Gli altri soldati tenevano le lance puntate contro Eragon e Arya. Erano così impolverati che le fiamme ricamate sulle loro casacche non si vedevano nemmeno.


«Allora» disse l'uomo, e i suoi baffi oscillarono come i bracci di una bilancia. «Chi siete? Dove state andando? Che cosa ci fate nelle terre del re?» Agitò una mano. «No, non vi disturbate a rispondere. Non importa. Oggigiorno niente ha più importanza. Il mondo sta per finire, e noi sprechiamo il nostro tempo a interrogare i contadini. Bah! Vermi superstiziosi che strisciano da un posto all'altro, divorando tutto il cibo della terra e riproducendosi a un ritmo impressionante. Nel podere della mia famiglia a Urû'baen avremmo frustato quelli come voi, sorpresi a vagabondare senza permesso, e se avessimo saputo che avevate rubato al vostro padrone, be', vi avremmo impiccati. Qualunque cosa stiate per dirmi sarà una bugia. È sempre così...


«Cos'avete in quegli zaini? Cibo e coperte, sì, ma forse anche un bel paio di candelieri d'oro, eh? Argenteria sottratta da un forziere? Lettere segrete per i Varden? Allora? Il gatto vi ha mangiato la lingua? Be', lo scopriremo presto. Langward, perché non vedi quali tesori riesci a trovare nello zaino di quel moccioso, da bravo?»


Eragon barcollò in avanti quando uno dei soldati lo colpì sulle reni con l'asta della lancia. Aveva avvolto le parti dell'armatura negli stracci per non farle sbatacchiare, ma gli stracci si rivelarono troppo sottili per assorbire l'impatto e attutire il clangore metallico.


«O-ho!» esclamò l'uomo coi baffi.


Afferrato Eragon per la nuca, il soldato slegò i cordoni dello zaino e ne tirò fuori il suo usbergo, dicendo: «Capitano, guarda qui!»


L'uomo coi baffi sogghignò estasiato. «Un'armatura! E anche di ottima fattura, direi. Bene, sei pieno di sorprese. Stavi andando dai Varden, non è così? Un traditore sedizioso, eh?» La sua espressione s'inacidì. «O sei uno di quelli che danno ai soldati onesti una cattiva nomea? In questo caso, sei un mercenario incompetente: non hai nemmeno un'arma. Era troppo disturbo per te procurarti un bastone o una mazza, eh? Allora, cosa dici? Rispondi!»


«No, capitano.»


«No, capitano? Non ti è venuto in mente, immagino. È uno strazio, dover accettare certi miserabili idioti, ma così ci ha ridotto questa dannata guerra, ad accontentarci degli avanzi.»


«Accettarmi dove, capitano?»


«Zitto, bastardo insolente! Nessuno ti ha dato il permesso di parlare!» Con i baffi frementi, l'uomo fece un brusco cenno. Il soldato alle spalle di Eragon lo colpì sulla testa e una miriade di puntini rossi esplose davanti ai suoi occhi. «Che tu sia un ladro, un traditore, un mercenario o soltanto uno stupido, il tuo destino sarà lo stesso. Una volta che avrai pronunciato il giuramento di coscrizione, non avrai scelta se non obbedire a Galbatorix e a quelli che lo rappresentano. Noi siamo il primo esercito nella storia a non avere dissidenti. Nessuna inutile discussione su quello che si deve o non si deve fare. Soltanto ordini, precisi e diretti. Anche tu ti unirai alla nostra causa e avrai il privilegio di contribuire a realizzare il glorioso futuro che il nostro grande re ha previsto per tutti noi. Quanto alla tua deliziosa compagna, ci sono altri modi in cui potrà rendersi utile all'Impero, dico bene? Forza, legateli!»


Eragon sapeva che cosa doveva fare. Quando le lanciò uno sguardo di sottecchi, scoprì che Arya lo stava già fissando con espressione decisa e implacabile. Eragon ammiccò. Lei ricambiò con un battito di ciglia. La mano di Eragon si strinse intorno al ciottolo.


La maggior parte dei soldati contro cui Eragon aveva combattuto sulle Pianure Ardenti erano protetti da alcuni rudimentali incantesimi atti a difenderli dagli attacchi magici, ed Eragon sospettava che questi fossero equipaggiati allo stesso modo. Era sicuro di poter spezzare o aggirare qualsiasi incantesimo evocato dagli stregoni di Galbatorix, ma ci sarebbe voluto più tempo di quanto ne aveva a disposizione in quel momento. Allora ritrasse il braccio e con uno scatto del polso scagliò il sasso contro l'uomo coi baffi.


