«Ma come farai?»
Negli occhi di Rhunön balenò un luccichio divertito. «Non la farò io. Sarai tu, Ammazzaspettri, a fare la spada in vece mia.»
Eragon restò per un momento a bocca aperta, poi balbettando disse: «Iio? Ma non sono mai stato a bottega da un fabbro o da un armaiolo. Non sarei capace di forgiare nemmeno un banale coltellino.»
Il luccichio negli occhi di Rhunön si fece più intenso. «Eppure sarai tu a fare la spada.»
«Ma come? Mi starai accanto per dirmi come devo martellare il metallo?»
«Più o meno» disse Rhunön. «Entrerò nella tua mente per guidarti, in modo che le tue mani facciano ciò che le mie non possono. Non è la soluzione perfetta, ma non so che cos'altro escogitare per eludere il mio giuramento ed esercitare ancora una volta la mia arte.»
Eragon corrugò la fronte. «Ma se sarai tu a muovere le mie mani, non è come se la spada la facessi tu?»
Il volto di Rhunön si adombrò, e con voce brusca l'elfa disse: «Ammazzaspettri, la vuoi o no questa spada?»
«Certo.»
«E allora basta con tutte queste domande. Fare la spada attraverso le tue mani è diverso perché io penso che sia diverso. Se non ne fossi convinta, il mio giuramento m'impedirebbe di aiutarti. Perciò, a meno che tu non voglia tornare dai Varden a mani vuote, faresti meglio a tenere la bocca chiusa.»
«Sì, Rhunön-elda.»
Tornarono davanti al forno e Rhunön chiese a Saphira di staccare dal fondo del trogolo di mattoni la massa ancora calda di acciaioluce rappreso. «Rompila in pezzi della grandezza di un pugno» la istruì, poi indietreggiò a distanza di sicurezza.
Saphira sollevò una zampa davanti e la calò con tutta la sua forza sul blocco ondulato di acciaioluce. La terra tremò e l'acciaioluce si spezzò in diversi punti. Saphira lo calpestò ancora tre volte prima che Rhunön fosse soddisfatta del risultato. L'elfa raccolse nel grembiule i frammenti appuntiti e li portò a un tavolo basso accanto alla fucina. Lì divise il metallo in base alla durezza, che, come disse a Eragon, era in grado di determinare dal colore e dalla densità del metallo fratturato. «Alcuni pezzi sono troppo duri e altri troppo morbidi» disse. «Ci vorrebbe una seconda cottura, ma non abbiamo tempo. Usiamo solo i pezzi che già vanno bene per una spada. Per i fili della lama serve un acciaio più duro...» e toccò un cumulo di frammenti dalla grana brillante «... perché la parte sia affilata. L'anima della lama invece dovrà essere fatta con un acciaio leggermente più morbido...» e toccò un cumulo di frammenti di una tonalità più grigia, non così luminosa «... perfetto per flettersi e assorbire il colpo. Ma prima di dargli la forma desiderata, il metallo deve essere ancora lavorato, per eliminare le ultime impurità.»
Come? chiese Saphira.
«Lo vedrai fra un momento.»
Rhunön si avviò verso uno dei pali di sostegno del tetto della fucina, sedette a terra appoggiandovi la schiena, incrociò le gambe e chiuse gli occhi, il volto immobile e composto. «Sei pronto, Ammazzaspettri?» chiese.
«Sì» disse Eragon, malgrado un nodo di tensione gli serrasse lo stomaco. Quando le loro menti s'incontrarono, la prima cosa che Eragon percepì furono i bassi accordi che riecheggiavano nell'oscuro, intricato paesaggio dei pensieri di Rhunön. La musica era lenta e posata, intonata su una chiave strana e inquietante che lo irritò. Eragon non era sicuro di che cosa la melodia gli rivelasse sul carattere di Rhunön, ma cominciò a chiedersi se aveva fatto bene a concederle il controllo del proprio corpo. D'altra parte il pensiero di Saphira accovacciata di fianco alla fucina che lo sorvegliava lo tranquillizzò, e alla fine abbassò l'ultima delle difese intorno alla propria coscienza.
Eragon ebbe l'impressione di sentirsi scivolare sulla pelle un pezzo di lana grezza quando Rhunön gli avvolse la mente, insinuandosi nelle zone più intime del suo essere. Tremò al contatto e fu sul punto di ritirarsi, ma poi la voce ruvida dell'elfa risuonò nel suo cranio: Rilassati, Ammazzaspettri, andrà tutto bene.
Sì, Rhunön-elda.
Allora Rhunön cominciò a muovergli le braccia, le gambe, gli fece ruotare la testa e saggiò le altre capacità di movimento del suo corpo. Per quanto fosse strano per Eragon sentire la testa e le membra muoversi senza il suo controllo, fu ancora più strano quando i suoi occhi cominciarono a guizzare da un parte e dall'altra come per volontà propria. Provò un'improvvisa sensazione d'impotenza che lo gettò nel panico. Quando Rhunön lo fece camminare e il suo piede urtò lo spigolo della fucina, Eragon riprese subito il controllo di sé e afferrò il corno dell'incudine per paura di cadere.
Non t'immischiare, lo rimbrottò Rhunön. Se ti cedono i nervi nel momento sbagliato mentre stiamo forgiando, potresti farti molto male. Potresti farmelo tu, se non stai attenta, ribatté Eragon.
Abbi pazienza, Ammazzaspettri. Avrò imparato prima che faccia buio.
Mentre aspettavano che l'ultima luce svanisse dal cielo di velluto, Rhunön preparò la fucina e si esercitò a maneggiare i diversi strumenti. L'impaccio iniziale con il corpo di Eragon presto scomparve, anche se a un certo punto, allungando la mano per prendere un martello, gli fece urtare la punta delle dita contro il bordo del tavolo. Per il dolore a Eragon vennero le lacrime agli occhi. Rhunön si scusò e disse: Hai le braccia più lunghe di me. Qualche minuto dopo, quando stavano per iniziare, commentò: È una fortuna che tu abbia la forza e la velocità di un elfo, Ammazzaspettri, altrimenti non avremmo speranza di finire entro stanotte.
Rhunön prese i pezzi di acciaioluce morbido e duro che aveva deciso di utilizzare e li sistemò nella forgia. Dietro sua richiesta, Saphira scaldò il metallo, schiudendo appena le fauci per sprigionare un sottile getto di fiamme blu e bianche. La ruggente vampa di fuoco illuminò l'intero patio di una potente luce azzurra, che fece scintillare le squame di Saphira di un bagliore accecante.
Quando l'acciaioluce divenne di un rosso incandescente, Rhunön fece prendere a Eragon un paio di tenaglie per toglierlo dal torrente di fiamme. Lo posò sull'incudine e con il martello cominciò a battere rapidamente i blocchi di metallo per appiattirli fino a farli diventare spessi meno di un quarto di pollice. La superficie del metallo arroventato scintillava di pagliuzze incandescenti. Non appena finiva una lastra, Rhunön la faceva cadere in un trogolo di acqua salata lì accanto.
Dopo aver battuto tutto l'acciaioluce, Rhunön estrasse dal trogolo le lastre - Eragon sentì sulle braccia il calore emanato dal liquido - e le strofinò a una a una con un pezzo di arenaria per rimuovere le scaglie nere che si erano formate sulla superficie. La pulizia portò alla luce la struttura cristallina del metallo, che Rhunön studiò con grande interesse. Divise ulteriormente il metallo per durezza e purezza, secondo le qualità mostrate dai cristalli.
Eragon percepiva ogni pensiero e sentimento di Rhunön, e fu sorpreso dalla vastità delle sue conoscenze; nel metallo l'elfa vedeva cose di cui lui non avrebbe mai sospettato l'esistenza, e i calcoli che faceva in merito al trattamento andavano al di là della sua comprensione. Riuscì persino a cogliere il suo disappunto per come aveva impugnato il martello mentre appiattiva l'acciaio.
Il disappunto di Rhunön aumentò finché non esplose. Bah! Guarda queste ammaccature nel metallo! Non posso forgiare una lama così. Il mio controllo sulle tue braccia e le tue mani non è abbastanza preciso da permettermi di creare una spada degna.
Prima che Eragon potesse intervenire, Saphira disse: Gli attrezzi non fanno l'artista, Rhunön-elda. Di sicuro saprai trovare un rimedio a questo inconveniente.
Inconveniente? sbuffò Rhunön. Non ho più coordinazione di una dilettante. Sono un'estranea in casa di estranei. Continuando a brontolare, si lasciò andare a elucubrazioni mentali incomprensibili per Eragon, poi disse: Be', forse ho una soluzione, ma vi avverto, non continuerò se non riuscirò a mantenere il mio abituale livello di maestria.
Rhunön non spiegò la soluzione né a Eragon né a Saphira, ma una per una sistemò le lastre di metallo sull'incudine e le spezzò fino a ottenere scaglie non più larghe di un petalo di rosa. Raccolta la metà delle scaglie di acciaioluce più duro, le ammucchiò formando un mattone, che poi ricoprì di argilla e corteccia di betulla per tenerlo insieme. Posò il mattone su una grossa pala d'acciaio col manico lungo sette piedi, simile a quelle usate dai panettieri per infilare e togliere il pane dal forno bollente. Appoggiò il piatto della pala al centro della forgia e poi fece indietreggiare Eragon, senza però fargli mollare l'estremità del manico. Poi chiese a Saphira di ricominciare a sputare fuoco, e di nuovo il patio luccicò di un tremolante bagliore azzurro. Il calore era così intenso che Eragon ebbe la sensazione che la sua pelle stesse sfrigolando, e notò che le pietre di granito con cui era costruita la forgia si erano colorate di un giallo brillante.
L'acciaioluce avrebbe impiegato oltre mezz'ora a raggiungere la giusta temperatura in un fuoco di carbonella, ma grazie all'inferno scatenato dalle fauci di Saphira impiegò appena un paio di minuti per diventare bianco incandescente. A quel punto, Rhunön ordinò a Saphira d'interrompere la fiammata, e quando la dragonessa chiuse le fauci, la fucina piombò nell'oscurità.
Pilotato da Rhunön, Eragon tolse la pala dalla forgia e trasportò l'arroventato mattone di metallo coperto di argilla fino all'incudine, dove afferrò un martello e saldò le scaglie di acciaioluce in un solo pezzo. Continuò a battere il metallo allungandolo in una barra, poi lo tagliò in mezzo e lo ripiegò su se stesso, saldando insieme i due pezzi. I tintinnii costanti e regolari del martello sull'acciaio echeggiavano come rintocchi di campane fra gli antichi alberi che circondavano il patio.
Quando il colore dell'acciaioluce da bianco incandescente divenne giallo, Rhunön guidò Eragon perché lo riportasse alla forgia, e di nuovo Saphira lo irrorò con il fuoco scaturito dal suo ventre. Per sei volte Rhunön, attraverso Eragon, arroventò e piegò l'acciaioluce, e ogni volta il metallo diventava più liscio e più flessibile, fino a quando non raggiunse un livello di malleabilità tale che lo si poté piegare senza rischiare che si rompesse.
Mentre Eragon martellava il metallo, ogni movimento dettato da Rhunön, l'elfa cominciò a cantare sia con la voce di lui che con la propria, formando una piacevole armonia che s'innalzava e calava al ritmo dei colpi di martello. Eragon fu percorso da un brivido lungo la schiena quando sentì che Rhunön incanalava un costante flusso di energia nelle parole che pronunciavano, e si rese conto che la canzone conteneva incantesimi per fare, per plasmare e per legare. Con le loro due voci, Rhunön cantava del metallo che giaceva sull'incudine, descrivendone le qualità - alterandole in modi che superavano la comprensione di Eragon - e impregnando l'acciaioluce di una complessa rete d'incantesimi mirati a dargli una forza e una resistenza di molto superiori a quelle di un qualsiasi altro metallo. Rhunön cantava anche del braccio con cui Eragon impugnava il martello e, sotto la gentile influenza della sua nenia, ogni colpo che lei dava con il braccio di lui finiva sul punto desiderato.
Rhunön temprò la barra di acciaioluce dopo averla piegata per la sesta e ultima volta. Ripeté lo stesso procedimento con l'altra metà delle scaglie di metallo duro, forgiando una barra identica alla prima. Poi raccolse i frammenti di metallo più morbido, che piegò e saldò dieci volte prima di ricavarne un cuneo corto e pesante.
A quel punto, Rhunön chiese a Saphira di scaldare per l'ennesima volta le due barre di acciaio più duro. Le appoggiò ancora incandescenti sull'incudine, fianco a fianco, le afferrò entrambe con un paio di tenaglie per ciascuna estremità e cominciò a torcerle l'una sull'altra. Sprizzarono scintille quando prese a martellare le barre attorcigliate per saldarle in un unico pezzo. Rhunön piegò, saldò e allungò la massa di acciaioluce altre sei volte. Quando fu soddisfatta della qualità del metallo, appiattì l'acciaioluce in una spessa lamina rettangolare, tagliò la lamina per il lungo con uno scalpello affilato e piegò ciascuna metà al centro, formando una lunga V poco profonda.
Tutta l'operazione, calcolò Eragon, era durata sì e no un'ora e mezza. Si meravigliò della rapidità di Rhunön, anche se era stato il suo corpo a svolgere il lavoro. Non aveva mai visto un fabbro modellare il metallo con tanta facilità; Horst avrebbe impiegato ore a fare quello che l'elfa sbrigava in pochi minuti. E per quanto fosse impegnativo forgiare, Rhunön continuava a cantare, tessendo una trama d'incantesimi nell'acciaioluce e guidando il braccio di Eragon con infallibile precisione.
Nella confusione di rumori, fuoco, scintille e fatica, mentre Rhunön gli spostava lo sguardo sulla forgia, a Eragon parve di scorgere un terzetto di esili figure ferme ai margini del patio. Saphira confermò il suo sospetto un momento dopo quando disse: Eragon, non siamo soli.
Chi sono? chiese lui.
Saphira gli inviò un'immagine della bassa e rugosa gatta mannara Maud, sotto sembianze umane, in piedi fra due pallidi elfi non più alti di lei. Uno era maschio, l'altra femmina, ed entrambi erano straordinariamente belli, perfino secondo i canoni elfici. I loro volti solenni a forma di goccia avevano un'espressione saggia e innocente al tempo stesso, rendendo impossibile per Eragon giudicarne l'età. La loro pelle emanava un pallido chiarore argenteo, come se i due elfi fossero talmente pieni di energia da trasudarla dalla pelle.
Quando Rhunön si fermò per consentire al corpo di Eragon un breve riposo, lui le chiese chi fossero gli elfi. Rhunön li guardò, permettendo a Eragon di vederli meglio, poi, senza smettere di cantare, col pensiero disse: Sono Alanna e Dusan, gli unici bambini elfi di Ellesméra. Ci fu grande giubilo quando furono concepiti dodici anni fa.
Non somigliano a nessuno degli elfi che ho visto, disse lui.
I nostri bambini sono speciali, Ammazzaspettri. Sono dotati di particolari talenti - di grazia e di potenza - che nessun elfo adulto può sperare di uguagliare. Crescendo, in un certo senso il nostro fiore si avvizzisce, anche se la magia della nostra fanciullezza non ci abbandona mai del tutto.
Rhunön non perse altro tempo a parlare. Fece collocare a Eragon il cuneo di acciaioluce fra le due lastre ripiegate a V, e poi lo martellò finché le lastre non avvolsero quasi completamente il cuneo e i tre pezzi rimasero uniti per attrito. Poi saldò i frammenti insieme e mentre il metallo era ancora incandescente cominciò a trarne un primo abbozzo di spada. Il cuneo morbido costituì l'anima della spada, mentre le lastre più dure ne divennero i lati, i fili e la punta. Quando l'abbozzo fu lungo quasi quanto una spada finita, Rhunön rallentò il ritmo tornando al codolo e ricominciò a martellare lungo la lama, per definire gli angoli e le giuste proporzioni.
Poi chiese a Saphira di scaldare la lama a segmenti di non più di sei o sette pollici alla volta: Rhunön tenne la lama davanti a una delle narici di Saphira, da cui la dragonessa doveva soffiare un unico getto di fuoco. Ogni volta che il fuoco veniva sprigionato, una piccola folla di ombre tremolanti si rifugiava ai margini del patio.
Eragon osservava con stupore le proprie mani trasformare il blocco grezzo di metallo in un elegante strumento di guerra. A ogni colpo la forma della lama si faceva sempre più nitida, come se l'acciaioluce volesse diventare una spada e fosse ansioso di assumere la forma che Rhunön desiderava.
Quando ebbero finito, sull'incudine giaceva una lama lunga e nera che, sebbene non ancora rifinita e completa, irradiava già un senso di morte.
Rhunön permise alle braccia stanche di Eragon di riposare mentre la spada si raffreddava all'aria, poi gli fece portare la lama in un angolo del laboratorio dove aveva sistemato sei diverse pietre da mola e, su di una piccola panca, un vasto assortimento di lime, raschietti e pietre abrasive. Fissò la lama fra due blocchi di legno e passò l'ora seguente a livellare i lati della spada con un coltello a due manici e a rifinire i contorni della lama con le lime. Com'era successo con il martello, ogni passaggio del coltello e ogni sfregamento della lima sembrava produrre un effetto doppio rispetto al normale: era come se gli attrezzi sapessero l'esatta quantità di metallo da eliminare e niente andasse sprecato.
Quando ebbe finito di limare, Rhunön accese un fuoco di carbonella nella forgia e mentre aspettava che le fiamme acquistassero vigore preparò una poltiglia liquida di scura argilla a grana fine, cenere, polvere di pomice e linfa cristallizzata di ginepro. Spalmò l'intruglio sui fili e sulla punta, insistendo lungo la cresta centrale. Quanto più spesso era lo strato di soluzione d'argilla, tanto più lentamente il metallo si raffreddava durante la tempra e, di conseguenza, tanto più morbida risultava quella parte della spada.
L'argilla si illuminò quando Rhunön la fece seccare con un rapido incantesimo. Seguendo gli ordini dell'elfa, Eragon si spostò alla forgia. Appoggiò la spada di piatto sul letto di carbonella ardente e, pompando il mantice con la mano libera, cominciò a tirarla piano piano verso di sé. Una volta che la punta della lama fu uscita dal fuoco, Rhunön la girò e ripeté i movimenti in sequenza. Continuò a rigirare la lama nella brace finché entrambi i fili della spada non divennero arancione e la cresta centrale di un bel rosso acceso. Poi, con un solo movimento fluido, Rhunön sollevò la spada dalla brace, fendette l'aria con la lama d'acciaio scintillante e la immerse nel trogolo d'acqua accanto alla forgia.
Un'esplosione di vapore eruttò dalla superficie dell'acqua, che sibilò, sfrigolò e gorgogliò intorno alla lama. Dopo un minuto l'acqua si placò e Rhunön ritrasse la spada, che aveva assunto un color grigio perla. Rimettendola nel fuoco, portò l'intera lama alla stessa bassa temperatura di prima, in modo da ridurre la fragilità dei bordi, poi la temprò ancora una volta.
Eragon si era aspettato che Rhunön gli lasciasse libero il corpo dopo che aveva forgiato, indurito e temprato la lama, ma con sua grande sorpresa l'elfa rimase nella sua mente continuando a controllare i suoi movimenti.
Rhunön gli fece spegnere la forgia, poi lo riportò alla panca con le lime, i raschietti e le pietre abrasive. Lo fece sedere e, servendosi di pietre a grana sempre più fine, lucidò la lama. Dai ricordi dell'elfa, Eragon apprese che in genere impiegava più di una settimana a levigare una lama, ma grazie alla canzone che cantavano insieme, Rhunön attraverso di lui fu in grado di completare l'opera in sole quattro ore, durante le quali riuscì anche a dotare entrambi i lati della lama di una stretta scanalatura centrale. Via via che l'acciaioluce diventava più liscio, cominciò a rivelarsi la vera bellezza del metallo: in esso Eragon intravide una trama scintillante dove ciascuna riga segnava il confine fra due strati dell'acciaio vellutato. E lungo ciascun filo della spada compariva una tremolante fascia argentata, larga quanto un suo pollice, che dava l'impressione che i bordi ardessero di fiamme di ghiaccio.
I muscoli del braccio destro di Eragon cedettero mentre Rhunön stava coprendo il codolo con un tratteggio decorativo, e la lima che stringeva gli scivolò e gli cadde dalle dita. Eragon si sorprese di quanto era stanco, perché si era concentrato sulla spada a tal punto da dimenticarsi del resto.
Basta così, disse Rhunön, e uscì dalla sua mente senza aggiungere altro.
Sconvolto dalla sua improvvisa assenza, Eragon vacillò sulla sedia e per poco non perse l'equilibrio prima di riconquistare il controllo sulle membra. «Ma non abbiamo finito!» protestò, voltandosi verso Rhunön. La notte gli parve innaturalmente silenziosa senza le note del loro lungo duetto.
Rhunön si alzò dal posto dov'era rimasta seduta per tutto il tempo, a gambe incrociate, appoggiata al palo, e scosse il capo. «Non ho più bisogno di te, Ammazzaspettri. Vai a sognare fino all'alba.»
«Ma...»
«Sei stanco e anche con la mia magia corri il rischio di rovinare la spada se continui a lavorarci. Ora che la lama è pronta, posso occuparmi del resto senza infrangere il mio giuramento, perciò va' in casa mia. Troverai un letto al primo piano. Se hai fame, c'è del cibo nella dispensa.»
Eragon esitò, riluttante ad andarsene, poi annuì, si alzò barcollando dalla panca e si avviò a passi strascicati nella polvere. Quando passò accanto a Saphira, le accarezzò un'ala e le augurò la buonanotte, troppo esausto per dire altro. In risposta, lei gli arruffò i capelli con un caldo soffio d'aria e gli disse: Guarderò e ricorderò per te, piccolo mio.
Eragon si fermò sulla soglia della casa di Rhunön e si volse verso il patio ombreggiato; Maud e i due bambini elfi erano ancora lì. Alzò una mano per salutarli e Maud gli sorrise, scoprendo i denti aguzzi. Eragon si sentì formicolare la nuca quando i bambini lo guardarono: i loro grandi occhi obliqui emanavano un lieve bagliore nel buio. Quando capì che non si sarebbero mossi, Eragon chinò il capo e si affrettò a entrare in casa, desideroso di sdraiarsi su un soffice materasso.
UN VERO CAVALIERE
Svegliati, piccolo mio, disse Saphira. Il sole è sorto e Rhunön è impaziente.
Eragon si mise a sedere di scatto e insieme alle coperte si liberò dei sogni del suo sonno vigile. Aveva gambe e braccia ancora indolenzite per la fatica del giorno prima. S'infilò gli stivali, così eccitato da annaspare coi lacci, afferrò da terra il grembiule sudicio e scese a due a due gli scalini intagliati della casa a cupola di Rhunön.
