomati stregoni.»
Ergendosi in tutta la sua pur minima altezza, Orik ordinò che i prigionieri fossero allontanati dall'ingresso e congedò tutti i suoi vassalli, tranne Eragon e un contingente di ventisei guerrieri tra i più abili. Poi con un gesto aggraziato afferrò Eragon per il gomito sinistro e lo condusse verso le stanze più interne. «Stanotte devi restare qui con me, dove l'Az Sweldn rak Anhûin non oserà colpire.»
«Se hai intenzione di dormire, ti metto in guardia subito: io proprio non ci riuscirò, non stanotte. Mi ribolle ancora il sangue dopo il tumulto del combattimento, e la mia testa è altrettanto inquieta.»
«Fa' come vuoi; tanto non mi disturberai, perché mi calerò sugli occhi uno spesso berretto di lana. Tuttavia dovresti provare a cercare di calmarti, magari sfruttando qualcuna delle tecniche che ti hanno insegnato gli elfi, e di recuperare il più possibile le forze. È quasi giorno e tra poche ore i clan si riuniranno di nuovo. Dobbiamo essere freschi per affrontare ciò che ci aspetta. Quello che faremo e diremo determinerà il destino del mio popolo, del mio paese e del resto di Alagaësia... Ah, via quella faccia triste! Pensa a questo, piuttosto: che abbiamo successo o no, e naturalmente spero nella prima ipotesi, i nostri nomi saranno ricordati fino alla notte dei tempi per come ci comporteremo domani. Questo almeno ti riempirà la pancia d'orgoglio! Gli dei sono volubili e l'unica immortalità su cui possiamo contare è quella che ci conquistiamo grazie alle nostre gesta. Che sia per fama o per infamia, è comunque meglio che essere dimenticati una volta abbandonato questo mondo.»
Più tardi, quella notte, nelle ore morte prima dell'alba, avvolto nell'abbraccio del divano imbottito su cui si era lasciato cadere, Eragon lasciò vagare i pensieri e l'impalcatura razionale della sua coscienza si dissolse nella disordinata fantasia dei sogni a occhi aperti. Mentre guardava il mosaico di pietre colorate sulla parete davanti a lui, ebbe l'impressione che vi scorressero, come su un velo luccicante, le scene della sua vita nella Valle Palancar, prima che il fato e sanguinoso irrompesse nella sua esistenza. Tuttavia ben presto quelle scene deviarono dal quotidiano ed Eragon si ritrovò immerso in situazioni immaginarie, costruite pezzo per pezzo da frammenti di fatti realmente accaduti. Pochi istanti prima che si riavesse dal torpore, la visione tremolò e le immagini si fecero via via più reali.
Si trovava nella fucina di Horst, la porta era spalancata, come il ghigno fisso di un folle. Fuori regnava una notte senza stelle e quella divorante oscurità sembrava insidiare il contorno della fioca luce rossa emanata dalla brace, come se fosse ansiosa di inghiottire ogni cosa all'interno di quella sfera accesa. Accanto alla forgia, Horst si stagliava come un gigante; le ombre in continuo movimento sul viso e la barba erano una visione orribile. Alzava e abbassava il braccio imponente, e ogni volta che il martello colpiva l'estremità di una sbarra di acciaio color giallo acceso, un clangore simile a un rintocco di campana faceva vibrare l'aria. Una vampata di scintille saettò fino a terra, dove si spense. Il fabbro colpì il metallo altre quattro volte, poi sollevò la sbarra dall'incudine e la immerse in un barile d'olio. Fiamme spettrali, azzurre e sottili, tremolarono lungo la superficie e poi svanirono tra piccole grida inferocite. Estratta la sbarra, Horst si volse verso Eragon e lo guardò accigliato. "Che cosa ci fai qui?" gli chiese.
"Mi serve la spada di un Cavaliere dei Draghi."
"Vattene. Non ho tempo di forgiartene una. Non vedi che sto lavorando a un gancio da paiolo per Elain? Le serve per la battaglia. Sei solo?"
"Non lo so."
"Dov'è tuo padre? Dov'è tua madre?"
"Non lo so."
Poi risuonò un'altra voce, educata ma forte e potente. "Buon fabbro" disse, "non è solo. È venuto con me."
"E tu chi saresti?" domandò Horst.
"Sono suo padre."
Dalla fitta oscurità oltre i battenti spalancati emerse una figura immensa, orlata da una pallida luce. Si fermò sulla soglia della fucina. Un mantello rosso sventolava sulle spalle più larghe di quelle di un Kull. Nella mano sinistra dell'uomo scintillava Zar'roc, affilata come il dolore. Attraverso le fessure dell'elmo lucente gli occhi azzurri dell'uomo trafissero Eragon, immobilizzandolo, come un coniglio infilzato da una freccia. Poi alzò la mano destra e la tenne levata verso il ragazzo. "Figlio mio, vieni con me. Insieme possiamo distruggere i Varden, uccidere Galbatorix e conquistare tutta Alagaësia. Dammi il tuo cuore e saremo invincibili.
"Dammi il tuo cuore, figlio mio."
Con un grido strozzato, Eragon balzò dal divano e si ritrovò in piedi, lo sguardo fisso sul pavimento, i pugni serrati, il respiro affannoso. Le guardie di Orik gli lanciarono occhiate indagatrici, ma lui le ignorò, troppo turbato per spiegare quello scatto.
Era ancora presto, così tornò a sedersi sul divano, ma rimase all'erta e non consentì a se stesso di sprofondare ancora nel mondo dei sogni, temendo che chissà quali altri fantasmi arrivassero a tormentarlo.
Eragon era in piedi, la schiena rivolta alla parete, la mano sul pomolo dello spadino da nano, mentre osservava i capiclan sfilare nella sala riunioni circolare sepolta sotto Tronjheim. Tenne d'occhio soprattutto Vermûnd, il grimstborith dell'Az Sweldn rak Anhûin, ma se anche il nano coperto dal lungo velo viola era sorpreso di vederlo vivo e vegeto, non lo diede a vedere.
Eragon sentì lo stivale di Orik contro il suo. Senza distogliere lo sguardo, si chinò verso di lui. «Ricordati, a sinistra; la terza porta» gli sussurrò, alludendo al punto in cui aveva fatto schierare un centinaio di guerrieri all'insaputa degli altri capiclan.
«Se si arriva al sangue, devo cogliere l'occasione e uccidere quella serpe di Vermûnd?» chiese Eragon, anche lui a fior di labbra.
«No, ti prego, a meno che non sia lui a fare la prima mossa contro uno di noi.» A Orik sfuggì un risolino sommesso. «Difficilmente ti conquisteresti il favore degli altri grimstborith... Adesso devo andare. Prega Sindri di avere fortuna, d'accordo? Stiamo per avventurarci in un mare di lava che non ho mai osato attraversare prima d'ora.»
Eragon obbedì e pregò.
Quando tutti i capiclan si furono seduti attorno al tavolo in mezzo alla stanza, gli osservatori, compreso Eragon, presero posto sulle sedie disposte contro la parete ricurva. Tuttavia, a differenza di molti nani, lui non si rilassò: anzi, rimase seduto sul bordo della sedia, pronto a scattare al minimo segnale di pericolo.
Non appena Gannel, il sacerdote-guerriero dagli occhi neri del Dûrgrimst Quan, si alzò e cominciò a parlare nell'antica lingua dei nani, Hûndfast si avvicinò furtivo a Eragon e gli tradusse tutto sottovoce, senza mai fermarsi: «Di nuovo ben trovati, miei compagni capiclan. Ma che sia un'occasione piacevole o meno non saprei dirlo, perché mi sono giunte all'orecchio alcune voci allarmanti, anzi, in verità voci di voci. Non ho altre informazioni al di là di queste chiacchiere vaghe e preoccupanti, né prove sulle quali fondare un'accusa. Tuttavia, poiché oggi spetta a me presiedere il raduno, propongo di posticipare i nostri dibattiti più seri: se siete d'accordo, vorrei porvi qualche domanda.»
I capiclan borbottarono tra loro e poi prese la parola Íorûnn, vivace e sorridente come sempre: «Io non ho obiezioni, Grimstborith Gannel. Hai risvegliato la mia curiosità con queste misteriose insinuazioni. Sentiamo le tue domande.»
«Sì, sentiamole» intervenne Nado.
«Sentiamole» convennero Manndrâth e gli altri capiclan, compreso Vermûnd.
Ottenuto il permesso richiesto, Gannel si appoggiò con le nocche sul tavolo e rimase in silenzio per un istante, conquistando l'attenzione dei presenti. Poi parlò. «Ieri, mentre stavamo pranzando, ognuno nel punto di ristoro prescelto, alcuni knurlan hanno sentito un rumore provenire dai tunnel sotto il quadrante meridionale di Tronjheim. Le dichiarazioni sull'intensità di questo rumore sono discordi, ma che l'abbiano notato in tanti prova che doveva trattarsi di un suono di una certa entità. Come voi, ho ricevuto il solito avvertimento di un possibile crollo. Ciò di cui forse non siete a conoscenza, tuttavia, è che appena due ore dopo alcuni...»
Hûndfast esitò e poi si affrettò a sussurrare: «È una parola difficile da rendere nella tua lingua. Direi qualcosa tipo: "abitanti dei tunnel".» E poi riprese a tradurre.
«... alcuni abitanti dei tunnel hanno scoperto tracce di un feroce combattimento in uno degli antichi cunicoli scavati dal nostro celebre progenitore, Korgan Barbalunga. Il pavimento era un lago di sangue, le pareti annerite di fuliggine poiché un guerriero poco accorto aveva colpito e rotto una lanterna con la spada, la roccia tutto intorno era spaccata e a terra c'erano sette corpi carbonizzati e mutilati; forse portavano insegne, ma qualcuno le ha rimosse. Di sicuro non erano i resti di qualche oscura scaramuccia risalente alla battaglia del Farthen Dûr. No! Il sangue era ancora fresco, la fuliggine soffice, le crepe recenti e, almeno così mi è stato detto, si distinguevano ancora le tracce di potenti magie. Perfino ora molti dei nostri più abili stregoni stanno tentando di ricostruire un'immagine fedele di ciò che è accaduto, ma hanno poche speranze di successo, poiché gli individui coinvolti erano protetti da subdoli incantesimi. Allora, la mia prima domanda è: qualcuno di voi è al corrente di questa azione misteriosa?»
Quando Gannel ebbe concluso il suo discorso, Eragon piegò le gambe, pronto a balzare in piedi se i nani ammantati di viola dell'Az Sweldn rak Anhûin avessero messo mano alle spade.
Orik si schiarì la voce e rispose: «Credo di poter soddisfare in parte la tua curiosità su questo punto, Gannel. Tuttavia, poiché la mia risposta sarà lunga, suggerisco che tu prosegua con le altre domande.»
Gannel corrugò la fronte, rabbuiato. Battendo le nocche sul tavolo, replicò: «Molto bene... Cosa che senza dubbio è da ricollegarsi allo scontro armato avvenuto nei tunnel di Korgan, mi sono stati riportati numerosi movimenti di knurlan che si starebbero organizzando in bande armate per tutta Tronjheim, benché i loro scopi siano ancora sconosciuti. I miei agenti non sono riusciti a scoprire il clan di appartenenza dei guerrieri, ma che un qualsiasi clan presente a questo concilio stia tentando di schierare furtivamente le proprie forze mentre siamo radunati per decidere il successore di re Rothgar suggerisce motivazioni della più fosca natura. Dunque la mia seconda domanda è: chi è il responsabile di questa manovra scorretta? E se nessuno è disposto ad ammettere la propria condotta indegna, propongo con forza che tutti i guerrieri, quale che sia il loro clan, siano espulsi da Tronjheim per la durata del raduno e che si nomini subito un esperto in materia legale per indagare su tali fatti e stabilire chi sia il colpevole.»
La rivelazione, la domanda e la conseguente proposta di Gannel sollevarono un animato brusio tra i capiclan, che presero a lanciarsi accuse, negarle e ribattere con crescente animosità, finché, mentre un infuriato Thordris stava gridando contro un paonazzo Gàldhiem, Orik si schiarì di nuovo la voce. Tutti tacquero e si voltarono a fissarlo.
«Credo di poterti spiegare anche questo, Gannel, almeno in parte» disse in tono calmo Orik. «Non posso parlare anche a nome degli altri clan, ma ammetto che tra i guerrieri che correvano per le sale della servitù a Tronjheim diverse centinaia appartenevano al Dûrgrimst Ingeitum.»
Calò il silenzio, finché non intervenne Íorûnn: «E che spiegazione hai per questo comportamento bellicoso, Orik, figlio di Thrifk?»
«Come ho detto prima, leggiadra Íorûnn, la mia risposta non può che essere lunga; dunque, se Gannel ha altre domande da porre, gli suggerisco di procedere.»
Gannel arricciò ancora di più la fronte, finché le cespugliose sopracciglia non arrivarono quasi a toccarsi. «Per il momento le terrò per me, perché comunque sono legate a quelle di prima e a quanto pare dobbiamo aspettare i tuoi comodi per saperne di più sull'accaduto. Tuttavia, poiché sei immerso fino al collo in queste ambigue attività, mi è venuta in mente una nuova domanda che voglio porre a te in particolare, Grimstborith Orik. Per quale ragione hai disertato il raduno di ieri? Voglio metterti in guardia: non tollererò risposte evasive. Hai già dichiarato di essere a conoscenza di certe cose. Bene, è giunto il momento che tu dia un resoconto completo dei tuoi spostamenti di ieri.»
Senza nemmeno aspettare che Gannel si sedesse, Orik si alzò e rispose: «Con piacere.»
Chinando il mento barbuto fino al petto, fece una breve pausa e poi prese a parlare con voce sonora, ma non cominciò dal punto che si aspettava Eragon, e forse anche il resto dei presenti. Invece di descrivere l'attentato contro il fratello adottivo e spiegare così perché aveva abbandonato la consulta, cominciò a raccontare che agli albori della storia il popolo dei nani era emigrato dal Deserto di Hadarac, un tempo verdeggiante, fino ai Monti Beor, dove aveva scavato infinite miglia di tunnel e costruito maestose città sopra e sotto la superficie terrestre. Poi parlò delle grandi guerre tra le varie fazioni e contro i draghi, che per migliaia di anni i nani avevano trattato con un misto di odio, paura e riluttante soggezione. E infine narrò dell'arrivo degli elfi in Alagaësia, di come avevano combattuto contro i draghi fin quasi a sterminarsi a vicenda e della conseguente alleanza tra le due razze, che avevano fondato i Cavalieri dei Draghi per mantenere la pace.
«E quale fu la nostra risposta quando apprendemmo le loro intenzioni?» domandò Orik con voce tonante. «Chiedemmo loro di essere inclusi nel patto? Aspirammo a condividere il potere dei Cavalieri dei Draghi? No! Fedeli alle nostre abitudini e all'antico odio verso i draghi, rifiutammo anche il solo pensiero di allearci con loro o di permettere a chiunque fosse estraneo al nostro regno di vegliare su di noi. Per preservare la nostra autorità, sacrificammo il nostro futuro, perché sono convinto che se ci fosse stato un Cavaliere knurlan, Galbatorix non sarebbe mai salito al potere. Se anche mi sbagliassi - e badate bene, non voglio sminuire Eragon, che si è dimostrato un ottimo Cavaliere - forse l'uovo della dragonessa Saphira si sarebbe dischiuso tra le mani di uno di noi e non di un umano. Riuscite a immaginare quale gloria avremmo potuto ricavarne?
«Invece, da quando la regina Tarmunora e l'omonimo di Eragon siglarono la pace con i draghi, la nostra importanza in Alagaësia si è ridotta. All'inizio essere sminuiti non fu un boccone poi così amaro da ingoiare, e spesso fu più facile negarlo che accettarlo. Ma poi arrivarono gli Urgali, e poi gli umani, e gli elfi modificarono i loro incantesimi così che anche gli umani potessero diventare Cavalieri. Allora cercammo forse di essere inclusi nel loro accordo, come avremmo potuto, anzi, com'era nostro diritto?» Orik scosse il capo. «Il nostro orgoglio non ce lo consentì. Perché noi, la razza più antica della terra, avremmo dovuto implorare gli elfi per godere dei benefici della loro magia? Noi non avevamo bisogno di assoggettare il nostro destino a quello dei draghi per salvare la nostra razza dalla distruzione, come invece fecero gli elfi e gli umani. Ovviamente non consideravamo le battaglie tra di noi. A nostro parere erano questioni private e di scarso interesse per chiunque altro.»
I capiclan in ascolto si agitarono sulle sedie. Alla critica di Orik molti aggrottarono la fronte, mentre altri, più sensibili ai suoi commenti, si fecero pensosi.
Orik continuò: «Mentre i Cavalieri vegliavano su Alagaësia, noi vivemmo il periodo di più grande benessere mai registrato negli annali del nostro regno. Prosperammo come mai prima di allora, e tuttavia non avemmo alcuna parte nel processo che diede vita a quell'era fortunata, e non aiutammo i suoi artefici: i Cavalieri dei Draghi. Quando i Cavalieri furono sconfitti, la nostra fortuna vacillò, ma ancora una volta noi non intervenimmo, non facemmo nulla per cambiare le cose. A mio parere, nessuna delle due situazioni si conviene a una razza del nostro calibro. Non siamo un paese di vassalli soggetti ai capricci di padroni stranieri. E chi non discende da Odgar o da Hlordis non dovrebbe dettare il nostro destino.»
Il ragionamento di Orik cominciava a risultare più gradito ai capiclan, che annuirono e sorrisero. All'ultima frase Havard batté le mani.
«Ora, prendiamo in esame la nostra epoca» proseguì Orik. «Galbatorix è in ascesa e tutte le razze combattono per la libertà. Il re è diventato così potente che l'unica ragione per cui non siamo ancora diventati suoi schiavi è che finora non ha scelto di montare in sella al suo drago nero e di attaccarci direttamente. Se lo facesse, cadremmo ai suoi piedi come arbusti travolti da una valanga. Per fortuna pare che si accontenti di aspettare che ci distruggiamo con le nostre mani oltrepassando i cancelli della sua cittadella a Urû'baen. Ora, vi ricordo che prima che Eragon e Saphira si presentassero bagnati e infangati sulla nostra soglia, con un centinaio di Kull ululanti alle calcagna, la nostra unica speranza di sconfiggere Galbatorix era che prima o poi, da qualche parte, l'uovo di Saphira si schiudesse tra le mani del Cavaliere prescelto e che magari, per un colpo di fortuna, questo sconosciuto fosse anche in grado di detronizzarlo. Speranza? Ah! Non ce l'avevamo nemmeno, una speranza; speravamo di avere una speranza. Quando Eragon si presentò a noi la prima volta, molti restarono sgomenti davanti al suo aspetto, me compreso. "Ma è solo un ragazzo" dicevamo. "Non sarebbe stato meglio un elfo?" E invece si è rivelato l'incarnazione di tutte le nostre speranze! Ha ucciso Durza, consentendoci di salvare la nostra città più amata, Tronjheim. La sua dragonessa, Saphira, ha promesso di riportare lo Zaffiro Stellato allo splendore originario. E durante la battaglia delle Pianure Ardenti Eragon ha messo in fuga Murtagh e Castigo, regalandoci la vittoria. Guardatelo! Ora ha assunto le sembianze di un elfo e grazie alla loro strana magia ne ha anche acquisito la velocità e la forza.»
Orik alzò un dito per dare enfasi alle sue parole. «Inoltre re Rothgar, nella sua immensa saggezza, fece ciò che nessun altro re o grimstborith aveva mai fatto; si offrì di adottare Eragon nel Dûrgrimst Ingeitum e di accettarlo come membro della famiglia. Eragon non era costretto ad accettare l'offerta. Anzi, sapeva che molte delle famiglie appartenenti all'Ingeitum erano contrarie e che molti knurlan non l'avrebbero visto di buon occhio. Tuttavia, nonostante la disapprovazione generale e il suo vincolo di fedeltà a Nasuada, Eragon accettò il dono di Rothgar, pur sapendo che la sua vita si sarebbe complicata. Come mi disse lui stesso, prestò giuramento sul Cuore di Pietra per l'obbligo che sentiva nei confronti di tutte le razze di Alagaësia e soprattutto verso la nostra, perché noi, grazie al gesto di Rothgar, avevamo dimostrato a lui e a Saphira tanta gentilezza. Grazie al genio del nostro re, l'ultimo Cavaliere libero di Alagaësia e la nostra unica speranza contro Galbatorix ha scelto spontaneamente di diventare un knurla in tutto e per tutto, tranne che nel sangue. Da allora Eragon ha rispettato tutte le nostre leggi e tradizioni come meglio poteva e ha cercato di apprendere ancora meglio la nostra cultura per poter onorare il vero significato del suo giuramento. Quando Rothgar morì, colpito dal traditore Murtagh, Eragon mi giurò su tutte le pietre di Alagaësia e in qualità di membro dell'Ingeitum che avrebbe fatto di tutto per vendicarne la morte. Mi ha tributato il rispetto e l'obbedienza che mi spettavano in qualità di grimstborith, e sono orgoglioso di considerarlo mio fratello adottivo.»
Eragon chinò il capo, le guance e la punta delle orecchie in fiamme. Avrebbe preferito che Orik non fosse stato così generoso nel tessere le sue lodi, perché d'ora in avanti avrebbe fatto più fatica a mantenere la propria posizione.