Il sasso trapassò l'elmo e il cranio del capitano.


Prima che i soldati avessero modo di reagire, Eragon piroettò su se stesso, strappò la lancia dalle mani del soldato che lo stava tormentando e la usò per disarcionarlo. Mentre l'uomo cadeva a terra, Eragon gli trafisse il cuore, spezzando la punta della lancia contro le placche metalliche della giubba imbottita del soldato. Lasciando l'asta dov'era, si tuffò in avanti, volando rasente il terreno mentre sette lance lo sfioravano e si conficcavano nel punto in cui si trovava un istante prima.


Nel momento stesso in cui Eragon aveva scagliato il ciottolo, Arya si era avventata sul fianco del cavallo più vicino a lei, balzando dalla staffa alla sella e sferrando un calcio alla testa del cavaliere ignaro. L'uomo volò a oltre trenta piedi di distanza. Poi Arya prese a balzare da un cavallo all'altro, uccidendo i soldati con le ginocchia, i piedi e le mani, in un'incredibile dimostrazione di grazia ed equilibrio.


Pietre appuntite affondarono nell'addome di Eragon quando rotolò fino a fermarsi. Con una smorfia, si trasse in piedi di scatto. Quattro soldati, smontati da cavallo, lo affrontarono con le spade sguainate. Caricarono. Scartando a destra, Eragon afferrò il polso del primo soldato che stava mulinando la spada e gli sferrò un pugno sotto l'ascella. L'uomo stramazzò a terra e rimase immobile. Eragon si liberò di altri due aggressori torcendo loro la testa finché le vertebre del collo non si spezzarono. Il quarto era troppo vicino, ormai, e gli correva incontro con la spada alzata. Eragon non poteva schivarlo.


In trappola, fece l'unica cosa che gli era possibile: colpì l'uomo al petto con tutta la forza. Una fontana di sangue e sudore sprizzò dal punto d'impatto. Il pugno sfondò la cassa toracica dell'uomo, che volò all'indietro di una dozzina di piedi, crollando su un altro cadavere riverso nell'erba.


Eragon ansimò e si piegò in due, massaggiandosi la mano dolorante. Si era lussato quattro nocche e la cartilagine bianca spuntava dalla pelle martoriata. Dannazione, pensò, mentre sangue caldo fiottava dalle ferite. Le dita si rifiutarono di muoversi al suo ordine; si rese conto che la mano era inutilizzabile fino al momento in cui non l'avesse guarita. Temendo un altro attacco, si guardò intorno in cerca di Arya e del resto dei soldati.


I cavalli si erano sparpagliati. Restavano in vita soltanto tre uomini. Arya si stava occupando di due soldati insieme, mentre il terzo fuggiva a gambe levate verso sud. Facendo appello alle sue forze, Eragon si lanciò all'inseguimento. Mentre colmava la distanza, l'uomo cominciò a implorare pietà, promettendo che non avrebbe raccontato a nessuno del massacro e tendendo le mani con i palmi aperti per dimostrare che era disarmato. Quando Eragon gli fu quasi addosso, l'uomo sterzò di lato e dopo qualche passo cambiò di nuovo direzione, zigzagando per la campagna come un coniglio terrorizzato. Continuava a supplicarlo, con le lacrime che gli rigavano le guance, dicendo che era troppo giovane per morire, che doveva ancora sposarsi e diventare padre, che i suoi genitori sarebbero morti di dolore, che era stato costretto ad arruolarsi nell'esercito e quella era soltanto la sua quinta missione, e perché Eragon non poteva lasciarlo in pace? «Perché ce l'hai con me?» singhiozzò. «Ho soltanto fatto il mio dovere. Sono una brava persona!»


Eragon esitò, poi si costrinse a dire: «Non puoi tenere il passo con noi. E non possiamo lasciarti libero; prenderesti un cavallo e ci tradiresti.»


«No, mai!»


«Ti chiederanno che cosa è successo qui. Il tuo giuramento a Galbatorix e all'Impero non ti consentirà di mentire. Mi dispiace, ma non so come liberarti dal tuo vincolo, se non...»


«Perché fai questo? Sei un mostro!» gridò l'uomo. Con un'espressione di puro terrore, fece un tentativo di aggirare Eragon e tornare sulla strada. Eragon lo raggiunse in meno di dieci passi e, mentre l'uomo ancora piangeva e implorava misericordia, gli cinse il collo con il braccio sinistro e strinse forte. Quando allentò la presa, l'uomo crollò ai suoi piedi, morto.