Fuori, il cielo era illuminato dalle prime luci dell'alba, anche se il patio era ancora immerso nell'ombra. Eragon scorse Rhunön e Saphira vicino alla forgia e le raggiunse di corsa, ravviandosi i capelli con le dita.
Rhunön era in piedi, appoggiata al bordo della panca. Aveva borse scure sotto gli occhi e le rughe del volto più marcate.
La spada giaceva di fronte a lei, nascosta da una tela bianca.
«Ho fatto l'impossibile» disse, la voce rauca e incrinata. «Ho realizzato una spada quando avevo giurato che non l'avrei mai più fatto. C'è di più... l'ho fatta in meno di un giorno e con mani che non erano le mie. E malgrado questo, la spada non è né rozza né scadente. No! È la spada migliore che abbia mai forgiato. Avrei preferito usare meno magia durante il processo, ma questo è il mio unico rimorso, ed è ben poca cosa se paragonato alla perfezione del risultato. Ecco!»
Afferrando un angolo della tela, Rhunön la sollevò, rivelando la spada.
Eragon trasalì.
Aveva pensato che nella manciata d'ore in cui l'aveva lasciata sola Rhunön avesse avuto il tempo di fabbricare soltanto un'elsa dalla semplice guardia crociata, e magari un nudo fodero di legno. Invece Eragon vide sulla panca una spada magnifica quanto Zar'roc, Naegling o Tàmerlein, e ai suoi occhi era ancora più bella.
La lama era coperta da un lucido fodero dello stesso blu scuro delle squame del dorso di Saphira. Il colore era leggermente cangiante, come la luce screziata sul fondo di un limpido laghetto di foresta. Uno scampolo di acciaioluce brunito, a forma di foglia, ornava il puntale del fodero, mentre una ghiera decorata a viticci stilizzati ne circondava l'imboccatura. Anche la guardia crociata ricurva era fatta d'acciaioluce brunito, così come le quattro coste che sorreggevano il grande zaffiro del pomolo. L'impugnatura a una mano e mezza era di duro legno nero.
Sopraffatto da un senso di timore reverenziale, Eragon protese una mano verso la spada, poi si fermò e scoccò un'occhiata a Rhunön. «Posso?» le chiese.
L'elfa inclinò la testa. «Certo. È tua, Ammazzaspettri.»
Eragon prese la spada dalla panca. Il fodero e il legno dell'elsa erano freddi. Per alcuni minuti ammirò i dettagli del fodero, della guardia e del pomolo. Poi strinse la mano sull'elsa e sguainò la spada.
Anche la lama era blu, ma di una tonalità più chiara, come quello delle squame della gola di Saphira. Il colore era iridescente, come quello di Zar'roc: ogni volta che Eragon muoveva la spada, il colore cambiava e scintillava di uno dei tanti toni di blu delle squame di Saphira. Si vedeva la trama all'interno dell'acciaioluce e le pallide fasce lungo i fili della lama erano ancora visibili.
Con una sola mano, Eragon tagliò l'aria con la spada, vibrando colpi da un lato e dall'altro, e rise nel sentirla leggera e veloce. Sembrava quasi viva. Poi l'afferrò con tutte e due le mani e fu contento di scoprire che stavano alla perfezione sull'elsa allungata. Provando un affondo, colpì un nemico immaginario, sicuro di avergli sferrato un colpo mortale.
«Avanti» disse Rhunön, e gli indicò tre sbarre di ferro piantate nel terreno, proprio davanti alla fucina. «Provala su quelle.»
Eragon si concentrò per un istante, poi fece un solo passo e, con un grido, menò un colpo di traverso che tagliò tutte e tre le sbarre. La lama emise una sola nota cristallina, che lentamente si spense. Quando Eragon esaminò il filo nel punto dove aveva colpito il ferro, vide che l'impatto non lo aveva nemmeno scalfito.
«Sei soddisfatto, Cavaliere dei Draghi?» chiese Rhunön.
«Più che soddisfatto, Rhunön-elda» rispose Eragon, e s'inchino davanti a lei. «Non so come ringraziarti per un simile dono.»
«Mi ringrazierai uccidendo Galbatorix. Se esiste una spada destinata ad abbattere quel folle di un re, è senza dubbio questa.»
«Farò del mio meglio, Rhunön-elda.»
L'elfa annuì, compiaciuta. «Be', finalmente hai una spada tua, com'era giusto che fosse. Adesso sì che sei un vero Cavaliere dei Draghi!»
«Già» disse Eragon e alzò la spada al cielo, ammirandola. «Ora sono un vero Cavaliere.»
«Prima di andartene, però, c'è un'ultima cosa che devi fare» disse Rhunön.
«Cosa?»
L'elfa indicò la spada. «Devi darle un nome, perché io possa incidere il giusto glifo sulla lama e sul fodero.»
Eragon si avvicinò a Saphira e disse: Che ne pensi?
Non sono io quella che deve portare la spada. Chiamala come ritieni meglio.
Sì, ma non hai qualche idea?
Lei abbassò la testa verso di lui e annusò la spada, poi disse: Dentegemmablu, ecco come la chiamerei. Oppure Artiglioblurosso.
Suonerebbe ridicolo alle orecchie degli umani.
Allora che ne dici di Tritacarne o Squarciabudella? O magari Guerrartiglio, oppure Brillaspina o Squartamembra? Potresti chiamarla Terrore o Dolore o Mordibraccia o Sempreaffilata. Oppure Squameondulate, per le linee nell'acciaio. Ti suggerisco anche Lingua di Morte e Acciaio Elfico e Metallo di Stella. Se ne vuoi altri...
L'improvvisa sfilza di suggerimenti sorprese Eragon. Sei brava con i nomi, disse.
Inventare nomi a caso è facile. Inventare il giusto nome, però, può mettere alla prova anche la pazienza di un elfo.
Che ne dici di Ammazzatiranni? chiese Eragon.
E se uccidiamo davvero Galbatorix? Poi? Non ci vuoi fare nient'altro, con la tua spada?
Uhm. Affiancando la spada alla zampa di Saphira, Eragon disse: Ha il tuo colore preciso: potrei chiamarla come te.
Un basso ringhio risuonò nel petto di Saphira. No.
Eragon trattenne un sorriso. Sicura? Immagina se fossimo in battaglia e...
Gli artigli della dragonessa affondarono nel terreno. No. Non sono un oggetto da brandire e da canzonare.
No, hai ragione. Scusa. Be', e se la chiamassi Speranza nell'antica lingua? Zar'roc significa "miseria", perciò non sarebbe giusto che io avessi una spada che già solo col nome combatte la miseria?
Un nobile sentimento, disse Saphira. Ma vuoi davvero dare speranza ai tuoi nemici? Vuoi colpire Galbatorix con la speranza?
È un gioco di parole divertente, ridacchiò lui.
Un tempo forse, ma ora non più.
Tornando subito serio, Eragon fece una smorfia e si stropicciò il mento, studiando il gioco di luci sulla lama splendente. Mentre fissava le profondità dell'acciaio, lo sguardo gli cadde sul punto di passaggio fra l'acciaio più morbido della cresta centrale e quello più duro dei fili, dove la forma somigliava a una fiamma, e rammentò la parola che Brom aveva usato per accendere la pipa, nel ricordo che Saphira gli aveva mostrato. Poi Eragon pensò a Yazuac, dove per la prima volta aveva usato la magia, e anche al duello con Durza, nel Farthen Dûr, e in quell'istante seppe senza ombra di dubbio di aver trovato il nome giusto per la sua spada.
Si consultò con Saphira e quando lei fu d'accordo con la sua scelta sollevò l'arma col braccio teso e disse: «Ho deciso. Spada, ti chiamerò Brisingr!»
E con un rumore simile al fruscio del vento, la lama prese fuoco: un involucro di fiamme blu zaffiro avvolse l'acciaio tagliente.
Con un grido di sorpresa, Eragon lasciò cadere la spada e balzò all'indietro, temendo di scottarsi. La spada continuò a bruciare sul terreno; le fiamme traslucide incenerirono l'erba tutto attorno. Fu allora che Eragon si accorse che era lui ad alimentare quel fuoco innaturale con la sua energia. Si affrettò a recidere il flusso di magia e il fuoco svanì. Domandandosi come aveva fatto a evocare un incantesimo involontariamente, raccolse la spada e provò a toccare la lama con la punta di un dito. Non era più calda di prima.
Accigliata, Rhunön si fece avanti e gli strappò la spada dalle mani, esaminandola dalla punta al pomolo. «Sei fortunato che l'abbia già protetta con un incantesimo contro il calore e gli urti, altrimenti avresti scalfito la guardia e distrutto la tempra della lama. Non far cadere di nuovo la spada, Ammazzaspettri, nemmeno se si dovesse trasformare in un serpente, altrimenti me la riprendo e al suo posto ti darò un martello ammaccato.» Eragon si scusò. Ammansita, Rhunön gli restituì la spada. «Le hai dato fuoco apposta?» gli chiese.
«No» disse Eragon, incapace di spiegarsi che cosa fosse accaduto.
«Dillo di nuovo» gli ordinò Rhunön.
«Cosa?»
«Il nome, il nome, dillo di nuovo.»
Tenendo la spada il più lontano possibile dal corpo, Eragon esclamò: «Brisingr!»
Una colonna di fiamme guizzanti avvolse la lama, investendo il suo volto col calore. Questa volta Eragon avvertì la leggera flessione nella forza causata dell'incantesimo. Dopo un attimo spense il fuoco senza fumo.
Ancora una volta esclamò: «Brisingr!» E ancora una volta la lama scintillò di spettrali lingue di fuoco blu.
Questa sì che è una spada che si addice a un Cavaliere e a un drago! esclamò Saphira, entusiasta. Sputa fuoco come me.
«Ma io non volevo evocare un incantesimo!» protestò Eragon. «Ho soltanto detto Brisingr e...» Lanciò un grido e imprecò quando la spada prese fuoco. Lo spense per la quarta volta.
«Posso?» chiese Rhunön, tendendo la mano verso Eragon. Lui le passò la spada e anche lei disse «Brisingr.» Un brivido parve correre lungo la lama, ma a parte questo, restò inanimata. Pensierosa, Rhunön restituì la spada a Eragon e disse: «Mi vengono in mente soltanto due spiegazioni per questo prodigio. La prima è che dal momento che sei stato coinvolto nella sua creazione, hai impresso nella lama parte della tua personalità, e perciò la spada entra in sintonia con i tuoi desideri. L'altra è che forse hai scoperto il vero nome della tua spada. Forse sono successe entrambe le cose. In ogni caso hai scelto bene, Ammazzaspettri. Brisingr, sì, mi piace. È un bel nome per una spada.»
Un nome perfetto, convenne Saphira.
Poi Rhunön posò la mano al centro della lama di Brisingr e mormorò un incantesimo impercettibile. Il glifo elfico per fuoco comparve su entrambi i lati della lama. Fece lo stesso con il fodero.
Eragon rivolse un nuovo inchino all'elfa, e sia lui che Saphira le espressero la loro gratitudine. Un sorriso illuminò il vecchio volto di Rhunön, che toccò entrambi sulla fronte con il pollice calloso. «Sono felice di aver potuto aiutare ancora una volta i Cavalieri. Tornate dai Varden. Va', Squamediluce. Va', Ammazzaspettri. Che i vostri nemici fuggano in preda al terrore alla vista della spada che adesso possiedi.»
I due si congedarono, e si allontanarono dalla casa di Rhunön. Eragon stringeva Brisingr fra le braccia come un neonato.
♦ ♦ ♦
SCHINIERI E BRACCIALI
Una sola candela illuminava l'interno della tenda di lana grigia, misero sostituto della luce del sole. Roran era in piedi con le braccia tese mentre Katrina gli allacciava i lati della giubba imbottita che aveva fatto per lui. Quando ebbe finito, Katrina strattonò l'orlo, lisciando le grinze, e disse: «Ecco fatto. Troppo stretto?»
Lui scosse la testa. «No.»
Katrina prese gli schinieri dalla branda dove dormivano insieme e gli si inginocchiò davanti, nella luce tremula della candela. Roran la osservò mentre glieli allacciava. Lei gli circondò la curva del polpaccio con la mano mentre fissava il secondo, la carne calda contro quella di lui attraverso il tessuto dei pantaloni.
Katrina si rialzò, tornò alla branda e prese i bracciali. Roran tese le braccia e la fissò negli occhi proprio mentre lei cercava i suoi. Con lenti movimenti studiati, gli assicurò i bracciali sugli avambracci, poi lasciò scorrere le dita dall'incavo dei gomiti fino ai polsi, e lui le afferrò le mani.
Lei sorrise e si liberò della sua stretta gentile.
Ancora una volta tornò alla branda per prendere la cotta di maglia. Si alzò in punta di piedi e sollevò la cotta di maglia sopra la testa di lui, tenendola alta finché Roran non ebbe infilato le braccia nelle maniche. La maglia tintinnò come ghiaccio quando lei la lasciò srotolare dalle spalle fino alle ginocchia.
Katrina gli sistemò in testa la calotta di cuoio, facendogli un nodo sotto il mento per tenerla ferma. Gli prese il viso fra le mani per un attimo, poi lo baciò sulle labbra e andò a prendere l'elmo con la visiera, calcandolo con attenzione sulla calotta protettiva.
Roran le cinse la vita ingrossata con il braccio, fermandola prima che tornasse alla branda. «Ascoltami» disse. «Andrà tutto bene.» Cercò di infondere tutto il suo amore nel tono della voce e nella forza dello sguardo. «Non startene qui tutta sola. Promettimelo. Va' da Elain; potrebbe avere bisogno del tuo aiuto. Sta male, e il suo bambino è in ritardo.»
Katrina levò il mento, gli occhi lucidi di lacrime che, Roran sapeva, non avrebbe versato finché lui non se ne fosse andato. «Devi marciare in prima linea?» mormorò lei.
«Qualcuno deve; tanto vale che sia io. Chi manderesti al mio posto?»
«Chiunque... chiunque.» Katrina abbassò gli occhi e rimase in silenzio. Poi estrasse un fazzoletto rosso dal corpetto e disse: «Tieni, porta questo mio dono perché tutto il mondo sappia quanto sono fiera di te.» Gli annodò il fazzoletto alla cintura della spada.
Roran la baciò due volte e la lasciò andare, e lei gli portò lo scudo e la lancia. Lui li prese e la baciò una terza volta, poi infilò il braccio nella cinghia dello scudo.
«Se mi succedesse qualcosa...»
Katrina gli mise un dito sulle labbra. «Ssst. Non dirlo, porta male.»
«D'accordo.» La abbracciò un'ultima volta. «Abbi cura di te.»
«Anche tu.»
Roran odiò separarsi ancora una volta da lei. Sollevò lo scudo e uscì dalla tenda, emergendo nella pallida luce dell'alba. Uomini, nani e Urgali sciamavano nell'accampamento correndo verso il grande spiazzo a ovest dove si andavano radunando i Varden.
Roran si riempì i polmoni con l'aria fresca del mattino e s'incamminò; sapeva che il suo gruppo di guerrieri lo stava già aspettando. Arrivato allo spiazzo, cercò la divisione di Jörmundur, e dopo essersi presentato all'ufficiale, si avviò alla testa del gruppo, dove scelse di mettersi vicino a Yarbog.
L'Urgali gli scoccò un'occhiata e grugnì: «Un buon giorno per combattere.»
«Già, un buon giorno.»
Un corno risuonò alla testa dei Varden non appena il sole spuntò all'orizzonte. Roran sollevò la lancia e cominciò a correre, come tutti gli altri intorno a lui, urlando con quanto fiato aveva in gola, mentre nugoli di frecce e massi scagliati dalle catapulte sibilavano sulle loro teste, volando da entrambe le direzioni. Davanti a lui si profilò la muraglia di pietra alta ottanta piedi.
L'assedio di Feinster era cominciato.
♦ ♦ ♦
COMMIATO
Una volta lasciata la dimora di Rhunön, Eragon e Saphira tornarono in volo alla casa sull'albero. Eragon radunò le sue cose, sellò Saphira e le montò in groppa.
Prima di andare alla rupe di Tel'Naeír, disse, c'è ancora una cosa che devo fare a Ellesméra.
Devi? chiese Saphira.
Altrimenti non mi darò pace.
Saphira spiccò un salto dalla casa sull'albero. Volò verso ovest finché il numero di abitazioni cominciò a diminuire, poi discese adagio per un dolce atterraggio su uno stretto sentiero coperto di muschio. Dopo aver chiesto e ottenuto indicazioni da un elfo che sedeva fra i rami di un albero vicino, Eragon e Saphira proseguirono attraverso la foresta, finché arrivarono a una piccola capanna con una sola stanza, ricavata dal tronco di un abete inclinato ad angolo acuto, come piegato da un vento incessante.
A sinistra della casa c'era un morbido terrapieno, più alto di Eragon di diversi piedi. Un rivolo d'acqua scorreva dal bordo del terrapieno per gettarsi in un limpido laghetto e serpeggiare di nuovo negli ombreggiati recessi della foresta. Il laghetto era orlato da ciuffi di orchidee bianche. Tra i fiori slanciati sporgeva dal terreno una radice nodosa. E sulla radice, seduto a gambe incrociate, c'era Sloan.
Eragon trattenne il fiato perché non voleva tradire la propria presenza. Secondo lo stile degli elfi, il macellaio indossava abiti marrone e arancio. Una sottile striscia di tela nera legata intorno alla testa gli nascondeva le orbite vuote. In grembo teneva un pezzo di legno stagionato, che stava intagliando con un piccolo coltello ricurvo. Aveva il volto solcato da molte più rughe di quante Eragon ricordasse, e mani e braccia piene di cicatrici recenti, che risaltavano livide sulla pelle.
Aspetta qui, disse Eragon a Saphira, e le scivolò giù dalla schiena.
Mentre Eragon gli si avvicinava, Sloan smise di intagliare e fece un brusco cenno con la testa. «Vattene» gracchiò.
Non sapendo che cosa rispondere, Eragon si fermò e restò in silenzio.
Con i muscoli della mascella che gli tremavano, Sloan rimosse un altro paio di riccioli dal pezzo di legno, poi batté la punta del coltello contro la radice e disse: «Maledizione! Non potete lasciarmi solo con la mia miseria per qualche ora? Non voglio più ascoltare quei vostri bardi o menestrelli. E potete chiedermelo all'infinito, ma non cambierò idea. E adesso via! Via!»
Eragon provò un misto di pietà e di rabbia, e un senso di smarrimento nel vedere un uomo con cui era cresciuto, e che così spesso aveva temuto e disprezzato, ridotto in un simile stato. «Ti trovi bene?» gli chiese nell'antica lingua, adottando un tono leggero e cadenzato.
Sloan emise un grugnito di disgusto. «Sai che non capisco la tua lingua e non voglio nemmeno impararla. Le parole mi risuonano nelle orecchie più di quanto non dovrebbero. Se non parli nella lingua della mia razza, tanto vale che non mi rivolga la parola.»
Malgrado la sua richiesta, Eragon non ripeté la domanda nella loro lingua. E neppure se ne andò.
Imprecando fra i denti, Sloan ricominciò a intagliare. Ogni due passate di lama, accarezzava la superficie del legno col pollice destro per controllare i progressi del proprio lavoro. Dopo qualche minuto, in tono più gentile, disse: «Avevate ragione; fare qualcosa con le mani mi calma la mente. A volte... a volte riesco quasi a dimenticare quello che ho perduto, ma i ricordi tornano sempre e io mi sento soffocare... Sono contento che mi abbiate affilato il coltello. I coltelli di un uomo dovrebbero sempre essere affilati.»
Eragon lo guardò ancora per un minuto, poi si voltò e tornò dove Saphira stava aspettando. Mentre si issava in sella disse: Sloan non mi sembra molto cambiato.
Saphira replicò: Non puoi aspettarti che diventi un altro in così breve tempo.
No, ma speravo che qui a Ellesméra gli venisse un po' di buonsenso, e che si pentisse dei suoi crimini.
Se non vuole riconoscere i suoi errori, Eragon, niente può costringerlo a farlo. Comunque, tu hai fatto il possibile. Ora spetta a lui riconciliarsi con la vita, e se non ce la fa, lascia che cerchi il conforto della tomba eterna.
Da una radura vicino alla casa di Sloan, Saphira si slanciò in aria, librandosi sugli alberi per puntare a nord, verso la rupe di Tel'naeír. Batteva le ali in fretta, con tutta la forza che aveva. Il sole del mattino era ormai spuntato all'orizzonte, e i raggi di luce che lambivano le cime degli alberi creavano lunghe ombre scure che puntavano a ovest, come vessilli purpurei.
Saphira planò verso la radura vicina alla casa di legno di pino, dove Glaedr e Oromis erano in piedi ad aspettarli. Eragon fu stupito nel vedere che Glaedr aveva una sella nascosta fra due punte acuminate del dorso e che Oromis indossava pesanti abiti da viaggio, blu e verdi, su cui portava un'armatura dalle scaglie dorate. Gli avambracci erano protetti da lunghi bracciali e a tracolla portava un alto scudo romboidale. Teneva un antico elmo sotto il braccio sinistro e dalla cintola pendeva la sua spada color bronzo, Naegling.
Levando con le ali una folata di vento, Saphira atterrò sul prato di trifoglio e schioccò la lingua assaggiando l'aria mentre Eragon scivolava a terra. Verrete con noi dai Varden? chiese lei, la punta della coda fremente per l'eccitazione.
«Voleremo con voi fino ai margini della Du Weldenvarden, ma lì le nostre strade si separeranno» dichiarò Oromis.
Deluso, Eragon chiese: «E poi tornerete a Ellesméra?»
Oromis scosse il capo. «No, Eragon. Poi continueremo fino alla città di Gil'ead.»
Saphira sibilò, sorpresa quanto Eragon. «Perché Gil'ead?» chiese lui.
Perché da Ceunon, Islanzadi e il suo esercito hanno marciato sulla città e stanno per cingerla d'assedio, disse Glaedr. Le strane, scintillanti strutture della sua mente sfiorarono la coscienza di Eragon.
Ma non volevate tenere nascosta la vostra esistenza all'Impero? chiese Saphira.
Oromis chiuse gli occhi per un momento, con un'espressione triste ed enigmatica. «Il tempo di nascondersi è finito, Saphira. Io e Glaedr vi abbiamo insegnato tutto quello che potevamo, nel breve periodo in cui avete avuto la possibilità di studiare sotto la nostra guida. È stata ben poca cosa se paragonata all'istruzione che avreste ricevuto ai tempi antichi, ma visto il precipitare degli eventi siamo già stati fortunati a riuscire a insegnarvi quanto sapete. Io e Glaedr siamo soddisfatti: ora avete tutte le informazioni che possono aiutarvi a sconfiggere Galbatorix.