Facendo un ampio gesto con le braccia, come se volesse includere gli altri capiclan, Orik esclamò: «Tutto ciò che avremmo mai potuto desiderare in un Cavaliere dei Draghi l'abbiamo trovato in Eragon! Lui esiste davvero! Lui è forte! E ha abbracciato la causa del nostro popolo come nessun altro Cavaliere!» Poi abbassò le braccia e anche il volume della voce, finché Eragon dovette sforzarsi per sentirlo. «E noi come abbiamo risposto alla sua amicizia? Perlopiù con sarcasmo, offese e scontroso risentimento. Siamo una razza di ingrati, lasciatemelo dire, e purtroppo per noi abbiamo una memoria di ferro... C'è anche chi trabocca d'odio al punto da ricorrere alla violenza per placare la propria rabbia. Forse questi individui credono ancora di fare ciò che è meglio per il nostro popolo, ma in tal caso le loro menti sono ammuffite come un pezzo di formaggio dell'anno passato. Altrimenti perché avrebbero tentato di uccidere Eragon?»
I capiclan in ascolto rimasero perfettamente immobili, gli sguardi inchiodati sul viso di Orik. E così concentrati che il grimstborith più corpulento, Freowin, aveva messo da parte la scultura lignea del corvo e aveva intrecciato le mani sull'ampia pancia: sembrava in tutto e per tutto una delle statue dei nani.
Mentre i presenti lo fissavano senza battere ciglio, Orik disse loro dei sette nani vestiti di nero che avevano attaccato Eragon e le sue guardie mentre girovagavano nei cunicoli sotto Tronjheim. Poi raccontò del braccialetto di crini di cavallo intrecciato con perle di ametista che le guardie avevano trovato su uno dei cadaveri.
«Non penserai di incolpare il mio clan sulla base di prove così insignificanti!» esclamò Vermûnd, scattando in piedi. «Quelle carabattole si possono comprare in quasi tutti i mercatini del regno!»
«È vero» rispose Orik, chinando il capo verso di lui. Poi, con voce neutra e a ritmo sostenuto, procedette con il racconto che aveva già tratteggiato a Eragon la sera prima. Spiegò che i suoi sottoposti a Dalgon gli avevano confermato che gli strani pugnali scintillanti utilizzati dagli assassini erano stati forgiati dal fabbro Kiefna, e avevano scoperto che il nano che aveva acquistato le armi aveva fatto in modo che fossero trasportate da Dalgon in una delle città controllate dall'Az Sweldn rak Anhûin.
Borbottando un'imprecazione a fior di labbra, Vermûnd balzò di nuovo in piedi. «Quei pugnali potrebbero anche non aver mai raggiunto la nostra città, e comunque non puoi trarre le tue conclusioni basandoti solo su questo fatto! Entro quelle mura risiedono knurlan di molti clan, come qui alla Roccaforte di Bregan, per esempio. Non significa niente. Attento a quello che stai per dire, Grimstborith Orik, perché non hai niente a cui aggrapparti per lanciare accuse contro il mio clan.»
«Anch'io ero della tua stessa opinione, Grimstborith Vermûnd» disse Orik. «Così ieri sera, dopo aver chiesto ai miei stregoni di ricostruire a ritroso gli ultimi spostamenti degli assassini fino al punto di partenza, abbiamo catturato tre knurlan nascosti in un polveroso magazzino al dodicesimo livello di Tronjheim. Siamo penetrati nella mente di due di loro e abbiamo scoperto che avevano fornito agli assassini tutto l'equipaggiamento necessario per l'attacco. E infine» continuò, la voce sempre più roca e terribile «abbiamo appreso l'identità del loro padrone. Tu, Grimstborith Vermûnd! Io dichiaro che sei un assassino e uno spergiuro! Ti dichiaro nemico del Dûrgrimst Ingeitum e ti accuso di tradimento davanti alla tua gente, perché siete stati tu e il tuo clan a cercare di uccidere Eragon!»
Tutti i capiclan tranne Orik e Vermûnd presero a gridare, ad agitare le mani e a cercare in ogni modo possibile di monopolizzare la conversazione, e il raduno scivolò nel caos. Eragon si alzò e allentò la fibbia del fodero della spada presa in prestito, sfilandola di mezzo pollice per poter rispondere in fretta se Vermûnd o uno dei suoi nani avessero scelto quel momento per attaccare. Tuttavia Vermûnd non si mosse, e nemmeno Orik; si fissavano come lupi rivali, noncuranti del trambusto intorno a loro.
Alla fine, quando Gannel riuscì a ristabilire l'ordine, disse: «Grimstborith Vermûnd, sei in grado di confutare queste accuse?»
Con voce piatta e priva di emozione, il capoclan rispose: «Le respingo con ogni osso che ho in corpo e sfido chiunque a provarle con il benestare di un esperto nelle nostre leggi.»
Gannel si rivolse a Orik. «Presenta le tue prove, dunque, così che possiamo giudicare se sono valide oppure no. Ci sono cinque esperti qui riuniti oggi, se non mi sbaglio.» Fece un cenno verso la parete, e cinque nani dalla barba bianca si alzarono e si inchinarono. «Garantiranno che nel corso della nostra indagine non oltrepassiamo i confini della legge. Siamo tutti d'accordo?»
«Sì» rispose Ûndin.
«Sì» gli fecero eco Hadfala e gli altri capiclan, tranne Vermûnd.
Per prima cosa, Orik posò il braccialetto di ametista sul tavolo. Ogni capoclan lo fece esaminare dai suoi stregoni, ma convennero tutti che non si trattava di una prova schiacciante.
Poi fece portare da un aiutante uno specchio montato su un treppiede di bronzo. Uno dei maghi del suo seguito pronunciò un incantesimo e sulla superficie lucida dello specchio apparve l'immagine di una stanzetta piena di libri. Trascorse un istante e poi videro entrare di corsa un nano che si inchinò verso i capiclan. Senza fiato, disse di chiamarsi Rimmar, e dopo aver prestato giuramento nell'antica lingua a garanzia della propria onestà raccontò al raduno che lui e i suoi assistenti avevano scoperto cose interessanti sui pugnali degli assassini di Eragon.
Quando i capiclan ebbero finito di interrogare Rimmar, Orik chiese ai suoi guerrieri di portare i tre nani catturati dall'Ingeitum. Gannel ordinò loro di prestare giuramento nell'antica lingua, ma loro lo maledissero, sputarono per terra e si rifiutarono. Poi i maghi di tutti i clan unirono i loro pensieri, invasero le menti dei prigionieri e carpirono loro le informazioni desiderate. Senza eccezioni, confermarono la versione di Orik.
Infine Orik chiamò a testimoniare Eragon. Il giovane si sentiva nervoso mentre avanzava verso il tavolo sotto lo sguardo dei tredici capiclan incupiti. Fissò una piccola spirale di colore su un pilastro di marmo davanti a sé e cercò di reprimere il disagio. Ripeté il giuramento così come lo pronunciò uno dei maghi e poi, limitandosi allo stretto necessario, raccontò dell'attacco. Infine rispose alle inevitabili domande dei nani e permise a due maghi, scelti a caso da Gannel tra i presenti, di esaminare i ricordi che serbava dell'evento. Via via che abbassava le barriere attorno alla sua mente, Eragon notò che cresceva l'apprensione dei due maghi, e lo trovò confortante. Bene, pensò. Se hanno paura di me, sarà meno probabile che ficchino il naso dove non dovrebbero.
Con suo grande sollievo, l'ispezione procedette senza incidenti e i maghi confermarono la sostanza del suo racconto ai capiclan.
Gannel si alzò e si rivolse agli esperti di legge: «Siete soddisfatti delle prove che Grimstborith Orik ed Eragon Ammazzaspettri vi hanno portato?»
I cinque nani dalla barba bianca si inchinarono e quello al centro rispose: «Sì, Grimstborith Gannel.»
Gannel grugnì; non sembrava molto sorpreso. «Grimstborith Vermûnd, sei responsabile della morte di Kvîstor, figlio di Bauden. Per di più hai tentato di uccidere un ospite, gettando la vergogna sull'intera razza. Che cos'hai da dire a riguardo?»
Il capoclan dell'Az Sweldn rak Anhûin premette le mani sul tavolo, le vene in rilievo sotto la pelle abbronzata. «Se questo Cavaliere dei Draghi è un knurla in tutto e per tutto tranne che nel sangue, allora non è un ospite, e dunque possiamo trattarlo come se fosse un qualunque nemico di un clan diverso.»
«Oh, ma è assurdo!» esclamò Orik, quasi sputacchiando tanto era infuriato. «Non puoi sostenere che Era...»
«Per cortesia, Orik, tieni a freno la lingua» intervenne Gannel. «Gridare non servirà a chiarire questo punto. Orik, Nado, Íorûnn, venite con me.»
Eragon si sentì attanagliare dalla preoccupazione mentre i quattro nani conferivano con gli esperti giuristi. Di sicuro non lasceranno che Vermûnd la faccia franca solo grazie a qualche gioco di parole! Dev'essere punito, pensò.
Tornata al tavolo, Íorûnn disse: «Gli esperti giuristi hanno espresso un giudizio unanime. Oltre a essere un membro effettivo del Dûrgrimst Ingeitum, Eragon riveste posizioni di prestigio al di fuori del nostro regno: prima di tutto è un Cavaliere dei Draghi, ma è anche un inviato ufficiale dei Varden, mandato da Nasuada per assistere all'incoronazione del nostro prossimo sovrano, e un amico molto influente della regina Islanzadi e del suo popolo. Per questi motivi gli è dovuta la stessa ospitalità che concederemmo a ogni altro ambasciatore, principe, monarca o autorità in visita.» La donna gli scoccò un'occhiata, gli occhi scuri e luccicanti sfacciatamente puntati sul suo corpo. «In breve, è un ospite d'onore, e noi dobbiamo trattarlo come tale... ogni knurla con un po' di buonsenso dovrebbe saperlo.»
«Sì, è nostro ospite» convenne Nado. Aveva le labbra esangui e screpolate e le guance tese, come se avesse appena dato un morso a una mela scoprendo che non era ancora matura.
«Che cos'hai da dire ora, Vermûnd?» gli chiese Gannel.
Alzatosi, il nano coperto dal lungo velo viola passò in rassegna i presenti seduti al tavolo, guardando un capoclan dopo l'altro. «Sentite bene cos'ho da dire, grimstborithn: se uno dei vostri clan rivolge l'ascia contro l'Az Sweldn rak Anhûin a causa di queste false accuse, lo giudicheremo un atto di guerra e risponderemo nel modo più appropriato. Se mi imprigionate, lo giudicheremo un atto di guerra e risponderemo nel modo più appropriato.» Eragon vide il velo di Vermûnd fremere e immaginò che il nano stesse sorridendo. «Se ci colpirete, che sia con l'acciaio o con le parole, per quanto blanda sia la vostra accusa, lo giudicheremo un atto di guerra e risponderemo nel modo più appropriato. A meno che non siate ansiosi di mandare il nostro paese in mille sanguinosi pezzi, vi suggerisco di lasciare che il vento spazzi via la discussione di stamattina e di concentrarvi invece su chi salirà sul trono di granito per governarci.»
I capiclan rimasero seduti a lungo in silenzio.
Eragon dovette mordersi la lingua per trattenersi dal balzare sul tavolo e scagliarsi contro Vermûnd almeno finché i nani non avessero acconsentito a impiccarlo per i crimini commessi. Ricordò a se stesso che aveva promesso a Orik di assecondarlo durante la consulta. Orik è il mio capoclan e devo lasciare che replichi a questa dichiarazione come meglio crede.
Freowin sciolse le mani e picchiò sul tavolo un palmo carnoso. Con la sua roca voce da baritono, che si diffuse per tutta la stanza benché non sembrasse più forte di un sussurro, il nano corpulento disse: «Hai gettato la vergogna sulla nostra razza, Vermûnd. Non possiamo mettere da parte il nostro onore di knurlan e ignorare la tua violazione.»
Hadfala fece frusciare il fascio di pagine ricoperte di rune e disse: «Che cosa credevi di ottenere uccidendo Eragon, se non la nostra rovina? Anche se i Varden riuscissero a detronizzare Galbatorix senza di lui, hai mai pensato al dolore che ci riverserebbe addosso la dragonessa Saphira se uccidessimo il suo Cavaliere? Colmerebbe il Farthen Dûr di un mare di sangue. Il nostro.»
Vermûnd non proferì parola.
Una risata squarciò il silenzio. Il suono fu così inaspettato che all'inizio Eragon non si accorse che proveniva da Orik. Quando quello scatto d'ilarità si fu placato, Orik disse: «Se prendiamo provvedimenti contro l'Az Sweldn rak Anhûin lo giudicherai un atto di guerra, Vermûnd? Benissimo: allora non dobbiamo farlo, niente affatto.»
Vermûnd sporse in avanti la fronte. «E allora dove sta il divertimento?»
Orik ridacchiò di nuovo. «Ho pensato a una cosa che evidentemente ti è sfuggita. Vuoi che lasciamo in pace te e i tuoi? Allora propongo ai clan qui presenti di esaudire la tua richiesta. Se Vermûnd ha agito da solo e non in qualità di grimstborith, sarà bandito per le sue offese sotto pena di morte. E tratteremo il suo clan alla stessa stregua: bandiremo l'Az Sweldn rak Anhûin dai nostri cuori e dalle nostre menti finché non sceglieranno di sostituire Vermûnd con un capoclan di temperamento più moderato e finché non riconosceranno il loro crimine e non se ne pentiranno davanti a questo raduno, dovessimo anche aspettare un migliaio di anni.»
La pelle rugosa attorno agli occhi di Vermûnd impallidì. «Non oseresti mai.»
Orik sorrise. «Così non toccheremmo né te né il tuo clan, nemmeno con un dito. Ci limiteremo a ignorarti e a rifiutarci di commerciare con l'Az Sweldn rak Anhûin. Ci dichiarerai guerra perché non facciamo niente, Vermûnd? Se gli altri capiclan sono d'accordo con me, questo è precisamente ciò che faremo: niente. Ci minaccerai con la spada per costringerci a comprare il vostro miele, le vostre stoffe e i vostri gioielli di ametista? Non hai abbastanza guerrieri.» Rivolto al resto dei presenti, chiese: «Voi che ne dite?»
I capiclan non impiegarono molto a decidere. Uno dopo l'altro, si alzarono e votarono per bandire l'Az Sweldn rak Anhûin. Perfino Nado, Gàldhiem e Havard, prima alleati di Vermûnd, sostennero la proposta di Orik. A ogni voto a favore, il lembo di pelle visibile sotto il velo di Vermûnd diventava sempre più bianco, finché non parve un fantasma ancora avvolto negli abiti della vita precedente.
Quando la votazione fu conclusa, Gannel indicò la porta e disse: «Vattene, Vargrimstn Vermûnd. Lascia Tronjheim oggi stesso, e che nessun altro membro dell'Az Sweldn rak Anhûin osi interrompere questo raduno finché non saranno rispettate le condizioni stabilite. Fino a quel momento, chiunque di loro sarà escluso. Sappi una cosa, tuttavia, Vermûnd: mentre quelli del tuo clan potranno essere assolti dal loro disonore, tu rimarrai un Vargrimstn fino al giorno della tua morte. Questo è il volere dei capiclan qui riuniti.» Conclusa la sua dichiarazione, Gannel sedette.
Vermûnd rimase dov'era, le spalle scosse da un'emozione che Eragon non riuscì a identificare. «Siete voi che avete infangato e tradito la nostra razza» borbottò. «I Cavalieri dei Draghi hanno ucciso tutti i componenti del nostro clan, tranne Anhûin e le sue guardie. Vi aspettate che possiamo dimenticarlo? Vi aspettate che possiamo perdonare? Bah! Io sputo sulle tombe dei vostri antenati. Noi almeno non abbiamo perso la barba. Non staremo qui a gingillarci con questo burattino degli elfi mentre i membri defunti della nostra famiglia gridano ancora vendetta.»
Dato che nessuno degli altri capiclan replicava, Eragon si infuriò, e stava per rispondere all'invettiva di Vermûnd con parole dure quando Orik gli scoccò un'occhiata e scosse il capo in modo quasi impercettibile. Eragon tenne a freno la rabbia con difficoltà, pur chiedendosi perché Orik permetteva che insulti così gravi venissero ignorati.
È come se... Oh.
Allontanata la sedia dal tavolo, Vermûnd si alzò, le mani strette a pugno, le spalle diritte. Riprese a parlare, rimproverando e denigrando i capiclan con crescente veemenza, finché non si ritrovò a gridare a squarciagola.
Per quanto oltraggiose fossero le sue imprecazioni, i capiclan non risposero. Fissavano un punto in lontananza, come se stessero ponderando complessi dilemmi, e il loro sguardo scivolava su Vermûnd senza soffermarsi. Nella concitazione del momento, quando il traditore afferrò Reidamar per la cotta di maglia, tre delle guardie del capo del Dûrgrimst Urzhad balzarono su di lui e lo allontanarono, ma Eragon notò che mantenevano un'espressione mite e serafica, come se stessero solo aiutando il loro capo ad aggiustarsi l'usbergo. Quando ebbero lasciato andare Vermûnd, non lo degnarono più di alcuna attenzione.
Eragon sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena. I nani si comportavano come se Vermûnd avesse cessato di esistere. Dunque nel regno dei nani significa questo essere banditi. Eragon pensò che avrebbe preferito essere ucciso piuttosto che subire un simile destino, e per un attimo provò un moto di pietà per Vermûnd, che però svanì non appena si ricordò dell'espressione di Kvîstor in punto di morte.
Concluso il suo discorso con un'imprecazione, Vermûnd uscì a grandi falcate dalla stanza, seguito dai membri del suo clan che l'avevano accompagnato al raduno.
Non appena le porte si furono chiuse alle sue spalle, l'atmosfera del raduno si distese. I nani si guardarono intorno liberamente e ripresero a parlare ad alta voce, discutendo di altri provvedimenti possibili da prendere nei confronti dell'Az Sweldn rak Anhûin.
Poi Orik batté il pomolo del suo pugnale sul tavolo e tutti si volsero ad ascoltarlo. «Ora che Vermûnd è stato sistemato, c'è un altro argomento che vorrei sottoporre alla vostra attenzione. Lo scopo di questo raduno è eleggere il successore di Rothgar. Abbiamo avuto tutti molto da dire a riguardo, ma ora credo che i tempi siano maturi per mettere da parte le parole e lasciar parlare i fatti. Dunque vi chiedo di decidere se siamo pronti - e secondo me lo siamo - a procedere alla votazione finale in capo a tre giorni, come previsto dalla nostra legge. Io voto sì.»
Freowin guardò Hadfala, che guardò Gannel, che guardò Manndrâth, che si toccò il naso adunco e guardò Nado, sprofondato nella sedia e intento a mordersi l'interno di una guancia.
«Sì» disse Íorûnn.
«Sì» le fece eco Ûndin.
«... Sì» confermò Nado, e così fecero anche gli altri otto capiclan.
Ore dopo, durante la pausa per il pranzo, Orik e Eragon tornarono nell'alloggio del nano per mangiare. Nessuno dei due parlò finché non furono nelle sue stanze, al sicuro da orecchie indiscrete. Solo allora Eragon si concesse un sorriso. «Hai sempre avuto in mente di bandire l'Az Sweldn rak Anhûin, vero?»
Con espressione soddisfatta, anche Orik sorrise e si diede una pacca sulla pancia. «Già. Era l'unica azione che potevo intraprendere per non arrivare alla guerra. Forse scoppierà comunque, ma non sarà per causa nostra. Dubito che una tale calamità si abbatta su di noi, comunque. Per quanto ti detestino, gli Az Sweldn rak Anhûin rimarranno inorriditi da ciò che ha fatto Vermûnd a nome di tutto il clan. Non resterà il loro grimstborith a lungo, credo.»
«E adesso ti sei assicurato che la votazione per eleggere il nuovo re...» «O la nuova regina.»
«... o la nuova regina abbia luogo fra tre giorni.» Eragon esitò, riluttante
all'idea di incrinare la gioia di Orik, ma poi gli chiese: «Hai davvero tutto il sostegno che ti serve per ottenere il trono?»
Orik si strinse nelle spalle. «Prima di stamattina non ce l'aveva nessuno. Adesso gli equilibri si sono modificati e per il momento le simpatie degli altri clan sono per noi. Bisognerà cogliere l'occasione; non avremo mai un'opportunità migliore di questa. E comunque non possiamo permettere che la consulta si protragga oltre. Se non torni presto dai Varden, potrebbe essere tutto perduto.»
«Che cosa facciamo in attesa del voto?»
«Prima di tutto dobbiamo festeggiare il nostro successo con un banchetto» dichiarò Orik. «Poi, quando saremo sazi, riprenderemo le nostre attività: cercheremo di ottenere altri voti e nel contempo difenderemo quelli che ci siamo già conquistati.» Poi Orik sorrise di nuovo e i denti candidi brillarono sotto la barba. «Ma prima di tracannare anche un solo sorso di idromele, devi occuparti di una cosa di cui ti sei dimenticato.»
«Ossia?» chiese Eragon, confuso dalla gioia di Orik.
«Be', devi invitare Saphira a Tronjheim, naturalmente! Che io diventi re oppure no, fra tre giorni il nuovo sovrano sarà incoronato. Se Saphira deve essere dei nostri, dovrà volare veloce per arrivare in tempo.»
Con una muta imprecazione, Eragon corse a cercare uno specchio.
♦ ♦ ♦
INSUBORDINAZIONE
Roran s'inginocchiò per toccare il terriccio nero.
Era freddo. Staccò una piccola zolla e la sbriciolò fra le dita, notando compiaciuto come era umida e ricca di foglie in decomposizione, di steli, di muschio e di altro materiale organico, eccellente concime per le colture. La premette contro le labbra e la lingua. La zolla sapeva di vita, satura di centinaia di aromi: montagne polverizzate e scarafaggi e legno marcio e tenera erbetta.