Eragon si sentì ricoprire la lingua di bile guardando la faccia cerea del soldato. Quando uccidiamo, uccidiamo una parte di noi stessi, pensò. Scosso da brividi in parte di sgomento, in parte di dolore, in parte di disprezzo di sé, tornò dov'era cominciata la schermaglia. Arya era inginocchiata accanto a un cadavere, intenta a lavarsi le mani e le braccia con l'acqua della borraccia del soldato.


«Come mai» gli chiese Arya «sei riuscito a uccidere quell'uomo, ma non hai potuto mettere un dito addosso a Sloan?» Si alzò e lo guardò dritto negli occhi.


Svuotato di ogni emozione, Eragon si strinse nelle spalle. «Era una minaccia. Sloan no. Non è ovvio?»


Arya rimase in silenzio per un po'. «Dovrebbe, ma per me non lo è... Mi vergogno di dover prendere lezioni di moralità da una persona con così scarsa esperienza. Forse sono stata troppo sicura, troppo convinta delle mie scelte.»


Eragon la sentiva parlare, ma le sue parole non gli dicevano niente mentre il suo sguardo vagava sui corpi inerti. È questo che è diventata la mia vita? si chiese. Una serie ininterrotta di battaglie? «Mi sento un assassino.»


«Capisco quanto è difficile per te» disse Arya. «Ricorda, Eragon, tu hai sperimentato soltanto una piccola parte di ciò che significa essere un Cavaliere dei Draghi. Questa guerra finirà prima o poi, e tu capirai che i tuoi doveri vanno ben oltre la violenza. I Cavalieri non erano soltanto guerrieri, ma guaritori, maestri e studiosi.»


Eragon serrò la mascella. «Perché combattiamo contro questi uomini, Arya?»


«Perché si frappongono tra noi e Galbatorix.»


«Allora dovremmo trovare un modo per colpire direttamente Galbatorix.»


«Non esiste alcun modo. Non possiamo marciare fino a Urû'baen finché non avremo sbaragliato il suo esercito. E non possiamo entrare nel suo castello finché non avremo disarmato quasi un secolo di trappole, magiche e meccaniche.»


«Dev'esserci un modo» borbottò Eragon. Rimase dov'era mentre Arya andava a prendere una lancia. Ma quando lei posò la punta della lancia sotto il mento di un soldato ucciso e spinse fino a fargliela entrare nel cranio, Eragon si avventò su di lei e l'allontanò con una spinta. «Che cosa fai?» gridò.


Una collera feroce balenò sul volto di Arya. «Ti perdono solo perché sei sconvolto e non ragioni lucidamente. Rifletti, Eragon! È troppo tardi per negare l'evidenza. Perché è necessario?»


La risposta gli arrivò come una frustata, e a malincuore Eragon rispose: «Perché se non lo facciamo, l'Impero noterà che la maggior parte degli uomini sono stati uccisi a mani nude.»


«Giusto! E gli unici in grado di farlo sono gli elfi, i Cavalieri e i Kull. E dato che perfino un imbecille capirebbe che un Kull non è responsabile di questo massacro, ben presto si renderanno conto che ci troviamo nei dintorni e in meno di un giorno Castigo e Murtagh voleranno qui a cercarci.» Un risucchio liquido accompagnò il gesto di Arya che strappava la lancia dal cadavere. L'elfa la tenne tesa verso Eragon finché lui non la prese. «Anch'io lo trovo ripugnante, perciò aiutami e facciamo in fretta.»


Eragon annuì. Arya recuperò una spada e insieme si misero al lavoro per dare l'impressione che fosse stata una squadra di ordinari guerrieri ad aver ucciso i soldati. Fu un lavoro sporco ma rapido, perché entrambi sapevano con precisione quale tipo di ferite i soldati avrebbero dovuto esibire per trarre in inganno, e nessuno dei due aveva voglia di indugiare. Quando arrivarono all'uomo col torace sfondato da Eragon, Arya disse: «Possiamo fare ben poco per mascherare una ferita come questa. Lasciamolo così e speriamo che pensino che sia stato travolto da un cavallo.» Si spostarono oltre. L'ultimo soldato era il capitano della pattuglia. I suoi baffi ciondolavano inerti e avevano perso parte del loro splendore.


Dopo aver allargato il foro del ciottolo perché sembrasse la tacca triangolare lasciata dalla punta di un martello da guerra, Eragon riposò un istante, contemplando i baffi tristi del capitano, e disse: «Sai, aveva ragione.»


«Su cosa?»