«Perciò, poiché è improbabile che torniate per continuare il vostro addestramento prima della conclusione di questa guerra, ed è ancora più improbabile che esistano un altro drago e un altro Cavaliere da istruire mentre Galbatorix calpesta ancora questa terra, abbiamo deciso che non ci sono altre ragioni per restare confinati nella Du Weldenvarden. È più importante aiutare Islanzadi e i Varden a sconfiggere Galbatorix che restare qui nell'ozio, aspettando che un altro Cavaliere e un altro drago ci vengano a cercare.
«Quando Galbatorix saprà che siamo ancora vivi, sarà meno sicuro di sé, e si chiederà se altri draghi e altri Cavalieri sono sopravvissuti al suo tentativo di sterminio. Sapere della nostra esistenza rinsalderà lo spirito dei nani e dei Varden, e annullerà qualsiasi effetto negativo che la comparsa di Murtagh e Castigo sulle Pianure Ardenti può aver avuto sulla risolutezza dei guerrieri. Non solo: altri sudditi dell'Impero potrebbero decidere di unirsi ai soldati di Nasuada.»
Eragon scoccò un'occhiata a Naegling e disse: «Certo. Però, maestro, non avrete intenzione di scendere in campo, vero?»
«E perché no?» ribatté Oromis, inclinando la testa di lato.
Temendo di offenderli, Eragon esitò. Infine disse: «Perdonami, maestro, ma come puoi combattere se ti manca l'energia per evocare incantesimi di un certo peso? E gli attacchi che talvolta ti prendono? E se accadesse nel mezzo di una battaglia? Potrebbe essere fatale.»
Oromis rispose: «Come ormai dovresti sapere, la semplice forza di rado decreta il vincitore quando due maghi si affrontano. E in ogni caso ho tutta la forza che mi serve qui, nella gemma della mia spada.» E posò la mano sul diamante giallo che costituiva il pomolo di Naegling. «Per oltre cento anni io e Glaedr abbiamo accumulato in questo diamante ogni briciolo risparmiato della nostra forza, e molti altri hanno aggiunto la loro. Due volte la settimana parecchi elfi di Ellesméra vengono a farmi visita e trasferiscono nella gemma tutta la forza vitale di cui possono fare a meno senza uccidersi. La quantità di energia contenuta in questa pietra è formidabile, Eragon: con essa potrei spostare un'intera montagna. Sarà facile quindi difendere Glaedr e me stesso da spade, lance, frecce o persino da un masso lanciato da una catapulta. Quanto ai miei attacchi, ho aggiunto alcuni incantesimi di protezione alla pietra di Naegling che mi difenderanno nel caso che venissi colpito da convulsioni mentre sono in battaglia. Perciò vedi, Eragon, io e Glaedr siamo tutt'altro che indifesi.»
Eragon chinò umilmente la testa e mormorò: «Sì, maestro.»
L'espressione di Oromis si addolcì. «Apprezzo la tua preoccupazione, Eragon, e fai bene a essere preoccupato, perché la guerra è una cosa pericolosa e persino il guerriero più esperto potrebbe trovare la morte ad attenderlo nella frenesia della battaglia. Tuttavia la nostra è una giusta causa. Se io e Glaedr andremo verso la morte, allora ci andremo volentieri, perché con il nostro sacrificio potremo aiutare Alagaësia a liberarsi dall'incubo della tirannia di Galbatorix.»
«Ma se voi morite» disse Eragon, sentendosi all'improvviso molto piccolo «e noi riuscissimo comunque a uccidere Galbatorix e a liberare l'ultimo uovo di drago, chi addestrerà quel drago e il suo Cavaliere?»
Eragon fu sorpreso quando Oromis tese la mano e gli afferrò la spalla. «Se ciò dovesse accadere» disse l'elfo con espressione solenne «allora sarà compito tuo, Eragon, e tuo, Saphira, istruire il nuovo Cavaliere e il nuovo drago secondo le regole del nostro ordine. Su, non fare quella faccia, Eragon. Non saresti solo in questa missione. Sono sicuro che Islanzadi e Nasuada ti circonderanno di saggi studiosi di entrambe le razze per aiutarti.»
Eragon si sentì pervadere da una strana inquietudine. Aveva spesso desiderato di essere trattato come un adulto, e tuttavia non si sentiva pronto a prendere il posto di Oromis. Gli sembrava sbagliato persino contemplare l'ipotesi. Per la prima volta capì che alla fine anche lui sarebbe diventato parte della vecchia generazione e che quando questo fosse avvenuto, non avrebbe avuto nessun mentore a guidarlo. Gli si serrò la gola.
Lasciando scivolare la mano dalla sua spalla, Oromis indicò Brisingr, che Eragon stringeva fra le braccia e disse: «L'intera foresta ha tremato quando hai svegliato l'albero di Menoa, Saphira, e metà degli elfi di Ellesméra ci hanno cercati con preghiere e suppliche perché accorressimo in suo aiuto. Poi siamo dovuti intervenire a vostro favore con Gilderien il Saggio per impedirgli di punirvi per aver usato metodi così violenti.»
Non chiederò scusa, disse Saphira. Non avevamo tempo di aspettare che funzionassero i modi gentili.
Oromis annuì. «Capisco, e non ti sto criticando, Saphira. Volevo solo che sapeste che ogni azione ha le sue conseguenze.» A un suo cenno, Eragon gli porse la spada appena forgiata e gli resse l'elmo mentre Oromis la studiava. «Rhunön ha superato se stessa!» esclamò Oromis. «Poche armi, spade o quant'altro, possono competere con questa. Sei fortunato a possedere una lama così eccezionale, Eragon.» Oromis inarcò appena un sopracciglio affilato mentre leggeva il glifo sulla lama. «Brisingr... un gran bel nome per la spada di un Cavaliere dei Draghi.»
«Già» disse Eragon, «ma per qualche ragione ogni volta che pronuncio il suo nome la lama prende...» Esitò, e invece di dire fuoco - che nell'antica lingua, ovviamente, era brisingr disse: «Fiamma.»
Il sopracciglio di Oromis si sollevò ancora di più. «Davvero? Rhunön ti ha dato una spiegazione per questo straordinario fenomeno?» Mentre parlava, gli restituì Brisingr in cambio dell'elmo.
«Sì, maestro» disse Eragon, e gli riferì le due teorie di Rhunön.
Quando ebbe finito, Oromis mormorò: «Mi domando...» E il suo sguardo scivolò oltre Eragon, verso l'orizzonte. Poi scosse il capo e tornò a guardare Eragon e Saphira con i suoi intensi occhi grigi. La sua espressione divenne ancora più solenne di prima. «Temo di aver lasciato parlare il mio orgoglio. Io e Glaedr non siamo deboli, ma come hai giustamente sottolineato tu, Eragon, non siamo nemmeno in perfette condizioni. Glaedr ha la sua ferita, e io ho la mia... Non per niente mi chiamano lo Storpio Che è Sano.
«I nostri limiti non sarebbero un problema se i nostri nemici fossero semplici mortali. Anche nelle nostre attuali condizioni, potremmo facilmente uccidere un centinaio di umani qualsiasi... un centinaio, un migliaio, poco importa. Ma il nostro nemico è l'avversario più pericoloso che noi o questa terra abbiamo mai affrontato. Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, io e Glaedr siamo in svantaggio, ed è possibile che non sopravviveremo alle battaglie imminenti. Le nostre vite sono state lunghe e piene, e le tribolazioni dei secoli ci pesano, ma voi due siete giovani e freschi e pieni di speranza, e credo che le vostre prospettive di sconfiggere Galbatorix siano superiori a quelle di chiunque altro.»
Oromis scoccò un'occhiata a Glaedr e il volto dell'elfo si adombrò di apprensione. «Per questo motivo, per contribuire alla vostra sopravvivenza, e come precauzione contro la nostra possibile morte, Glaedr, con la mia benedizione, ha deciso...»
Ho deciso, intervenne Glaedr, di donarvi il mio cuore dei cuori, Saphira Squamediluce ed Eragon Ammazzaspettri.
Lo stupore di Saphira fu enorme quanto quello di Eragon. Tutti e due guardarono a bocca aperta il maestoso drago dorato che torreggiava su di loro. Saphira disse: Maestro, tu ci fai un onore che è difficile esprimere a parole, ma... sei sicuro di volerci affidare il tuo cuore?
Sì, rispose Glaedr, e abbassò la testa massiccia. E ne sono sicuro per diverse ragioni. Se terrete il mio cuore, anche se sarete lontanissimi potrete comunicare con Oromis e me, e io sarò in grado di aiutarvi con la mia forza in qualunque circostanza. E se io e Oromis dovessimo cadere in battaglia, la nostra conoscenza ed esperienza, come anche la mia forza, saranno sempre a vostra disposizione. Ho riflettuto molto su questa scelta, Eragon, e sono convinto che sia quella giusta.
«Ma se Oromis dovesse morire» disse Eragon in tono sommesso «vorresti davvero continuare a vivere senza di lui come un Eldunarí?»
Glaedr volse la testa e guardò Eragon con uno dei suoi immensi occhi. Non desidero separarmi da Oromis, ma qualunque cosa accada continuerò a fare il possibile per detronizzare Galbatorix. Questo è il nostro unico scopo, e nemmeno la morte ci impedirà di perseguirlo. L'idea di perdere Saphira tifa orrore, Eragon, e lo capisco, ma Oromis e io abbiamo avuto tanti secoli per rassegnarci alla consapevolezza che una simile separazione è inevitabile. Per quanto facciamo attenzione, per quanto possiamo vivere ancora a lungo, alla fine uno di noi morirà. Non è un pensiero felice, ma è la verità. Così va il mondo.
Cambiando posizione, Oromis disse: «Non posso fingere di essere lieto di questa decisione, ma lo scopo della vita non è fare ciò che vogliamo, ma ciò che va fatto. Ed è questo che il destino vuole da noi.»
Perciò vi chiedo, riprese Glaedr, Saphira Squamediluce ed Eragon Ammazzaspettri, accettate il mio dono e tutto ciò che esso comporta?
Sì, disse Saphira.
Sì, disse Eragon dopo un attimo di esitazione.
Glaedr ritrasse la testa. I muscoli sul suo addome ondeggiarono e si contrassero diverse volte, e il collo cominciò a sussultare come se avesse qualcosa che gli ostruiva la gola. Allargando le zampe, il drago dorato tese il collo in avanti; ogni nervo e tendine del corpo sporgevano in rilievo dalla corazza di squame luccicanti. La sua gola continuò a flettersi e allentarsi, sempre più veloce, finché Glaedr abbassò la testa davanti a Eragon e spalancò le fauci, sprigionando un'acre zaffata di alito caldo. Eragon sgranò gli occhi e cercò di non vomitare. Mentre fissava le profondità della bocca del drago, vide la sua gola contrarsi un'ultima volta, e poi un bagliore di luce dorata comparve fra le pieghe di carne umida e rossa. Un secondo dopo, un oggetto rotondo, del diametro di circa un piede, scivolò lungo la lingua cremisi di Glaedr e gli uscì dalla bocca così in fretta che Eragon per poco non mancò la presa.
Mentre le sue mani si stringevano intorno all'Eldunarí viscido di saliva, Eragon boccheggiò, barcollando all'indietro, perché all'improvviso fu travolto da ogni pensiero e da ogni emozione di Glaedr, e da tutte le sensazioni del suo corpo. Il peso di quelle informazioni era schiacciante, come anche l'intimità del contatto. Eragon se lo era aspettato, eppure rimase ugualmente sconvolto nel comprendere che fra le mani teneva l'intero essere di Glaedr.
Il drago tremò, scuotendo la testa come se fosse stato punto da qualcosa, e si affrettò a schermare la mente, anche se Eragon poteva ancora percepire il tremolio dei suoi pensieri e il colore delle sue emozioni.
L'Eldunarí era come una gigantesca pepita d'oro. La superficie era calda e ricoperta di sfaccettature, tutte di dimensioni e angolazioni diverse. Il centro dell'Eldunarí emetteva un soffuso bagliore, simile a quello di una lanterna su cui sia stato posato un velo, e la luce diffusa pulsava con un lento battito regolare. A prima vista, la luce sembrava uniforme, ma più Eragon la fissava, più dettagli vi scorgeva: piccoli vortici e correnti che fluttuavano e si spostavano apparentemente a caso, punti più scuri quasi immobili, scariche di lampi luminosi non più grandi della capocchia di uno spillo, che brillavano un solo istante prima di essere inghiottiti dalla luce circostante. Era vivo.
«Tieni» disse Oromis, porgendogli un robusto sacco di tela.
Con grande sollievo di Eragon, l'intimo legame con Glaedr svanì non appena ebbe infilato l'Eldunarí nel sacco e le sue mani non furono più a contatto della pietra. Ancora un po' scosso, si strinse al petto il sacco con l'Eldunarí, intimidito dalla consapevolezza di avere fra le mani l'essenza stessa di Glaedr, e spaventato da quello che sarebbe potuto succedere se avesse fatto cadere il cuore dei cuori.
«Grazie, maestro» riuscì a dire in un soffio, chinando il capo verso Glaedr.
Difenderemo il tuo cuore a costo della nostra vita, aggiunse Saphira.
«No!» tuonò Oromis. «Non a costo della vostra vita! È proprio quello che vogliamo evitare. Prendetevi cura del cuore di Glaedr, ma nessuno di voi due dovrà sacrificarsi per proteggere lui o me o chiunque altro. Dovete restare vivi a tutti i costi, altrimenti le nostre speranze saranno spazzate vie come foglie al vento, e tutto sarà tenebra.»
«Sì, maestro» risposero Eragon e Saphira in coro, lui con la voce, lei col pensiero.
Poiché avete giurato fedeltà a Nasuada, e le dovete lealtà e obbedienza, potrete dirle del mio cuore, se necessario, ma solo se necessario. Per il bene dei draghi, di quei pochi che restano, la verità sugli Eldunarí non deve diventare di dominio pubblico, disse Glaedr.
Potremo dirlo ad Arya? chiese Saphira.
«E a Blödhgarm e agli altri elfi che Islanzadi ha mandato a proteggermi?» aggiunse Eragon. «Ho permesso loro di entrare nella mia mente quando io e Saphira abbiamo combattuto contro Murtagh l'ultima volta. Noteranno la tua presenza, Glaedr, se ci aiuti nel mezzo di una battaglia.»
Potrai informare Blödhgarm e i suoi stregoni dell'Eldunarí, disse Glaedr. Ma solo dopo che avranno fatto giuramento di segretezza.
Oromis si calcò l'elmo in testa. «Arya è la figlia di Islanzadi, perciò immagino che sia giusto che sappia. Tuttavia, come nel caso di Nasuada, non dirglielo se non è assolutamente necessario. Un segreto condiviso non è più un segreto. Se ci riuscite, non pensateci nemmeno, neppure al concetto stesso di Eldunarí, affinché nessuno possa carpire le informazioni dalla vostra mente.»
«Sì, maestro.»
«E ora mettiamoci in viaggio» disse Oromis, infilandosi un paio di grossi guanti. «Ho saputo da Islanzadi che Nasuada ha cinto d'assedio la città di Feinster e che i Varden hanno un gran bisogno di voi.»
Siamo rimasti troppo a lungo a Ellesméra, disse Saphira.
Forse, disse Glaedr, ma è stato tempo speso bene.
Prendendo una piccola rincorsa, Oromis balzò sull'unica zampa davanti di Glaedr e s'inerpicò sul suo alto dorso dentellato. Una volta in sella, cominciò ad allacciare le cinghie intorno alle gambe. «Mentre siamo in volo» disse rivolto a Eragon «possiamo ripassare la lista dei veri nomi che hai imparato durante la tua ultima visita.»
Eragon si avvicinò a Saphira e con cautela si arrampicò sul suo dorso; poi avvolse il cuore di Glaedr in una coperta e mise il fagotto in una bisaccia. Infine, come Oromis, assicurò le gambe alla sella. Alle sue spalle sentiva il costante palpito di energia emanato dall'Eldunarí.
Glaedr avanzò fino al bordo della rupe di Tel'Naeír e dispiegò le ali poderose. La terra tremò quando il drago dorato balzò verso il cielo striato di nuvole, e l'aria fu squarciata da un rombo possente quando inclinò le ali verso il basso per librarsi sopra l'oceano di alberi. Eragon si afferrò saldamente alla punta cervicale che aveva davanti quando Saphira imitò Glaedr, lanciandosi nel vuoto e precipitando di parecchie centinaia di piedi prima di risalire e mettersi al fianco del drago dorato.
Glaedr la superò e prese la guida, puntando a sud-ovest. Battendo le ali a ritmo diverso, i due draghi sfrecciarono sull'immensa foresta che si estendeva a perdita d'occhio.
Saphira inarcò il collo ed emise un sonoro ruggito. Davanti a lei, Glaedr rispose allo stesso modo. Le loro grida riecheggiarono feroci, spaventando gli uccelli del cielo e le bestie della terra.
IN VOLO
Da Ellesméra, Saphira e Glaedr sorvolarono senza soste l'antica foresta degli elfi. A volte la folta massa di alti pini scuri si apriva ed Eragon scorgeva un lago o un fiume sinuoso. Spesso sulle sponde c'erano gruppi di piccoli caprioli che smettevano di abbeverarsi per alzare la testa e osservare i draghi in volo. Ma Eragon prestò poca attenzione al panorama, troppo impegnato a recitare nella mente ogni parola dell'antica lingua che aveva imparato. Se ne dimenticava qualcuna o faceva un errore di pronuncia, Oromis lo costringeva a ripeterla.
Arrivarono ai margini della Du Weldenvarden nel tardo pomeriggio del primo giorno. Lì, sul confine ombreggiato fra gli alberi e le praterie, Glaedr e Saphira volarono in cerchio e Glaedr disse: Tieni al sicuro il tuo cuore, Saphira, e anche il mio.
Lo farò, maestro, rispose Saphira.
E dal dorso di Glaedr, Oromis gridò: «Che i venti vi siano favorevoli, Eragon, Saphira! Quando ci incontreremo di nuovo, che sia davanti ai cancelli di Urû'baen.»
«Che i venti siano favorevoli anche a voi!» gridò Eragon di rimando.
Glaedr virò e puntò verso ovest, costeggiando la foresta - una rotta che lo avrebbe portato all'estremità settentrionale del Lago Isenstar, e poi dal lago fino a Gil'ead - mentre Saphira continuò nella stessa direzione a sudovest.
Volò tutta la notte, atterrando solo per bere, mentre Eragon si sgranchiva le gambe e liberava il corpo. Questa volta, a differenza dell'andata, non incontrarono venti contrari: l'aria rimase limpida e calma, come se perfino la natura fosse ansiosa di farli tornare dai Varden. Quando il sole sorse sul secondo giorno, li trovò già nel cuore del deserto di Hadarac, diretti a sud, così da evitare i confini orientali dell'Impero. E quando il buio avvolse di nuovo la terra e il cielo, e li strinse nel suo freddo abbraccio, Saphira ed Eragon avevano superato le distese sabbiose ed erano tornati a volare sopra i campi verdeggianti dell'Impero, con l'intento di passare fra Urû'baen e il Lago Tüdosten per raggiungere la città di Feinster.
Dopo aver viaggiato ininterrottamente per due giorni e due notti, senza mai dormire, Saphira non fu più in grado di continuare. Atterrata in un boschetto di betulle bianche sulle sponde di un laghetto, si raggomitolò all'ombra e dormì per qualche ora, mentre Eragon restava di guardia e si esercitava a maneggiare Brisingr.
Da quando si erano separati da Oromis e Glaedr, Eragon, pensando a ciò che li attendeva a Feinster, provava un senso di perenne ansia. Sapeva di essere molto più protetto dalla morte e dalle ferite rispetto agli altri guerrieri, ma quando ripensava alle Pianure Ardenti e alla battaglia del Farthen Dûr, quando ricordava la vista del sangue che sprizzava dalle membra tagliate e le urla degli uomini feriti e la sferzata incandescente di una spada che attraversava la sua stessa carne, allora gli si torcevano le budella e i muscoli gli tremavano di energia repressa, e non sapeva se desiderava combattere ogni soldato sulla faccia della terra o fuggire nella direzione opposta per andare a nascondersi nel buco più nero e profondo.
L'ansia peggiorò quando ripresero il viaggio e scorse schiere di uomini armati che marciavano nei campi. Qui e là, colonne di pallido fumo salivano dai villaggi saccheggiati. Lo spettacolo di tanta devastazione gratuita lo nauseò; distolse lo sguardo e strinse la punta cervicale avanti a sé, socchiudendo gli occhi finché l'unica cosa che vide, attraverso la nebbia scura delle ciglia, furono i bianchi calli sulle sue nocche.
Piccolo mio, disse Saphira, i pensieri lenti e affaticati. Lo abbiamo già fatto. Non lasciarti impressionare in questo modo.
Pentito di averla distratta, Eragon le disse: Mi dispiace... Starò bene quando arriveremo. Vorrei solo che fosse già finita.
Lo so.
Eragon tirò su con il naso, asciugandoselo nella manica della tunica. A volte vorrei che combattere mi piacesse come a te. Sarebbe tutto più facile.
Se ti piacesse, disse lei, il mondo intero si prostrerebbe ai nostri piedi, compreso Galbatorix. No, è un bene che tu non condivida la mia brama di sangue. Ci bilanciamo a vicenda, Eragon... Divisi siamo incompleti, ma insieme siamo un intero. Adesso libera la mente da questi pensieri velenosi e fammi un indovinello per tenermi sveglia.
Va bene, disse lui dopo un attimo. Sono rosso come sangue o giallo come veleno, o di ogni altro colore dell'arcobaleno. Sono grande o piccolo, ammirato o calpestato, e spesso riposo avvoltolato. Posso consumare cento pecore, e anche di più. Che cosa sono, sai dirmelo tu?
Un drago, naturalmente, rispose lei senza esitare.
No, un tappeto di lana.
Bah!
Il terzo giorno di viaggio scivolò via con una lentezza esasperante. Gli unici rumori che Eragon sentiva erano il battito delle ali di Saphira, il sibilo regolare del suo respiro ansante e il monotono ruggito dell'aria nelle orecchie. Gli dolevano le gambe e la schiena a furia di stare tanto tempo in sella, ma il suo disagio era minimo in confronto a quello di Saphira: i muscoli le bruciavano di un dolore quasi insopportabile. Eppure la dragonessa non si lamentava e rifiutò l'offerta di Eragon di alleviare la sua sofferenza con un incantesimo, dicendo: Ti servirà ogni oncia di energia quando arriveremo.
Qualche ora dopo il crepuscolo, Saphira sussultò e perse quota di colpo, con una caduta vertiginosa di parecchi piedi.
Eragon si rizzò in sella allarmato e volse lo sguardo in cerca della possibile causa dell'inconveniente, ma in basso vide soltanto oscurità, in alto le stelle che brillavano.