Questa terra è buona da coltivare, pensò. Ritornò col pensiero alla Valle Palancar e rivide il campo d'orzo della fattoria inondato di sole autunnale - file ordinate di steli dorati che ondeggiavano nella brezza - con il fiume Anora a ovest e le montagne innevate che svettavano su entrambi i lati della valle. Dovrei essere laggiù, ad arare la terra e mettere su famiglia con Katrina, non qui a innaffiare il terreno con linfa di membra umane.
«Ehi, Fortemartello!» gridò il capitano Edric in sella al cavallo, facendogli un cenno. «Non startene lì con le mani in mano, altrimenti cambio idea e ti lascio di guardia con gli arcieri.»
Roran si scrollò la polvere dai pantaloni di pelle e si rialzò. «Signorsì! Agli ordini, signore!» disse, mascherando l'antipatia che provava per il capitano. Da quando si era unito alla compagnia di Edric, Roran aveva cercato di apprendere il più possibile sul suo conto. E in base alle voci che circolavano aveva concluso che Edric era un condottiero competente - Nasuada altrimenti non gli avrebbe mai affidato una missione così importante
- ma dai modi aspri, e puniva i suoi guerrieri alla minima violazione delle regole da lui imposte, come Roran aveva imparato a proprie spese in tre diverse occasioni già il primo giorno nella sua compagnia. Secondo lui era uno stile di comando che minava il morale dei sottoposti, scoraggiandone la creatività e l'inventiva. Forse Nasuada mi ha assegnato a lui proprio per questa ragione, pensò. O magari è un'altra delle sue prove. Forse vuole sapere se riesco a rinunciare al mio orgoglio tanto da lavorare con un uomo come Edric.
Risalito in groppa a Fiammabianca, Roran cavalcò fino alla testa della colonna di duecentocinquanta uomini. La loro missione era semplice: poiché Nasuada e re Orrin avevano ritirato il grosso delle forze dal Surda, Galbatorix aveva deciso di approfittare della loro assenza per portare morte e distruzione nel paese indifeso, saccheggiando cittadine e villaggi, e bruciando i campi che fornivano le colture necessarie a sostenere l'invasione dell'Impero. La maniera più semplice per sbarazzarsi dei soldati sarebbe stata mandare Saphira allo scoperto per farli a pezzi, ma a meno che non dovesse raggiungere Eragon per qualche motivo, erano tutti d'accordo nel ritenere troppo pericoloso per i Varden privarsi di lei. Così Nasuada aveva inviato la compagnia di Edric a respingere i soldati, che secondo le spie dovevano essere circa trecento. Tuttavia, due giorni prima, Roran e il resto dei guerrieri avevano scoperto con sgomento una serie di impronte che indicavano che le forze di Galbatorix si assestavano piuttosto sulle settecento unità.
Tenendo Fiammabianca per le redini, Roran affiancò Carn sulla sua giumenta pomellata e, grattandosi il mento, studiò il terreno. Davanti a loro c'era una vasta distesa d'erba ondulata, punteggiata da qualche sporadico boschetto di salici o pioppi. In alto i falchi volavano in circolo, a caccia di topi, conigli, piccoli roditori e altri animali selvatici che si nascondevano fra l'erba. L'unica prova del passaggio degli uomini era la striscia di vegetazione calpestata che puntava verso l'orizzonte a est, indicando la direzione presa dal contingente.
Carn alzò lo sguardo verso il sole di mezzogiorno. Una ragnatela di rughe gli si formò intorno agli occhi socchiusi. «Dovremo superarli prima che le nostre ombre si allunghino.»
«E allora scopriremo se siamo abbastanza per scacciarli» borbottò Roran «o per essere massacrati. Una volta tanto, mi piacerebbe che fossimo più numerosi dei nostri nemici.»
Un sorriso sinistro apparve sul volto di Carn. «È sempre così con i Varden.»
«Allineatevi!» urlò Edric, e spronò il cavallo per lanciarsi lungo la pista di erba calpestata. Roran serrò la mascella e diede un colpetto di talloni nei fianchi di Fiammabianca, mentre la compagnia seguiva il capitano.
Sei ore più tardi, Roran era in groppa a Fiammabianca, nascosto in un boschetto di betulle che crescevano lungo la sponda di un fiumiciattolo stagnante, soffocato da giunchi e viluppi di alghe. Attraverso l'intrico di rami davanti a sé, osservava un villaggio grigio e cadente, composto da non più di una ventina di case. Aveva schiumato di rabbia quando aveva visto i villici che, appena scorti i soldati avanzare da ovest, si erano affrettati a raccogliere i loro pochi averi per fuggire a sud, verso il cuore del Surda. Fosse dipeso da lui, Roran avrebbe svelato la presenza della compagnia agli abitanti del villaggio e avrebbe garantito loro che non rischiavano di perdere le case, non se lui e i suoi compagni erano lì a impedirlo, perché ricordava fin troppo bene il dolore, la disperazione e l'amarezza che aveva provato nell'abbandonare Carvahall. Se avesse potuto, avrebbe risparmiato ai villici quelle angosce e avrebbe chiesto agli uomini di combattere insieme a loro. Dieci o venti uomini armati in più avrebbero potuto fare la differenza fra la vittoria e la sconfitta, e Roran conosceva meglio di chiunque altro il fervore con cui la gente combatte quando si tratta di difendere la propria casa. Purtroppo Edric aveva respinto la sua idea e insistito affinché i Varden rimanessero nascosti fra le colline a sud-est del villaggio.
«Siamo stati fortunati, sono a piedi» mormorò Carn indicando la colonna rossa di soldati che marciava verso il villaggio. «Altrimenti non ce l'avremmo fatta ad arrivare qui per primi.»
Roran scoccò un'occhiata alle sue spalle, verso gli uomini radunati dietro di loro. Edric gli aveva affidato il comando temporaneo di ottantuno guerrieri, fra spadaccini, lancieri e cinque o sei arcieri. Uno dei parenti di Edric, Sand, guidava altri ottantuno uomini della compagnia, mentre il resto era sotto il comando dello stesso Edric. Tutti e tre i gruppi erano ammassati nel boschetto di betulle, un grave errore, secondo Roran: il tempo necessario a schierarsi una volta usciti allo scoperto sarebbe stato un prezioso regalo per i soldati nemici, che così avrebbero potuto organizzare le proprie difese.
Roran si sporse verso Carn e disse: «Non vedo nessuno di loro monco o storpio o ferito, ma questo non prova nulla. Sai dirmi se fra di loro ci sono uomini che non sentono il dolore?»
Carn sospirò. «Vorrei poterlo fare. Tuo cugino potrebbe, perché gli unici stregoni che Eragon deve temere sono Murtagh e Galbatorix, ma io sono un mago mediocre e non oso sondare la mente dei soldati. Se ci fossero degli stregoni nascosti fra di loro, sentirebbero subito che ci sono io a spiarli, e probabilmente non riuscirei nemmeno a entrare nella loro mente prima che avvertano i compagni che ci troviamo qui.»
«A quanto pare, ogni volta che stiamo per combattere ci ritroviamo ad affrontare questa stessa discussione» osservò Roran. Nel frattempo studiava gli armamenti dei soldati, cercando di decidere come meglio schierare i suoi uomini.
Con una risata amara, Carn disse: «Proprio così. Spero solo di continuare a farlo, perché altrimenti...»
«Uno di noi sarebbe morto, se non entrambi...»
«Oppure vorrebbe dire che Nasuada ci ha assegnati a capitani diversi...»
«E allora tanto varrebbe essere morti, perché nessuno ci guarderebbe le spalle altrettanto bene» concluse Roran. Un sorriso gli sfiorò le labbra. Si scambiavano sempre quella battuta prima di combattere. Estrasse il martello dalla cintura e trasalì sentendo una fitta alla gamba destra, là dove il bue gli aveva lacerato la carne con il corno. Accigliato, tese la mano e si massaggiò la ferita.
Carn se ne accorse e gli domandò: «Stai bene?»
«Non morirò» rispose Roran, poi riconsiderò le parole dette. «O forse sì, ma che mi venga un colpo se resto qui ad aspettare mentre tu vai laggiù a massacrare quegli zotici.»
Raggiunto il villaggio, i soldati lo attraversarono a passo di marcia e, fermandosi davanti a ogni casa, abbatterono le porte per irrompere nelle stanze e controllare che non ci fosse nessuno nascosto. Un cane sbucò di corsa da dietro un barile per raccogliere l'acqua piovana e, con i peli del collo gonfi e arruffati, cominciò ad abbaiare contro i soldati. Uno degli uomini fece un passo avanti e gli scagliò addosso una lancia, uccidendolo sul colpo.
Non appena il primo dei soldati ebbe raggiunto l'estremità opposta del villaggio, Roran serrò la mano intorno al manico del martello preparandosi alla carica, ma poi udì una serie di strilli acuti e fu preso dal terrore. Uno squadrone di soldati emerse dalla penultima casa trascinando fuori tre persone che si divincolavano: un uomo allampanato dai capelli bianchi, una giovane donna con la blusa strappata e un ragazzino di non più di undici anni.
La fronte di Roran s'imperlò di sudore. Cominciò a imprecare piano, sottovoce, maledicendo i tre prigionieri per non essere fuggiti con gli altri, maledicendo i soldati per quanto avevano fatto e stavano per fare, maledicendo Galbatorix e maledicendo i capricci del fato responsabile della situazione. Sentiva gli uomini alle sue spalle agitarsi e mugugnare, impazienti di punire i soldati per la loro brutalità.
Dopo aver setacciato tutte le case, i soldati tornarono sui propri passi fino al centro del villaggio e formarono un rozzo semicerchio intorno ai prigionieri.
Sì! esultò Roran dentro di sé, mentre i soldati davano la schiena ai Varden. Il piano di Edric era di aspettare proprio quel momento. In attesa dell'ordine di carica, Roran si sollevò dalla sella di una spanna, il corpo in tensione. Provò a deglutire, ma aveva la gola troppo secca.
L'ufficiale in capo dei soldati, l'unico a cavallo, smontò dal suo destriero e scambiò qualche parola incomprensibile con l'uomo dai capelli bianchi. Poi, senza alcun preavviso, sguainò la spada e decapitò il vecchio, facendo un balzo indietro per evitare lo spruzzo di sangue. La giovane donna urlò ancora più forte di prima.
«Carica» disse Edric.
Roran impiegò mezzo secondo per capire che la parola pronunciata da Edric con tanta calma era il comando atteso.
«Carica!» gridò Sand dall'altro lato di Edric, e un istante dopo si lanciò al galoppo con i suoi uomini fuori dal boschetto di betulle.
«Carica!» gridò Roran, e affondò i talloni nei fianchi di Fiammabianca. Mentre il cavallo si gettava nel groviglio di rami, Roran alzò lo scudo per proteggersi, poi lo abbassò di nuovo quando uscirono allo scoperto per galoppare giù dal fianco della collina in un fragore di zoccoli scalpitanti. Nella speranza di riuscire a salvare almeno la donna e il bambino, Roran spronò il cavallo al limite delle sue possibilità. Guardandosi indietro, fu contento di vedere che il suo contingente si era staccato dal resto dei Varden senza difficoltà; tranne pochi ritardatari, la maggior parte avanzava in un gruppo compatto a meno di trenta piedi da lui.
Scorse Carn cavalcare nell'avanguardia di Edric, il mantello grigio che svolazzava nel vento. Ancora una volta rimpianse che Edric non gli avesse permesso di restare nello stesso gruppo.
Secondo gli ordini, Roran non entrò direttamente nel villaggio, ma deviò a sinistra per aggirare le case e fiancheggiare i soldati, per poterli attaccare da un'altra direzione. Sand fece lo stesso a destra, mentre Edric e i suoi guerrieri puntarono dritti sul villaggio.
Anche se una fila di case gli impedì di vedere l'impatto iniziale, Roran udì un coro di urla concitate, poi una serie di strani schiocchi metallici, e ancora grida di uomini e nitriti di cavalli.
Preoccupato, si sentì torcere le budella. Cos'era quel rumore? Archi di metallo? Esistono davvero armi del genere? Qualunque fosse il motivo, sapeva che non avrebbe dovuto sentire così tanti nitriti di cavalli in agonia. Rabbrividì quando si rese conto che l'attacco era fallito e che la battaglia poteva già essere perduta.
Quando oltrepassò l'ultima casa, tirò forte le redini di Fiammabianca e lo guidò verso il centro del villaggio. Alle sue spalle, i suoi uomini lo imitarono. Quasi duecento iarde di fronte a sé vide una tripla fila di soldati schierati fra due case, a bloccare il passaggio. I soldati sembravano non aver alcun timore dei cavalli che correvano verso di loro.
Roran esitò. Gli ordini erano chiari: lui e i suoi uomini dovevano caricare il lato ovest e farsi strada fra le truppe di Galbatorix fino a ricongiungersi con Sand ed Edric. D'altro canto, Edric non gli aveva detto che cosa fare se, una volta raggiunta la posizione, avesse scoperto che cavalcare dritti verso i soldati non era più una tattica efficace. Roran sapeva che disobbedire agli ordini, anche per evitare di far massacrare i suoi uomini, gli sarebbe costato l'accusa d'insubordinazione e una punizione esemplare da parte di Edric.
In quel momento i soldati scostarono i voluminosi mantelli e sollevarono le balestre già cariche.
E fu sempre in quel momento che Roran decise che avrebbe fatto il possibile per garantire ai Varden la vittoria. Non avrebbe permesso ai soldati di annientare il suo gruppo con un'unica pioggia di frecce solo per evitare le spiacevoli conseguenze di un atto di disobbedienza agli ordini del suo capitano.
«Al riparo!» urlò, e tirò con forza le redini di Fiammabianca, obbligando l'animale a compiere una brusca sterzata dietro una casa. Un istante dopo, una decina di dardi si conficcarono nel lato dell'edificio. Guardandosi attorno, Roran vide che tutti i suoi guerrieri, tranne uno, erano riusciti a mettersi al riparo dietro le case vicine prima che il nemico lanciasse la salva di dardi. L'unico troppo lento giaceva sanguinante nella polvere, con una coppia di dardi affondati nel petto: gli avevano trapassato la cotta di maglia come se fosse stata un foglio di carta. Terrorizzato dall'odore del sangue, il cavallo dell'uomo ucciso scalciò e fuggì dal villaggio, in una scia di polvere.
Roran tese un braccio e afferrò il bordo di una trave sul lato della casa, tenendo fermo Fiammabianca mentre cercava un modo per uscire da quella situazione disperata. I soldati lo avevano intrappolato insieme ai suoi uomini; non potevano tornare allo scoperto senza essere trafitti da così tanti dardi che avrebbero finito per somigliare a porcospini.
Un gruppo di suoi guerrieri uscì dal riparo dietro una casa vicina all'edificio che nascondeva Roran e lo raggiunse. «Che cosa dobbiamo fare, Fortemartello?» gli domandarono. Non sembravano turbati dal fatto che avesse disobbedito agli ordini; anzi, lo fissavano con rinnovata fiducia.
Roran si guardò intorno, cercando di ragionare il più in fretta possibile. Per caso, i suoi occhi si posarono sull'arco e sulla faretra legati alla sella di uno degli uomini. Sorrise. Soltanto pochi di quei guerrieri combattevano da arcieri, ma tutti avevano arco e frecce per poter cacciare e contribuire al sostentamento della compagnia quando si trovavano da soli in luoghi selvaggi senza l'appoggio del resto dei Varden.
Roran indicò la casa contro cui era appoggiato e disse: «Prendete gli archi e arrampicatevi sul tetto, e appostatevi lì, quanti più riuscite; se tenete alla vita, però, state giù fino a nuovo ordine. Al mio segnale, cominciate a colpire il nemico e continuate finché non resterete a corto di frecce o finché anche l'ultimo soldato non sarà morto. Chiaro?»
«Signorsì!»
«Andate, allora. Quelli che non riusciranno a salire su questo tetto ne trovino altri da dove colpire i soldati. Harald, passa parola a tutti, trova dieci dei nostri migliori lancieri e dei nostri migliori spadaccini e portali qui più veloce che puoi.»
«Signorsì!»
In un turbine di movimento, i guerrieri si affrettarono a obbedire. Quelli che si trovavano più vicini a Roran recuperarono gli archi e le faretre dalle selle, poi, salendo sul dorso dei cavalli, si issarono sul tetto di paglia della casa. Qualche minuto dopo quasi tutti gli uomini di Roran erano appostati sui tetti di sette diverse case - otto uomini circa per tetto - e Harald era tornato seguito dagli spadaccini e dai lancieri.
Ai guerrieri radunati intorno a lui Roran disse: «Bene, ora statemi a sentire. Quando darò l'ordine, gli uomini sui tetti cominceranno a tirare. Non appena il primo sciame di frecce colpirà i soldati, noi usciremo allo scoperto e cercheremo di salvare il capitano Edric. Se non ci riusciamo, prepariamoci a dare alle tuniche rosse un assaggio di freddo metallo. Gli arcieri dovrebbero creare abbastanza confusione da permetterci di assalire i soldati prima che riescano a usare le balestre. Tutto chiaro?»
«Signorsì!»
«E allora... tirate!» gridò Roran.
Urlando a squarciagola, i guerrieri appostati sui tetti si alzarono e, come un sol uomo, scaricarono gli archi sui soldati nemici. Le frecce sibilarono come uno stormo di averle assetate di sangue che si tuffasse in picchiata sulle prede.
Un istante dopo, mentre si levavano i gemiti di agonia dei soldati feriti a morte, Roran disse: «E ora avanti!» E affondò i talloni nei fianchi di Fiammabianca.
In gruppo compatto, lui e i suoi uomini galopparono intorno alla casa, obbligando i destrieri a compiere una curva così stretta che rischiarono di rovesciarsi. Affidandosi alla propria velocità e all'abilità degli arcieri sui tetti, Roran schivò i soldati che correvano in preda al panico e giunse sul luogo del disastroso attacco di Edric. Lì il terreno era viscido di sangue, e fra una casa e l'altra giacevano i cadaveri di molti uomini valorosi e le carcasse dei loro cavalli. Le forze residue di Edric erano impegnate in un combattimento corpo a corpo con i soldati. Con stupore, Roran vide che il capitano era ancora vivo e combatteva schiena a schiena con cinque dei suoi uomini.
«Serrate i ranghi!» urlò Roran ai compagni mentre si gettavano nella mischia.
Fiammabianca colpì due soldati con gli zoccoli e li gettò a terra, spezzando le braccia con cui impugnavano le spade e calpestando loro le costole. Roran diede una pacca compiaciuta sul collo dello stallone, poi fece roteare il martello, ringhiando di gioia sanguinaria mentre abbatteva un soldato dopo l'altro senza che nessuno riuscisse a sostenere la ferocia del suo assalto. «A me!» urlò, affiancandosi a Edric e agli altri sopravvissuti. «A me!» Di fronte a lui, le frecce continuavano a piovere sulla massa dei soldati, costringendoli a coprirsi con gli scudi mentre cercavano di parare i colpi delle spade e delle lance dei Varden.
Quando lui e i suoi guerrieri ebbero circondato i Varden appiedati, Roran urlò: «Indietro! Indietro! Alle case!» Passo dopo passo, indietreggiarono tutti fino a portarsi fuori del raggio delle lame nemiche, poi si voltarono e corsero fino alla casa più vicina. I soldati scagliarono i dardi e uccisero tre dei Varden lungo il tragitto, ma il resto arrivò illeso all'edificio.
Edric si accasciò contro il muro, ansimando per riprendere fiato. Quando fu di nuovo in grado di parlare, fece un cenno verso gli uomini di Roran e disse: «Il vostro intervento è stato tempestivo e gradito, Fortemartello, ma perché vi vedo qui, e non a cavalcare in mezzo agli altri soldati nemici, come mi aspettavo?»
Allora Roran spiegò che cosa aveva fatto e indicò gli arcieri sui tetti.
Una cupa ruga solcò la fronte di Edric mentre ascoltava il resoconto di Roran. Tuttavia non lo punì per la sua disobbedienza, ma si limitò a dirgli: «Fa' subito scendere quegli uomini. Sono riusciti a rompere le fila dei soldati. Adesso dobbiamo affidarci all'onesto lavoro di spada per sconfiggerli.»
«Siamo troppo pochi per attaccare direttamente i soldati!» protestò Roran. «Non siamo neppure uno contro tre.»
«Dove mancano i numeri, si fa avanti il valore!» tuonò Edric. «Mi avevano detto che eri un uomo coraggioso, Fortemartello, ma a quanto pare era una menzogna, e sei pavido come un coniglio spaurito. Ora ubbidisci agli ordini e non osare contraddirmi di nuovo!» Il capitano fece un cenno a uno dei guerrieri di Roran. «Tu, laggiù, prestami il tuo stallone.» Dopo che l'uomo fu smontato, Edric balzò in sella e disse: «La metà di voi a cavallo mi segua; portiamo rinforzi a Sand. Gli altri rimangano qui con Roran.» Scalciando nei fianchi del cavallo, si allontanò al galoppo con gli uomini che avevano scelto di seguirlo, sfilando di fianco alle case per aggirare i soldati ammassati al centro del villaggio.
Mentre li guardava allontanarsi, Roran ebbe un fremito di rabbia. Non aveva mai permesso a nessuno prima di allora di mettere in dubbio il suo coraggio senza rispondere alla critica con le parole o con i pugni. Finché la battaglia era in corso, però, non sarebbe stato opportuno sfidare Edric. D'accordo, pensò, gli dimostrerò il coraggio che secondo lui mi manca. Ma non avrà altro da me. Non manderò gli arcieri a combattere corpo a corpo, quando sono più sicuri e più utili dove si trovano.