Credo che siamo arrivati sul fiume Jiet, disse Saphira. L'aria qui è fredda e umida come lo è sopra l'acqua.
Allora Feinster non dovrebbe essere molto lontana. Sei sicura di riuscire a trovare la città al buio? Potremmo essere cento miglia più a nord o a sud.
No, non lo siamo. Il mio senso dell'orientamento non sarà infallibile, ma è certamente migliore del tuo o di quello di qualunque altra creatura terrestre. Se le mappe degli elfi che abbiamo visto sono precise, allora possiamo essere fuori rotta al massimo di cinquanta miglia, e da questa altezza riusciremo a vedere la città. Potremo persino fiutare il fumo dei loro comignoli.
E così fu. Quella stessa notte, quando ormai mancavano un paio d'ore all'alba, un opaco rossore illuminò l'orizzonte a ovest. Non appena lo vide, Eragon si volse e prese dalle bisacce l'armatura. Indossò la cotta di maglia, il copricapo di cuoio, l'elmo, i bracciali e gli schinieri. Avrebbe voluto avere con sé anche lo scudo, ma lo aveva lasciato dai Varden prima di correre al Monte Thardûr con Nar Garzhwog. Poi rovistò nelle borse finché non trovò la fiaschetta d'argento di faelnirv che gli aveva dato Oromis. Il contenitore di metallo era freddo. Eragon bevve un piccolo sorso del liquore incantato, che sapeva di bacche di sambuco, idromele e sidro. Gli bruciò la gola e un forte calore gli invase il volto. Nel giro di qualche istante, le virtù tonificanti del faelnirv fecero effetto, e la stanchezza cominciò a svanire.
Eragon agitò la fiaschetta e notò preoccupato che un terzo del prezioso liquore se n'era già andato, anche se ne aveva bevuto soltanto un altro sorso in precedenza. Devo stare più attento, pensò.
Mentre si avvicinavano, il bagliore all'orizzonte si frammentò in migliaia di fonti luminose: piccole lanterne, fuochi da cucina, grandi falò, grosse chiazze di pece ardente che spandevano un acre fumo nero nel cielo notturno. Nella luce rossastra dei fuochi, Eragon vide un oceano di punte di lancia ed elmi che scintillavano ai piedi della grande città fortificata. Le mura brulicavano di figure che scagliavano frecce o rovesciavano enormi calderoni d'olio bollente fra le merlature, tagliavano le funi dei rampini gettati oltre i parapetti e respingevano le sgangherate scale di legno che gli assedianti continuavano ad appoggiare ai bastioni. Gemiti e urla si levavano dal terreno, insieme al rimbombo dell'ariete che cozzava contro le porte di ferro della città.
Gli ultimi residui di stanchezza abbandonarono Eragon mentre scrutava il campo di battaglia, studiando la disposizione degli uomini, delle costruzioni e delle varie macchine belliche. A ridosso delle mura di Feinster c'erano centinaia di baracche decrepite, ammassate l'una sull'altra, con appena lo spazio per far passare un cavallo: erano le abitazioni dei poveri che non potevano permettersi una casa nel corpo principale della città. Le baracche sembravano abbandonate e molte erano state abbattute perché i Varden potessero attaccare in massa le mura. Le più fatiscenti stavano bruciando e sotto lo sguardo di Eragon le fiamme continuavano a diffondersi, propagandosi da un tetto di paglia all'altro. A est delle baracche, il terreno era solcato da curve linee nere, le trincee che i Varden avevano scavato per proteggere l'accampamento. Dall'altra parte della città, Eragon scorse i moli e le banchine, simili a quelle che aveva visto a Teirm, e poi lo scuro e inquieto oceano che si estendeva a perdita d'occhio.
Eragon fu percorso da un brivido di eccitazione selvaggia e sentì Saphira fremere sotto di lui nello stesso momento. Strinse l'elsa di Brisingr. Sembra che non si siano ancora accorti di noi. Dobbiamo annunciare il nostro arrivo?
Saphira rispose con un ruggito così potente da fargli battere i denti e con una densa fiammata azzurra che illuminò il cielo.
Sotto di loro, i Varden che attaccavano le mura e i soldati che le difendevano si fermarono, e per un momento il silenzio avvolse il campo di battaglia. Poi i Varden cominciarono a esultare e a battere le lance e le spade sugli scudi, mentre sonori gemiti di disperazione si levavano dagli abitanti della città.
Ah! esclamò Eragon battendo le palpebre. Preferirei che non lo avessi fatto: ora non vedo niente.
Scusa.
Con gli occhi ancora accecati dal bagliore azzurro, il Cavaliere disse: La prima cosa che dobbiamo fare è trovare un cavallo o qualche altro animale appena morto per ridarti energia.
Non devi...
Saphira s'interruppe quando una mente estranea toccò le loro. Dopo un istante di panico, Eragon riconobbe la coscienza di Trianna. Eragon, Saphira! gridò la maga. Appena in tempo! Arya e un altro elfo hanno scalato le mura, ma sono stati presi in trappola da un gruppo di soldati. Non sopravviveranno un altro minuto se qualcuno non li aiuta. Presto!
BRISINGR!
Saphira fece aderire le ali al corpo e si tuffò in picchiata verso gli scuri edifici della città. Eragon chinò il capo per non farsi investire dal vento. Il mondo vorticò intorno a loro quando Saphira eseguì un'imbardata a destra per mettere in difficoltà gli arcieri.
Quando la dragonessa interruppe la picchiata per risalire all'improvviso, Eragon si sentì come schiacciato da un peso enorme, ma la sensazione scomparve non appena Saphira riprese l'assetto orizzontale. Come strani falchi gracchianti, le frecce sibilavano intorno a loro, alcune mancando il bersaglio, altre neutralizzate dagli incantesimi di protezione di Eragon.
Passando a volo radente sulle mura di cinta, Saphira ruggì di nuovo e a colpi di artiglio e di coda scaraventò giù dai parapetti gruppi di uomini urlanti che precipitarono sul duro terreno dopo un volo di ottanta piedi.
All'estremità del muro meridionale si ergeva un'alta torre quadrata, difesa da quattro baliste che scagliavano giavellotti lunghi dodici piedi sui Varden ammassati davanti ai cancelli della città. Ai piedi della torre Eragon scorse due guerrieri che, la schiena al muro, cercavano disperatamente di respingere le lame insidiose di un centinaio di soldati.
Malgrado il buio e l'altezza, Eragon riconobbe subito Arya. Saphira balzò giù dal parapetto e atterrò in mezzo ai soldati, schiacciandone un bel numero sotto le zampe. Gli altri, sorpresi, si dispersero urlando di paura. Saphira ruggì, irritata dal fatto che le sue prede stessero scappando, e con un guizzo della coda falciò un'altra decina di soldati. Un uomo cercò di oltrepassarla correndo. Fulminea come un serpente, la dragonessa lo afferrò tra le mascelle e scrollò la testa, spezzandogli la spina dorsale. Ne uccise altri quattro allo stesso modo.
A quel punto tutti gli uomini erano fuggiti tra gli edifici.
Eragon si slacciò in fretta le cinghie delle gambe e saltò a terra. Il peso dell'armatura lo fece atterrare su un ginocchio. Sbuffò e si alzò.
«Eragon!» gridò Arya, correndogli incontro ansante e madida di sudore. La sua unica armatura era una giubba imbottita, più un elmo leggero dipinto di nero per evitare riflessi indesiderati.
«Ben arrivata, Bjartskular. Ben arrivato, Ammazzaspettri» disse Blödhgarm, i piccoli denti appuntiti che baluginavano alla luce delle torce, i gialli occhi fosforescenti. Con la pelliccia del dorso e della nuca tutta arruffata, aveva un aspetto più feroce che mai. Anche lui, come Arya, era coperto di sangue, ma Eragon non riusciva a capire se fossero feriti.
«State bene?» chiese.
Arya annuì e Blödhgarm disse: «Qualche graffio, ma niente di grave.»
Che cosa ci fate qui senza rinforzi? chiese Saphira.
«I cancelli» ansimò Arya. «Sono tre giorni che cerchiamo di abbatterli, ma resistono alla magia, e l'ariete ha appena scalfito il legno. Perciò ho convinto Nasuada...» Quando Arya fece una pausa per riprendere fiato, Blödhgarm s'inserì nel racconto. «Arya ha convinto Nasuada a sferrare un attacco stanotte perché noi due potessimo introdurci nella città senza essere visti e aprire i cancelli dall'interno. Purtroppo ci siamo imbattuti in tre stregoni. Con il potere della mente ci hanno impedito di usare la magia, e intanto hanno chiamato i soldati per poterci sopraffare con la semplice forza dei numeri.»
Mentre Blödhgarm parlava, Eragon posò una mano sul petto di un soldato morto e trasferì l'energia rimasta in lui nel proprio corpo e quindi a Saphira.
«Dove sono gli stregoni adesso?» chiese, passando a un altro cadavere.
Blödhgarm si strinse nelle spalle pelose. «A quanto pare si sono volatilizzati per il terrore quando siete comparsi, Shur'tugal.»
Hanno fatto bene, ringhiò Saphira.
Eragon assorbì energia da altri tre soldati, e all'ultimo tolse anche lo scudo rotondo di legno. «D'accordo, allora» disse, rialzandosi. «Andiamo ad aprire i cancelli ai Varden.»
«Sì, e senza perdere altro tempo» disse Arya. Si voltò, già pronta all'azione, ma poi scoccò un'occhiata a Eragon e disse: «Hai una spada nuova.» Non era una domanda.
Lui annuì. «Rhunön mi ha aiutato a forgiarla.»
«E come si chiama la tua spada, Ammazzaspettri?» chiese Blödhgarm.
Eragon stava per rispondere, quando quattro soldati corsero fuori da un vicolo buio con le lance puntate. Con un unico movimento fluido, Eragon estrasse Brisingr dal fodero e sferrò un colpo che prima tagliò a metà l'asta del soldato alla guida del gruppo, poi lo decapitò. Brisingr parve luccicare di una gioia selvaggia. Con un solo affondo, Arya trafisse altri due uomini prima che avessero il tempo di reagire, mentre Blödhgarm balzava di lato e pugnalava l'ultimo soldato.
«Svelti!» gridò Arya cominciando a correre verso i cancelli della città.
Eragon e Blödhgarm la seguirono, con Saphira che arrancava alle calcagna, gli artigli che risuonavano sulle pietre della strada. Dal parapetto piovvero nugoli di frecce, e per tre volte gruppi di soldati corsero fuori dalla roccaforte per avventarsi su di loro. Senza mai rallentare, Eragon, Arya e Blödhgarm si sbarazzarono degli avversari a colpi di spada o di pugnale, o fu Saphira a incenerirli con un torrente di fuoco.
Mentre si avvicinavano ai cancelli alti quaranta piedi, il rimbombo continuo dell'ariete si fece sempre più forte. Davanti alle porte di ferro, Eragon vide due uomini e una donna ammantati di nero che cantilenavano nell'antica lingua, ondeggiando da una parte e dall'altra con le mani in alto. I tre stregoni tacquero non appena si accorsero della presenza di Eragon e dei suoi compagni e in uno svolazzo di mantelli fuggirono lungo la via principale che portava alla fortezza, dall'altra parte di Feinster.
Eragon avrebbe voluto inseguirli. Chissà che cosa stanno tramando, pensò preoccupato mentre si dileguavano. Ma era più importante far entrare i Varden in città, dove non sarebbero più stati il bersaglio dei soldati sulle mura.
Prima che Eragon, Blödhgarm e Saphira arrivassero ai cancelli, cinquanta soldati dalle scintillanti armature corsero fuori dalle torri di guardia e si schierarono davanti alle grosse porte di ferro.
Uno dei soldati batté l'elsa della spada contro lo scudo e gridò: «Non passerete mai, luridi demoni! Questa è la nostra casa e non permetteremo a Urgali, elfi o altri mostri disumani di entrare. Andatevene, perché a Feinster non troverete che sangue e dolore.»
Arya indicò le torri di guardia e mormorò a Eragon: «Le leve che azionano i cancelli sono nascoste lì dentro.»
«Allora» disse lui «tu e Blödhgarm aggirate gli uomini ed entrate nelle torri. Io e Saphira li terremo occupati.»
Arya annuì e svanì con Blödhgarm fra le nere ombre che avvolgevano le case alle spalle di Eragon e Saphira.
Con la mente, Eragon sentì che Saphira si preparava ad avventarsi sul gruppo dei soldati. Le posò una mano sulla zampa e disse: Aspetta, voglio prima provare una cosa.
Se però non funziona, poi posso farli a pezzi? chiese lei, leccandosi le zanne.
Sì, potrai fare di loro ciò che vuoi.
Eragon avanzò lentamente verso i soldati tenendo bene in vista lo scudo e la spada. Dall'alto venne scoccata una freccia, ma a poche spanne dal suo petto si fermò e cadde. Eragon guardò le espressioni terrorizzate dei soldati, poi a voce alta disse: «Il mio nome è Eragon Ammazzaspettri. Forse avete sentito parlare di me, o forse no. In ogni caso vi avverto: sono un Cavaliere dei Draghi e ho giurato di aiutare i Varden a deporre Galbatorix dal suo trono. Ditemi, qualcuno di voi ha giurato fedeltà nell'antica lingua a Galbatorix o all'Impero?... Allora, sì o no?»
L'uomo che aveva già parlato, doveva essere il capitano, disse: «Non giureremmo mai fedeltà al re, anche se avessimo una spada puntata alla gola. La nostra lealtà appartiene a Lady Lorana. Lei e la sua famiglia ci governano più che bene da quattro generazioni!» Gli altri mormorarono in segno d'assenso.
«Allora unitevi a noi!» esclamò Eragon. «Deponete le armi e vi prometto che non sarà torto un capello né a voi né alle vostre famiglie. Non potete sperare di tenere Feinster contro l'alleanza dei Varden, dei surdani, dei nani e degli elfi.»
«Questo lo dici tu!» gridò uno dei soldati. «E se Murtagh dovesse tornare qui con quel suo drago rosso?»
Eragon esitò, poi con voce sicura disse: «Lui non è un problema per me e per gli elfi che combattono con i Varden. L'abbiamo già messo in fuga una volta.» Con la coda dell'occhio, alle spalle dei soldati, Eragon vide Arya e Blödhgarm scivolare dietro la scala di pietra che portava in cima alle mura e strisciare furtivi verso la torre di guardia a sinistra.
Il capitano disse: «Anche se noi non abbiamo giurato fedeltà al re, Lady Lorana l'ha fatto. Che cosa le farete, allora? La ucciderete? La prenderete prigioniera? No, noi non tradiremo la sua fiducia e non permetteremo di passare né a te né ai quei mostri che graffiano le nostra mura. Tu e i Varden non siete altro che una promessa di morte per coloro che sono stati costretti a servire l'Impero!
«Perché non sei rimasto in disparte, Cavaliere dei Draghi? Perché non hai tenuto la testa bassa affinché noi potessimo vivere in santa pace? Ma no, le lusinghe di fama, gloria e ricchezza erano troppo allettanti. Per soddisfare le tue ambizioni hai dovuto portare rovina e distruzione nelle nostre case. Ebbene, io ti maledico, Cavaliere dei Draghi! Ti maledico con tutto il cuore. Che tu possa lasciare Alagaësia per non tornarvi mai più!»
Eragon fu percorso da un brivido gelido, perché la maledizione dell'uomo riecheggiava quella che l'ultimo Ra'zac gli aveva lanciato nell'Helgrind, e si ricordò che Angela gli aveva predetto la stessa cosa. Con uno sforzo accantonò quei pensieri e disse: «Non voglio uccidervi, ma lo farò, se devo. Deponete le armi!»
Nel frattempo, senza far rumore, Arya aprì la porta ai piedi della torre di guardia e sgusciò all'interno. Furtivo come un gatto selvatico, Blödhgarm scivolò dietro i soldati, puntando verso l'altra torre. Se in quel momento uno degli uomini si fosse voltato lo avrebbe visto.
Il capitano sputò ai piedi di Eragon. «Non sembri nemmeno umano! Sei un traditore della tua razza, ecco cosa sei!» sibilò, poi alzò lo scudo e la spada e cominciò ad avanzare lentamente verso di lui. «E tu saresti un Ammazzaspettri?» ringhiò il soldato. «Ha! Se mi dicessero che mio nipote di dodici anni ha ucciso uno Spettro, ci crederei di più.»
Eragon aspettò che fosse vicino. Poi, con un solo affondo, Brisingr trapassò il centro dello scudo, il braccio che lo reggeva, il petto del soldato e infine uscì dall'altra parte. L'uomo fu scosso da un tremito, poi rimase immobile. Mentre Eragon estraeva la spada dal cadavere, dalle torri di guardia si levò uno stridore di ferro e legno: ingranaggi e catene presero a girare, e le grosse travi che serravano i cancelli della città cominciarono a scivolare all'indietro.
«Deponete le armi o morirete!» gridò Eragon. Una ventina di soldati si avventarono su di lui urlando, con le spade sguainate. Gli altri fuggirono verso il centro della città o seguirono il consiglio di Eragon e posarono spade, lance e scudi sui grigi lastroni di pietra e s'inginocchiarono ai lati della strada con le mani sulle ginocchia.
Una nebbiolina di sangue avvolse Eragon mentre si faceva strada fra i soldati a colpi di spada, piroettando da uno all'altro senza lasciar loro il tempo di reagire. Saphira schiacciò due soldati, poi con una breve fiammata dalle narici ne bruciò altri due, arrostendoli nelle loro armature. Eragon si fermò in scivolata oltre l'ultimo soldato, il braccio che impugnava la spada ancora teso dopo l'affondo che aveva appena sferrato, e aspettò di sentire l'uomo stramazzare al suolo, prima una metà poi l'altra.
Arya e Blödhgarm riemersero dalle torri di guardia proprio mentre i cancelli si aprivano con un lungo e sonoro cigolio, rivelando la testa scheggiata e ammaccata del massiccio ariete dei Varden. Sui parapetti, gli arcieri lanciarono grida sgomente e si ritirarono. Decine di mani comparvero intorno ai bordi dei cancelli aprendoli a forza, e sotto l'arco Eragon vide una massa di Varden dal volto sudicio, uomini e nani insieme.
«Ammazzaspettri!» urlarono, e anche: «Argetlam!» e «Bentornato! La caccia è buona oggi!»
«Questi sono miei prigionieri!» dichiarò Eragon, puntando Brisingr verso i soldati inginocchiati sul ciglio della strada. «Legateli e assicuratevi che siano trattati bene. Ho dato la mia parola che non sarebbe stato loro torto un capello.»
Sei guerrieri si affrettarono a eseguire l'ordine.
I Varden si riversarono all'interno dei cancelli, sparpagliandosi nella città in un tintinnio di armature e un rimbombo di stivali. Eragon fu felice di vedere Roran e Horst e parecchi altri uomini di Carvahall nella quarta fila dei guerrieri. Li salutò, e non appena lo scorse Roran alzò il martello e gli corse incontro.
Eragon gli afferrò il braccio destro attirandolo in un ruvido abbraccio. Quando si ritrasse, notò che Roran sembrava invecchiato e aveva gli occhi incavati.
«Mentre eri via» grugnì Roran «sono morti in centinaia tentando di conquistare le mura.»
«Io e Saphira abbiamo fatto il prima possibile. Come sta Katrina?»
«Bene.»
«Quando avremo finito qui, dovrai raccontarmi tutto quello che ti è successo mentre non c'ero.»
Roran serrò le labbra e annuì, poi indicò Brisingr e disse: «Dove hai preso quella spada?»
«A Ellesméra.»
«Come si chiama?»
«Bris...» fece per dire Eragon, ma in quel momento gli altri undici elfi che Islanzadi aveva mandato a proteggere lui e Saphira uscirono dalla colonna di uomini e li circondarono. Arrivarono anche Blödhgarm e Arya; l'elfa era intenta a ripulire la lama sottile della sua spada.
Prima che Eragon potesse riprendere a parlare, Jörmundur oltrepassò i cancelli a cavallo e lo salutò gridando: «Ammazzaspettri! È un vero piacere rivederti!»
Eragon ricambiò il saluto e gli domandò: «E adesso che cosa dobbiamo fare?»
«Quello che ti sembra più opportuno» rispose Jörmundur tirando le redini del suo sauro. «Dobbiamo aprirci la strada fino alla fortezza. Immagino che Saphira non riesca a passare fra le case, perciò volate e colpite le loro forze dove potete. Se riusciste ad aprire un varco nella fortezza, o a catturare Lady Lorana, sarebbe un enorme aiuto.»
«Dov'è Nasuada?»
Jörmundur indicò un punto alle proprie spalle. «Nella retroguardia dell'esercito, a coordinare le nostre forze con re Orrin.» Jörmundur scoccò un'occhiata alla fiumana di guerrieri che continuava a riversarsi nella città, poi tornò a guardare Eragon e Roran. «Fortemartello, il tuo posto è con i tuoi uomini, non qui a cianciare con tuo cugino.» Il magro e asciutto comandante spronò il cavallo e si allontanò lungo la strada buia, urlando ordini ai Varden.
Quando Roran e Arya si voltarono per seguirlo, Eragon afferrò la spalla di Roran e fermò la lama di Arya con la propria. «Aspettate» disse.
«Che cosa c'è?» domandarono in coro Arya e Roran, impazienti.
Sì, che cosa c'è? domandò Saphira. Basta star qui a parlare, quando c'è da divertirsi.
«Mio padre!» esclamò Eragon. «Non è Morzan, è Brom!»
Roran batté le palpebre. «Brom?»
«Sì, Brom!»
Perfino l'impassibile Arya parve sorpresa. «Sei sicuro, Eragon? Come fai a saperlo?»
«Certo che sono sicuro! Ve lo spiegherò più tardi, ma non vedevo l'ora di dirvi la verità.»
Roran scosse la testa. «Brom... non l'avrei mai detto. Però in effetti ha un senso. Sarai felice di esserti liberato del nome di Morzan.»
«Più che felice» disse Eragon sorridendo.
Roran gli diede una pacca sulla schiena, dicendo: «Abbi cura di te, eh?» e corse dietro a Horst e agli altri.
Arya si avviò dietro di lui, ma non aveva fatto che pochi passi che Eragon la chiamò e disse: «Lo Storpio Che è Sano ha lasciato la Du Weldenvarden per raggiungere Islanzadi a Gil'ead.» Gli occhi verdi di Arya si spalancarono e le sue labbra si schiusero come se stesse per fare una domanda, ma prima che ci riuscisse la fiumana di guerrieri la trascinò nel suo flusso verso il cuore della città.
Blödhgarm si avvicinò a Eragon. «Ammazzaspettri, perché il Saggio Dolente ha lasciato la foresta?»
«Lui e il suo compagno hanno sentito che era tempo di combattere contro l'Impero e rivelare la propria esistenza a Galbatorix.»