Roran si volse e ispezionò gli uomini che Edric gli aveva lasciato. Fra quelli che avevano salvato, fu felice di vedere Carn, graffiato e sporco di sangue, ma vivo. Si scambiarono un cenno, poi Roran si rivolse al gruppo. «Avete sentito quello che ha detto Edric. Io non sono d'accordo. Se facciamo come vuole, saremo una catasta di cadaveri prima del tramonto. Possiamo ancora vincere questa battaglia, ma non gettandoci fra le braccia della morte! Dove mancano i numeri, si fa avanti l'astuzia. Tutti voi sapete come mi sono unito ai Varden. Sapete che ho già combattuto e sconfitto l'Impero una volta, e proprio in un villaggio come questo! Posso farcela, ve lo giuro. Ma non da solo. Siete con me? Pensateci bene. Io mi assumerò la responsabilità di aver ignorato gli ordini di Edric, ma lui e Nasuada potrebbero punire lo stesso chiunque sia coinvolto.»
«E sarebbero degli sciocchi» grugnì Carn. «Preferirebbero che morissimo qui? Non credo proprio. Puoi contare su di me, Roran.»
A quelle parole, Roran vide gli altri uomini drizzare le spalle e serrare le mascelle. I loro occhi ardevano di rinnovata determinazione, e il giovane capì che avevano deciso di restare al suo fianco, fosse solo per non separarsi dall'unico mago della compagnia. Molti erano i guerrieri dei Varden che dovevano la vita a un membro del Du Vrangr Gata, e gli uomini d'armi che Roran conosceva si sarebbero tagliati un piede piuttosto che andare in battaglia senza uno stregone a portata di mano.
«Sì, Fortemartello» disse Harald. «Puoi contare anche su di noi.»
«Allora seguitemi!» disse Roran. Si chinò per issare Carn in sella dietro di sé, poi insieme al gruppo si lanciò al galoppo lungo il perimetro del villaggio per tornare là dove gli arcieri sui tetti continuavano a scagliare frecce sui soldati. Mentre saettavano da una casa all'altra, i dardi ronzavano tutto attorno come giganteschi insetti arrabbiati; uno si conficcò nello scudo di Harald.
Raggiunto il riparo, Roran ordinò che gli uomini a cavallo consegnassero archi e frecce a quelli a piedi, che poi mandò sui tetti delle case insieme agli altri arcieri. Mentre tutti si affrettavano a obbedirgli, Roran richiamò con un cenno Carn, che era balzato giù da Fiammabianca non appena si erano fermati, e disse: «Mi serve un incantesimo di difesa. Puoi proteggere me e altri dieci da questi dardi?»
Carn esitò. «Per quanto tempo?»
«Un minuto? Un'ora? Chi può saperlo.»
«Proteggere così tanta gente insieme da un tale numero di dardi esaurirebbe in poco tempo tutta la mia forza... però, se per te fa lo stesso, posso deviare ogni singolo dardo e...»
«Perfetto.»
«Chi vuoi che protegga?»
Roran indicò gli uomini che aveva scelto e Carn chiese a ciascuno il nome. Poi, con le spalle curve, cominciò a borbottare nell'antica lingua, il volto pallido e tirato. Per tre volte cercò di evocare l'incantesimo e per tre volte fallì. «Mi dispiace» sospirò avvilito. «Non riesco a concentrarmi.»
«Maledizione, non ti scusare» ringhiò Roran. «Fallo e basta!» Saltando giù da Fiammabianca, afferrò con le mani la testa di Carn tenendola ferma. «Guardami! Guardami dritto negli occhi. Ecco, continua a fissarmi... Bene. Adesso evoca questo dannato incantesimo!»
I lineamenti del mago si spianarono, le spalle si sciolsero; poi, con voce sicura, Carn formulò l'incantesimo. Non appena ebbe pronunciato l'ultima parola, si abbandonò alla stretta di Roran, poi si riebbe. «Fatto» disse.
Roran gli diede una pacca sulla spalla e tornò in groppa a Fiammabianca. Facendo scorrere lo sguardo sui dieci cavalieri, disse: «Guardatemi i fianchi e le spalle, ma tenetevi abbastanza lontani da permettermi di manovrare il martello.»
«Signorsì!»
«Ricordatevi che i dardi non possono farvi niente, adesso. Carn, tu resta qui. Risparmia le forze. Se ti accorgi di non riuscire più a mantenere l'incantesimo, avvertici prima di troncarlo. D'accordo?»
Carn sedette sul gradino della casa e annuì. «D'accordo.»
Stringendo con più forza scudo e martello, Roran trasse un profondo respiro nel tentativo di calmarsi. «Pronti» disse, e fece schioccare la lingua per incitare Fiammabianca.
Con i dieci cavalieri al seguito, Roran uscì allo scoperto in mezzo alla strada polverosa per affrontare ancora una volta i soldati. Al centro del villaggio restavano all'incirca cinquecento soldati di Galbatorix, per gran parte inginocchiati dietro gli scudi e impegnati a ricaricare le balestre. Di tanto in tanto, un soldato si alzava e scagliava un dardo contro uno degli arcieri sui tetti prima di rituffarsi dietro lo scudo, mentre una pioggia di frecce fendeva l'aria nel punto in cui si era alzato. Nello spiazzo disseminato di cadaveri, fasci di frecce costellavano il terreno come giunchi che emergono da una palude di sangue. A diverse centinaia di piedi di distanza, dall'altro lato dei soldati, Roran scorse un groviglio di corpi che si agitavano furiosamente, e dedusse che era lì che Sand, Edric e gli altri superstiti stavano combattendo. Se la giovane donna e il ragazzino si trovavano ancora nello spiazzo, non riusciva a vederli.
Un dardo sfrecciò ronzando verso Roran. Quando era a meno di una iarda dal suo petto, deviò bruscamente e mancò' sia lui che i suoi uomini. Roran ebbe un brivido, ma il dardo ormai era passato. La gola gli si serrò e il cuore cominciò a battergli all'impazzata.
Guardandosi intorno, vide un carro rotto addossato a un muro. Lo indicò e ordinò: «Portatelo qui e capovolgetelo. Cercate di bloccare la strada.» Agli arcieri urlò: «Non lasciate che i soldati ci attacchino ai lati! Quando ci vengono addosso, sfoltite i loro ranghi più che potete, e non appena finite le frecce, raggiungeteci.»
«Signorsì!»
«Attenti a non colpirci per sbaglio, o giuro che verrò a infestare le vostre case per l'eternità!»
«Signorsì!»
Altri dardi sfrecciarono lungo la strada, diretti contro Roran e i suoi uomini, ma ogni volta furono intercettati dall'incantesimo di Carn e deviarono conficcandosi in un muro, nel terreno o schizzando verso il cielo.
Roran osservò i suoi uomini trascinare il carro al centro della strada. Poco prima che finissero di sistemarlo, alzò la testa, si riempì i polmoni e ruggì ai soldati con quanto fiato aveva in gola: «Voi laggiù, dico a voi, bastardi rognosi! Guardate come solo undici di noi vi sbarrano il passo. Superateci e conquisterete la libertà. Fatevi sotto, se ne avete il coraggio. Cosa? Esitate? Dov'è la vostra virilità, vermi schifosi, sacchi di bile, porci assassini? I vostri padri erano mentecatti bavosi che avrebbero dovuto essere annegati alla nascita! Già, e le vostre madri erano sgualdrine vaiolose che si accoppiavano con gli Urgali!» Roran sorrise soddisfatto quando i soldati ulularono offesi e cominciarono a loro volta a insultarlo. Tuttavia uno dei soldati parve perdere la voglia di combattere, perché scattò in piedi e si slanciò verso nord, riparandosi con lo scudo e correndo a zigzag nel disperato tentativo di evitare gli arcieri. Malgrado i suoi sforzi, i Varden lo uccisero prima che avesse percorso più di un centinaio di piedi. «Ah!» esclamò Roran. «Non c'è uno fra di voi che non sia un vigliacco, luridi topi di fogna! Se serve a darvi un po' di nerbo, allora sappiate che il mio nome è Roran Fortemartello, ed Eragon Ammazzaspettri è mio cugino! Uccidetemi, e quel pazzo infame che avete per re vi ricompenserà con un contado, o anche di più. Ma dovrete uccidermi con una lama, perché con me le vostre balestre sono inutili. Fatevi sotto lumaconi, sanguisughe, viscidi parassiti morti di fame! Fatevi sotto e provate a sconfiggermi, se ne siete capaci!»
Lanciando un feroce grido di battaglia, una trentina di soldati lasciarono cadere le balestre, sguainarono le spade scintillanti e con gli scudi levati corsero incontro a Roran e ai suoi uomini.
Alla sua destra, Roran sentì Harald dire: «Signore, sono molti più di noi.»
«Già» rispose Roran, gli occhi fissi sui soldati che si avvicinavano. Quattro di loro barcollarono e stramazzarono a terra, senza più muoversi, trafitti da numerose frecce.
«Se ci caricano tutti insieme non ce la faremo.»
«Sì, ma non lo faranno. Guarda: sono confusi e disorganizzati. Il loro comandante deve essere morto. Finché manteniamo l'ordine, non riusciranno a sopraffarci.»
«Ma Fortemartello, non possiamo uccidere così tanti uomini da soli!» protestò Harald.
Roran lo fulminò con un'occhiata. «Certo che possiamo! Noi combattiamo per proteggere le nostre famiglie e per riprenderci le nostre case e le nostre terre. Loro combattono perché Galbatorix li costringe a farlo. Non ci mettono il cuore, in questa battaglia. Perciò pensate alle vostre famiglie, pensate alle vostre case, e ricordate che è questo che state difendendo. Un uomo che combatte per qualcosa di più importante di lui è capace di uccidere cento nemici senza alcuna difficoltà!» Con lo sguardo della mente Roran rivide Katrina nel suo azzurro abito nuziale, sentì il profumo della sua pelle, udì i toni smorzati della sua voce mentre parlavano a tarda notte.
Katrina.
Poi i soldati gli furono addosso, e per un po' Roran non sentì altro che il clangore delle spade che cozzavano sul suo scudo, i tonfi del suo martello che si abbatteva sugli elmi e le urla dei soldati che crollavano sotto i suoi colpi. I soldati gli si scagliavano contro guidati dalla forza della disperazione, ma non potevano competere con lui e i suoi uomini. Quando ebbe ucciso l'ultimo degli aggressori, Roran scoppiò a ridere euforico. Che gioia, aver sbaragliato coloro che avrebbero potuto fare del male a sua moglie e a suo figlio non ancora nato!
Fu contento di vedere che nessuno dei suoi guerrieri era rimasto ferito in modo grave. Si accorse anche che durante lo scontro diversi arcieri erano scesi dai tetti per combattere a cavallo con loro. Roran sorrise e disse: «Benvenuti sul campo di battaglia!»
«Davvero un caloroso benvenuto!» rispose uno degli arcieri.
Indicando con il martello sporco di sangue il lato della strada, Roran disse: «Tu, tu, e tu, ammassate i corpi laggiù. Usateli insieme al carro per formare una barricata, in modo che solo due o tre soldati alla volta possano venirci addosso.»
«Signorsì!» risposero i guerrieri, smontando di sella.
Un dardo sibilò verso Roran. Lui lo ignorò e si concentrò sul gruppo principale dei nemici, dove un centinaio di soldati si stavano preparando per un secondo assalto. «Svelti!» urlò agli uomini che trascinavano i cadaveri. «Ci sono quasi addosso. Harald, vai ad aiutarli!»
Roran si inumidì le labbra, guardando nervoso i suoi uomini all'opera mentre i soldati avanzavano. Con suo grande sollievo, i quattro Varden sistemarono l'ultimo cadavere e balzarono in groppa ai loro destrieri molto prima che l'ondata di soldati li travolgesse.
Il carro capovolto e la raccapricciante barriera di resti umani, che sbarravano quasi completamente la strada, rallentarono e compressero il flusso di soldati tanto che quando raggiunsero Roran riuscivano ad avanzare a malapena. I soldati erano così ammassati che non riuscirono a sfuggire alle frecce scoccate dai tetti.
Le prime due file di soldati erano armate di lance, con cui minacciavano Roran e gli altri Varden. Roran parò tre diversi affondi, imprecando fra i denti quando si rese conto che le lance gli impedivano di avvicinarsi abbastanza ai nemici per colpirli con il martello. Poi un soldato trafisse una spalla di Fiammabianca, e Roran si chinò in avanti per evitare di essere disarcionato, mentre lo stallone nitriva e s'impennava.
Quando Fiammabianca toccò di nuovo il terreno con gli anteriori, Roran scivolò giù dalla sella tenendo lo stallone fra sé e la selva di lance. Fiammabianca s'impennò quando una seconda lancia lo colpì al fianco. Prima che i soldati potessero ferirlo ancora, Roran tirò le redini costringendolo a indietreggiare, finché non ci fu abbastanza spazio fra gli altri cavalli per farlo girare. «Yah!» gridò, e gli diede una pacca sulla groppa per farlo allontanare dal villaggio.
«Fate largo!» urlò Roran ai Varden. I guerrieri gli aprirono un varco fra i destrieri e lui balzò di nuovo in prima linea, infilando il martello nella cintura mentre correva.
Un soldato cercò di colpirlo al petto con la lancia. Roran la bloccò con il polso, e anche se si ferì con il duro legno dell'asta riuscì a strapparla dalle mani del soldato. L'uomo cadde a faccia avanti. Con una torsione del braccio, Roran lo trafisse con la sua stessa arma, poi si avventò contro altri due soldati e li uccise. Si fermò a gambe divaricate, piantando i piedi nel terreno fertile che un tempo avrebbe cercato di coltivare, e agitò la lancia contro i nemici, urlando: «Avanti, bastardi farabutti! Provate a uccidermi se ci riuscite! Io sono Roran Fortemartello e non temo nessun uomo vivo!»
I soldati arrancarono nella strettoia; tre di loro salirono sui corpi dei loro compagni caduti in duello con Roran. Scartando di lato, Roran conficcò la lancia nella mascella del soldato all'estrema destra, frantumandogli i denti. Ritirò la lancia, tracciando un arco di sangue nell'aria, e poi s'inginocchiò di colpo per trafiggere il soldato al centro dell'ascella.
Poi sentì qualcosa colpirlo alla spalla sinistra. Lo scudo si fece più pesante. Rialzandosi, vide una lancia conficcata nelle assi di legno di quercia, mentre il terzo soldato gli si avventava contro con la spada sguainata. Roran sollevò la lancia sopra la testa, come se volesse scagliarla, poi, quando il soldato esitò, gli sferrò un calcio in mezzo alle gambe. Gli bastò un solo colpo per sbarazzarsi di lui. Nel breve intervallo che seguì, Roran si liberò dello scudo ormai inutile e lo scaraventò fra i piedi dei nemici con la lancia ancora conficcata, con l'intenzione di farli inciampare.
Altri soldati si fecero avanti sulle gambe malferme, intimoriti dal ghigno ferale di Roran e dalla sua lancia. La collinetta di cadaveri davanti a lui crebbe; quando gli arrivò alla cintola, Roran balzò in cima alla catasta insanguinata, dove sfruttò il vantaggio dell'altezza malgrado l'appoggio instabile. Dato che i soldati dovevano scalare una montagna di corpi per raggiungerlo, Roran riuscì a ucciderne molti altri che inciampavano in un braccio, o in una gamba, o affondavano il piede nel collo morbido di uno di quelli che li avevano preceduti, o scivolavano su uno scudo.
Grazie alla posizione elevata, Roran riuscì a vedere che il resto dei soldati aveva deciso di unirsi all'assalto, eccetto una ventina che continuava a combattere dall'altra parte del villaggio con i guerrieri di Sand ed Edric. E capì che non avrebbe più avuto tregua se non a battaglia conclusa.
Nel corso della giornata, Roran riportò decine di ferite. La maggior parte era di poco conto - un taglio all'interno dell'avambraccio, un dito rotto, un graffio sul costato dove una spada gli aveva lacerato la cotta di maglia - ma alcune erano piuttosto gravi. Un soldato caduto sulla pila di cadaveri gli trafisse il polpaccio destro, azzoppandolo. Subito dopo, un omone che puzzava di cipolle e formaggio gli cadde addosso e, con una zaffata di alito pestilenziale, gli conficcò il dardo di una balestra nella spalla sinistra, impedendogli da quel momento in poi di sollevare il braccio sopra la testa. Roran lasciò il dardo dov'era, sapendo che se lo avesse estratto sarebbe morto dissanguato. Il dolore divenne la sensazione predominante: ogni movimento gli procurava nuove fitte, ma fermarsi significava morire, perciò continuò a infliggere i suoi colpi mortali, incurante delle ferite e della stanchezza.
In certi momenti, avvertiva la presenza dei Varden alle spalle o al fianco, come quando lo sorvolava una lancia scagliata da dietro o la lama di una spada compariva di lato per trapassare un soldato sul punto di colpirlo, ma perlopiù affrontava i soldati da solo, perché lo spazio di manovra consentito dalla pila di corpi, dai muri delle case e dal carro rovesciato era esiguo. Gli arcieri sui tetti che ancora avevano frecce a disposizione continuavano la loro mortifera opera di sbarramento; le aste dall'impennaggio d'oca selvatica trapassavano ossa e tendini senza distinzione.
Più avanti nel corso della battaglia, Roran affondò la lancia contro un soldato, ma quando la punta colpì l'armatura dell'uomo, l'asta si spezzò in due per il lungo. L'uomo parve meravigliarsi di essere ancora vivo, perché aspettò un istante prima di rispondere con la spada. Quell'istante di esitazione permise a Roran di abbassarsi sotto la spada d'acciaio e di afferrare un'altra lancia, con cui uccise il soldato. Con un misto di sgomento e disgusto, Roran si vide spezzare fra le mani anche la seconda lancia. Scagliando i resti contro i soldati, Roran sfilò lo scudo a uno dei cadaveri ed estrasse il martello dalla cintura. Il suo martello almeno non lo aveva mai tradito.
La stanchezza si dimostrò la sua più formidabile avversaria, mentre gli ultimi soldati si avvicinavano alla spicciolata e ciascuno aspettava il proprio turno per sfidarlo. Roran si sentiva le membra pesanti e intorpidite, aveva la vista offuscata e respirava con difficoltà; malgrado ciò, riusciva sempre a trovare l'energia per sconfiggere l'avversario successivo. Via via che i suoi riflessi rallentavano, i soldati gli inflissero parecchie ferite con affondi che prima avrebbe evitato con agio.
Quando fra i soldati cominciarono ad aprirsi dei varchi e Roran riuscì a vedere di nuovo al di là, si rese conto che quel terribile cimento stava per concludersi. Non offrì agli ultimi dodici uomini alcuna pietà, né quelli gliela chiesero, anche se non potevano sperare di sconfiggere Roran e i Varden alle sue spalle. Non tentarono nemmeno di fuggire. Gli corsero incontro ringhiando, imprecando, con l'unico desiderio di uccidere l'uomo che aveva massacrato tanti compagni prima di loro.
In un certo senso Roran ne ammirava il coraggio.
Quattro uomini stramazzarono al suolo, il petto trafitto dalle frecce. Una lancia scagliata da qualcuno alle spalle di Roran trapassò un quinto soldato sotto la clavicola, e anche lui si accasciò sul mucchio di cadaveri. Altre due lance reclamarono le loro vittime, poi il resto dei soldati raggiunse Roran. Il soldato in testa gli si avventò contro con un'ascia dentata. Pur sentendo la punta del dardo graffiargli l'osso, Roran sollevò il braccio e bloccò l'ascia con lo scudo. Spinto dal dolore e dalla rabbia, come anche dal desiderio che la battaglia finisse al più presto, fece mulinare il martello e uccise il soldato con una mazzata alla testa. Senza fermarsi, balzò in avanti dandosi lo slancio con la gamba intatta e colpì il secondo soldato due volte al torace prima che quello riuscisse a difendersi, incrinandogli le costole. Il terzo parò due assalti, ma Roran lo ingannò con una finta e lo uccise. Gli ultimi due soldati lo strinsero da entrambi i lati, cercando di colpirlo alle caviglie mentre si arrampicavano sulla montagna di cadaveri. Ormai allo stremo, Roran duellò con tutti e due per alcuni logoranti, interminabili attimi, finché non uccise il primo sfondandogli l'elmo e l'altro spezzandogli il collo con un colpo ben assestato.
Poi vacillò e svenne.
Si sentì sollevare di peso e aprì gli occhi. Vide Harald che gli avvicinava una borraccia alle labbra. «Bevi» gli disse Harald. «Ti sentirai meglio.»
Ancora ansante, Roran bevve qualche sorso fra un rantolo e l'altro. Il vino scaldato dal sole gli bruciò la gola riarsa. Quando sentì che le gambe lo avrebbero retto di nuovo, disse: «Sto bene, puoi lasciarmi, adesso.»
Si appoggiò al martello e contemplò il campo di battaglia. Con soddisfazione notò quanto era cresciuta la collina di cadaveri: lui e i suoi compagni si trovavano a circa venti piedi dal suolo, quasi all'altezza del tetto delle case lì intorno. La maggior parte dei soldati erano stati uccisi dalle frecce, ma Roran sapeva di aver contribuito non poco a sfoltire i ranghi nemici.
«Qua... quanti?» chiese a Harald.
Il guerriero imbrattato di sangue scosse il capo. «Ho perso il conto a trentadue. Forse te lo può dire qualcun altro. Quello che hai fatto, Fortemartello... non ho mai visto compiere un'impresa simile, non da parte di un essere dotato di normali capacità umane. La dragonessa Saphira ha scelto bene: gli uomini della tua famiglia sanno combattere come nessun altro. Il tuo valore non ha pari fra gli umani, Fortemartello. Quale che sia il numero preciso di soldati che hai ucciso oggi, io...»
«Centonovantatré!» gridò Carn, arrampicandosi sui cadaveri.
«Sei sicuro?» chiese Roran, incredulo.
Carn annuì mentre li raggiungeva. «Sissignore! Io sì che ho tenuto il conto. Centonovantatré... centonovantaquattro se consideri il soldato che hai ferito al ventre prima che gli arcieri lo finissero.»
Roran rimase sbalordito davanti a quella cifra. Non avrebbe mai sospettato che fosse così esorbitante. Gli sfuggì una risatina rauca. «Peccato che non ce ne fossero altri. Altri sette, e sarei arrivato a duecento.»
Anche gli altri si misero a ridere.
Con il volto minuto adombrato di preoccupazione, Carn tese una mano verso il dardo conficcato nella spalla sinistra di Roran, dicendo: «Su, lascia che mi occupi delle tue ferite.»
«No!» esclamò Roran, e lo respinse. «Potrebbero esserci altri feriti più gravi. Pensa prima a loro.»
«Roran, molte di quelle ferite potrebbero rivelarsi fatali se non arresto l'emorragia. Non mi ci vorrà che...»
«Sto bene» grugnì Roran. «Lasciami in pace.»
«Roran, guarda le tue ferite!»
Roran ubbidì e subito distolse lo sguardo. «Allora sbrigati.» Fissò il cielo limpido, con la mente sgombra, mentre Carn gli estraeva il dardo dalla spalla e mormorava una serie di incantesimi. Dove arrivava la magia, Roran si sentiva prudere e formicolare la pelle, una sensazione seguita da un immediato sollievo. Quando Carn ebbe finito, Roran era ancora tutto indolenzito, ma non soffriva più tanto e la sua mente era di nuovo lucida. L'opera di guarigione lasciò Carn pallido e tremante. Lo stregone si piegò sulle ginocchia finché i tremori non cessarono. «Vado...» S'interruppe per prendere fiato. «Vado ad aiutare gli altri feriti.» Si rialzò e scese dall'orrido cumulo, barcollando come ubriaco.
Roran lo seguì con lo sguardo, preoccupato. All'improvviso si chiese che fine avesse fatto il resto della spedizione. Scrutò in fondo al villaggio e non vide altro che corpi riversi, alcuni vestiti del rosso dell'Impero, altri della lana bruna dei Varden. «Che ne è stato di Edric e Sand?» chiese a Harald.
«Mi dispiace, Fortemartello, non vedevo nulla oltre la punta della mia spada.»
Rivolto ai pochi uomini che ancora restavano sui tetti delle case, Roran gridò: «Che ne è stato di Edric e Sand?»
«Non lo sappiamo, Fortemartello!» risposero.
Appoggiandosi al martello per tenersi in equilibrio, Roran scese piano piano dal cumulo di cadaveri. Lui, Harald e altri tre uomini attraversarono lo spiazzo al centro del villaggio, dando il colpo di grazia a ogni soldato che trovavano ancora in vita. Quando arrivarono in fondo allo spiazzo, dove il numero dei Varden caduti superava quello dei soldati, Harald batté la spada sullo scudo e gridò: «C'è qualcuno ancora vivo?»
Dopo un istante, una voce rispose fra le case: «Fatevi riconoscere!»
«Harald e Roran Fortemartello, e altri Varden. Se sei un soldato imperiale, arrenditi, perché i tuoi compagni sono morti e non puoi fare più niente.»
Da dietro le case provennero i tonfi metallici delle armi gettate a terra; poi, uno o due alla volta, alcuni guerrieri Varden emersero dai nascondigli e arrancarono verso lo spiazzo, molti reggendo un compagno ferito. Avevano l'aria frastornata, e alcuni erano così coperti di sangue che lì per lì Roran li scambiò per prigionieri. Contò ventiquattro uomini. Nell'ultimo gruppetto di superstiti c'era Edric, intento ad aiutare un uomo che aveva perduto il braccio destro nella battaglia.
Roran fece un cenno, e due dei suoi uomini si affrettarono a sollevare Edric dal quel peso. Il capitano raddrizzò le spalle e lentamente si avvicinò a Roran, guardandolo dritto negli occhi, con un'espressione indecifrabile. Né lui né Roran si mossero. Roran si accorse che sullo spiazzo era calato un silenzio innaturale.
Edric fu il primo a parlare. «Quanti dei tuoi uomini sono sopravvissuti?»
«La maggior parte. Non tutti, ma la maggior parte.»
Edric annuì. «E Carn?»
«È vivo... E Sand?»
«Un soldato lo ha colpito durante la carica. È spirato pochi minuti fa.» Lo sguardo di Edric oltrepassò Roran, fermandosi sull'ammasso di corpi. «Hai disobbedito ai miei ordini, Fortemartello.»
«Sì.»
Edric tese un braccio verso di lui, la mano aperta.
«Capitano, no!» esclamò Harald, facendo un passo avanti. «Se non fosse stato per Roran, nessuno di noi sarebbe qui. E avresti dovuto vedere che cos'ha fatto. Ha ucciso quasi duecento uomini da solo!»
La protesta di Harald non suscitò alcuna reazione in Edric, che continuò a tenere la mano tesa. Anche Roran rimase impassibile.
Allora Harald si rivolse a lui. «Roran, sai che gli uomini sono con te. Una sola parola, e noi...»
Roran lo fulminò con lo sguardo. «Non dire idiozie.»
«Almeno ti è rimasto un po' di buonsenso» disse Edric a denti stretti. «Harald, tu sta' zitto, se non vuoi guidare i muli con le vettovaglie per tutta la strada del ritorno.»
Roran sollevò il martello e lo porse a Edric. Poi si slacciò la cintura, da dove pendevano la spada e il pugnale, e consegnò a Edric anche quella. «Non ho altre armi» dichiarò.
Edric annuì, scuro in volto, poi si gettò il cinturone su una spalla. «Roran Fortemartello, con questo ti sollevo dal comando. Ho la tua parola d'onore che non cercherai di fuggire?»
«Sì.»
«Allora ti renderai utile dove ci sarà bisogno di te, ma per il resto considerati un prigioniero.» Edric si guardò intorno e indicò un altro guerriero. «Fuller, assumerai tu l'incarico di Roran fino a quando non ci congiungeremo con il resto dei Varden e Nasuada deciderà sul da farsi.»
«Signorsì» disse Fuller.
Per molte ore Roran lavorò insieme agli altri guerrieri per sollevare i loro morti e trasportarli alla periferia del villaggio, dove li seppellirono. Fu così che scoprì che soltanto nove dei suoi ottantuno guerrieri erano morti in battaglia, mentre Edric e Sand avevano perso in tutto quasi centocinquanta uomini, ed Edric ne avrebbe persi ancora di più se un manipolo di suoi guerrieri non fosse rimasto con Roran dopo che questi li aveva salvati.
Quando ebbero finito di seppellire i loro caduti, i Varden recuperarono le frecce, poi innalzarono una pira al centro del villaggio, spogliarono i soldati nemici delle loro armature, li trascinarono sulla pira e appiccarono il fuoco. I corpi cremati produssero una colonna di fumo nero che sembrava innalzarsi all'infinito. Attraverso la densa cortina scura, il sole appariva come un piatto disco rosso.
Della giovane donna e del bambino che i soldati avevano catturato non c'era traccia. Dato che i loro corpi non erano fra i morti, Roran pensò che dovevano essere fuggiti dal villaggio all'inizio della battaglia, probabilmente la cosa migliore che potevano fare. Augurò loro buona fortuna, ovunque fossero andati.
Fu una piacevole sorpresa per Roran vedere tornare Fiammabianca al villaggio poco prima che i Varden si mettessero in marcia. All'inizio lo stallone si mostrò schivo e ombroso, e non permise a nessuno di avvicinarlo, ma Roran lo calmò sussurrandogli nell'orecchio, e alla fine riuscì a pulirgli e fasciargli le ferite. Sarebbe stato poco prudente cavalcarlo finché non fosse guarito del tutto, così Roran lo legò insieme ai muli da soma. Fiammabianca dimostrò subito il suo scontento appiattendo le orecchie, frustando l'aria con la coda e scoprendo i denti.
«Fa' il bravo» disse Roran, accarezzandogli il collo. Fiammabianca ruotò l'occhio verso di lui e nitrì, rilassando un poco le orecchie.
Roran montò su un castrone appartenuto a uno dei Varden morti e si accodò alla fila di uomini sulla strada. Ignorò le occhiate che gli venivano rivolte, anche se lo rincuorò sentire parecchi guerrieri mormorare: «Ben fatto.»
Aspettando che Edric desse l'ordine di partire, Roran pensò a Nasuada, a Katrina e a Eragon, e si sentì soffocare da una cappa di terrore quando si domandò quali sarebbero state le loro reazioni una volta che avessero appreso del suo atto di insubordinazione. Subito dopo, però, accantonò ogni timore. Ho fatto quello che era giusto e necessario, si disse. Non me ne pento, quali che siano le conseguenze.
«In marcia!» gridò Edric, in testa alla colonna.
Roran spronò il cavallo al piccolo trotto, e i Varden uscirono dal villaggio avviandosi compatti verso ovest, lasciandosi alle spalle la pira di soldati che continuava a bruciare.
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MESSAGGIO ALLO SPECCHIO
Il sole mattutino avvolgeva Saphira in un piacevole tepore. La dragonessa si crogiolava distesa su una sporgenza di roccia liscia che si affacciava sulla vuota tenda a cupola di Eragon. Le attività notturne, che l'avevano vista impegnata in un volo di ricognizione per individuare gli accampamenti dell'Impero - come aveva fatto ogni notte da quando Nasuada aveva mandato Eragon nel Farthen Dûr, la grande montagna cava - l'avevano lasciata insonnolita. I voli servivano a nascondere l'assenza di Eragon, ma le pesavano, perché pur non avendo paura del buio, non era una creatura notturna e non le piaceva fare sempre le stesse cose. Per giunta, dato che i Varden impiegavano parecchio tempo per spostarsi da un luogo all'altro, trascorreva le notti a sorvolare più o meno lo stesso panorama. L'unico motivo recente di eccitazione era stato quando, la mattina del giorno prima, aveva scorto Castigo, il drago rosso dalla mente mal cresciuta, che volava basso sull'orizzonte. Il drago non aveva virato per affrontarla, ma aveva proseguito per la sua strada inoltrandosi sempre di più nell'Impero. Quando Saphira aveva riferito dell'avvistamento, Nasuada, Arya, e gli elfi che proteggevano la dragonessa avevano reagito come uno stormo di ghiandaie terrorizzate, schiamazzando e cicalando fra di loro, disperdendosi in ogni direzione. Avevano perfino insistito perché Blödhgarm, l'elfo dalla scura pelliccia lupesca, volasse con lei fingendosi Eragon, ma lei si era opposta categoricamente. Una cosa era permettere all'elfo di creare un'immagine fantasma di Eragon che la cavalcava ogni volta che spiccava il volo o atterrava fra i Varden; ma non avrebbe mai consentito a qualcuno che non fosse Eragon di montarle in groppa, a meno che non ci fosse una battaglia imminente, e forse nemmeno in quel caso.
Saphira sbadigliò e stiracchiò una zampa, sfoderando gli artigli. Poi si rilassò di nuovo, con la coda avvolta intorno al corpo e la testa poggiata sulle zampe, e si lasciò andare a fantasticherie di cervi e altre prede.
Poco dopo udì uno scalpiccio di passi affrettati che attraversavano l'accampamento diretti verso la grande tenda rossa di Nasuada. Saphira non ci badò: c'erano sempre messaggeri che correvano avanti e indietro.
Stava per addormentarsi quando sentì sfrecciare un altro corriere e poi, dopo un breve intervallo, altri due. Senza aprire gli occhi, estrasse la punta della lingua e assaggiò l'aria. Non rilevò alcun odore inconsueto. Dopo aver deciso che non valeva la pena di indagare, scivolò nel mondo dei sogni, dove si tuffò in un fresco lago verde per pescare.
Fu svegliata da una serie di urla furibonde.
Non si mosse, e continuò ad ascoltare un gran numero di bipedi dalle orecchie rotonde che discutevano fra di loro. Erano troppo lontani perché riuscisse a distinguere che cosa dicevano, ma dal tono delle voci intuì che erano così arrabbiati che avrebbero potuto arrivare a uccidere. A volte scoppiavano liti fra i Varden - come in qualsiasi altro branco - ma Saphira non aveva mai sentito tanti bipedi accapigliarsi così a lungo e con tanta foga.
Saphira provò un fastidioso dolore pulsante alla base del cranio quando le grida dei bipedi si fecero più acute. Graffiò la roccia sotto di sé, sollevando piccole scie di quarzo scheggiato con gli artigli.
Conterò fino a trentatré, pensò, e se per allora non avranno ancora smesso, molto meglio per loro che il motivo di tanta agitazione sia degno d'interrompere il riposo di una figlia del vento!
Quando arrivò a ventisette, i bipedi tacquero. Finalmente! Si riassestò e si preparò a riprendere il sonno di cui aveva tanto bisogno.
Risuonò un tintinnio metallico, accompagnato da un fruscio di vesti, da uno scalpiccio di piedi umani e dall'inconfondibile odore della guerriera dalla pelle scura. E adesso che c'è? si domandò Saphira, e per un breve istante valutò l'ipotesi di ruggire forte per far fuggire chiunque fosse venuto a disturbarla.
Aprì un solo occhio, e vide arrivare Nasuada e le sue sei guardie del corpo. Giunta ai piedi del lastrone di roccia, Nasuada ordinò ai suoi di restare sul prato insieme a Blödhgarm e agli altri elfi - impegnati in un addestramento - e si arrampicò da sola.
«Salute a te, Saphira» disse Nasuada. Indossava un abito rosso che spiccava in modo quasi innaturale contro il verde delle foglie dei meli alle sue spalle. Il sole riflesso dalle squame di Saphira le chiazzava il volto di una miriade di puntini luminosi.
Saphira batté le palpebre una volta, dato che non aveva alcuna voglia di rispondere a parole.
Dopo essersi guardata attorno, Nasuada si avvicinò alla sua testa e sussurrò: «Saphira, devo parlarti in privato. Tu puoi entrare nella mia mente, ma io non posso entrare nella tua. Puoi farlo adesso per sentire che cosa ho da dirti?»
Penetrando nella mente affaticata e tesa della donna, Saphira le riversò addosso la propria irritazione per essere stata svegliata, poi disse: Posso, se voglio, ma non lo farei mai senza il tuo permesso.
Certo, rispose Nasuada. Capisco. Dapprima Saphira ricevette dalla donna solo immagini ed emozioni scollegate fra di loro: una forca col cappio vuoto, sangue sul terreno, facce ringhianti, paura, stanchezza, e una corrente sotterranea di feroce determinazione. Perdonami, disse Nasuada. Ho avuto una mattinata pesante. Se i miei pensieri vagano troppo, ti prego, abbi pazienza.
Saphira batté di nuovo le palpebre. Cos'è che agita tanto i Varden? Sono stata svegliata dalle grida furiose e concitate di un gruppo di uomini e prima ancora ho sentito un insolito numero di messaggeri che correvano nell'accampamento.
Nasuada strinse le labbra e abbassò lo sguardo, incrociando le braccia ferite. Il colore della sua mente si fece nero come una nube temporalesca, gravida di minacce di morte e violenza. Dopo una pausa insolitamente lunga, disse: Stanotte uno dei Varden, un uomo di nome Othmund, è strisciato nell'accampamento degli Urgali e ne ha uccisi tre che dormivano intorno al fuoco. Gli Urgali non sono riusciti a prenderlo, ma stamattina Othmund si è vantato della sua impresa, pavoneggiandosi davanti ai compagni.
Perché l'ha fatto? chiese Saphira. Gli Urgali gli hanno ucciso la famiglia?
Nasuada scosse il capo. Quasi vorrei che lo avessero fatto, perché in quel caso gli Urgali non sarebbero così furiosi: la vendetta, almeno, la capiscono. No, è questo il lato strano della vicenda: Othmund odia gli Urgali solo perché sono Urgali. Non hanno mai fatto del male né a lui né alla sua famiglia, eppure lui li odia con ogni fibra del suo corpo. O almeno così mi è parso di capire dopo avergli parlato.
Come ti comporterai con lui?
Nasuada guardò di nuovo Saphira con occhi colmi di profonda tristezza. Sarà impiccato per i suoi crimini. Quando ho accettato gli Urgali fra i Varden, ho decretato che chiunque avesse attaccato uno di loro sarebbe stato punito come se avesse attaccato un compagno umano. Non posso rimangiarmi la parola data.
Rimpiangi la tua promessa?
No. Gli uomini hanno sempre saputo che non avrei mai perdonato atti del genere. Altrimenti si sarebbero rivoltati contro gli Urgali il giorno stesso che Nar Garzhvog e io abbiamo stretto il nostro accordo. Ora devo dimostrare a tutti che parlavo sul serio. Se non lo facessi, è probabile che ci sarebbero altri spargimenti di sangue, e allora gli Urgali risolverebbero le cose a modo loro, e ancora una volta le nostre due razze cercherebbero di balzarsi alla gola a vicenda. È più che giusto che Othmund sia giustiziato per aver ucciso gli Urgali e disobbedito ai miei ordini, ma... oh, Saphira... ai Varden questa decisione non piacerà affatto. Ho sacrificato la mia stessa carne per conquistare la loro lealtà, ma adesso mi odieranno per la mia decisione di impiccare Othmund... Mi odieranno per aver messo sullo stesso piano la vita degli Urgali e la vita degli umani. Abbassando le braccia, Nasuada si srotolò le maniche. E non posso dire che questo mio modo di affrontare ciò che è successo mi piaccia più di quanto non piaccia a loro. Nonostante tutti i miei sforzi per trattare gli Urgali come miei simili, con la franchezza e la giustizia che avrebbe usato mio padre, non posso fare a meno di ricordare il modo in cui l'hanno ucciso. Non posso fare a meno di rivedere tutti quegli Urgali che massacravano i Varden nella battaglia del Farthen Dûr. Non posso fare a meno di ricordare le storie che sentivo da bambina, storie di Urgali che sciamavano dalle montagne per assassinare persone innocenti nei loro letti. Erano sempre gli Urgali i mostri da temere, e adesso ho unito il nostro destino al loro. Non posso fare a meno di pensare a tutto questo, Saphira, e mi domando se ho preso la decisione giusta.
Non puoi fare a meno di essere umana, disse Saphira cercando di confortarla. Ma non devi sentirti vincolata dalle convinzioni di chi ti circonda. Puoi superare i limiti della tua razza, se lo vuoi fermamente. Se gli eventi del passato hanno qualcosa da insegnarci, è che i re, le regine e gli altri capi che hanno unito sotto di loro razze diverse sono coloro che hanno fatto il bene maggiore per Alagaësia. Dobbiamo temere la collera e i conflitti, non un avvicinamento con i nostri nemici di un tempo. Ricorda la tua avversione per gli Urgali, perché se la sono meritata, ma ricorda anche che un tempo i nani e i draghi si odiavano come gli umani e gli Urgali. E che un tempo noi draghi combattevamo gli elfi e che, potendo, avremmo estinto la loro razza. Un tempo era così, ora non più, perché persone come te hanno avuto il coraggio di accantonare i rancori passati e di forgiare rapporti di amicizia dove prima non esistevano.
Nasuada posò la fronte contro la mascella della dragonessa e disse: Sei molto saggia, Saphira.
Divertita, la dragonessa sollevò la testa dalle zampe e con la punta del muso toccò la fronte di Nasuada. Dico solo quello che penso, nulla di più. Se questa è saggezza, allora approfittane pure. Io credo che tu possieda già tutta la saggezza che ti serve. Ai Varden potrà anche non piacere che Othmund venga giustiziato, ma ci vorrà molto di più per minare la loro devozione per te. E sono sicura che riuscirai a trovare un modo per rabbonirli.
Già, disse Nasuada asciugandosi gli angoli degli occhi con le dita. Dovrò pensarci. Poi sorrise e il suo volto si trasformò. Ma non è Othmund il motivo per cui sono venuta da te. Eragon mi ha appena cercata per chiedere che tu lo raggiunga nel Farthen Dûr. I nani...
Inarcando il collo, Saphira ruggì verso il cielo, sprigionando il fuoco delle viscere in una vampa fiammeggiante che le guizzò dalla bocca. Nasuada indietreggiò di qualche passo, mentre tutti quelli che si trovavano lì intorno s'impietrirono e rimasero a fissare la dragonessa. Alzandosi sulle quattro zampe, Saphira si scrollò dalla testa alla coda, dimentica della stanchezza, e dispiegò le ali, pronta a spiccare il volo.
Le guardie si precipitarono verso Nasuada, ma lei le fermò con un gesto della mano. Investita da una nuvola di fumo, si coprì il naso con una manica, tossendo. Il tuo entusiasmo è lodevole, Saphira, ma...
Eragon è ferito? Sta male? chiese lei, allarmata quando Nasuada esitò.
Sta bene come sempre, rispose Nasuada. Tuttavia c'è stato un... incidente... ieri.
Che tipo di incidente?
Lui e le sue guardie sono stati attaccati.
Saphira rimase immobile mentre Nasuada le riferiva quanto le aveva detto Eragon. Alla fine, la dragonessa scoprì i denti. Il Dûrgrimst Az Sweldn rak Anhûin deve ringraziare che non ero con Eragon. Non se la sarebbero cavata tanto facilmente dopo aver tentato di ucciderlo.