La pelliccia dell'elfo s'increspò. «Questa è una notizia davvero molto importante.»
Eragon salì in groppa a Saphira. A Blödhgarm e alle sue altre guardie disse: «Andate alla fortezza. Ci incontreremo là.»
Senza attendere la risposta dell'elfo, Saphira balzò sulle scale che portavano in cima alle mura della città. I gradini di pietra scricchiolarono sotto il suo peso; si arrampicò sull'ampio parapetto e spiccò il volo, planando sulle baracche in fiamme ai piedi dei bastioni di Feinster. Batté rapida le ali per prendere quota.
Dovremo avere il permesso di Arya prima di parlare ad altri di Oromis e Glaedr, esclamò Eragon ricordando il voto di segretezza che lui, Orik e Saphira avevano fatto alla regina Islanzadi durante la loro prima visita a Ellesméra.
Sono sicura che ce lo darà non appena avrà sentito il nostro racconto, disse Saphira.
Già.
Eragon e Saphira volarono da un punto all'altro di Feinster, atterrando ovunque scorgessero un grosso gruppo di soldati o di Varden in difficoltà. Se non lo attaccavano subito, Eragon cercava di convincere i nemici ad arrendersi. Non sempre ci riusciva, ma ci provava comunque, perché molti degli uomini che affollavano le vie di Feinster erano comuni cittadini e non soldati addestrati. A ciascuno Eragon diceva: "È l'Impero il nostro nemico, non voi. Non impugnate le armi contro di noi e non avrete motivo di temerci."
Le poche volte che Eragon scorse una donna o un bambino correre per le vie buie della città, ordinò loro di nascondersi nella casa più vicina e tutti, nessuno escluso, obbedirono.
Eragon scrutò le menti di ogni persona intorno a sé e a Saphira alla ricerca di stregoni ostili, ma non ne trovò altri, tranne i tre in cui si era imbattuto, e quei tre stavano bene attenti a tenergli nascosti i propri pensieri. Lo preoccupava il fatto che fossero spariti senza prendere parte al combattimento.
Forse intendono abbandonare la città, disse a Saphira.
Credi che Galbatorix li lascerebbe andare via nel bel mezzo di una battaglia?
Dubito che voglia perdere anche uno solo dei suoi stregoni.
Può darsi, ma dobbiamo comunque stare attenti. Chissà che cosa stanno tramando.
Eragon si strinse nelle spalle. Per ora, la cosa migliore da fare è aiutare i Varden a prendere Feinster in fretta.
Lei annuì e virò verso una schermaglia in una piazza vicina.
Combattere in una città era diverso da uno scontro all'aperto, com'erano abituati a fare Eragon e Saphira. Le strade strette e gli edifici ravvicinati ostacolavano i movimenti di Saphira e impedivano di reagire d'istinto quando i soldati attaccavano, anche se Eragon poteva percepire gli uomini in avvicinamento molto tempo prima che arrivassero. I loro scontri con i soldati si trasformavano inevitabilmente in mischie confuse e disperate, interrotte da occasionali esplosioni di fuoco o di magia. Più di una volta Saphira distrusse la facciata di una casa con un involontario colpo di coda. Lei ed Eragon riuscirono sempre a evitare gravi ferite - per una combinazione di fortuna, abilità e incantesimi di protezione - ma gli attacchi li resero più cauti e nervosi di quanto non fossero di solito in battaglia.
Il quinto scontro lasciò Eragon così schiumante di collera che quando i soldati cominciarono a battere in ritirata, come finivano sempre per fare, li inseguì, deciso a sterminarli fino all'ultimo uomo. Con sua sorpresa, deviarono bruscamente dalla strada e sfondarono la porta sbarrata di una modisteria.
Eragon li inseguì, balzando sui resti distrutti della porta. L'interno del negozio era buio e odorava di profumo stantio e piume di gallina. Per un attimo pensò d'illuminarlo con la magia, ma visto che i soldati erano svantaggiati, si trattenne. Percepiva le loro menti e sentiva i loro respiri affannati, ma non poteva vedere se c'erano ostacoli fra lui e loro. Avanzò lentamente nell'oscurità, tastando il pavimento coi piedi, con lo scudo davanti al corpo e Brisingr pronta a colpire.
Fievole come il sospiro di un filo che cade in terra, Eragon sentì un oggetto volare verso di lui.
Fece uno scatto all'indietro, e barcollò quando una mazza o un martellò colpì il suo scudo, facendolo a pezzi. Esplosero delle urla. Un uomo rovesciò una sedia, o un tavolo, e qualcosa si fracassò contro il muro. Eragon menò un fendente e sentì Brisingr affondare nella carne fino all'osso. Un peso bloccava l'estremità della spada. Eragon la ritrasse con uno strattone e l'uomo che lo aveva assalito stramazzò ai suoi piedi.
Scoccò una rapida occhiata alle sue spalle, nel vicolo stretto dove Saphira lo aspettava. Soltanto allora vide la lanterna montata su un palo di ferro all'angolo della strada e capì che la luce lo rendeva perfettamente visibile ai soldati. Si scansò in fretta dal cono di luce e gettò via lo scudo ormai inservibile.
Un altro schianto echeggiò nel negozio, seguito da un frastuono di passi che correvano su per le scale. Eragon si slanciò dietro i soldati. Al primo piano c'era l'alloggio dei proprietari del negozio. Diverse persone urlarono e un bambino cominciò a piangere quando irruppe nel labirinto di piccole stanze, ma lui li ignorò, concentrato soltanto sul suo obiettivo.
Alla fine Eragon riuscì a raggiungere i soldati e a chiuderli in trappola, in una stanza angusta illuminata dalla fioca luce di una candela. Erano quattro, e li uccise con altrettanti affondi, facendo una smorfia quando fu investito dagli spruzzi di sangue. Si procurò un nuovo scudo togliendolo a uno dei cadaveri, poi si fermò a guardarli. Gli parve indelicato lasciarli lì, sul pavimento del soggiorno, così li scaraventò fuori della finestra.
Mentre tornava alle scale, una sagoma sbucò da dietro un angolo e tentò di pugnalarlo al costato. La punta del pugnale si fermò a un soffio dal suo fianco, bloccata dagli incantesimi. Con un sussulto, Eragon alzò Brisingr per decapitare il nemico, quando si accorse che l'aggressore era un ragazzino di non più di tredici anni.
S'impietrì. Avrei potuto essere io, pensò. Avrei fatto lo stesso, se fossi stato al suo posto. Guardando oltre le spalle del ragazzo, vide un uomo e una donna in camicia da notte e berretto di lana che si stringevano fissandolo con orrore.
Rabbrividì. Abbassò Brisingr e tolse il pugnale dalla debole stretta del ragazzo. «Fossi in voi» disse, colpito dalla nota greve che gli venava la voce, «non uscirei finché la battaglia non è finita.» Esitò, poi aggiunse: «Mi dispiace.»
Colmo di vergogna, uscì di fretta dal negozio e raggiunse Saphira.
Continuarono lungo la strada.
Non lontano dalla modisteria, Eragon e Saphira s'imbatterono in parecchi uomini di re Orrin che trasportavano candelabri d'oro, vassoi e posate d'argento, gioielli, e oggetti d'arredamento fuori da una ricca dimora dove avevano fatto irruzione.
Eragon strappò una pila di tappeti dalle braccia di un soldato surdano. «Rimettete queste cose al loro posto!» urlò all'intero gruppo. «Siamo qui per aiutare questa gente, non per derubarla. Sono i nostri fratelli e sorelle, le nostre madri e i nostri padri. Per questa volta vi lascio andare, ma spargete la voce che se qualcuno saccheggia le case, lo farò appendere e frustare come un ladro!» Saphira ruggì, a sottolineare la minaccia. Sotto i loro sguardi vigili, i guerrieri richiamati all'ordine riportarono il bottino nella casa rivestita di marmo.
Ora, disse Eragon a Saphira, forse possiamo...
«Ammazzaspettri! Ammazzaspettri!» gridò un uomo correndo verso di loro. Le armi e l'armatura lo identificarono come uno dei Varden.
Eragon serrò la stretta su Brisingr. «Che cosa c'è?»
«Ci serve il tuo aiuto, Ammazzaspettri. E anche il tuo, Saphira!»
Seguirono il guerriero per le vie di Feinster finché non arrivarono vicino a un grosso edificio di pietra. Parecchie decine di Varden erano accucciati dietro un basso muro di fronte all'edificio. Parvero sollevati nel vederli.
«State indietro!» disse uno dei Varden, facendo un cenno con la mano. «Ci sono dei soldati lì dentro, e hanno gli archi puntati su di noi.»
Eragon e Saphira si fermarono appena fuori tiro. Il guerriero che li aveva condotti lì disse: «Non riusciamo a raggiungerli. Porte e finestre sono bloccate e se cerchiamo di aprirle ci scagliano addosso le frecce.»
Eragon guardò Saphira. Vai tu o vado io?
Me ne occupo io, disse lei, e spiccò il volo, battendo forte le ali.
L'edificio tremò e le finestre s'infransero quando Saphira atterrò sul tetto. Eragon e gli altri guerrieri la osservarono ammirati mentre conficcava gli artigli nelle scanalature di malta fra una pietra e l'altra e ringhiando per lo sforzo scoperchiava l'edificio portando alla luce i soldati terrorizzati. Li uccise come fa un terrier coi ratti.
Quando Saphira tornò al fianco di Eragon, i Varden indietreggiarono, intimoriti da quella dimostrazione di ferocia. Lei li ignorò e cominciò a leccarsi le zampe per pulirsi il sangue dalle squame.
Ti ho mai detto quanto sono contento che non siamo nemici? disse Eragon.
No, ma è molto carino da parte tua.
In tutta la città i soldati combattevano con una risolutezza che impressionò Eragon; concedevano terreno solo se costretti e facevano di tutto per rallentare l'avanzata dei Varden. A causa di questa resistenza tenace, i Varden arrivarono nella parte occidentale della città dove si trovava la fortezza solo quando le prime, deboli luci dell'alba cominciavano a rischiarare il cielo.
La fortezza era una struttura imponente, alta e squadrata, ornata da numerose torri di diversa altezza. Il tetto era di ardesia perché gli assedianti non potessero appiccarvi il fuoco. Davanti alla fortezza si estendeva un'ampia corte con bassi fabbricati e una fila di quattro catapulte, e il tutto era circondato da una muraglia difensiva intervallata da torrette. Centinaia di soldati erano appostati sui bastioni e altrettanti erano schierati nel cortile. L'unico modo per entrare nel cortile via terra era attraverso un ampio passaggio ad arco che si apriva nel muraglione, protetto sia da una cancellata di ferro che da un grosso portone di quercia a doppio battente.
Migliaia di Varden, ammassati davanti al muro di cinta, cercavano di abbattere la cancellata a colpi di ariete - che avevano portato con sé dai cancelli della città - oppure di arrampicarsi sui bastioni con i rampini e le scale da assedio che i difensori continuavano a respingere. Nugoli di frecce sibilanti s'incrociavano in volo al di sopra del muro. Assedianti e assediati erano in una situazione di stallo.
Il cancello! disse Eragon indicandolo.
Saphira piombò dall'alto e sgombrò la porzione di parapetto che si affacciava sulla cancellata con un potente getto di fuoco, mentre spirali di fumo ardente si levavano dalle sue narici. Atterrò di schianto in cima alla muraglia ed Eragon barcollò per il contraccolpo. La dragonessa gli disse: Tu vai. Penso io alle catapulte prima che comincino a scagliare pietre sui Varden.
Stai attenta, si raccomandò lui, e smontò di sella, scendendo sul parapetto.
Sono loro che devono stare attenti, replicò lei, e ringhiò contro gli uomini radunati intorno alle catapulte. Una metà dei soldati si volse e corse a cercare riparo.
Il muro era troppo alto perché Eragon riuscisse a saltare con facilità in strada, perciò Saphira infilò la coda fra due merli e la fece ciondolare in basso. Eragon rinfoderò Brisingr e scese usando le punte caudali come i pioli di una scala. Quando raggiunse l'estremità della coda, lasciò la presa e saltò per gli ultimi venti piedi che lo separavano dal terreno. Si raggomitolò per attutire l'impatto, atterrando nella ressa di Varden.
«Salve, Ammazzaspettri» disse Blödhgarm, emergendo dalla folla insieme agli altri undici elfi.
«Salute a voi.» Eragon sfoderò di nuovo Brisingr. «Come mai non avete già aperto il cancello ai Varden?»
«Il cancello è protetto da molti incantesimi, Ammazzaspettri. Ci vorrebbe parecchia energia per abbatterlo. I miei compagni e io siamo qui per proteggere te e Saphira, e non possiamo adempiere al nostro dovere se esauriamo le nostre forze in altri compiti.»
Rimangiandosi un'imprecazione, Eragon disse: «Preferiresti che ci stancassimo io e Saphira, Blödhgarm? Questo ci renderà più sicuri?»
L'elfo fissò Eragon per un momento, con gli occhi gialli imperscrutabili, poi chinò il capo. «Apriremo subito il cancello, Ammazzaspettri.»
«No, fermi» borbottò Eragon. «Aspettate qui.»
Si fece strada a spintoni fino a raggiungere la testa dei Varden e a grandi passi si avvicinò alla cancellata ancora chiusa. «Fatemi spazio!» gridò, facendo un cenno ai guerrieri. I Varden indietreggiarono, sgombrando un'area larga venti piedi. Un giavellotto scagliato da una balista fu deviato dal suo incantesimo di protezione e volò in una strada laterale. Dall'interno del cortile provennero i ruggiti di Saphira, insieme a schianti di legno fracassato e corde tese che si spezzavano.
Impugnando la spada con tutte e due le mani, Eragon la sollevò sulla testa e gridò: «Brisingr!» La lama esplose in una vampa di fuoco blu e i guerrieri alle sue spalle esclamarono sbigottiti. Eragon fece un passo avanti e vibrò un colpo possente contro una sbarra della cancellata. Quando la spada tagliò il metallo, un lampo accecante illuminò il muro e gli edifici attorno. Eragon avvertì un improvviso calo di energia mentre Brisingr spezzava gli incantesimi che proteggevano la cancellata. Sorrise. Come aveva sperato, gli incantesimi di contromagia con cui Rhunön aveva impregnato la spada erano sufficienti per sconfiggere i sortilegi del ferro.
Con movimenti rapidi e regolari, Eragon ritagliò nella cancellata un varco abbastanza grande per passare, poi si fece da parte e la sezione tagliata della grata cadde di piatto sulle pietre della strada con un forte clangore. Attraversò il varco e si avvicinò al portone di quercia che si trovava dall'altra parte del muro di cinta. Appoggiò la punta di Brisingr sulla sottilissima fessura fra i due battenti, e con tutto il suo peso spinse la lama fino a farla spuntare dall'altra parte. Poi aumentò il flusso di energia che alimentava il fuoco della lama, finché la spada non fu abbastanza rovente da aprirsi la strada bruciando il legno massiccio con la stessa facilità di un coltello che affetta del pane fresco. Dalla lama si alzarono copiose volute di fumo che gli pizzicarono la gola e gli fecero lacrimare gli occhi.
Eragon spinse la spada verso l'alto, bruciando l'enorme trave di legno che sbarrava la porta dall'interno. Non appena sentì diminuire la resistenza contro la lama di Brisingr, la ritrasse ed estinse la fiamma. S'infilò i guanti imbottiti per non scottarsi impugnando i bordi incandescenti di uno dei battenti e lo tirò a sé con uno sforzo immane. Anche l'altro battente si aprì, come dotato di volontà propria, ma un attimo dopo Eragon si accorse che era stata Saphira a spingerlo dall'interno: la dragonessa sedeva a destra dell'entrata, fissandolo con i suoi luccicanti occhi color zaffiro. Alle sue spalle, i resti delle quattro catapulte distrutte giacevano sul terreno.
Eragon si fece da parte accanto a lei, mentre i Varden invadevano il cortile, riempiendo l'aria delle loro ruggenti grida di battaglia. Stremato, appoggiò una mano sulla cintura di Beloth il Savio e integrò la forza che cominciava a mancargli con una parte dell'energia conservata nei dodici diamanti nascosti nella cintura. Offrì il resto a Saphira, altrettanto stanca, ma lei rifiutò, dicendo: Tienila per te, non ne è rimasta molta. E poi quello che mi serve davvero è un vero pasto e una buona notte di sonno.
Eragon si appoggiò contro il suo fianco e socchiuse le palpebre. Presto, disse, presto sarà tutto finito.
Lo spero, disse lei.
Fra i guerrieri che gli passavano accanto, comparve Angela con la sua strana corazza flangiata verde e nera e con l'hûthvír, il bastone a doppia lama dei sacerdoti nani. L'erborista si fermò davanti a Eragon e con un luccichio malizioso negli occhi disse: «Una scena impressionante, ma non credi di aver esagerato?»
«Che vuoi dire?» chiese Eragon, aggrottando la fronte.
Lei inarcò un sopracciglio. «Avanti, era proprio necessario dare fuoco alla spada?»
A quelle parole, Eragon si tranquillizzò e rise. «No, per la cancellata no. Ma mi sono divertito. E poi non dipende da me. Ho chiamato la spada Fuoco nell'antica lingua e ogni volta che pronuncio quella parola la lama s'incendia, come un ramo secco in un falò.»
«Hai chiamato la tua spada Fuoco?» esclamò Angela con una nota d'incredulità. «Fuoco? Che nome banale! Tanto valeva chiamarla Lama Fiammeggiante. Fuoco... Bah! Non avresti preferito avere una spada che si chiamasse Mordipecore o Spaccacrisantemi o qualche altro nome più fantasioso?»
«Ho già una Mordipecore qui» disse Eragon, appoggiando una mano sul fianco di Saphira. «Perché dovrei volerne un'altra?»
Angela gli rivolse un ampio sorriso. «Allora non sei del tutto privo di spirito! Credevo che fossi un caso disperato.» E si allontanò saltellando verso la fortezza, facendo roteare il suo bastone a doppia lama e borbottando: «Fuoco? Bah!»
Saphira emise un ringhio sordo e disse: Bada a chi chiami Mordipecore, Eragon, o potresti essere morso.
Va bene, Saphira.
LO SPETTRO DEL DESTINO
Nel frattempo anche Blödhgarm e i suoi compagni elfi erano arrivati nella corte, ma Eragon li ignorò cercando invece Arya. Quando la vide correre accanto al destriero di Jörmundur, sventolò lo scudo per attirare la sua attenzione.
Arya lo notò e lo raggiunse, muovendosi con la grazia di una gazzella. Da quando si erano separati si era procurata uno scudo, un elmo con la visiera e una cotta di maglia. Il metallo della sua armatura luccicava nella penombra grigia che pervadeva la città. Come si fermò, Eragon le disse: «Io e Saphira entreremo nella fortezza dall'alto per cercare di catturare Lady Lorana. Vuoi venire con noi?»
Arya annuì con un deciso cenno del capo.
Balzando su una delle zampe di Saphira, Eragon risalì in sella e Arya seguì il suo esempio un attimo dopo, stringendosi a lui, gli anelli della cotta di maglia che premevano contro la sua schiena.
Saphira dispiegò le ali di velluto e prese il volo, lasciando Blödhgarm e gli altri elfi a guardarla dal basso, frustrati.
«Non dovresti abbandonare le tue guardie con tanta leggerezza» mormorò Arya nell'orecchio di Eragon. Gli cinse la vita e lo strinse forte mentre Saphira virava sul cortile.
Prima di aver modo di rispondere, Eragon avvertì il contatto della vasta mente di Glaedr: per un momento la città sotto di loro scomparve e lui vide e percepì solo ciò che Glaedr vedeva e percepiva.
Piccole frecce pungenti come calabroni gli rimbalzavano sul ventre mentre sorvolava le rade case di legno dei bipedi dalle orecchie rotonde. L'aria era calma e solida sotto le sue ali, perfetta per il volo. La sella strofinò contro le squame quando Oromis sulla sua schiena cambiò posizione.
Glaedr estrasse la lingua e assaporò l'aroma allettante di legna bruciata, carne cotta e sangue versato. Era già stato molte volte in quel luogo, ma ai tempi della sua giovinezza era noto con un nome diverso da Gil'ead, e gli unici abitanti erano gli elfi dal sorriso moderato e dalla lingua svelta, e gli amici degli elfi. Le sue visite precedenti erano sempre state piacevoli, ma lo addolorò ricordare i due compagni di nido che erano morti lì, uccisi dai Rinnegati dalla mente perversa.
L'occhio pigro del sole indugiava sull'orizzonte. A nord, la grande acqua di Isenstar era una tremolante lamina d'argento. Sotto di loro, il branco di orecchie a punta capeggiato da Islanzadi era schierato intorno alla città-formicaio. Le loro armature luccicavano come schegge di ghiaccio. Una cappa di fumo azzurrino copriva l'intera zona, densa come la fredda nebbia del mattino.
E da sud, il piccolo Castigo dagli artigli aguzzi volava verso Gil'ead, urlando infuriato perché tutti sentissero la sua sfida. Murtagh figlio di Morzan sedeva sul suo dorso e nella sua mano destra Zar'roc brillava lucente come un'unghia.
Glaedr provò grande tristezza nel vedere i due miserabili cuccioli. Quanto avrebbe voluto non doverli uccidere. Ancora una volta, pensò, drago combatte drago e Cavaliere combatte Cavaliere, e tutto per colpa di quel Galbatorix distruttore di uova. A malincuore, Glaedr accelerò il battito delle ali e aprì gli artigli, preparandosi a dilaniare i nemici.
Il collo di Eragon subì un colpo di frusta quando Saphira effettuò una brusca imbardata e precipitò per una ventina di piedi prima di recuperare l'assetto. L'hai visto anche tu? gli chiese.
Sì. Preoccupato, Eragon scoccò un'occhiata alla bisaccia che conteneva il cuore dei cuori di Glaedr, domandandosi se era il caso di intervenire in aiuto di Oromis e Glaedr. Poi pensò che fra gli elfi dovevano esserci molti stregoni, e si sentì confortato. Oromis e Glaedr non avrebbero avuto bisogno del loro aiuto.
«Qualcosa non va?» chiese Arya. La sua voce squillò nell'orecchio di Eragon.
Oromis e Glaedr stanno per scontrarsi con Castigo e Murtagh, rispose Saphira.
Eragon sentì Arya irrigidirsi contro di lui. «Come fate a saperlo?» chiese.
«Te lo spiego dopo. Spero solo che vada tutto bene.»
«Lo spero anch'io» disse Arya.
Saphira volò alta sopra la fortezza, poi planò silenziosa senza battere le ali e atterrò sulla guglia della torre più alta. Mentre Eragon e Arya s'inerpicavano sul ripido tetto, disse: Ci vediamo nella sala di sotto. La finestra qui è troppo piccola per me. E decollò, sollevando turbini di vento che investirono Eragon e Arya.