Con un lieve sorriso, Nasuada disse: Per questo è stato meglio che tu fossi qui.
Può darsi, ammise Saphira, e sprigionò uno sbuffo di fumo bollente dalle narici, agitando la coda. Però non mi sorprende. Succede sempre così: ogni volta che io ed Eragon ci separiamo, qualcuno lo attacca. Mi prudono le squame quando lo perdo di vista per più di un paio d'ore.
È capacissimo di difendersi da solo.
Vero, ma anche i nostri nemici non sono degli sprovveduti. Impaziente, Saphira cambiò posizione, distendendo ancora di più le ali. Nasuada, non vedo l'ora di partire. C'è altro che devo sapere?
No, disse Nasuada. Che il tuo volo sia rapido e sicuro, Saphira, ma non trattenerti quando sarai nel Farthen Dûr. Da quando lascerai il nostro accampamento, avremo soltanto qualche giorno di tempo prima che l'Impero si accorga che non ti ho mandata con Eragon in una breve missione di ricognizione. Galbatorix potrebbe decidere o meno di attaccare mentre siete lontani, ma ogni ora della vostra assenza aumenterà questo rischio. E preferirei avervi con noi quando attaccheremo Feinster. Potremmo anche conquistare la città senza di voi, ma ci costerebbe molte più vite. In poche parole, il destino dei Varden dipende dalla vostra velocità.
Saremo rapidi come il vento di tempesta, la rassicurò Saphira.
Nasuada si congedò e scese dal lastrone di roccia. Blödhgarm e gli altri elfi corsero da Saphira e le legarono addosso quello scomodo aggeggio di cuoio che era la sella di Eragon, con le bisacce piene di viveri e di tutte le altre cianfrusaglie che portava quando viaggiava con il Cavaliere. A lei non servivano le provviste - non avrebbe nemmeno potuto prenderle - ma le toccava portarle per salvare le apparenze. Quando fu pronta, Blödhgarm si portò la mano al petto, nel gesto di rispetto degli elfi, e disse nell'antica lingua: «Arrivederci, Saphira Squamediluce. Che tu ed Eragon possiate tornare sani e salvi.»
Arrivederci, Blödhgarm.
Saphira aspettò che l'elfo dalla scura pelliccia lupesca creasse lo spettro di Eragon e questo uscisse dalla tenda per montarle in groppa. Non sentì niente quando il simulacro immateriale le si arrampicò dalla zampa sulla spalla. Non appena Blödhgarm le fece cenno che il non-Eragon era in sella, la dragonessa levò le ali oltre la testa fino a farle toccare, poi spiccò un balzo in avanti e saltò giù dal lastrone di roccia.
Dopo qualche attimo di caduta libera verso le grigie tende sottostanti, con un deciso colpo d'ali riprese quota, allontanandosi dal duro terreno. Virò in direzione del Farthen Dûr e cominciò a salire verso lo strato d'aria fredda e sottile, dove sperava di trovare una corrente d'aria costante che l'aiutasse a volare più in fretta.
Sorvolò la riva boscosa in cui i Varden avevano deciso di fermarsi per la notte e fu percorsa da un brivido di gioia selvaggia. Non avrebbe più dovuto passare le giornate ad aspettare Eragon che vagava rischiando la vita senza di lei! Non avrebbe più dovuto trascorrere le notti a perlustrare sempre le stesse zone! Ora coloro che volevano ferire il compagno della sua mente e del suo cuore non sarebbero più sfuggiti alla sua ira! Spalancando le fauci, Saphira ruggì al mondo la sua gioia e la sua sicurezza, sfidando gli dei, se esistevano, ad affrontare lei, figlia di Iormûngr e Vervada, due dei più grandi draghi della loro epoca.
Quando ebbe raggiunto una quota di oltre un miglio, dove trovò un forte vento da sud-ovest, Saphira si allineò alla corrente d'aria e si lasciò sospingere, volando sulla terra bagnata di sole. Proiettò i pensieri davanti a sé e disse: Sto arrivando, piccolo mio!
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QUATTRO COLPI DI TAMBURO
Eragon si protese in avanti, ogni muscolo del corpo in tensione, quando Hadfala, la nana dai capelli bianchi a capo del Dûrgrimst Ebardac, si alzò dal tavolo dove si svolgeva il raduno dei clan e pronunciò una breve frase nella sua lingua nativa.
Mormorandogli nell'orecchio, Hûndfast tradusse: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.»
Eragon liberò il fiato trattenuto. Uno. Per diventare re dei nani, un capoclan doveva conquistare la maggioranza dei voti degli altri capiclan. Se nessuno ci riusciva al primo turno, allora in base alla legge dei nani quello che aveva ottenuto meno voti veniva eliminato, e potevano passare anche tre giorni prima che fosse indetta una nuova votazione. Il procedimento sarebbe continuato fino a quando un capoclan non avesse raggiunto la maggioranza necessaria, e a quel punto gli altri avrebbero giurato fedeltà al nuovo re o alla nuova regina. Visto che il tempo era determinante per i Varden, Eragon sperava con tutto il cuore che la votazione si concludesse in una sola seduta, o almeno che i nani facessero una pausa di appena un paio d'ore. In caso contrario, Eragon pensò che avrebbe potuto rompere il tavolo di pietra al centro della sala per la frustrazione.
Che Hadfala, la prima a votare, avesse espresso il suo favore per Orik era di buon auspicio. Hadfala, come Eragon sapeva bene, aveva sostenuto Gannel del Dûrgrimst Quan prima dell'attentato alla sua vita. Se la lealtà di Hadfala aveva cambiato oggetto, era possibile che anche l'altro membro dello schieramento di Gannel - ovvero Grimstborith Ûndin - desse il suo voto ad Orik.
Poi fu il turno di Gàldhiem del Dûrgrimst Feldûnost. Il nano si alzò dal tavolo, anche se era così basso da risultare più alto da seduto che in piedi.
«A nome del mio clan» dichiarò «io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.»
Inclinando la testa da un lato, Orik ricambiò lo sguardo di Eragon e gli disse sottovoce: «Be', ce lo aspettavamo.»
Eragon annuì e scoccò un'occhiata a Nado. Il nano dalla faccia tonda si accarezzava la punta della barba gialla con aria soddisfatta.
Poi Manndrâth del Dûrgrimst Ledwonnû disse: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.» Orik lo ringraziò con un cenno del capo, e Manndrâth ricambiò con un buffo movimento del naso adunco.
Quando Manndrâth tornò a sedersi, Eragon e il resto dei presenti si voltarono verso Gannel, e la sala divenne così silenziosa che Eragon non sentiva nemmeno i nani respirare. In qualità di capoclan del Quan - il clan religioso - e di sommo sacerdote di Gûntera, re degli dei dei nani, Gannel esercitava una grande influenza sulla sua razza: la sua scelta avrebbe potuto determinare l'esito della votazione.
«A nome del mio clan» disse Gannel «io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.»
Un'ondata di esclamazioni smorzate si levò dagli spettatori disposti lungo tutta la circonferenza della sala. Il sorriso soddisfatto di Nado si fece ancora più ampio. Stringendosi le mani sotto il tavolo, Eragon imprecò in silenzio.
«Non perdere le speranze, ragazzo» mormorò Orik. «Possiamo ancora farcela. È già successo che il Grimstborith del Quan abbia perso il voto.»
«Ma quante volte?» sussurrò Eragon.
«Abbastanza spesso.»
«Sì, ma quando è stata l'ultima volta?»
Orik si dondolò a disagio sulla sedia e distolse lo sguardo. «Ottocentoventiquattro anni fa, quando la regina...»
S'interruppe quando Ûndin del Dûrgrimst Ragni Hefthyn proclamò: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.»
Orik incrociò le braccia. Eragon riusciva a vederlo soltanto di profilo, ma era ovvio che il nano era nervoso.
Mordendosi l'interno della guancia, Eragon abbassò lo sguardo sul pavimento a mosaico e contando i voti che erano stati dati e quelli che ancora restavano cercò di calcolare se Orik avesse ancora la possibilità di vincere le elezioni. Sarebbe stata comunque una vittoria di misura. Strinse ancora più forte le mani, conficcandosi le unghie nella carne.
Thordris del Dûrgrimst Nagra si alzò e si avvolse la lunga e folta treccia sul braccio. «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.»
«Così siamo tre a tre» bisbigliò Eragon. Orik annuì.
Era il turno di Nado. Lisciandosi la barba con la mano, il capo del Dûrgrimst Knurlcarathn rivolse un sorriso all'assemblea, con un luccichio da predatore negli occhi. «A nome del mio clan voto me stesso come nostro nuovo re. Se sceglierete me, prometto di liberare il nostro paese dagli stranieri che lo hanno inquinato, e prometto di usare il nostro oro e i nostri guerrieri per proteggere la nostra gente, e non la vita di elfi, umani e Urgali. Lo giuro sull'onore della mia famiglia.»
«Quattro a tre» commentò Eragon.
«Già» disse Orik. «Immagino sarebbe stato troppo chiedere a Nado di votare per un altro.»
Posando il coltello e il pezzo di legno che stava intagliando, Freowin del Dûrgrimst Gedthrall riuscì appena a liberare la sua mole dalla sedia e, tenendo lo sguardo basso, dichiarò con la sua voce baritonale: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.» Poi si risedette di schianto e riprese a intagliare il corvo di legno, ignorando i mormorii di sorpresa che percorsero la stanza.
L'espressione di Nado passò da un pacato compiacimento a una gongolante soddisfazione.
«Barzûl» borbottò Orik, con la faccia sempre più torva. La sedia scricchiolò quando calcò i gomiti sui braccioli, i tendini delle mani in rilievo per la tensione. «Quel traditore dalla doppia faccia. Mi aveva promesso il suo voto.»
Eragon sentì contorcersi lo stomaco. «Perché tradirti?»
«Va al tempio di Sindri due volte al giorno. Avrei dovuto immaginare che non si sarebbe messo contro Gannel. Bah! Gannel lavora contro di me da sempre. Io...» In quel momento l'attenzione di tutti i presenti si concentrò su di lui. Nascondendo la rabbia, Orik si alzò in piedi e fece scorrere lo sguardo su ciascuno dei capiclan seduti intorno al tavolo. Poi, nella sua lingua nativa, disse: «A nome del mio clan, voto me stesso come nostro nuovo re. Se sceglierete me, prometto di portare alla nostra gente gloria e oro e la libertà di vivere sopra la terra e non più sotto, senza timore che Galbatorix distrugga le nostre case. Lo giuro sull'onore della mia famiglia.»
«Cinque a quattro» mormorò Eragon a Orik quando il nano tornò a sedersi. «E non a nostro favore.»
Orik grugnì. «So contare, Eragon.»
Eragon appoggiò i gomiti sulle ginocchia, gli occhi che correvano da un nano all'altro. La smania di agire lo divorava come un tarlo. Non sapeva che fare, ma con una posta in gioco così alta, avvertiva l'urgenza di trovare un modo per garantire a Orik la vittoria, e di conseguenza assicurare ai Varden l'aiuto dei nani nella lotta contro l'Impero. Malgrado i suoi sforzi, però, non riuscì a pensare a niente di meglio che starsene seduto ad aspettare.
Poi toccò a Havard del Dûrgrimst Fanghur. Il mento sul petto, Havard spinse in fuori le labbra, tamburellando sul tavolo con le due dita che gli restavano nella mano destra, con aria pensierosa. Eragon si protese appena di un soffio dalla sedia, col cuore che gli batteva. Rispetterà il patto con Orik? si domandò.
Havard tamburellò sul tavolo ancora una volta, poi lo colpì con il palmo della mano e, alzando il mento, disse: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.»
Per Eragon fu una grande soddisfazione vedere Nado sgranare gli occhi e digrignare i denti, un muscolo della guancia contratto in uno spasmo involontario. «Ha!» mormorò Orik. «Questo sì che gli ha fatto annodare la barba!»
Gli unici due capi clan che dovevano ancora votare erano Reidamar e Íorûnn. Reidamar, il massiccio, muscoloso grimstborith degli Urzhad, sembrava a disagio, mentre Íorûnn - la nana a capo del Dûrgrimst Vrenshrrgn, i Lupi da Guerra - si accarezzò la cicatrice a mezzaluna sullo zigomo sinistro con la punta di un'unghia affilata e sorrise, sorniona come una gatta.
Eragon trattenne il fiato mentre aspettava di sentire che cosa avrebbero detto. Se Íorûnn vota per sé, pensò, e se Reidamar le resta fedele, allora si andrà a un secondo turno di elezioni. Però non c'è motivo che lo faccia, se non per ritardare gli eventi, e a quanto ne so non ne trarrebbe alcun vantaggio. A questo punto non ha alcuna speranza di diventare regina; il suo nome verrebbe scartato prima dell'inizio del secondo turno, e dubito che sarebbe tanto sciocca da sprecare il potere che possiede in questo momento soltanto per vantarsi con i nipoti di essere stata candidata al trono. Ma se anche Reidamar votasse di testa sua, si andrebbe al secondo turno... Ah! Se solo potessi divinare il futuro! E se Orik perde? In quel caso dovrei forse prendere il controllo del raduno? Potrei sigillare la sala affinché nessuno possa entrare né uscire, e allora... Ma no, sarebbe... Íorûnn interruppe il corso dei suoi pensieri facendo un cenno a Reidamar per poi fissare il suo sguardo su Eragon, che si sentì sotto esame come un bove da competizione. Reidamar si alzò, con un tintinnio metallico della cotta di maglia, e disse: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.»
Eragon sentì un groppo in gola.
Le labbra rosse arricciate in una smorfia divertita, Íorûnn si alzò dalla sedia con un movimento sinuoso e a voce bassa e roca disse: «A quanto pare, toccherà a me decidere l'esito dell'incontro odierno. Ho ascoltato con molta attenzione le tue argomentazioni, Nado, e anche le tue, Orik. Anche se condivido la maggior parte degli argomenti espressi da entrambi, il problema principale resta decidere se vogliamo impegnarci nella battaglia dei Varden contro l'Impero. Se la loro fosse soltanto una guerra fra due clan rivali, non m'importerebbe chi vince o chi perde, e di certo non metterei a repentaglio la vita dei nostri guerrieri per il bene degli stranieri. Ma non è così. Anzi, le cose sono molto diverse. Se Galbatorix esce trionfante da questa guerra, nemmeno i Monti Beor ci proteggeranno dalla sua collera. Se il nostro regno vuole sopravvivere, dobbiamo vedere la sconfitta di Galbatorix. E mi sembra indecente che una razza antica e potente come la nostra resti nascosta nelle sue grotte e gallerie mentre altri decidono il destino di Alagaësia. Quando saranno scritte le cronache di questa era, si dirà che abbiamo combattuto a fianco degli umani e degli elfi, come gli eroi di un tempo, o che ci siamo rintanati nelle nostre case al pari di contadini spauriti mentre la battaglia infuriava fuori delle nostre porte? Per conto mio, conosco la risposta.» Íorûnn gettò indietro i capelli e disse: «A nome del mio clan, voto Grimstborith Orik come nostro nuove re!»
Il più anziano dei cinque magistrati disposti lungo la parete circolare si fece avanti e, battendo il bastone levigato sul pavimento di pietra, proclamò: «Salutiamo tutti re Orik, quarantatreesimo re di Tronjheim, del Farthen Dûr, e di ogni knurla sopra e sotto i Monti Beor!»
«Evviva re Orik!» ruggirono i presenti. I capiclan si alzarono dal tavolo in un sonoro fruscio di vesti e clangore di armature. Inebetito, Eragon imitò gli altri, conscio di trovarsi al cospetto di un re. Scoccò un'occhiata a Nado, ma il volto del nano era una maschera impenetrabile.
Il magistrato dalla barba bianca batté di nuovo il bastone sul pavimento. «Che gli scribi annotino subito la decisione presa in questo raduno, e che la notizia raggiunga ogni angolo del regno. Araldi! Informate i maghi con i loro specchi divinatori di quanto è accaduto qui oggi e poi andate dai guardiani della montagna e dite loro: "Quattro colpi di tamburo. Quattro colpi, e fate roteare le mazze come mai prima d'ora, perché abbiamo un nuovo re. Quattro colpi di una tale forza che tutto il Farthen Dûr dovrà riecheggiare della notizia." Dite loro così, questo è il mio incarico per voi. Andate!»
Dopo che gli araldi si furono allontanati, Orik si alzò e rimase in piedi a guardare i nani che lo circondavano. A Eragon parve in qualche modo stupito, come se non si fosse davvero aspettato di vincere la votazione. «Per questa grande responsabilità» disse «vi ringrazio.» Fece una pausa, poi riprese. «Il mio unico pensiero sarà il progresso della nostra nazione, e perseguirò questo scopo senza esitare, fino al giorno che tornerò alla pietra.»
I capiclan si fecero avanti, uno alla volta, e s'inginocchiarono davanti a Orik per giurargli lealtà come sudditi fedeli. Quando venne il turno di Nado, il nano non lasciò trapelare alcuna emozione, ma recitò le frasi del giuramento senza inflessioni, le parole che gli cadevano dalla bocca come barre di piombo. Quando ebbe finito, un palpabile senso di sollievo si sparse fra i membri dell'assemblea.
Conclusi i giuramenti, Orik decretò che la sua incoronazione avrebbe avuto luogo il mattino dopo, e poi lui e il suo seguito si ritirarono in una stanza adiacente. Una volta lì, Eragon guardò Orik, e Orik guardò Eragon, ma nessuno dei due aprì bocca finché un ampio sorriso non comparve sul viso di Orik, che scoppiò a ridere, con le guance rosse. Ridendo con lui, Eragon lo tirò per la manica e lo abbracciò forte. Le guardie e i consiglieri di Orik gli si strinsero intorno, dandogli pacche sulle spalle ed esprimendo sincere congratulazioni.
Eragon lo lasciò andare dicendo: «Non pensavo che Íorûnn ci avrebbe appoggiati.»
«Già. Sono felice che l'abbia fatto, ma questo complica le cose.» Orik fece una smorfia. «Immagino che dovrò ricompensarla, almeno dandole un posto nel mio consiglio.»
«Sarà un'ottima scelta!» esclamò Eragon ad alta voce per superare il frastuono. «Se i Vrenshrrgn sono all'altezza del loro nome, ci saranno molto utili sulla strada che ci porterà alle porte di Urû'baen.»
Orik stava per rispondere, ma poi una nota bassa d'inaudita potenza riverberò dal pavimento al soffitto della sala, facendo tremare le ossa di Eragon. «Ascoltate!» gridò Orik alzando una mano. Il gruppo tacque.
La bassa nota risuonò quattro volte, e ogni volta scosse la stanza come se un gigante stesse battendo il pugno contro le mura di Tronjheim. Alla fine Orik disse: «Non avrei mai creduto di poter sentire i Tamburi di Derva annunciare la mia investitura.»
«Quanto sono grandi i tamburi?» chiese Eragon, ammirato.
«Circa cinquanta piedi, se la memoria non m'inganna.»
Eragon pensò che i nani, pur essendo la razza più piccola di Alagaësia, curiosamente costruivano le strutture più grandi. Forse, rifletté, realizzare cose enormi li fa sentire meno piccoli. Era sul punto di esporre la propria teoria a Orik, ma all'ultimo istante si trattenne per timore di offenderlo.
Gli assistenti di Orik si assieparono attorno a lui e cominciarono a consultarsi nella lingua dei nani, le voci concitate che si sovrapponevano. Eragon, che stava per rivolgere un'altra domanda a Orik, si trovò relegato in un angolo. Aspettò paziente una pausa nella conversazione, ma dopo qualche minuto capì che i nani non avrebbero smesso tanto presto di assillare Orik con domande e consigli, dato che questa gli sembrava la natura dei loro discorsi.
Allora disse: «Orik Könungr» e pronunciò la parola re nell'antica lingua con veemenza, in modo da catturare l'attenzione di tutti i presenti. Nella stanza scese il silenzio, e Orik guardò Eragon inarcando un sopracciglio. «Maestà, vorrei avere il permesso di ritirarmi. C'è una certa... questione di cui dovrei occuparmi, se non è già troppo tardi.»
Negli occhi di Orik brillò un lampo di comprensione. «Ma sicuro, sbrigati! A ogni modo, non c'è bisogno che mi chiami maestà, Eragon, né sire, né con qualche altro titolo altisonante. Siamo amici e fratelli adottivi, dopotutto.»
«È vero, maestà» rispose Eragon «ma per il momento credo sia più giusto da parte mia dimostrarti lo stesso ossequio degli altri. Sei il re della tua razza, adesso, e anche il mio re, dato che sono un membro del Dûrgrimst Ingeitum, un fatto che non posso ignorare.»
Orik lo studiò per un momento, come se lo guardasse da molto lontano, e disse: «Come desideri, Ammazzaspettri.»
Eragon s'inchinò e lasciò la stanza. Accompagnato dalle sue quattro guardie, attraversò le gallerie e salì le scale che conducevano al pianterreno di Tronjheim. Una volta arrivato nel ramo meridionale dei quattro corridoi principali che dividevano la città-montagna, Eragon si rivolse a Thrand, il capitano delle guardie e disse: «Ho intenzione di fare il resto della strada di corsa. Siccome non sareste in grado di stare al mio passo, vi suggerisco di fermarvi quando raggiungerete il cancello sud della città e di aspettare lì il mio ritorno.»
«Argetlam, ti prego» disse Thrand, «non dovresti andare da solo. Posso convincerti a rallentare in modo che possiamo accompagnarti? Non siamo veloci come gli elfi, certo, ma siamo capaci di correre dall'alba al tramonto anche con l'armatura addosso.»