I due scivolarono fino al bordo del tetto e si calarono sullo stretto cornicione di pietra otto piedi più in basso. Cercando di non pensare alla vertiginosa caduta che lo aspettava se avesse messo un piede in fallo, Eragon strisciò lentamente fino a una finestra a croce. S'intrufolò nell'apertura e si ritrovò in una grande stanza dove ad aspettarlo c'erano solo fasci di dardi e rastrelliere di pesanti balestre. Se c'era stato qualcuno nella stanza, all'arrivo di Saphira doveva essere fuggito. Anche Arya s'introdusse nella stanza dalla piccola finestra. Dopo un'ispezione sommaria, gli indicò una scala in un angolo e si affrettò a raggiungerla, gli stivali di pelle che calpestavano silenziosi il pavimento di pietra.
Mentre la seguiva, Eragon percepì uno strano confluire di energie provenire dal piano di sotto e sentì le menti di cinque persone che gli sbarravano i propri pensieri. Temendo un attacco mentale, si concentrò e prese a recitare un brano di poesia elfica. Toccò Arya sulla spalla e mormorò: «Lo senti?»
Lei annuì. «Avremmo dovuto portare Blödhgarm con noi.»
Scesero insieme le scale, attenti a non fare il minimo rumore. La stanza dove arrivarono era molto più grande di quella del piano di sopra, e dal soffitto alto più di trenta piedi pendeva una lanterna dai pannelli di vetro sfaccettato in cui bruciava una fiamma gialla. Le pareti erano tappezzate di centinaia di dipinti a olio: ritratti di uomini barbuti dalle lunghe vesti ricamate e donne prive d'espressione sedute fra bambini dai denti piatti e aguzzi; lugubri marine dove i marinai annegavano nel mare in tempesta; scene di battaglia in cui gli umani massacravano gruppi di Urgali grotteschi. Nella parete nord una grande finestra dalle imposte di legno si affacciava su un balcone dalla balaustra di pietra. Lungo la parete opposta alla finestra c'erano tavolini rotondi coperti di pergamene, tre poltroncine imbottite e due enormi vasi di ottone con alcuni mazzi di fiori secchi. Su una delle poltroncine era seduta una donna corpulenta dai capelli grigi che indossava una veste color lavanda. Fra lei e parecchi ritratti si notava una forte somiglianza. In testa portava un diadema d'argento tempestato di topazi e di giade.
Al centro della stanza c'erano i tre stregoni che Eragon aveva già visto in città. I due uomini e la donna erano disposti a triangolo, i cappucci abbassati e le braccia aperte in modo da toccarsi con la punta delle dita. Ondeggiavano all'unisono, mormorando nell'antica lingua un incantesimo sconosciuto. Una quarta persona era seduta al centro del triangolo: un uomo abbigliato allo stesso modo, però taceva e faceva smorfie come se stesse soffrendo.
Eragon si scagliò contro la mente di uno degli stregoni, ma l'uomo era così concentrato nel suo compito che lui non riuscì a penetrarne la coscienza e quindi non poté piegarlo alla sua volontà. L'uomo non parve nemmeno accorgersi dell'attacco. Arya doveva aver provato a fare lo stesso perché, con la fronte aggrottata, mormorò: «Sono bene addestrati.»
«Sai che cosa stanno facendo?» bisbigliò lui.
Lei scosse il capo.
D'un tratto la donna col vestito color lavanda alzò lo sguardo e vide Eragon e Arya acquattati sugli ultimi gradini della scala di pietra. Con sommo stupore di Eragon non gridò aiuto, ma avvicinò l'indice alle labbra e fece loro cenno di avvicinarsi.
Eragon e Arya si scambiarono un'occhiata perplessa. «Potrebbe essere una trappola» mormorò lui.
«Molto probabile» rispose lei.
«Che cosa facciamo?»
«Saphira sta arrivando?»
«Sì.»
«E allora andiamo a salutare la padrona di casa.»
Scesero gli ultimi gradini fianco a fianco e attraversarono la sala in fretta, senza mai distogliere lo sguardo dagli stregoni. «Lady Lorana?» chiese Arya sottovoce, quando furono al cospetto della donna seduta.
Lei annuì. «Sì, mia bella elfa.» Spostò lo sguardo su Eragon e disse: «E tu sei il Cavaliere dei Draghi di cui ho tanto sentito parlare? Eragon Ammazzaspettri?»
«Sì» rispose Eragon.
Un'espressione di sollievo illuminò i tratti eleganti della donna. «Ah, quanto speravo che tu venissi. Devi fermarli, Ammazzaspettri.» E indicò gli stregoni.
«Perché non ordini loro di arrendersi?» mormorò Eragon.
«Non posso» disse Lorana. «Rispondono solo al re e al suo nuovo Cavaliere. Ho giurato fedeltà a Galbatorix... non ho avuto altra scelta... perciò non posso alzare un dito contro di lui o contro i suoi servi; altrimenti mi sarei già sbarazzata di loro.»
«Perché?» chiese Arya. «Che cosa temi?»
Intorno agli occhi di Lorana si formò una ragnatela di rughe. «Sanno di non poter più sconfiggere i Varden, e Galbatorix non ci ha mandato alcun rinforzo. Perciò stanno tentando, non so come, di creare uno Spettro nella speranza che attacchi i Varden gettando scompiglio e sconforto tra i vostri ranghi.»
Eragon rabbrividì al pensiero di dover combattere un altro Durza. «Ma uno spettro potrebbe rivoltarsi anche contro di loro, e contro chiunque altro a Feinster» obiettò.
Lorana annuì. «A loro non importa. Il loro unico desiderio è causare quanta più sofferenza e distruzione possibili prima di morire. Sono pazzi, Ammazzaspettri. Ti prego, devi fermarli, per la salvezza del mio popolo!»
Non appena ebbe finito di parlare, Saphira atterrò sul balcone fuori dalla stanza, rompendo la balaustra con la coda. Abbatté le imposte di legno con una sola zampata, riducendole in legna da ardere, poi infilò la testa e le spalle nella sala e ruggì. Gli stregoni continuarono a cantilenare, come se non avessero nemmeno notato la sua presenza.
«Basta!» esclamò Lady Lorana stringendo i braccioli della sedia.
«Bene» disse Eragon. Impugnò saldamente Brisingr e si avviò verso gli stregoni, mentre Saphira faceva lo stesso dalla parte opposta.
All'improvviso il mondo gli vorticò intorno, ed Eragon si ritrovò ancora a guardare attraverso gli occhi di Glaedr.
Rosso. Nero. Lampi gialli pulsanti. Dolore... dolore indicibile al ventre e alla spalla dell'ala sinistra. Dolore come non lo provava da più di cent'anni. Poi sollievo, quando il suo compagno di una vita guarì le ferite.
Glaedr recuperò l'equilibrio e cercò Castigo. Grazie a Galbatorix, il piccolo, infido drago rosso era più forte e veloce di quanto si fosse aspettato.
Castigo caricò il suo fianco sinistro, quello più débole, dove aveva perso la zampa. Precipitarono avvinghiati verso il duro, piatto terreno spezzaossa. Glaedr azzanò, morse e graffiò con gli artigli per tentare di sottomettere il drago più piccolo.
Questo cucciolo non mi batterà, giurò a se stesso. Io ero già vecchio prima che lui nascesse.
Artigli come bianchi pugnali graffiarono Glaedr sul costato e sul ventre. Con un guizzo della coda colpì il ringhiante Castigo dalle lunghe zanne, trafiggendogli una coscia con una punta aguzza della coda. Il combattimento aveva già da tempo esaurito i loro magici scudi invisibili, lasciandoli vulnerabili a ogni genere di ferita.
Quando il terreno vorticante fu ad appena qualche migliaio di piedi di distanza, Glaedr trasse un profondo respiro e alzò la testa. Tese il collo, contrasse i muscoli addominali e richiamò dalle viscere il denso liquido di fuoco. Il liquido s'infiammò quando si combinò con l'aria nella sua gola. Glaedr spalancò le fauci e inondò di fiamme il drago rosso, avvolgendolo in un bozzolo incandescente. Il torrente di fiamme implacabili, feroci e insaziabili gli solleticò l'interno delle guance.
Richiuse la gola, interrompendo il getto di fuoco, e si staccò dal drago rosso, che si contorceva urlando e graffiando l'aria. Sopra di lui, sentì Oromis dire: «La loro forza sta diminuendo, lo vedo da come si muovono. Ancora pochi minuti e Murtagh perderà la concentrazione e io riuscirò ad assumere il controllo dei suoi pensieri. O è così, o dovremo ucciderli con la spada e le zanne.»
Glaedr annuì ruggendo, infastidito dal fatto di non poter comunicare con Oromis con la mente come facevano sempre. Risalì approfittando di una calda corrente che veniva dalla terra arata, e si voltò verso Castigo dalle membra gocciolanti di sangue cremisi. Ruggì di nuovo e si preparò a lottare ancora.
Disorientato, Eragon fissò il soffitto. Giaceva sulla schiena all'interno della torre della fortezza. Inginocchiata accanto a lui c'era Arya, la preoccupazione dipinta in volto. L'elfa lo prese per un braccio e lo aiutò ad alzarsi, sostenendolo quando barcollò. Eragon vide Saphira sull'altro lato della stanza che scuoteva la testa, stordita quanto lui.
I tre stregoni erano ancora in piedi con le braccia distese, a dondolare e cantare nell'antica lingua. Le parole del loro incantesimo risuonavano con una forza inusuale e riverberavano nell'aria molto più a lungo di quanto avrebbero dovuto. L'uomo seduto ai loro piedi si strinse le ginocchia, il corpo scosso da tremiti, la testa che dondolava di qua e di là.
«Che cos'è successo?» chiese Arya, sforzandosi di parlare piano. Attirò Eragon più vicino e abbassò ancora di più la voce. «Come fai a sapere che cosa sta pensando Glaedr da così lontano, e soprattutto quando la sua mente è chiusa perfino a Oromis? Perdonami per essere entrata senza permesso nei tuoi pensieri, ma ero preoccupata. Che genere di legame c'è fra te, Saphira e Glaedr?»
«Dopo» disse Eragon, e raddrizzò le spalle.
«Oromis ti ha dato un amuleto o qualche altro oggetto che ti permette di contattare Glaedr?»
«Ci vorrebbe troppo tempo per spiegarti. Dopo, te lo prometto.»
Arya esitò, poi annuì e disse: «Non me ne dimenticherò.»
Eragon, Saphira e Arya puntarono sugli stregoni e ne colpirono uno ciascuno. Un sibilo metallico echeggiò nella sala quando Brisingr scivolò di lato senza raggiungere l'obiettivo ed Eragon si stirò una spalla. Anche la spada di Arya rimbalzò su un incantesimo di protezione, così come la zampa destra di Saphira. I suoi artigli stridettero sul pavimento di pietra.
«Concentriamoci su questo!» gridò Eragon, indicando lo stregone più alto, un uomo pallido dalla barba ispida. «Presto, prima che riescano a evocare gli spiriti!» Eragon e Arya avrebbero potuto ricorrere a qualche incantesimo per aggirare o abbattere le difese degli stregoni, ma usare la magia contro un altro mago senza controllarne la mente aveva sempre risvolti pericolosi. Né Eragon né Arya volevano correre il rischio di restare uccisi da un incantesimo di protezione di cui non erano ancora a conoscenza.
Attaccando a turno, Eragon, Saphira e Arya cercarono di colpire, trafiggere o dilaniare lo stregone barbuto, ma nessuno dei loro tentativi andò a segno. Poi, all'improvviso, dopo una resistenza minima, Eragon sentì una sorta di cedimento sotto Brisingr, che, continuando la sua traiettoria, recise la testa dello stregone. L'aria davanti a lui scintillò. E nello stesso momento avvertì un calo improvviso della forza, mentre le sue protezioni lo difendevano da un incantesimo sconosciuto. L'assalto cessò in pochi secondi, lasciandolo stordito, con lo stomaco in subbuglio. Fece una smorfia, poi attinse energia dalla cintura di Beloth il Savio.
L'unica reazione degli altri due stregoni alla morte del compagno fu un'invocazione più serrata. Non tentarono di fuggire né di attaccare. Avevano gli occhi bianchi, le pupille rivoltate all'indietro e una schiuma gialla incrostata agli angoli della bocca; schizzi di saliva volavano dalle loro labbra che si muovevano frenetiche.
Eragon, Saphira e Arya si avvicinarono al secondo stregone - un uomo corpulento che portava anelli ai pollici - ripetendo lo stesso procedimento che avevano usato per il primo: assalirlo a turno finché non fossero riusciti ad abbattere le sue protezioni. Fu Saphira a ucciderlo, facendolo volare per la stanza con una feroce zampata. L'uomo atterrò sulle scale e il suo cranio si spaccò contro il bordo di un gradino. Questa volta non ci fu alcuna rappresaglia magica.
Mentre Eragon si avvicinava alla strega, un grappolo di luci multicolori sfrecciò nella stanza attraverso la finestra infranta per calare sull'uomo seduto sul pavimento. Gli spiriti sfavillanti lampeggiarono di rabbia, turbinando intorno all'uomo a formare un muro impenetrabile. L'uomo alzò le braccia come se volesse difendersi da qualcosa e strillò.
L'atmosfera ronzò e crepitò per l'energia irradiata dalle sfere pulsanti. Eragon sentì sulla lingua un aspro sapore di ferro e poi la pelle prese a formicolargli. I capelli della strega si rizzarono. Dall'altra parte, Saphira sibilò e inarcò il collo, ogni muscolo del corpo teso.
Eragon rabbrividì di paura. No, pensò, nauseato. Non ora, non dopo tutto quello che abbiamo passato. Certo, era più forte di quando aveva affrontato Durza a Tronjheim, ma era anche più consapevole di quanto potesse essere pericoloso uno Spettro. Solo tre guerrieri erano sopravvissuti all'uccisione di uno Spettro: Laetrí l'Elfo, Irnstad il Cavaliere, e lui stesso, e non era sicuro di poter ripetere l'impresa. Blödhgarm, dove sei? urlò Eragon con la mente. Ci serve il tuo aiuto!
All'improvviso ogni cosa intorno a lui scomparve, e vide:
Bianco. Vuoto bianco. La dolce, fredda acqua del cielo era un sollievo per le membra di Glaedr dopo il calore soffocante della lotta. Bevve l'aria, grato per il sottile strato di umidità che gli ricoprì la lingua riarsa.
Batté ancora una volta le ali e l'acqua del cielo si divise davanti a lui, rivelando l'abbagliante sole bruciaschiene e la brumosa terra verdemarrone. Dov'è? si chiese Glaedr. Volse la testa da una parte e dall'altra in cerca di Castigo. Il piccolo drago rosso era fuggito sopra Gil'ead, spingendosi più in alto di qualsiasi uccello, là dove l'aria rarefatta trasformava il respiro in condensa.
«Glaedr! Dietro di noi!» gridò Oromis.
Glaedr si voltò, ma fu troppo lento. Il drago rosso lo investì colpendolo alla spalla destra, e lo spinse lontano. Ringhiando, Glaedr tese la zampa che gli restava per cingere il feroce cucciolo mordigraffia in una stretta mortale. Il drago rosso urlò e si divincolò, sgusciando per metà dalla stretta di Glaedr, e gli conficcò gli artigli nel petto.
Glaedr inarcò il collo e morse la zampa del drago rosso e lo tenne fermo, anche se si contorceva e scalciava come un gatto selvatico. Sentì in bocca il caldo sangue salato.
Mentre precipitavano, Glaedr udì rumore di spade contro scudi: Oromis e Murtagh si stavano scambiando una rapida successione di colpi. Castigo si dimenò, permettendogli per qualche breve istante di vedere Murtagh figlio di Morzan. L'umano gli sembrava terrorizzato, ma non poteva esserne sicuro. Malgrado i lunghi anni passati in sintonia con Oromis, gli risultava sempre difficile decifrare le espressioni dei bipedi senza corna e senza coda, con quelle loro facce morbide e piatte.
Il clangore di metallo s'interruppe all'improvviso e Murtagh gridò: «Maledetti per non esservi rivelati prima! Maledetti! Avreste potuto aiutarci! Avreste potuto...» Per un momento Murtagh parve soffocare.
Glaedr grugnì quando un'inaspettata forza invisibile arrestò la loro caduta, con uno scossone che gli fece quasi perdere la presa sulla zampa di Castigo. Furono sollevati in alto, sempre più in alto, finché la cittàformicaio sotto di loro non fu soltanto una macchiolina indistinta. Perfino Glaedr faceva fatica a respirare l'aria rarefatta.
Che cosa fa il cucciolo umano?
si chiese Glaedr, preoccupato.
Sta cercando di uccidersi?
In quel momento Murtagh ricominciò a parlare, ma la sua voce risuonò alterata, più piena e profonda di prima, echeggiante come se si trovasse in una sala vuota. Glaedr si sentì rizzare le squame sulle spalle nell'udire la voce del loro antico nemico.
«E così siete sopravvissuti, Oromis, Glaedr» disse Galbatorix. Le sue parole erano rotonde e morbide, come quelle di un esperto oratore, e pronunciate in tono falsamente amichevole. «Da tempo sospettavo che gli elfi potessero tenermi nascosto un drago o un Cavaliere. È gratificante trovare conferma ai miei sospetti.»
«Vattene, pazzo spergiuro!» gridò Oromis. «Non ti daremo alcuna soddisfazione!»
Galbatorix ridacchiò. «Ma che saluto sgarbato. Vergognati, Oromiselda. Gli elfi hanno dimenticato la loro leggendaria cortesia in quest'ultimo secolo?»
«Non meriti più cortesia di un lupo rabbioso.»
«Suvvia, Oromis, ricordi che cosa mi dicesti quando ero dinnanzi a te e agli altri Anziani? "La rabbia è un veleno. Devi eliminarla dalla tua mente o corroderà la tua natura." Dovresti prestare ascolto al tuo stesso consiglio.»
«Non riuscirai a confondermi con la tua lingua biforcuta, Galbatorix. Sei un essere abominevole, e faremo in modo di eliminarti, a costo della vita.»
«Ma perché dovresti, Oromis? Perché dovresti metterti contro di me? Mi dispiace vedere che hai permesso all'odio di corrompere la tua saggezza. Perché un tempo eri saggio, Oromis, forse il membro più saggio di tutto il nostro ordine. Tu sei stato il primo a riconoscere la pazzia che divorava la mia anima, e sei stato tu a convincere gli altri Anziani a rifiutare la mia richiesta di un secondo uovo di drago. Fu molto saggio da parte tua. Inutile, ma saggio. In qualche modo, poi, sei riuscito a sfuggire a Kialandí e a Formora, anche dopo che ti avevano ferito, e ti sei nascosto finché non morirono tutti i tuoi nemici, tranne uno. Anche questo fu molto saggio da parte tua, elfo.»
Una breve pausa segnò il discorso di Galbatorix. «Non c'è bisogno di continuare a combattermi. Ammetto di aver commesso crimini terribili in gioventù, ma quei giorni sono ormai lontani e quando rifletto sul sangue che ho versato provo rimorso. Ma che cosa vorreste che facessi? Non posso disfare ciò che ho fatto. Ora la mia più grande preoccupazione è garantire pace e prosperità all'Impero di cui mi sono ritrovato a essere signore e padrone. Non capisci che ho perso la mia sete di vendetta? La rabbia bruciante che mi ha guidato per tutti questi anni si è ridotta in cenere. Rivolgi a te stesso questa domanda, Oromis: chi è il responsabile della guerra che si è propagata in tutta Alagaësia? Non io. I Varden hanno scatenato questo conflitto. Io mi sarei accontentato di governare il mio popolo e di lasciare gli elfi, i nani e i surdani al loro destino, ma i Varden non hanno voluto lasciarmi in pace. Sono loro che hanno scelto di rubare l'uovo di Saphira, loro che hanno ricoperto la terra di montagne di cadaveri, non io. Un tempo eri saggio, Oromis, e puoi tornare a esserlo. Rinuncia al tuo odio e unisciti a me a Ilirea. Con te al mio fianco, potremo mettere fine a questo conflitto e inaugurare un'era di pace che durerà per mille anni e più.»
Glaedr non fu affatto persuaso. Serrò le mascelle poderose, e Castigo strillò. Il grido di dolore risuonò incredibilmente forte dopo i toni suadenti di Galbatorix.
Con voce chiara e squillante, Oromis rispose: «No. Non puoi farci dimenticare le tue atrocità con un balsamo di bugie addolcite. Liberaci! Non puoi trattenerci qui ancora a lungo, e mi rifiuto di scambiare inutili chiacchiere con un traditore come te.»
«Bah! Sei soltanto un vecchio pazzo» disse Galbatorix, e la sua voce acquistò un tono aspro e malvagio. «Avresti dovuto accettare la mia offerta; saresti stato il primo e il più importante fra i miei schiavi. Ti farò rimpiangere la tua stolida devozione alla tua cosiddetta giustizia. E ti sbagli. Posso tenervi così finché voglio, perché sono diventato potente come un dio e non c'è nessuno che possa fermarmi.»
«Non vincerai» disse Oromis. «Perfino gli dei non durano per sempre.»
A quel punto Galbatorix pronunciò una terribile promessa. «La tua filosofia è inutile con me, elfo! Sono il più grande di tutti i maghi, e presto diventerò ancora più potente. La morte non mi prenderà. Tu invece morirai. Ma prima dovrai soffrire. Entrambi soffrirete oltre ogni immaginazione, e poi io ucciderò te, Oromis, e prenderò il tuo cuore dei cuori, Glaedr, e mi servirai fino alla fine dei tempi.»
«Mai!» esclamò Oromis.
E Glaedr sentì di nuovo il clangore delle spade. Aveva escluso Oromis dalla mente durante il duello, ma il loro legame scorreva più profondo del pensiero cosciente, perciò sentì quando Oromis s'irrigidì, paralizzato dagli spasmi lancinanti che l'infida malattia gli procurava. Allarmato, liberò la zampa di Castigo e cercò di allontanare il drago rosso con un calcio. Castigo ululò di dolore, ma non si mosse. L'incantesimo di Galbatorix li teneva bloccati entrambi, incapaci di spostarsi per più di qualche spanna in qualsiasi direzione.
Risuonò ancora un tonfo metallico sopra di lui, e poi Glaedr vide Naegling passargli di fianco. La spada di Oromis sfavillò di bagliori dorati mentre precipitava verso terra. Per la prima volta Glaedr si sentì afferrare dal gelido artiglio della paura. Gran parte dell'energia magica di Oromis era immagazzinata nella sua spada e i suoi incantesimi di protezione erano legati alla lama. Senza Naegling era indifeso.
Glaedr si scagliò con tutte le sue forze contro l'incantesimo paralizzante di Galbatorix, ma non riuscì a liberarsi. E proprio mentre Oromis cominciava a riprendersi dall'attacco di convulsioni, Glaedr sentì Zar'roc fendere Oromis dalla spalla all'anca.
Glaedr ululò.
Ululò come Oromis aveva fatto quando lui aveva perso la zampa.
Una forza inesorabile gli ribollì nelle viscere e senza fermarsi a riflettere se ne sarebbe stato capace oppure no si liberò di Castigo e di Murtagh con un'esplosione di magia che li spazzò via come foglie al vento. Poi ripiegò le ali e si tuffò in picchiata verso Gil'ead. Se fosse riuscito ad arrivare in tempo, forse Islanzadi e i suoi stregoni avrebbero potuto salvare Oromis.
La città però era troppo lontana. La coscienza di Oromis vacillava... si affievoliva... scivolava via...
Glaedr fece confluire la propria forza nel corpo martoriato di Oromis, nel tentativo di sostenerlo finché non fossero atterrati. Ma per quanta energia gli infondesse, non riusciva a fermare la terribile emorragia di Oromis.
Glaedr... lasciami andare, mormorò Oromis con la mente.
Un istante dopo, la voce ormai ridotta a un sussurro, disse: Non piangermi.
E poi il compagno della vita di Glaedr passò nel vuoto.
Morto.
Morto!
MORTO!
Nero. Vuoto.
Era solo.
Una nebbia cremisi scese sul mondo, pulsando all'unisono con il suo cuore. Batté le ali e risalì da dove era venuto, cercando Castigo e il suo Cavaliere. Non li avrebbe lasciati andare; li avrebbe presi e fatti a pezzi e bruciati fino a estirparli dal mondo.
Glaedr vide il rosso drago infido tuffarsi contro di lui, e allora ruggì tutto il suo dolore e raddoppiò la velocità. Il drago rosso virò all'ultimo istante nel tentativo di affiancarlo, ma non fu abbastanza veloce. Glaedr tese il collo e con un morso staccò l'ultima parte della coda del drago rosso. Una fontana di sangue sprizzò dal moncone. Latrando di dolore, il drago rosso fremette e si lanciò al suo inseguimento. Glaedr tentò di voltarsi per affrontarlo, ma il drago piccolo era troppo veloce, troppo agile. Glaedr sentì una fitta lancinante alla base del cranio. E poi la sua vista tremolò e si spense.
Dov'era?
Era solo.
Era solo e al buio.
Era solo e al buio, e non poteva muoversi né vedere.
Sentiva le menti di altre creature accanto, ma non erano le menti di Castigo e di Murtagh. No, erano quelle di Arya, di Eragon e di Saphira.
E allora capì dov'era. La verità lo travolse con tutto il suo orrore e il drago ululò nell'oscurità. Ululò abbandonandosi al dolore, senza curarsi di quello che il futuro avrebbe potuto riservargli, perché Oromis era morto e lui era solo.
Solo!
Con un sussulto, Eragon tornò in sé.
Era raggomitolato sul pavimento, il volto rigato di lacrime. Boccheggiando si rialzò, e cercò Saphira e Arya.
Gli ci volle un momento per capire ciò che vide.
La strega che Eragon era stato sul punto di attaccare giaceva davanti a lui, uccisa da un solo colpo di spada. Gli spiriti che lei e i suoi compagni avevano evocato non si vedevano da nessuna parte. Lady Lorana era ancora seduta nella sua poltrona. Saphira si stava faticosamente rialzando, dall'altro lato della stanza. E l'uomo che prima sedeva sul pavimento, fra gli altri tre stregoni, ora stava in piedi accanto a lui, e teneva Arya per la gola.
Il colore aveva abbandonato la pelle dell'uomo, lasciandolo bianco come un osso. I suoi capelli, prima castani, adesso erano di un vivido color rosso sangue, e quando lo guardò e sorrise, Eragon scoprì che anche gli occhi erano diventati rossi. L'uomo aveva gli stessi tratti e lo stesso fare di Durza.
«Il nostro nome è Varaug» disse lo Spettro. «Tremate.» Arya scalciò, ma i suoi colpi non parvero avere effetto su di lui.
La pressione bruciante della coscienza dello Spettro attanagliò la mente di Eragon, cercando di abbattere le sue difese. La potenza dell'aggressione lo paralizzò: riuscì a stento a respingere i tentacoli della mente dello Spettro, figuriamoci camminare o brandire una spada. Per chissà quale ragione, Varaug era persino più forte di Durza, ed Eragon non sapeva quanto avrebbe potuto resistergli. Si accorse che anche Saphira era stata aggredita: era seduta rigida e immobile davanti al balcone, il muso contratto in un ringhio.
Le vene sulla fronte di Arya si gonfiarono e il suo volto divenne rosso, poi viola. Aveva la bocca aperta, ma non respirava. Con il palmo della mano colpì il gomito serrato dello Spettro e gli ruppe l'articolazione con uno schianto secco. Il braccio di Varaug si abbassò e per un momento le punte dei piedi di Arya sfiorarono il pavimento, ma poi le ossa nel braccio dello Spettro tornarono a posto e lui la sollevò ancora più in alto.
«Morirai» ruggì Varaug. «Morirete tutti per averci imprigionati in questa fredda corazza di argilla.»
La consapevolezza che le vite di Arya e Saphira erano in pericolo privò Eragon di qualsiasi altra emozione che non fosse una feroce determinazione. Con la mente affilata e trasparente come una scheggia di vetro, si avventò contro la coscienza incandescente dello Spettro. Varaug era troppo potente e gli spiriti che lo possedevano troppo diversi perché Eragon riuscisse a sopraffarlo e a controllarlo, così tentò di isolarlo. Circondò la mente di Varaug con la propria: ogni volta che Varaug cercava di allungare la coscienza verso Saphira o Arya, Eragon bloccava il suo raggio mentale, e ogni volta che lo Spettro cercava di spostarsi, Eragon vanificava il suo tentativo muovendosi a sua volta.
Combattevano alla velocità del pensiero, scambiandosi affondi e parate lungo il perimetro della mente dello Spettro, un paesaggio così confuso e incoerente che Eragon temette d'impazzire se lo avesse guardato troppo a lungo. Mentre duellava con Varaug, cercando di anticipare ogni sua mossa, Eragon capì che lo scontro avrebbe potuto concludersi soltanto con la propria sconfitta, malgrado gli sforzi immani che stava mettendo in campo. Per quanto veloce, la sua mente non poteva superare le numerose intelligenze contenute nello Spettro.
Alla fine la sua concentrazione vacillò e Varaug approfittò dell'occasione per insinuarsi ancora di più nella sua mente, intrappolandolo, immobilizzandolo, sopprimendo i suoi pensieri finché Eragon non poté far altro che fissare lo Spettro con una rabbia silenziosa. Un atroce formicolio gli attraversò il corpo mentre gli spiriti lo invadevano, scivolando in ogni suo nervo.
«Il tuo anello è pieno di luce!» esclamò Varaug, spalancando gli occhi per il piacere. «Meravigliosa luce! Ci nutrirà per molto tempo.»
Ruggì di rabbia quando Arya gli afferrò il polso e glielo spezzò in tre punti. L'elfa si divincolò dalla sua stretta prima che lo Spettro avesse modo di guarirsi e cadde a terra boccheggiando.
Varaug le sferrò un calcio, ma lei lo schivò rotolando di fianco e tese una mano verso la spada che le era caduta.
Quando Eragon tentò di liberarsi della presenza soffocante dello Spettro, prese a tremare in tutto il corpo.
La mano di Arya si strinse intorno all'elsa della spada. Un urlo di belva sfuggì dalle labbra esangui dello Spettro. Si avventò su di lei e rotolarono avvinghiati sul pavimento, lottando per impossessarsi dell'arma. Con un grido selvaggio, Arya lo colpì alla tempia con il pomolo della spada. Per un momento Varaug si afflosciò e Arya indietreggiò sui gomiti e sui calcagni, poi si rialzò di scatto.
Senza pensare alla propria incolumità, Eragon riprese l'attacco contro la coscienza dello Spettro, con l'unico intento di trattenerlo per qualche altro istante.
Varaug si alzò su un ginocchio, poi, quando Eragon raddoppiò gli sforzi, vacillò.
«Ora!» urlò Eragon.
Arya fece un affondo, i neri capelli svolazzanti sulle spalle.
E colpì lo Spettro dritto al cuore.
Eragon trasalì e si districò dalla mente di Varaug proprio mentre lo Spettro indietreggiava, staccandosi dalla lama di Arya. Aprì la bocca ed emise un prolungato lamento, così acuto e stridente che i vetri della lanterna appesa al soffitto esplosero in una miriade di schegge. Barcollò verso Arya con le braccia tese, poi si fermò e la sua pelle cominciò a sbiadire fino a diventare trasparente, rivelando le decine di spiriti luccicanti intrappolati nella sua carne. Gli spiriti pulsarono e s'ingrossarono; la pelle di Varaug si lacerò lungo i rigonfiamenti dei muscoli. Con un'ultima esplosione di luce, gli spiriti lacerarono il corpo di Varaug e lasciarono la sala della torre attraversando i muri, come se la pietra fosse priva di consistenza.
Mentre le pulsazioni del suo cuore rallentavano, Eragon, sentendosi molto vecchio e molto stanco, raggiunse Arya, che era in piedi, aggrappata allo schienale di una poltrona, le spalle curve, una mano sulla gola. L'elfa tossì, sputando sangue. Dato che sembrava incapace di parlare, Eragon posò la propria mano su quella di lei e disse: «Waíse heill.» Gli cedettero le gambe quando perse energia per curarla, e dovette reggersi anche lui alla sedia. «Meglio?» le chiese, quando l'incantesimo si dissolse.
«Meglio» sussurrò Arya, e lo ringraziò con un fievole sorriso.
Indicò il punto dove prima si trovava Varaug. «Lo abbiamo ucciso... Lo abbiamo ucciso e siamo ancora vivi.» Sembrava sorpresa. «Pochi sono riusciti a uccidere uno Spettro senza morire.»
«Perché hanno combattuto da soli, non insieme, come noi.»
«Già, non come noi.»
«Tu mi hai aiutato nel Farthen Dûr, e io ti ho aiutato qui.»
«Sì.»
«Ora dovrò chiamare te Ammazzaspettri.»
«Lo siamo entrambi...»
Saphira li spaventò lanciando un lungo, acuto grido di dolore. Tra i gemiti, graffiò il pavimento con gli artigli, scheggiando la pietra. La sua coda si agitava da una parte all'altra, sfasciando i mobili e gli arcigni ritratti sulle pareti. Se ne sono andati! disse. Se ne sono andati! Se ne sono andati per sempre!
«Saphira, che cosa succede?» chiese Arya. Quando Saphira non rispose, ripeté la domanda a Eragon.
Vibrando di odio per le parole che era costretto a pronunciare, Eragon disse: «Oromis e Glaedr sono morti. Galbatorix li ha uccisi.»
Arya barcollò come se avesse ricevuto uno schiaffo. «Ah» disse. Strinse lo schienale della poltrona con tanta forza che le si sbiancarono le nocche. Le lacrime le riempirono gli occhi obliqui, poi si riversarono sugli zigomi alti e le inondarono il volto. «Eragon.» L'elfa allungò una mano e gli afferrò la spalla, e quasi per caso lui si ritrovò a stringerla fra le braccia. Sentì gli occhi invadersi di lacrime. Serrò la mascella nello sforzo di mantenere un contegno. Sapeva che se avesse cominciato a piangere non si sarebbe più fermato.
Lui e Arya rimasero abbracciati per un lungo momento, consolandosi a vicenda, poi Arya indietreggiò e chiese: «Com'è successo?»
«Oromis ha avuto uno dei suoi attacchi, e mentre era paralizzato, Galbatorix ha usato Murtagh per...» Eragon non riuscì a proseguire e scosse il capo. «Te lo racconterò quando saremo con Nasuada. Anche lei deve sapere, e non me la sento di descriverlo più di una volta.»
Arya annuì. «Allora andiamo.»
UNA NUOVA ALBA
Mentre Eragon e Arya scendevano dalla torre scortando Lady Lorana, incontrarono Blödhgarm e gli altri undici elfi che correvano su per le scale a quattro gradini alla volta. «Ammazzaspettri! Arya!» esclamò un'elfa dai lunghi capelli neri. «Siete feriti? Abbiamo sentito il lamento di Saphira e abbiamo pensato che uno di voi fosse morto.»
Eragon scoccò un'occhiata ad Arya. Il voto di segretezza che aveva fatto alla regina Islanzadi non gli consentiva di parlare di Oromis o Glaedr in presenza di estranei alla Du Weldenvarden - come Lady Lorana - senza il permesso della regina, di Arya, o di chiunque avesse potuto succedere a Islanzadi sul trono nodoso di Ellesméra.
Lei annuì e disse: «Vi libero dal vostro giuramento, Eragon, Saphira. Parlate di loro a chi volete.»
«No, non siamo feriti» rispose allora Eragon. «Ma Oromis e Glaedr sono morti, uccisi in battaglia nei cieli di Gil'ead.»
Gli elfi gridarono sconvolti, poi cominciarono a tempestare Eragon di domande. Arya alzò una mano e disse: «Ora basta. Non è questo il luogo né il momento adatto a soddisfare la vostra curiosità. Ci sono ancora soldati ovunque e non sappiamo chi ci ascolta. Serbate la tristezza nel vostro cuore finché non saremo salvi e al sicuro.» Fece una pausa e guardò Eragon, poi aggiunse: «Vi spiegherò le circostanze della loro morte non appena le avrò sapute io stessa.»
«Nen ono weohnata, Arya Dröttningu» mormorarono.
«Hai sentito quando ti ho chiamato?» chiese Eragon a Blödhgarm.
«Sì» rispose l'elfo dalla pelliccia blu. «Abbiamo fatto più in fretta che abbiamo potuto, ma c'erano molti soldati.»
Eragon portò la mano voltata al petto nel tradizionale gesto di rispetto degli elfi. «Ti chiedo scusa per averti lasciato indietro, Blödhgarm-elda. Il fervore della battaglia mi ha reso sciocco e troppo sicuro di me, e siamo quasi morti per colpa mia.»
«Non c'è bisogno di scusarti, Ammazzaspettri. Anche noi oggi abbiamo commesso un errore. Un errore che ti prometto non si ripeterà mai più. Da oggi combatteremo al fianco tuo e dei Varden senza riserve.»
Scesero insieme le scale fino al cortile. I Varden avevano ucciso o catturato gran parte dei soldati della fortezza, e i pochi uomini che ancora combattevano si arresero non appena videro che Lady Lorana era in mano ai Varden. Dato che le scale erano troppo strette, Saphira era scesa volando e li stava già aspettando.
Eragon attese con Saphira, Arya e Lady Lorana mentre uno dei Varden andava a chiamare Jörmundur. Il comandante fu stupito nel sentire il racconto di quanto era successo nella torre; poi prese in custodia Lady Lorana.
Le rivolse un inchino. «Mia signora, ti garantisco che sarai trattata con tutto il rispetto e la dignità che si competono al tuo rango. Anche se siamo tuoi nemici, restiamo pur sempre esseri civili.»
«Grazie» rispose lei. «Le tue parole mi confortano. Tuttavia la mia più grande preoccupazione adesso è la sicurezza dei miei sudditi. Se potessi, mi piacerebbe parlare con il vostro capo, Nasuada, in merito a quanto intende fare con loro.»
«Credo che anche lei desideri parlare con te.»
Prima di allontanarsi, Lady Lorana disse: «Ti sono veramente grata, bella elfa, e anche a te, Cavaliere dei Draghi, perché avete ucciso quel mostro prima che potesse portare morte e distruzione a Feinster. Il destino ci ha schierato in campi opposti, ma ciò non significa che io non possa ammirare il vostro coraggio e il vostro valore. Potremmo non incontrarci mai più, perciò addio a entrambi.»
Eragon s'inchinò e disse: «Addio, Lady Lorana.»
«Che le stelle ti proteggano» disse Arya.
Blödhgarm e gli elfi sotto il suo comando accompagnarono Eragon, Saphira e Arya a cercare Nasuada per tutta Feinster. La trovarono che si aggirava a cavallo per le grigie strade della città, valutando i danni.
Nasuada salutò Eragon e Saphira con evidente sollievo. «Sono felice che alla fine siate tornati. Negli ultimi giorni abbiamo avuto un disperato bisogno del vostro aiuto. Vedo che hai una nuova spada, Eragon, una spada da Cavaliere dei Draghi. Te l'hanno data gli elfi?»
«In un certo senso sì.» Eragon scrutò le varie persone che li circondavano e abbassò la voce. «Nasuada, dobbiamo parlare con te da sola. È importante.»
«Va bene.» Nasuada studiò gli edifici che costeggiavano la strada, poi indicò una casa che sembrava abbandonata. «Andiamo a parlare lì.»
Due dei Falchineri di Nasuada corsero avanti ed entrarono nella casa. Comparvero qualche minuto dopo e con un inchino dissero: «È vuota, Lady Nasuada.»
«Molto bene. Grazie.» Nasuada smontò di sella, porse le redini a uno degli uomini del suo seguito e marciò dritta nella casa. Eragon e Arya la seguirono.
I tre vagarono nella casa spoglia finché non trovarono una stanza, la cucina, con una finestra abbastanza grande perché Saphira ci infilasse la testa. Eragon aprì le imposte e Saphira posò il capo sul davanzale di legno. Il suo respiro riempì la cucina di odore di carne bruciata.
«Possiamo parlare senza timore» annunciò Arya, dopo aver evocato un incantesimo per impedire a chiunque di origliare.
Nasuada si massaggiò le braccia e rabbrividì. «Di che si tratta, Eragon?» chiese.
Eragon deglutì: avrebbe dato qualunque cosa pur di non dover raccontare i dettagli della sorte di Oromis e Glaedr. Poi disse: «Nasuada... io e Saphira non eravamo gli unici... C'erano un altro drago e un altro Cavaliere a combattere contro Galbatorix.»
«Lo sapevo» sospirò Nasuada, gli occhi scintillanti. «Era l'unica spiegazione possibile. Erano i vostri maestri a Ellesméra, vero?»
Sì, disse Saphira, ma ormai non sono più.
«Non sono più?»
Eragon strinse le labbra e scosse la testa, mentre le lacrime gli offuscavano la vista. «Sono morti questa mattina a Gil'ead. Galbatorix si è servito di Castigo e Murtagh per ucciderli; l'ho sentito parlare per bocca di Murtagh.»
Ogni traccia di eccitazione abbandonò il volto di Nasuada, sostituita da un'espressione spenta e rassegnata. Si lasciò cadere sulla sedia più vicina e fissò le ceneri nel caminetto freddo. La cucina era silenziosa. Alla fine si riscosse e disse: «Sei sicuro che siano morti?»
«Sì.»
Nasuada si asciugò gli occhi con l'orlo della manica. «Raccontami di loro, Eragon. Fallo, ti prego.»
E così, per la mezz'ora successiva, Eragon parlò di Oromis e Glaedr. Spiegò com'erano sopravvissuti alla Caduta dei Cavalieri e perché avevano scelto di restare nascosti da allora. Descrisse le menomazioni che affliggevano entrambi e si soffermò sul ritratto delle loro personalità, parlando anche di ciò che era stato per lui e per Saphira studiare sotto la loro guida. Il senso di perdita che provava si fece più profondo nel ricordare i lunghi giorni passati in compagnia di Oromis sulla rupe di Tel'naeír e le tante cose che l'elfo aveva fatto per lui e per Saphira. Quando arrivò al duello con Castigo e Murtagh a Gil'ead, Saphira alzò la testa dal davanzale e riprese a lamentarsi, un flebile, lungo gemito pieno di cordoglio.
Alla fine Nasuada sospirò e disse: «Vorrei aver conosciuto Oromis e Glaedr, ma ahimè, non era destino. C'è ancora una cosa che non capisco, Eragon. Hai detto che hai sentito Galbatorix parlare a loro. Come hai potuto?»
«Già, anch'io vorrei sapere come» disse Arya.
Eragon cercò qualcosa da bere, ma non c'era acqua né vino nella cucina. Tossì, poi si lanciò nel racconto del loro ultimo viaggio a Ellesméra. Saphira di tanto in tanto interveniva con un commento, ma preferì che fosse lui a raccontare la storia. A partire dalla verità sui suoi genitori, Eragon ripercorse in rapida successione gli eventi del loro soggiorno, dalla scoperta dell'acciaioluce sotto l'albero di Menoa a quando avevano forgiato Brisingr fino alla visita a Sloan. Infine raccontò a Nasuada e Arya del cuore dei cuori dei draghi.
«Be'...» disse Nasuada. Si alzò e prese a misurare la cucina a lenti passi. «Tu figlio di Brom, e Galbatorix che succhia come un parassita le anime dei draghi i cui corpi ormai non esistono più. È una cosa troppo grande perché io ne riesca a comprenderne la portata...» Si massaggiò di nuovo le braccia. «Almeno ora conosciamo la vera fonte del potere di Galbatorix.»
Arya era rimasta immobile, il fiato sospeso, sbalordita. «I draghi sono ancora vivi» mormorò. Giunse le mani come in preghiera e le tenne strette al petto. «Sono ancora vivi dopo tutti questi anni. Oh, se solo potessimo dirlo al resto della mia razza. Quanto sarebbero felici! E quanto sarebbe terribile la loro rabbia se sapessero della schiavitù degli Eldunarí! Correremmo a Urû'baen e non ci daremmo pace finché non avessimo liberato tutti i cuori dalle grinfie di Galbatorix, per quanti di noi dovessero morire nell'impresa.»
Ma non possiamo dirlo, le rammentò Saphira.
«No» disse Arya, e abbassò lo sguardo. «Non possiamo. Ma lo vorrei.»
Nasuada la guardò. «Ti prego, non offenderti, ma certo sarebbe stato meglio che tua madre, la regina Islanzadi, avesse ritenuto opportuno condividere queste informazioni con noi. Avremmo potuto servircene molto tempo fa.»
«Sono d'accordo» disse Arya, aggrottando la fronte. «Sulle Pianure Ardenti Murtagh vi ha sconfitti» e indicò Eragon e Saphira «perché non sapevate che Galbatorix gli aveva dato alcuni Eldunarí, e perciò non avete agito con la giusta cautela. Se non fosse stato per la coscienza di Murtagh, ora sareste entrambi schiavi di Galbatorix. Oromis e Glaedr, e anche mia madre, avevano le loro buone ragioni per tenere segreta l'esistenza degli Eldunarí, ma la loro reticenza ci è costata quasi la disfatta. Ne discuterò con mia madre la prossima volta che la incontrerò.»