«Apprezzo la tua premura» disse Eragon «ma non voglio perdere nemmeno un minuto, anche se sapessi che c'è un sicario appostato dietro ciascun pilastro. Arrivederci!»
Detto questo, si precipitò lungo l'ampio corridoio, aggirando i nani che gli sbarravano il passo.
DI NUOVO INSIEME
Quando Eragon cominciò a correre, quasi un miglio lo separava dal cancello sud di Tronjheim. Coprì la distanza in pochi minuti, i passi che rimbombavano sul pavimento di pietra. Mentre correva, colse immagini fugaci dei ricchi arazzi appesi sugli archi che immettevano nei corridoi laterali e delle statue grottesche di bestie e mostri annidate fra i pilastri di diaspro rosso sangue che costeggiavano il viale dalla volta a botte. La strada, fiancheggiata da quattro ordini di archi, era così larga che Eragon non faticò a evitare i nani che la popolavano, anche se a un certo punto, una fila di Knurlacarathn gli si parò davanti e dovette superarli con un salto. I nani abbassarono la testa, lanciando esclamazioni sorprese. Eragon si divertì nell'incrociare i loro sguardi stupiti.
A fluide, ampie falcate corse sotto il cancello di legno massiccio che proteggeva l'entrata meridionale della città-montagna e sentì le guardie gridare: «Salute a te, Argetlam!» Dopo una ventina di iarde, dato che il cancello era incassato nella base di Tronjheim passò fra i due giganteschi grifoni d'oro che fissavano con occhi vacui l'orizzonte e sbucò all'aperto.
L'aria fresca e umida profumava di pioggia appena caduta. Era mattina, ma un grigio crepuscolo avvolgeva la piatta distesa di terra che circondava Tronjheim, dove non cresceva erba, ma solo muschi, licheni e qualche sporadico fungo velenoso dall'odore pungente. In alto, il Farthen Dûr s'innalzava per oltre dieci miglia fino alla stretta apertura da dove filtrava una pallida luce indiretta nell'immenso cratere. Eragon provava un po' di soggezione davanti all'imponenza della montagna ogni volta che guardava in alto.
Mentre correva, sentiva il suono monotono del suo respiro e dei suoi rapidi passi leggeri. Era solo, tranne che per un pipistrello curioso che gli svolazzò sopra la testa, emettendo acuti squittii. L'atmosfera tranquilla che permeava la montagna cava lo confortò, liberandolo dalle consuete preoccupazioni.
Seguì il sentiero lastricato che dal cancello sud di Tronjheim conduceva fino alla nera porta, alta trenta piedi, incassata nella parete meridionale del Farthen Dûr. Quando si fermò, due nani spuntarono dalle garitte nascoste e si affrettarono ad aprirgli i battenti, rivelando una galleria che sembrava senza fine.
Eragon si avviò. Pilastri di marmo tempestati di rubini e ametiste fiancheggiavano i primi cinquanta piedi del tunnel; poi la galleria si faceva spoglia e desolata, le pareti lisce intervallate ogni venti iarde da una lanterna senza fiamma, e da qualche porta o cancello sbarrati. Chissà dove conducono, si chiese. Poi immaginò le miglia di pietra che incombevano su di lui e per un momento la galleria gli procurò un insopportabile senso di oppressione. Scacciò in fretta quell'immagine.
A metà strada, la sentì.
«Saphira!» gridò Eragon, sia con la mente che con la voce, e quel nome riecheggiò sulle pareti di pietra con la potenza di una dozzina di voci.
Eragon! Un istante dopo, il debole rimbombo di un ruggito lontano lo raggiunse dal fondo della galleria.
Accelerando ancora di più il passo, Eragon spalancò la mente a Saphira e rimosse ogni barriera perché potessero ricongiungersi senza riserve. Come una corrente d'acqua tiepida, la coscienza di lei si riversò in lui, e quella di lui scorse dentro di lei. Eragon ansimò, inciampò, per poco non cadde. Si lasciarono avvolgere dalle morbide pieghe dei reciproci pensieri, stringendosi con un'intimità che nessun abbraccio fisico avrebbe potuto replicare, permettendo alle proprie identità di fondersi ancora una volta. Il loro più grande conforto era semplice: non erano più soli. Sapere di avere qualcuno che ti vuole bene, che capisce ogni fibra del tuo essere e che non ti abbandonerà mai, nemmeno nella più disperata delle circostanze, dovrebbe rappresentare l'essenza di ogni vero legame, ed Eragon e Saphira godevano di quel privilegio.
Passarono solo pochi istanti prima che Eragon la scorgesse affrettarsi verso di lui, veloce ma non troppo, per evitare di urtare la testa sul soffitto o di graffiarsi le ali contro le pareti. Gli artigli della dragonessa stridettero sul pavimento di pietra quando frenò fino a fermarsi davanti a Eragon, fiera, splendente, magnifica.
Con un grido di gioia, Eragon fece un salto e, incurante delle squame taglienti, le cinse il collo con le braccia, tenendola stretta mentre i piedi gli penzolavano nel vuoto. Piccolo mio, disse Saphira con la sua voce calda. Abbassò la testa per fargli toccare terra, poi sbuffò e disse: Piccolo mio, a meno che tu non voglia strangolarmi, dovresti allentare la stretta.
Scusa. Con un sogghigno, Eragon indietreggiò, poi si mise a ridere e premette la fronte sul suo muso, cominciando a grattarla dietro le mascelle.
Il mugolio gutturale della dragonessa riempì la galleria.
Sei stanca, disse Eragon.
Non ho mai volato tanto lontano così in fretta. Mi sono fermata una sola volta da quando ho lasciato i Varden, e solo perché avevo sete.
Vuoi dire che non dormi e non mangi da tre giorni?
Lei batté le palpebre, nascondendo per un momento i brillanti occhi color zaffiro.
Starai morendo di fame! esclamò Eragon, preoccupato. La ispezionò in cerca di ferite, ma con sollievo non ne trovò.
Sono stanca, ammise lei, ma non ho fame. Non ancora. Quando mi sarò riposata, allora avrò bisogno di mangiare. In questo momento non credo che riuscirei a mangiare nemmeno un coniglio... Mi manca la terra sotto le zampe, mi sembra ancora di volare.
Se non fossero stati separati per tanto tempo, Eragon l'avrebbe rimproverata per la sua imprudenza, ma in quel momento non provò altro che commozione e gratitudine davanti a tanta devozione. Grazie, disse. Non avrei sopportato di aspettare un solo altro giorno per essere di nuovo insieme.
E io lo stesso. La dragonessa chiuse gli occhi e spinse la testa contro le mani di Eragon, che continuava a grattarla dietro la mascella. E poi non potevo mancare all'incoronazione, giusto? Che cos'ha deciso il raduno dei... Prima che Saphira potesse concludere la domanda, Eragon le inviò un'immagine di Orik.
Ah, sospirò lei, comunicandogli la sua soddisfazione. Sarà un bravo re.
Lo spero.
Lo Zaffiro Stellato è pronto perché io lo ripari?
Se i nani non hanno già finito di metterlo insieme, sono sicuro che finiranno entro domani.
Bene. Socchiudendo una palpebra, Saphira scrutò Eragon con il suo sguardo penetrante. Nasuada mi ha raccontato dell'attentato dell'Az Sweldn rak Anhûin. Ti cacci sempre nei guai quando non sono con te.
Il sorriso di Eragon si allargò. E invece quando ci sei?
Inghiotto i guai prima che loro inghiottano te.
Questo lo dici tu. E quando gli Urgali ci tesero un'imboscata a Gil'ead e mi presero prigioniero?
Un pennacchio di fumo si levò dalle fauci di Saphira. Quello non vale. All'epoca ero più piccola e non avevo esperienza. Ora non accadrebbe. E nemmeno tu sei più debole come una volta.
Non sono mai stato debole! protestò Eragon. È solo che ho nemici potenti.
Per qualche ragione Saphira trovò la sua ultima dichiarazione molto divertente; la risata le sgorgò dal profondo del petto, scuotendola tutta, e ben presto anche Eragon si unì a lei. Nessuno dei due riuscì a fermarsi finché Eragon non si ritrovò boccheggiante a pancia all'aria, mentre Saphira cercava di trattenere le fiammate che le guizzavano dalle narici. Poi Saphira fece un verso che Eragon non aveva mai sentito prima, una specie di grugnito spezzato, e attraverso il loro legame provò una stranissima sensazione.
Saphira fece di nuovo quel verso, poi scrollò la testa, come se cercasse di sbarazzarsi di uno sciame di mosche. Accidenti, disse. Mi è venuto il singhiozzo.
Eragon rimase impalato, a bocca aperta. Un istante dopo riprese a ridere ancora più forte, piegato in due, con le lacrime che gli rigavano il volto. Ogni volta che stava per riprendersi, Saphira faceva ancora un singhiozzo, con uno scatto in avanti della testa che la faceva somigliare a una cicogna, e lui ricominciava a ridere come un matto. Alla fine Eragon si tappò le orecchie con le dita e fissò il soffitto, recitando i veri nomi di ogni metallo e ogni pietra che ricordava.
Quando ebbe finito, trasse un profondo respiro e si alzò.
Meglio? chiese Saphira, le spalle scosse da un nuovo singhiozzo.
Eragon si morse la lingua. Meglio... Avanti, andiamo a Tronjheim. Dovresti bere un po' d'acqua. A volte aiuta. E poi dovresti dormire.
Non puoi curare il singhiozzo con un incantesimo?
Forse. Può darsi. Ma né Brom né Oromis mi hanno insegnato come si fa. Saphira grugnì il suo assenso, e un secondo dopo arrivò l'ennesimo singhiozzo. Mordendosi ancora più forte la lingua, Eragon si fissò la punta degli stivali. Andiamo?
Saphira tese la zampa per invitarlo a salire. Eragon si arrampicò in fretta sulla sua schiena e prese posto sulla sella legata alla base del collo della dragonessa.
Insieme ripercorsero la galleria verso Tronjheim, felici e partecipi della rispettiva felicità.
L'INCORONAZIONE
I Tamburi di Derva suonarono, chiamando a raccolta i nani di Tronjheim per assistere all'incoronazione del nuovo re. "In circostanze normali" aveva detto Orik a Eragon la notte prima "quando il raduno dei clan elegge un re o una regina il knurla inizia a governare da subito, ma la cerimonia d'incoronazione si svolge solo dopo tre mesi, in modo da permettere a tutti coloro che vogliono prendervi parte di sistemare i loro affari e raggiungere il Farthen Dûr anche dalle regioni più remote del regno. Non ci succede spesso d'incoronare un re, perciò quando lo facciamo è nostra usanza renderlo un grande evento, con settimane di banchetti e musica, e sfide di ingegno e di forza, e gare di abilità nel forgiare, nell'intagliare e nelle altre forme d'arte... ma questi non sono tempi ordinari."
Eragon ascoltava i giganteschi tamburi, ritto in piedi accanto a Saphira, appena fuori della sala centrale di Tronjheim. Su entrambi i lati del viale lungo un miglio, centinaia di nani affollavano le arcate di ogni livello, spiando Eragon e Saphira con gli scuri occhi luccicanti.
La ruvida lingua di Saphira raspava contro le squame della bocca mentre si leccava le labbra, cosa che faceva da quando aveva finito di divorare cinque grosse pecore. Poi sollevò la zampa sinistra e si strofinò il muso. Le aleggiava intorno un odore di lana bruciata.
Smettila di agitarti, disse Eragon. Ci guardano tutti.
Saphira emise un debole ringhio. Non posso farne a meno. Ho della lana infilata fra i denti. Adesso ricordo perché odio mangiare le pecore. Quelle orribili creature lanuginose che mi fanno venire l'indigestione e le palle di pelo nello stomaco.
Ti aiuterò a pulirti i denti quando avremo finito qui. Ma intanto cerca di stare ferma.
Hmph.
Per caso Blödhgarm ti ha messo dei fiori di epilobio nelle bisacce? Potrebbero calmarti lo stomaco.
Non lo so.
Uhm. Eragon rifletté per un istante. Se non l'ha fatto, chiederò a Orik se i nani hanno delle scorte qui a Tronjheim. Dovremmo...
S'interruppe appena sentì la nota finale dei tamburi spegnersi nel silenzio. Si udiva solo qualche debole fruscio di vesti e un paio di frasi mormorate nella lingua dei nani.
Risuonarono gli squilli di una fanfara di dodici trombe che riempirono la città-montagna col loro richiamo trionfale, e da qualche parte si levò un coro di nani. Al suono di quella musica Eragon si sentì formicolare il cuoio capelluto e il sangue prese a scorrergli più in fretta, come se stesse per andare a caccia. Saphira frustò l'aria con la coda, ed Eragon capì che anche lei provava la stessa cosa.
Ci siamo, pensò.
Insieme, Eragon e Saphira avanzarono nella torreggiante sala centrale della città-montagna e presero posto nell'anello formato dai capiclan, dai capi delle gilde e dalle altre autorità.
Al centro della vasta sala giaceva ricostruito lo Zaffiro Stellato, incorniciato da una grossa intelaiatura di legno. Un'ora prima dell'incoronazione, Skeg aveva mandato un messaggio a Eragon e Saphira per avvertirli che lui e la sua squadra di artigiani avevano appena finito di rimettere insieme gli ultimi frammenti della gemma e che Isidar Mithrim era pronto perché Saphira lo facesse tornare integro come un tempo.
Il trono di granito nero dei nani era stato trasferito dalla sua collocazione abituale sotto Tronjheim e sistemato su una pedana rialzata accanto allo Zaffiro Stellato, rivolto verso il ramo orientale dei quattro corridoi principali che dividevano Tronjheim. L'est è il punto in cui sorge il sole, e la gemma simboleggiava l'alba di una nuova era. Migliaia di guerrieri nani con le armature di maglia brunita aspettavano sull'attenti in due vaste formazioni di fronte al trono, oppure schierati lungo i lati del corridoio orientale fino al cancello est di Tronjheim, a un miglio di distanza. Molti guerrieri impugnavano lance sormontate da vessilli dai curiosi disegni. Vedra, la moglie di Orik, era in prima fila, davanti al resto dell'assemblea: dopo che il raduno dei clan aveva bandito Grimstborith Vermûnd, Orik l'aveva mandata a chiamare, nel caso che fosse diventato re. Era arrivata a Tronjheim solo quella mattina.
Per mezz'ora le trombe suonarono e il coro invisibile continuò a cantare, mentre Orik incedeva a passi studiati dal cancello est fino al centro di Tronjheim. Aveva la barba spazzolata e arricciata, portava stivaloni lucidi della pelle migliore con speroni d'argento fissati ai talloni, pantaloni di lana grigia, una camicia di seta viola che brillava alla luce delle lanterne, e, sopra la camicia, la cotta di maglia: ogni anello era di puro oro bianco. Il ricco mantello bordato di ermellino, ricamato con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum, ricadeva morbido dalle sue spalle fluttuando in un lungo strascico. Volund, il martello da guerra forgiato da Korgan, il primo re dei nani, gli pendeva da un'alta cintura tempestata di rubini. Con quel sontuoso abbigliamento e la magnifica armatura, Orik sembrava risplendere di luce propria. Eragon rimase abbagliato.
Dietro Orik venivano dodici bambini nani, sei maschi e sei femmine, o almeno così dedusse Eragon dal taglio di capelli. I bambini indossavano tuniche marroni, rosse e dorate, e ognuno di loro teneva fra le mani a coppa una sfera levigata larga sei pollici, ciascuna ricavata da una gemma diversa.
Non appena Orik ebbe raggiunto il centro della città-montagna, la sala si oscurò e tante piccole ombre macchiarono ogni cosa al suo interno. Confuso, Eragon alzò lo sguardo e con sua sorpresa vide una pioggia di petali di rosa cadere dalla cima di Tronjheim. Come morbidi, densi fiocchi di neve, i petali vellutati si posavano sulle teste e sulle spalle dei presenti e sul pavimento, spandendo nell'aria la loro dolce fragranza.
Le trombe e il coro tacquero di colpo quando Orik si piegò su un ginocchio davanti al trono nero e chinò la testa. Alle sue spalle, i dodici bambini si fermarono e rimasero immobili.
Eragon posò una mano sul fianco caldo di Saphira, condividendo con lei un misto di inquietudine ed eccitazione. Non aveva idea di ciò che stava per succedere, perché Orik si era rifiutato di descrivergli la cerimonia da quel punto in poi.
Gannel, capoclan del Dûrgrimst Quan, fece un passo avanti, spezzando l'anello di persone che circondava la sala, e si avvicinò al trono, fermandosi sul lato destro. Il nano dalle grandi spalle indossava una sfarzosa tonaca rossa, dagli orli luccicanti di rune ricamate con filo metallico. In una mano stringeva un lungo bastone sormontato da un puro cristallo appuntito.
Dopo aver sollevato il bastone sopra la testa con entrambe le mani, Gannel lo batté sul pavimento di pietra con un tonfo che riecheggiò per tutta la sala. «Hwatum il skilfz gerdûmn!» esclamò. Continuò a parlare nella lingua dei nani per qualche minuto, ed Eragon ascoltò senza comprendere, dato che il suo traduttore non era con lui. Ma poi la voce di Gannel cambiò registro, ed Eragon riconobbe l'antica lingua. Gannel stava evocando un incantesimo, anche se era molto diverso da tutti quelli che Eragon conosceva. Invece di dirigerlo verso un oggetto o un elemento del mondo circostante, il sacerdote disse, nella lingua del mistero e del potere: «Gûntera, creatore del cielo e della terra e del mare sconfinato, ascolta il grido del tuo fedele servitore! Ti ringraziamo per la tua magnanimità. La nostra razza è florida. Quest'anno, come facciamo sempre, ti abbiamo offerto i migliori montoni delle nostre greggi, fiaschi d'idromele speziato e una parte dei nostri raccolti di frutta, verdura e grano. I tuoi templi sono i più ricchi sulla nostra terra e nessuno può sperare di competere con la tua gloria. O potente Gûntera, re degli dei, ascolta la mia preghiera e concedimi questa grazia. È giunta l'ora di nominare un mortale che governi i nostri affari terreni. Vuoi degnarti d'impartire la tua benedizione su Orik, figlio di Thrifk, e d'incoronarlo secondo la tradizione dei suoi predecessori?»
Lì per lì Eragon pensò che la preghiera di Gannel sarebbe caduta nel nulla, perché quando il nano ebbe finito di parlare non avvertì alcun flusso di magia provenire dal sacerdote. Poi Saphira gli diede un colpetto col muso e disse: Guarda!
Eragon seguì il suo sguardo e, a trenta piedi da terra, notò un'interferenza nella pioggia di petali, una zona vuota, come se un oggetto invisibile occupasse lo spazio. L'interferenza si allargò, arrivando fino al pavimento, e il vuoto circondato di petali assunse la forma di una creatura dotata di braccia e gambe, come un nano o un uomo o un elfo o un Urgali, ma con proporzioni diverse da quelle di ogni altra razza mai vista; la testa era larga quasi quanto le spalle, le braccia massicce arrivavano fin sotto le ginocchia, e se il torace era ampio, le gambe erano corte e storte.
Sottilissimi raggi di luce tremolante si sprigionarono dalla forma, e un attimo dopo apparve l'immagine nebulosa di una gigantesca figura maschile dai capelli arruffati. Il dio, se di un dio si trattava, non indossava nulla a parte un perizoma. La sua faccia scura, dai lineamenti marcati, sembrava esprimere crudeltà e gentilezza in egual misura, come se potesse passare da un estremo all'altro senza alcun preavviso.
Mentre notava quei dettagli, Eragon divenne anche consapevole della presenza di una strana, penetrante coscienza nella sala. Una coscienza dai pensieri arcani e dagli abissi insondabili, una coscienza che lampeggiava e tuonava e ondeggiava cambiando direzione all'improvviso come una nube temporalesca. Eragon si affrettò a sottrarre la mente da quel contatto. Gli formicolò la pelle e fu percorso da un brivido freddo. Non sapeva che cosa aveva sentito, ma ebbe paura e guardò Saphira in cerca di conforto. Lei stava fissando la figura, gli occhi blu da gatta che scintillavano con insolita intensità.
Come un sol uomo, i nani caddero in ginocchio.
Il dio parlò e la sua voce parve una frana di massi, il ruggito del vento sopra i picchi brulli delle montagne, il fragore delle onde contro una scogliera. Parlò nella lingua dei nani, e sebbene Eragon non capisse che cosa stava dicendo, si sentì soggiogato dalla potenza emanata dal discorso. Per tre volte il dio interrogò Orik e per tre volte Orik rispose, con voce fievole a confronto di quella del dio. Soddisfatta delle risposte, l'apparizione tese le braccia risplendenti e posò gli indici sulle tempie di Orik.
L'aria fra le dita del dio tremolò e sulla fronte di Orik si materializzò l'elmo d'oro tempestato di gemme che un tempo portava Rothgar. Il dio batté una mano sulla pancia, emise una risata tonante e poi si dissolse. I petali di rosa ricominciarono a cadere.
«Ûn qroth Gûntera!» proclamò Gannel. Risuonarono gli squilli potenti delle trombe.
Dopo essersi alzato, Orik salì sulla pedana, si voltò verso la folla e poi si sedette sul duro trono nero.
«Nal, Grimstnzborith Orik!» gridarono i nani, battendo sugli scudi con le asce e con le lance, e pestando i piedi sul pavimento. «Nal, Grimstnzborith Orik! Nal, Grimstnzborith Orik!»
«Evviva re Orik!» gridò Eragon. Inarcando il collo, Saphira ruggì il suo omaggio e sputò una vampa di fuoco sopra le teste dei nani, che incenerì una manciata di petali di rosa. A Eragon lacrimarono gli occhi quando fu investito dall'ondata di calore.