Nasuada camminava fra il davanzale e il focolare. «Mi hai dato molte cose su cui riflettere, Eragon...» Tamburellò sul pavimento con la punta dello stivale. «Per la prima volta nella storia dei Varden conosciamo un modo per uccidere Galbatorix che potrebbe funzionare. Se riusciamo a separarlo da questi cuori dei cuori, perderà la fonte della sua forza, e allora tu e gli altri stregoni sarete in grado di batterlo.»
«Sì, ma come facciamo a separarlo dai suoi cuori?» chiese Eragon.
Nasuada si strinse nelle spalle. «Non lo so ancora, ma sono convinta che è possibile. D'ora in avanti lavorerete per trovare il modo. Tutto il resto non conta.»
Eragon sentì che Arya lo studiava con insolito interesse. Turbato, le rivolse uno sguardo interrogativo.
«Mi sono sempre domandata» disse Arya «perché l'uovo di Saphira era comparso davanti a te e non in qualche campo sperduto chissà dove. Sembrava una coincidenza troppo grande per essere soltanto un caso, ma non riuscivo a trovare una spiegazione plausibile. Ora invece capisco. Avrei dovuto immaginare che eri il figlio di Brom. Non lo conoscevo bene, ma lo conoscevo, e tu gli somigli molto.»
«Davvero?»
«Dovresti andare fiero di essere suo figlio» disse Nasuada. «A quel che si dice, Brom era un uomo straordinario. Se non fosse stato per lui, i Varden non esisterebbero. Mi sembra giusto che sia proprio tu a continuare la sua missione.»
Arya disse: «Eragon, possiamo vedere l'Eldunarí di Glaedr?»
Eragon esitò, poi uscì e andò a prendere il fagotto nelle bisacce di Saphira. Attento a non toccare l'Eldunarí, sciolse lo spago in cima al sacco, facendo scivolare il tessuto intorno alla pietra dorata simile a una pepita. Rispetto all'ultima volta che l'aveva visto, il bagliore dentro il cuore dei cuori era fioco e debole, come se Glaedr fosse a malapena cosciente.
Nasuada si protese in avanti e fissò il nucleo vorticante dell'Eldunarí, gli occhi che le risplendevano di luce riflessa. «E Glaedr è davvero lì dentro?»
Sì, disse Saphira.
«Posso parlare con lui?»
«Potresti provare, ma dubito che risponderebbe. Ha appena perso il suo Cavaliere. Gli ci vorrà parecchio tempo per riprendersi dal lutto, se mai si riprenderà. Ti prego, lascialo in pace, Nasuada. Se avesse voluto parlarti, lo avrebbe già fatto.»
«Certo. Non era mia intenzione disturbarlo nel suo dolore. Aspetterò che si riprenda per conoscerlo.»
Arya si accostò a Eragon e avvicinò le mani all'Eldunarí, le dita tremanti sospese sulla sua superficie. Fissò la pietra con profondo rispetto, come smarrita nei suoi abissi, poi mormorò qualcosa nell'antica lingua. La coscienza di Glaedr lampeggiò debolmente come in risposta.
Arya abbassò le mani. «Eragon, Saphira, vi è stata affidata la più solenne delle responsabilità: la custodia di un'altra vita. Qualunque cosa accada, dovrete proteggere Glaedr. Ora che Oromis è morto, avremo bisogno della sua forza e della sua saggezza più che mai.»
Non preoccuparti, Arya, non permetteremo che gli accada nulla di male, promise Saphira.
Eragon ricoprì l'Eldunarí con la tela del sacco e, le dita intorpidite dalla stanchezza, armeggiò qualche istante prima di riuscire a riannodare lo spago. I Varden avevano riportato un'importante vittoria e gli elfi avevano conquistato Gil'ead, ma i due successi non gli davano alcuna gioia. Guardò Nasuada e chiese: «E adesso?»
Nasuada alzò il mento. «Adesso» disse «marceremo verso nord su Belatona, e quando l'avremo conquistata procederemo fino a Dras-Leona ed espugneremo anche quella. E poi a Urû'baen, da Galbatorix, dove sarà vittoria o morte. Ecco che cosa faremo adesso, Eragon.»
Dopo essersi separati da Nasuada, Eragon e Saphira acconsentirono a lasciare Feinster per andare nell'accampamento dei Varden, dove avrebbero potuto riposare indisturbati, lontani dai rumori della città. Circondati da Blödhgarm e dal resto delle guardie, si avviarono verso il cancello principale di Feinster senza scambiarsi una parola.
Eragon, stringendo ancora fra le braccia il cuore dei cuori di Glaedr, teneva lo sguardo fisso a terra. Non badava agli uomini che gli passavano accanto correndo o marciando; il suo ruolo nella battaglia era concluso, e non desiderava altro che coricarsi e dimenticare i luttuosi eventi di quel giorno. Le ultime sensazioni ricevute da Glaedr gli riverberavano ancora nella mente: Era solo. Era solo e al buio... Solo! Gli si mozzò il respiro e si sentì salire un conato di vomito. Dunque è questo che si prova quando perdi il tuo Cavaliere o il tuo drago. Non c'è da stupirsi se Galbatorix è impazzito.
Siamo gli ultimi, disse Saphira.
Eragon aggrottò la fronte, senza capire.
L'ultimo drago libero e il suo Cavaliere, spiegò lei. Siamo gli unici rimasti. Siamo...
Soli.
Sì.
Eragon inciampò in un sasso che non aveva notato. Col cuore gonfio di
dolore, chiuse gli occhi per un attimo. Non possiamo farcela da soli, pensò. Non possiamo! Non siamo pronti. Saphira annuì, e il suo dolore e la sua angoscia, sommati a quelli di lui, divennero quasi insopportabili.
Quando arrivarono ai cancelli della città, Eragon si fermò, riluttante a farsi strada fra l'enorme folla che gremiva l'uscita per fuggire da Feinster. Si guardò intorno in cerca di un'altra strada. Quando il suo sguardo passò sulle imponenti mura di cinta, fu preso dall'improvviso desiderio di vedere la città alla luce del giorno.
Allontanandosi di colpo da Saphira, corse su per una scala che portava in cima alle mura. Saphira emise un breve ringhio d'irritazione e lo seguì, dispiegando in parte le ali per saltare dalla strada sul parapetto. Rimasero insieme sui bastioni per quasi un'ora a guardare il sorgere del sole. Uno dopo l'altro, i pallidi raggi di luce dorata lambirono i campi verdeggianti, illuminando le miriadi di particelle di polvere che fluttuavano in aria. Quando i raggi colpirono una colonna di fumo, il fumo risplendette di arancio e di rosso, gonfiandosi e salendo più veloce verso il cielo. Gli incendi fra le baracche ai piedi delle mura della città si erano quasi spenti, ma durante la battaglia una ventina di case all'interno di Feinster erano state incendiate, e le alte lingue di fuoco conferivano alla città una bellezza inquietante. Oltre Feinster, l'oceano scintillante si estendeva fino al piatto orizzonte, dove le vele di una nave che navigava verso nord si scorgevano appena.
Mentre il sole riscaldava Eragon trafiggendo la sua armatura, la malinconia cominciò a dissiparsi come le volute di nebbia che inghirlandavano i fiumi. Trasse un profondo respiro ed espirò, più calmo.
No, disse. Non siamo soli. Io ho te e tu hai me. E ci sono Arya e Nasuada e Orik. E molti altri ancora che ci aiuteranno lungo la strada.
E anche Glaedr, disse Saphira.
Già.
Eragon abbassò lo sguardo sull'Eldunarí che teneva fra le braccia e provò un impeto di compassione e di protezione nei confronti del drago intrappolato nel cuore dei cuori. Strinse la pietra al petto e posò una mano sul fianco di Saphira, grato per la loro compagnia.
Possiamo farcela, pensò. Galbatorix non è invincibile. Ha un punto debole, e noi possiamo usarlo contro di lui. Possiamo farcela.
Possiamo e dobbiamo, disse Saphira.
Per il bene dei nostri amici, della nostra famiglia, e...
... per il resto di Alagaësia...
... dobbiamo farcela.
Eragon sollevò l'Eldunarí di Glaedr sopra la testa, presentandolo al sole e al nuovo giorno, e sorrise, ansioso di scendere di nuovo in battaglia, affinché lui e Saphira potessero finalmente affrontare Galbatorix e uccidere il re oscuro.
FINE DEL LIBRO TERZO
La storia continuerà e si concluderà
con il Libro Quarto
del Ciclo dell'Eredità
L'ORIGINE DEI NOMI
A un osservatore distratto, i vari nomi che un intrepido viaggiatore incontra nel vasto territorio di Alagaësia possono sembrare un banale miscuglio di appellativi senza una propria coerenza interna, cultura o storia. Tuttavia, come per qualsiasi altro paese che differenti culture - e in questo caso differenti razze - hanno ripetutamente colonizzato, Alagaësia deriva i suoi toponimi da una vasta gamma di fonti, fra cui la lingua dei nani, degli elfi, degli umani e persino degli Urgali. Di conseguenza, abbiamo la Valle Palancar (nome umano), i fiumi Anora e Ristvak'baen (nomi elfici) e il monte Utgard (nome nanesco) a breve distanza l'uno dall'altro in un'area di poche miglia quadrate.
Sebbene questo sia di rilevante interesse storico, nella pratica si genera parecchia confusione sulla corretta pronuncia dei nomi. Purtroppo, non esistono regole prestabilite per il neofita. La confusione aumenta quando ci si rende conto che in molti luoghi la popolazione locale ha alterato le parole straniere per adattarle alla propria lingua. Il fiume Anora ne è un esempio. In origine anora era äenora, che nell'antica lingua significa grande. Gli umani semplificarono la parola per i loro testi scritti e crearono così il nome che compare ai tempi di Eragon.
Gli interessati sono invitati a studiare le lingue di origine per coglierne le intrinseche sottigliezze. Buon lavoro.
GLOSSARIO
L'ANTICA LINGUA
Adurna rïsa: Acqua, sollevati.
Agaetí Blödhren: Celebrazione del Giuramento di Sangue (si tiene una volta ogni cento anni per onorare l'antico patto fra elfi e draghi)
Älfa-kona: donna elfo
Äthalvard: una congregazione di elfi che si dedica alla conservazione delle canzoni e delle poesie elfiche
Atra du evarínya ono varda, Däthedr-vodhr: Che le stelle ti proteggano, onorevole Däthedr.
Atra esterni ono thelduin, Eragon Shur'tugal: Che la fortuna ti assista, Eragon Cavaliere dei Draghi.
Atra guliä un ilian tauthr ono un atra ono waíse sköliro fra rauthr: Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere protetto dalla sventura.
Audr: su
Bjartskular: Squamediluce
Blödhgarm: Lupo di Sangue
Brisingr: fuoco
Brisingr, iet tauthr: Fuoco, seguimi.
Brisingr raudhr!: Fuoco rosso!
Deyja: Muori Draumr kópa: Rifletti l'immagine
Dröttningu: principessa
Du deloi lunaea: Spiana la terra / polvere.
Du Namar Aurboda: La Revoca dei Nomi
Du Vrangr Gata: Il Tortuoso Cammino
Edur: uno sperone roccioso o un promontorio
Eka eddyr aì Shur'tugal... Shur'tugal... Argetlam: Sono un Cavaliere dei Draghi... Cavaliere dei Draghi... Mano d'Argento.
Eka elrun ono: Ti ringrazio.
Elda: appellativo onorifico di genere neutro di grande rispetto.
Eldhrimner O Loivissa nuanen, dautr abr deloi / Eldhrimner nen ono weohnataí medh solus un thringa / Eldhrimner un fortha onr fëon vara / Wiol allr sjon: Cresci, o splendido Loivissa, figlio della terra / Cresci come faresti col sole e con la pioggia / Cresci e fai sbocciare il tuo fiore di primavera / Perché tutti lo vedano.
Eldunarí: il cuore dei cuori
Erisdar: lanterne senza fiamma usate sia dagli elfi che dai nani (dal nome dell'elfo che le inventò)
Faelnirv: liquore elfico Fairth: quadro realizzato con mezzi magici su lastra di ardesia
Fell: montagna
Finiarel: suffisso onorifico usato per giovani uomini di grandi speranze, unito al nome con un trattino
Flauga: Vola
Fram: avanti
Fricai onr eka eddyr: Sono tuo amico.
Ganga: Vai Garjzla, letta!: Luce, fermati!
Gedwëy ignasia: palmo luccicante
Helgrind: I Cancelli della Morte Indlvarn: un determinato tipo di legame fra un Cavaliere e un drago
Jierda: Spezza; colpisci
Könungr: re
Kuldr, rïsa lam iet un malthinae unir böllr: Oro, sali sulla mia mano e trasformati in sfera.
Kveykva: fulmine
Làmarae: tessuto fatto di lana intrecciata con fili di ortica (simile per consistenza al mistolana, ma di qualità migliore)
Letta!: Ferma!
Liduen Kvaedhí: Poetica Scrittura
Loivissa: giglio azzurro che cresce entro i territori dell'Impero
Maela: Silenzio; taci
Naina: Illumina
Nalgask: miscela di cera d'api e olio di noci usata per idratare la pelle
Nen ono weohnata, Arya Dröttningu: Come desideri, principessa Arya.
Seithr: strega
Shur'tugal: Cavaliere dei Draghi
Slytha: Dormi
Stenr rïsa!: Pietra, sollevati!
Svit-kona: appellativo onorifico e formale per una donna elfica di grande saggezza
Talos: cactus che cresce intorno all'Helgrind
Thaefathan: Ingrossa
Thorta du ilumëok Di' la verità!
Vakna: Svegliati
Vodhr: appellativo onorifico maschile di medio rispetto
Waíse heill!: Guarisci!
Yawë: un pegno di fiducia
LA LINGUA DEI NANI
Ascûdgamln: Pugni d'acciaio
Az Knurldrâthn: Gli Alberi di Pietra
Az Ragni: Il Fiume
Az Sartosvrenht rak Balmung, Grimstnzborith rak Kvisagûr: La Saga di
Re Balmung di Kvisagûr
Az Sindriznarrvel: La Gemma di Sindri
Barzûl: augurare a qualcuno la malasorte
Delva: termine usato per esprimere affettuosità fra i nani; anche un tipo
di pepita d'oro tipica dei Monti Beor che i nani tengono in grande valore
Dûr: nostro
Dûrgrimst: clan (letteralmente, "il nostro casato" o "la nostra dimora")
Dûrgrimstvren: guerra di clan Eta: No
Eta! Narho ûdim etal os isû vond! Narho ûdim etal os formvn mendûnost brakn, az Varden, hrestvog dûr grimstnzhadn! Az Jurgenvren qathrid né domar oen etal...: No! Non permetterò che accada! Non lascerò che questi stolti senza barba, i Varden, distruggano il nostro paese. La Guerra dei Draghi ci ha lasciati deboli e non...
Fanghur: creature simili a draghi, ma più piccole e meno intelligenti dei loro cugini (native dei Monti Beor)
Farthen Dûr: Padre Nostro
Feldûnost: Barbabianca (una specie di capra nativa dei Monti Beor)
Gàldhiem: testa chiara / lucente
Ghastgar: gara di tiro con le lance simile alle giostre medievali, e combattuta in groppa alle Feldûnost
Grimstborith: capoclan (letteralmente "capo della casa"; il plurale è grimstborithn)
Grimstcarvlorss: patrona del casato
Grimstnzborith: sovrano dei nani, re o regina indifferentemente (letteralmente "capo delle case")
Hûthvír: arma costituita da un bastone a doppia lama, usata dal Dûrgrimst Quan
Hwatum il skilfz gerdûmn!: Ascolta le mie parole!
Ingeitum: metallurgici; fabbri
Isidar Mithrim: Zaffiro Stellato
Knurla: nano (letteralmente, "uomo di pietra"; plurale knurlan)
Knurlaf: donna / lei
Knurlag: uomo / lui
Knurlagn: uomini
Knurlcarathn: muratori; scalpellini
Knurlnien: Cuore di Pietra
Ledwonnû: collana di Kílf; usato anche come termine generico per collana
Menknurlan: coloro che non sono, o sono senza, pietra (il peggior insulto nella lingua dei nani, difficilmente traducibile)
Mérna: lago / pozza
Nagra: cinghiale gigante, nativo dei Monti Beor
Nal, Grimstnzborith Orik!: Salve, re Orik!
Ornthrond: occhio d'aquila
Ragni Darmn: Fiume dei Pesciolini Rossi
Ragni Hefthyn: Guardia del Fiume
Shrrg: lupo gigante, nativo dei Monti Beor
Skilfz Delva: Mio / mia Delva (vedere delva per la traduzione)
Thriknzdal: linea di tempra sulla lama di un'arma a tempra differenziale
Tronjheim: Elmo dei Giganti
Ûn qroth Gûntera!: Così parlò Gûntera!
Urzhad: orso delle caverne
Vargrimst: senzaclan / bandito
Werg: l'equivalente in lingua dei nani di bleah (usato ironicamente nel toponimo Werghadn. Werghadn si traduce con "la terra del bleah" o, più liberamente, "la brutta terra")
LA LINGUA DEI NOMADI
No: suffisso onorifico usato col nome della persona che si rispetta LA
LINGUA DEGLI URGALI
Herndall: femmine Urgali che governano le tribù
Namna: strisce di tessuto contenenti le storie familiari degli Urgali, collocate all'ingresso delle loro capanne
Nar: titolo di genere neutro di grande rispetto
Urgralgra: nome con cui gli Urgali definiscono se stessi (letteralmente, "quelli con le corna")
RINGRAZIAMENTI
Kvetha Fricäya. Salve, amici.
Brisingr è stato un libro divertente, intenso e a volte difficile da scrivere. Quando ho cominciato, avevo la sensazione che la storia fosse un enorme rompicapo tridimensionale che dovevo risolvere senza indizi o istruzioni. Ho trovato questa esperienza molto soddisfacente, malgrado le sfide che spesso mi sono ritrovato davanti.
A causa della sua complessità, Brisingr ha finito per essere molto più lungo di quanto avessi previsto - così lungo, in effetti, che ho dovuto ampliare la serie da tre a quattro libri. Di conseguenza, la Trilogia dell'Eredità è diventata il Ciclo dell'Eredità. Comunque sono contento di questo cambiamento. Avere in progetto un altro libro della saga mi ha consentito di esplorare e sviluppare il carattere dei personaggi e le relazioni fra di loro con un ritmo più naturale.
Come nel caso di Eragon ed Eldest, non sarei mai stato capace di completare questo libro senza il sostegno di innumerevoli persone di talento, alle quali sarò per sempre riconoscente. E sono:
A casa: la mamma, per i suoi manicaretti, i suoi tè, i suoi consigli, la sua comprensione, la sua pazienza infinita e il suo ottimismo; il papà, per il suo singolare modo di vedere le cose, per le sue acute osservazioni sulla storia e la prosa, per avermi aiutato a decidere il titolo del libro, e per la trovata di far incendiare la spada di Eragon ogni volta che viene pronunciato il suo nome (che idea geniale!); e la mia unica fin tutti i sensi) sorella Angela per aver accettato ancora una volta che riprendessi il suo personaggio e per tutte le numerose informazioni su nomi, piante e cose di lana.
Alla Writers House: Simon Lipskar, il mio agente, per la sua amicizia, il suo duro lavoro e il necessario calcio nel sedere che mi ha dato agli inizi di Brisingr (senza il quale probabilmente avrei impiegato altri due anni per finire il libro); e il suo assistente Josh Getzler, per tutto quello che fa per Simon e per il Ciclo dell'Eredità.
Alla Knopf: la mia editor, Michelle Frey, per lo sfibrante lavoro di collaborazione nello sfoltire e consolidare il manoscritto (la prima bozza era molto più lunga); l'editor associato Michele Burke, che ha contribuito all'opera di editing e alla realizzazione delle sinossi di Eragon ed Eldest; il direttore delle comunicazioni e marketing Judith Haut, che fin dagli esordi ha sparso la voce della serie in tutto il Paese; il direttore della pubblicità Christine Labor; l'art director Isabel Warren-Lynch e la sua squadra per aver realizzato ancora una volta un libro elegante; John Jude Palencar per la maestosa immagine di copertina (non so come potrà superarsi col quarto volume!); il caporedattore Artie Bennett per la grande cura ed esperienza nel controllare ogni parola, vera o inventata, di Brisingr; Chip Gibson, direttore della divisione ragazzi della Random House; il direttore editoriale della Knopf, Nancy Hinkel, per il suo incrollabile sostegno; il direttore delle vendite Joan DeMayo e la sua squadra (hip hip urrà, e mille grazie!); il responsabile marketing John Adamo, la cui squadra ha creato tutto lo straordinario materiale di marketing; Linda Leonard, del settore nuovi media, per la sua ragguardevole opera di marketing online; Linda Palladino, Milton Wackerow e Carol Naughton, della produzione; Pam White, Jocelyn Lange e il resto della squadra dei diritti sussidiari, che hanno fatto un lavoro straordinario nel vendere il Ciclo dell'Eredità all'estero; Janet Renard per la revisione delle bozze; e tutti gli altri della Knopf che mi hanno sostenuto.
Alla Listening Library: Gerard Doyle, che dà vita al mondo di Alagaësia con la sua voce; Taro Meyer per aver colto perfettamente la pronuncia delle mie lingue; Orli Moscowitz per aver tirato le fila; e Amanda D'Acierno, editor della Listening Library.
Grazie a tutti voi.
The Craft of the Japanese Sword, di Leon e Hiroko Knapp e Yoshindo Yoshihara, mi ha fornito gran parte delle informazioni necessarie a descrivere minuziosamente il processo di fusione e forgiatura nel capitolo "La mente sul metallo". Raccomando vivamente questo libro a chi voglia approfondire l'arte della forgiatura delle spade (giapponese in particolare). Lo sapevate che i fabbri giapponesi accendevano il fuoco battendo con un martello l'estremità di una sbarra di ferro finché non diventava incandescente, per poi avvicinarla a un mucchio di trucioli di cedro ricoperti di zolfo?
E per quelli che hanno capito l'allusione al "dio solitario", quando Eragon e Arya sono seduti davanti al falò, la mia unica scusante è che Doctor Who può viaggiare ovunque, perfino nelle realtà alternative.
Ehi, anch'io sono un suo fan!
E infine, ma soprattutto, grazie a voi lettori. Grazie di aver letto Brisingr. E grazie per la fedeltà dimostrata in tutti questi anni al Ciclo dell'Eredità. Senza il vostro sostegno non avrei mai potuto scrivere questa serie, e non riesco a immaginare che mi sarebbe piaciuto fare.
Ancora una volta le avventure di Eragon e Saphira sono finite, e ancora una volta siamo arrivati alla fine di questo tortuoso cammino... ma solo per il momento. Molte miglia ancora ci aspettano. Il quarto libro sarà pubblicato non appena l'avrò terminato e vi prometto che sarà il più emozionante.
Non vedo l'ora che lo leggiate!
Sé onr sverdar sitja hvass!
Christopher Paolini 20 settembre 2008
FINE