Gannel s'inginocchiò davanti a Orik e gli disse ancora qualcosa nella lingua dei nani. Quando ebbe finito, Orik gli toccò la testa e Gannel tornò al proprio posto ai margini della sala. Nado si avvicinò al trono e disse più o meno le stesse cose, e dopo di lui fecero altrettanto Manndrâth e Hadfala e tutti gli altri capiclan, con l'unica eccezione di Grimstborith Vermûnd, che era stato bandito dall'incoronazione.
Credo che si stiano mettendo al servizio di Orik, disse Eragon a Saphira.
Ma non gli avevano già dato la loro parola?
Sì, ma non in pubblico. Eragon vide Thordris avviarsi verso il trono prima di dire: Saphira, secondo te che cosa abbiamo appena visto? Era davvero Gûntera o soltanto un'illusione? La sua coscienza sembrava concreta, e non so come si possa fingere una cosa del genere ma...
Forse era un'illusione, disse lei. Che io sappia, le divinità dei nani non li hanno mai aiutati sui campi di battaglia né in altre occasioni del genere. E non credo che un vero dio accorrerebbe al richiamo di Gannel come un cane ammaestrato. Io non lo farei, e un dio non dovrebbe essere più importante di un drago?... D'altro canto, ci sono molte cose inspiegabili in Alagaësia. È possibile che abbiamo visto un'ombra proveniente da un'epoca ormai dimenticata, una pallida traccia di ciò che era un tempo e che continua a infestare la terra nel desiderio di riprendersi il potere perduto. Chi può saperlo?
Quando l'ultimo capoclan ebbe finito di tributare omaggio a Orik, toccò ai capi delle gilde presentarsi al suo cospetto, e poi Orik fece un cenno a Eragon. Con lenti passi misurati, Eragon avanzò tra le file di guerrieri nani fino a raggiungere la base del trono, dove s'inginocchiò. In quanto membro del Dûrgrimst Ingeitum, riconobbe Orik come proprio re e giurò di servirlo e di proteggerlo; in qualità di emissario di Nasuada, si congratulò con Orik per conto di Nasuada e dei Varden e gli promise la loro amicizia.
Quando Eragon si fu ritirato, molti altri nani si fecero avanti per parlare con Orik, in una processione che parve interminabile. Erano tutti desiderosi di dimostrare la propria lealtà al nuovo re.
La processione durò ore, poi cominciò la presentazione dei regali. Ogni nano offrì in dono a Orik un simbolo del proprio clan o della propria gilda: un calice d'oro traboccante di rubini e diamanti, una cotta di maglia stregata che nessuna lancia avrebbe potuto trapassare, un arazzo di venti piedi intessuto con la morbida lana tosata dalle barbe delle capre Feldûnost, una tavoletta d'agata su cui erano incisi i nomi di tutti gli antenati di Orik, un pugnale ricurvo ricavato dalla zanna di un drago, e molti altri tesori. In cambio, come segno della sua gratitudine, Orik offrì ai nani degli anelli.
Eragon e Saphira furono gli ultimi a presentarsi a Orik. Inginocchiandosi ancora una volta alla base della pedana, Eragon estrasse dalla tunica il bracciale d'oro che la sera prima aveva chiesto ai nani. Lo porse a Orik dicendo: «Ecco il mio regalo, re Orik. Non l'ho fatto io, ma gli ho imposto degli incantesimi per proteggerti. Finché lo porterai non dovrai temere alcun veleno. Se un sicario tenta di ucciderti o di pugnalarti o di lanciare contro di te un oggetto qualunque, l'arma non ti colpirà. Il bracciale ti proteggerà da gran parte degli incantesimi ostili. E possiede anche altre proprietà, che potrebbero tornarti utili quando la tua vita sarà in pericolo.»
Con un cenno del capo, Orik accettò il bracciale e disse: «Ti ringrazio molto per il tuo prezioso regalo, Eragon Ammazzaspettri.» E facendo in modo che tutti vedessero s'infilò la fascia d'oro sul braccio sinistro.
Poi venne il turno di Saphira, che proiettò i suoi pensieri verso tutti i presenti, dichiarando: Ecco il mio regalo, Orik. Oltrepassò il trono, gli artigli che ticchettavano sul pavimento di pietra, e si sollevò poggiando le zampe davanti sul bordo dell'intelaiatura che conteneva lo Zaffiro Stellato. Le robuste travi di legno scricchiolarono sotto il suo peso ma ressero. I minuti passarono senza che accadesse nulla, ma Saphira rimase dov'era, fissando l'enorme gemma.
I nani la osservavano rapiti, con gli occhi sgranati e il fiato sospeso.
Sei sicura di riuscirci? chiese Eragon, esitante, non volendo distrarla.
Non lo so. Le poche volte che ho usato la magia in passato non mi sono soffermata a pensare all'incantesimo. Ho semplicemente desiderato che il mondo cambiasse, ed è cambiato. Non è mai stato un procedimento consapevole... Immagino che dovrò aspettare finché non sentirò che è arrivato il momento giusto per riparare Isidar Mithrim.
Fatti aiutare. Lasciami evocare un incantesimo attraverso di te.
No, piccolo. È compito mio, non tuo.
Una voce solitaria, bassa e limpida, si levò nella sala, cantando una melodia lenta e malinconica. Uno alla volta, gli altri membri del coro invisibile si unirono al canto, colmando Tronjheim con la triste bellezza della loro musica.
Eragon stava per chiedere loro di tacere, ma Saphira disse: Va tutto bene. Lasciali stare.
Anche se non capiva le parole della canzone, Eragon intuì dal tono della melodia che si trattava di una lamentazione per le cose di un tempo che non c'erano più, come lo Zaffiro Stellato. Mentre il canto volgeva al termine, Eragon si ritrovò a pensare alla vita perduta nella Valle Palancar e gli si riempirono gli occhi di lacrime.
Con sorpresa notò un analogo flusso di pensieri malinconici scorrere in Saphira. La tristezza e il rimpianto non erano tratti caratteristici della sua personalità, perciò Eragon rimase colpito, e le avrebbe chiesto spiegazioni se non avesse percepito in lei qualcosa di più profondo, come se una parte antica del suo essere si fosse risvegliata.
La canzone si concluse con una lunga nota vibrante. In quell'istante Saphira fu attraversata da una corrente di energia così ricca e impetuosa che Eragon trasalì, e la dragonessa abbassò la testa a sfiorare lo Zaffiro Stellato con la punta del muso. La ragnatela di crepe che si diramava sulla gemma gigantesca s'illuminò di lampi sfolgoranti, poi l'intelaiatura si spezzò e cadde a terra, rivelando Isidar Mithrim di nuovo integro e perfetto.
Ma c'era qualcosa di diverso. Il colore della pietra era di una tonalità di rosso più profonda, più ricca di sfumature, e i petali interni della rosa erano striati da venature d'oro scuro.
I nani contemplarono Isidar Mithrim per qualche istante di muto stupore. Poi balzarono in piedi entusiasti, con acclamazioni e applausi così fragorosi da ricordare lo scroscio tonante di una cascata. Saphira chinò il capo verso la folla e tornò da Eragon, sbriciolando i petali di rosa sotto le zampe. Grazie, gli disse.
E di che cosa?
Di avermi aiutata. Sono state le tue emozioni a guidarmi. Senza di loro sarei potuta restare lì per settimane prima di sentire l'ispirazione per riparare Isidar Mithrim.
Alzando le braccia, Orik fece tacere la folla e disse: «A nome della nostra razza, ti ringrazio per il tuo regalo, Saphira. Oggi hai risanato l'orgoglio del nostro regno, e noi non dimenticheremo il tuo gesto. Che non si dica che i knurlan sono degli ingrati; da questo istante fino alla fine dei tempi il tuo nome sarà citato nelle festività invernali insieme agli elenchi dei Mastri Artigiani, e quando Isidar Mithrim sarà ricollocato nella sua posizione in cima a Tronjheim, il tuo nome verrà inciso nel castone dello Zaffiro Stellato insieme a quello di Dûrok Ornthrond, che per primo scolpì la gemma a forma di rosa.»
Rivolto a Eragon e Saphira, Orik disse: «Ancora una volta avete dimostrato la vostra amicizia verso la mia gente. Sono contento che le vostre azioni abbiano confermato che il mio padre adottivo aveva deciso per il meglio quando vi ha accolto nel Dûrgrimsth Ingeitum.»
Dopo la conclusione dei numerosi riti che seguirono l'incoronazione, e dopo che Eragon ebbe aiutato Saphira a togliersi la lana dai denti - un compito viscido, bagnaticcio e odoroso che lo costrinse a lavarsi di nuovo
- i due si presentarono al banchetto in onore di Orik. La festa fu allegra e chiassosa, e durò tutta la notte. Giocolieri e acrobati intrattennero gli ospiti, insieme a una compagnia di attori che recitarono un'opera intitolata Az Sartosvrenht rak Balmung, Grimsthnzborith rak Kvisagûr, che Hûndfast tradusse per Eragon in La Saga di re Balmung di Kvisagûr.
Mentre l'euforia dei festeggiamenti scemava e le teste dei nani ubriachi ciondolavano sui calici, Eragon si chinò verso Orik, seduto a capotavola, e disse: «Maestà.»
Orik agitò la mano. «Non voglio che mi chiami sempre maestà, Eragon. Non mi piace. A meno che l'occasione non lo richieda, usa il mio nome come hai sempre fatto. È un ordine.» Fece per prendere il suo calice ma lo mancò, rischiando di farlo rovesciare. Scoppiò a ridere.
Con un sorriso, Eragon disse: «Orik, volevo chiederti, è stato davvero Gûntera a incoronarti?»
Orik affondò il mento nel petto, la sua espressione all'improvviso seria mentre sfiorava l'orlo del calice con un dito. «Era quanto di più simile a Gûntera si possa vedere sulla faccia della terra. Questo risponde alla tua domanda, Eragon?»
«Io... credo di sì. Compare sempre quando viene chiamato? Si è mai rifiutato d'incoronare uno dei vostri sovrani?»
Orik aggrottò le sopracciglia. «Hai mai sentito parlare dei Re Eretici e delle Regine Eretiche?»
Eragon fece di no con la testa.
«Erano knurlan che non ottennero la benedizione di Gûntera, eppure si ostinarono a voler salire al trono.» Orik fece una smorfia. «Tutti, nessuno escluso, ebbero regni brevi e infelici.»
Eragon si sentì stringere il petto. «In buona sostanza, sebbene fossi stato eletto dal raduno dei clan, se Gûntera non ti avesse incoronato adesso tu non saresti re?»
«Già. Oppure sarei re di una nazione straziata dalla guerra civile.» Orik si strinse nelle spalle. «Ma non temevo troppo questa possibilità. Con i Varden in procinto d'invadere l'Impero, soltanto un pazzo avrebbe rischiato di spaccare il nostro paese negandomi il trono, e anche se Gûntera è molte cose, di sicuro non è un pazzo.»
«Ma non ne eri certo» osservò Eragon.
Orik scosse il capo. «Non finché non mi ha posato l'elmo in testa.»
PAROLE DI SAGGEZZA
«Scusa» disse Eragon, urtando il catino.
Nasuada aggrottò le sopracciglia, il volto deformato da una serie di piccole onde che incresparono l'acqua.
«Di cosa?» chiese lei. «Credo di doverti fare le mie congratulazioni. Hai portato a termine ogni fase della missione che ti avevo affidato, e anche di più.»
«No, è che...» Eragon s'interruppe quando si rese conto che lei non poteva notare l'ondulazione dell'acqua. Lo specchio magico di Nasuada aveva lo scopo di mostrarle un'immagine nitida di Eragon e Saphira, non degli oggetti che loro guardavano. «Ho urtato il catino con la mano, tutto qui.»
«Oh. Bene, in tal caso, lascia che ti faccia i miei complimenti, Eragon. Garantendo l'ascesa al trono di Orik...»
«Anche se ho dovuto rischiare di farmi uccidere?»
Nasuada sorrise. «Sì, anche se hai dovuto rischiare di farti uccidere. Sei riuscito a preservare la nostra alleanza con i nani, e questo potrebbe fare la differenza fra la vittoria e la sconfitta. Ora la domanda è: quanto ci vorrà prima che il resto dell'esercito dei nani ci raggiunga?»
«Orik ha già ordinato ai guerrieri di prepararsi a partire» disse Eragon. «I clan impiegheranno qualche giorno per radunare le forze, ma poi si metteranno subito in marcia.»
«Bene. Il loro aiuto ci serve appena possibile. E tu quando tornerai? Fra tre giorni? Quattro?»
Saphira arruffò le penne delle ali; il suo fiato era caldo sul collo di Eragon. Lui la guardò, poi, scegliendo le parole con cura, disse: «Dipende. Ricordi di cosa abbiamo parlato prima che partissi?»
Nasuada strinse le labbra. «Certo che lo ricordo, Eragon. Io...» Il suo sguardo si spostò di lato mentre ascoltava un uomo che le parlava, ma la sua voce era solo un mormorio incomprensibile per Eragon e Saphira. Riportando lo sguardo su di loro, Nasuada disse: «La compagnia del capitano Edric è appena tornata. Mi dicono che abbiamo subito gravi perdite, ma Roran è vivo.»
«È ferito?» s'informò Eragon.
«Te lo farò sapere non appena avrò notizie. Fossi in te non mi preoccuperei troppo, visto che Roran ha la fortuna di...» Ancora una volta, la voce di una persona che non potevano vedere distrasse Nasuada e lei sparì dal campo visivo.
Eragon aspettò, inquieto.
«Scusami» disse Nasuada, comparendo di nuovo nel catino. «Stiamo per cingere d'assedio Feinster e dobbiamo respingere le scorrerie di soldati ordinate da Lady Lorana... Eragon, Saphira, abbiamo bisogno di voi per questa battaglia. Se gli abitanti di Feinster vedono solo uomini, nani e Urgali schierati davanti alle loro mura, potrebbero convincersi di avere ancora una possibilità di salvare la città e combatteranno fino allo stremo. Non possono riuscirci, è chiaro, ma devono ancora convincersene. Se invece vedono un drago e un Cavaliere a guidare l'attacco contro di loro, perderanno ogni desiderio di resistere.»
«Ma...»
Nasuada alzò la mano per interromperlo. «Ci sono altri motivi per cui dovete tornare. A causa delle ferite che ho riportato nella Prova dei Lunghi Coltelli, non posso cavalcare in battaglia con i Varden come ho sempre fatto. Ho bisogno che tu prenda il mio posto, Eragon, per assicurarmi che i miei comandi siano eseguiti alla lettera, e anche per rinsaldare il morale dei nostri guerrieri. E poi malgrado i nostri sforzi, nell'accampamento cominciano a circolare voci sulla tua assenza. Se Murtagh e Castigo ne approfittano per attaccarci, o se Galbatorix li manda come rinforzi per Feinster... be', anche con gli elfi al nostro fianco dubito che riusciremmo a tener loro testa. Mi dispiace, Eragon, ma non posso permetterti di tornare a Ellesméra adesso. È troppo pericoloso.»
Stringendo il bordo freddo del tavolo di pietra dov'era posato il catino, Eragon disse: «Nasuada, per favore. Se non adesso, quando?»
«Presto. Dovete essere pazienti.»
«Presto.» Eragon trasse un profondo respiro, stringendo ancora di più il bordo del tavolo. «Quanto presto, esattamente?»
Nasuada lo guardò accigliata. «Come faccio a saperlo? Per prima cosa dobbiamo conquistare Feinster, poi dobbiamo rendere sicura la campagna circostante e poi...»
«E poi vorrai marciare su Belatona o Dras-Leona, e poi fino a Urû'baen» la interruppe Eragon. Nasuada provò a ribattere, ma lui non la lasciò parlare. «E più vi avvicinerete a Galbatorix, più aumenteranno le probabilità di essere attaccati da Murtagh e Castigo, o anche dal re in persona, e tu sarai ancora più restia a lasciarci andare... Nasuada, io e Saphira non abbiamo le capacità, le conoscenze o la forza per uccidere Galbatorix. E tu lo sai! Galbatorix potrebbe mettere fine a questa guerra quando vuole, se decidesse di uscire dal suo castello per affrontare i Varden in campo aperto. Io e Saphira dobbiamo parlare con i nostri maestri. Loro possono dirci da dove deriva il potere di Galbatorix, e forse mostrarci qualche trucco che ci permetta di sconfiggerlo.»
Nasuada abbassò lo sguardo, studiandosi le mani. «Castigo e Murtagh potrebbero distruggerci mentre voi siete lontani.»
«Ma se non andiamo, Galbatorix ci distruggerà quando raggiungeremo Urû'baen... Non potete aspettare qualche giorno prima di attaccare Feinster?»
«Possiamo, ma ogni giorno che restiamo accampati davanti alle mura della città ci costerà delle vite umane.» Nasuada si massaggiò le tempie con la base dei palmi. «Mi stai chiedendo molto in cambio di una ricompensa incerta, Eragon.»
«La ricompensa sarà anche incerta» osservò lui, «ma la nostra rovina è inevitabile se non facciamo almeno un tentativo.»
«Dici? Io non ne sono così sicura. Comunque...» Per un lungo, inquietante minuto, Nasuada rimase in silenzio, lo sguardo perso oltre lo specchio. Poi annuì, come per confermare qualcosa a se stessa, e disse: «Posso ritardare l'arrivo a Feinster di due o tre giorni. Ci sono diversi villaggi che possiamo conquistare prima. Una volta raggiunta la città, posso darti altri due o tre giorni mentre i Varden costruiscono le macchine d'assedio e preparano le fortificazioni. Nessuno sospetterà niente di strano, ma dopo dovrò attaccare Feinster, non fosse altro perché ci servono i loro viveri. Un esercito che indugia nel territorio nemico è un esercito che muore di fame. Nella migliore delle ipotesi, posso concederti sei giorni, o forse soltanto quattro.»
Mentre Nasuada parlava, Eragon aveva fatto qualche rapido calcolo. «Quattro giorni non bastano» disse. «E probabilmente nemmeno sei. Saphira ha impiegato tre giorni per volare qui nel Farthen Dûr, e questo senza mai fermarsi e senza portare il mio peso. Se le mappe che ho studiato sono precise, c'è la stessa distanza fra qui ed Ellesméra, forse anche di più. E la stessa fra Ellesméra e Feinster. E con me in groppa, Saphira non sarà in grado di coprire la distanza nello stesso tempo.»
No, infatti, gli disse Saphira.
Eragon continuò. «Nella migliore delle ipotesi ci metteremmo una settimana per raggiungervi a Feinster, e anche così non potremmo restare a Ellesméra che per una manciata di minuti.»
Un'espressione di profonda stanchezza solcò il volto di Nasuada. «Dovete per forza volare fino a Ellesméra? Non basterebbe divinare i vostri maestri una volta oltrepassate le barriere magiche che proteggono i confini della Du Weldenvarden? Il tempo risparmiato sarebbe fondamentale.»
«Non lo so, possiamo provarci.»
Nasuada chiuse gli occhi per un istante, poi, con la voce arrochita dalla stanchezza, disse: «Cercherò di ritardare il nostro arrivo a Feinster di quattro giorni... Voi potete andare a Ellesméra oppure no: lascio a voi la decisione. Se andate, allora restate il tempo necessario. Hai ragione, Eragon, a meno che non troviate un modo per sconfiggere Galbatorix non c'è alcuna speranza di vittoria. Ma non dimenticare il tremendo rischio che corriamo, le vite dei Varden che sacrificherò per darvi il tempo che vi serve, e quanti altri Varden moriranno se cingeremo d'assedio Feinster senza di voi.»
Eragon annuì, serio. «Non lo dimenticherò.»
«Lo spero. Ora andate! Non perdete tempo! Volate. Volate! Saphira, vola più veloce di un falco in picchiata e non lasciare che niente ti rallenti.» Nasuada avvicinò la punta delle dita alle labbra e poi le premette sull'invisibile superficie dello specchio. «Buon viaggio, e che la fortuna vi assista, Eragon, Saphira. Se ci rivedremo, temo che sarà sul campo di battaglia.»
Con un fruscio di stoffe, Nasuada scomparve dalla loro vista. Eragon sciolse l'incantesimo e l'acqua nel catino tornò limpida.
♦ ♦ ♦
LA FUSTIGAZIONE
Roran sedeva con la schiena rigida e lo sguardo perso oltre le spalle di Nasuada, fisso su una piega nella parete di tessuto cremisi del padiglione.
Sentiva gli occhi di Nasuada su di sé, ma si rifiutava d'incontrarli. Mentre il silenzio si faceva sempre più opprimente, pensò alle cose terribili che avrebbero potuto succedergli. Le tempie gli pulsavano con un'intensità febbrile. Quanto avrebbe voluto poter lasciare l'atmosfera pesante della tenda e respirare l'aria fresca là fuori.
Alla fine Nasuada disse: «Cosa devo fare con te, Roran?»
Lui raddrizzò ancora di più la schiena. «Ciò che desideri, mia signora.»
«Una risposta ammirevole, Fortemartello, ma non risolve in alcun modo il mio imbarazzo.» Nasuada bevve un sorso di vino da un calice. «Per due volte hai disobbedito a un ordine diretto del capitano Edric. E tuttavia, se non lo avessi fatto, né tu, né lui, né il resto della compagnia sareste sopravvissuti per raccontarlo. D'altro canto il tuo successo non cambia il fatto che hai disobbedito. Tu stesso hai ammesso di aver compiuto consapevolmente un atto d'insubordinazione, e io devo punirti se voglio mantenere la disciplina fra i Varden.»