«Sul fatto che mi serve un'arma, un'arma vera. Ho bisogno di una spada.» Asciugandosi le mani con l'orlo della tunica, scrutò la pianura intorno a loro, contando i corpi. «Allora, è fatta. Abbiamo finito.» Senza dire altro, si accinse a raccogliere i pezzi sparsi della sua armatura, li riavvolse negli stracci e li rimise in fondo allo zaino. Poi raggiunse Arya sul poggio dov'era salita.


«Sarà meglio evitare le strade, d'ora in poi» disse lei. «Non possiamo rischiare un altro incontro con gli uomini di Galbatorix.» Indicando la mano destra di Eragon, che grondava sangue sulla tunica, disse: «Dovresti guarirla prima che ci rimettiamo in marcia.» E senza aspettare risposta, gli afferrò le dita paralizzate e disse: «Waíse heill.»


A Eragon sfuggì un gemito involontario mentre le articolazioni delle dita ritornavano nella loro sede, e i tendini lacerati e la cartilagine massacrata riacquistavano il pieno vigore, e i lembi di pelle che gli pendevano dalle nocche tornavano a coprire la carne viva. Quando l'incantesimo fu concluso, il giovane aprì e chiuse la mano per confermare la completa guarigione. «Grazie» disse. Lo sorprese che Arya avesse preso l'iniziativa pur sapendo che lui era del tutto capace di guarirsi da solo.


Lei parve imbarazzata. Distogliendo lo sguardo per contemplare la vastità della pianura, disse: «Sono felice di averti avuto al mio fianco oggi, Eragon.»


«Lo stesso vale per me.»


Arya gli rivolse un fugace, incerto sorriso. Indugiarono sul poggio per un altro minuto; nessuno dei due era ansioso di riprendere il viaggio. Poi lei sospirò e disse: «Dobbiamo andare. Le ombre si allungano. Prima o poi arriverà qualcuno, e quando scopriranno questo banchetto per i corvi ci daranno la caccia.»


Scesero dal poggio e si avviarono verso sud-ovest, deviando dalla strada, e correndo a grandi balzi nell'ondulato mare d'erba. Alle loro spalle, il primo mangiacarogne calò dal cielo.

OMBRE DEL PASSATO

Quella notte Eragon sedeva davanti al piccolo falò, masticando una foglia di tarassaco. Avevano cenato con radici, semi ed erbe raccolte da Arya nella campagna intorno: crude e prive di condimento, non erano certo invitanti, ma Eragon aveva preferito non arricchire la sua razione con un coniglio o un uccello, pur abbondanti nei paraggi, perché non voleva che Arya lo guardasse con disgusto. Per giunta, dopo il feroce scontro con i soldati, il pensiero di stroncare un'altra vita, fosse pure di un animale, gli dava la nausea.

Era tardi, e avrebbero dovuto rimettersi in marcia molto presto l'indomani, ma né lui né Arya davano segno di volersi coricare. Lei era seduta alla sua destra, un po' discosta, con le braccia strette intorno alle gambe raccolte e il mento sulle ginocchia. La gonna le si allargava intorno come la corolla di un fiore.

Il mento affondato nel petto, Eragon si massaggiava la mano destra con la sinistra, nel tentativo di alleviare l'intenso dolore. Mi serve una spada, pensò. Finché non me ne procuro una, devo trovare una protezione per le mani, per non storpiarmi quando colpisco qualcosa. Il problema è che adesso sono così forte che dovrei portare guanti con parecchi strati d'imbottitura, il che è ridicolo. Sarebbero troppo ingombranti, troppo caldi, e poi non posso indossare guanti per il resto della mia vita. Aggrottò la fronte. Stringendo i pugni, studiò come le ossa sporgenti alteravano il gioco di luce sulla pelle, affascinato dalla malleabilità del suo corpo. E che cosa succede se mi capita di combattere mentre porto l'anello di Brom! È di origine elfica, perciò probabilmente non devo temere di spezzare lo zaffiro. Ma se colpisco qualcosa mentre ho l'anello al dito, non mi slogherò solo qualche articolazione, mi fratturerò tutte le ossa della mano... Potrei perfino non riuscire più a riparare il danno... Strinse di nuovo i pugni e li rigirò da una parte e dall'altra, osservando le ombre spostarsi fra le nocche. Potrei inventare un incantesimo per impedire a qualunque oggetto che si avvicini a velocità pericolosa di colpirmi le mani. No, un momento, non va bene. E se fosse un macigno? O una frana? Mi ucciderei nel tentativo di bloccarli.

Be', se guanti e magia non funzionano, mi piacerebbe avere gli Ascûdgamln dei nani, i loro pugni d'acciaio. Con un sorriso ripensò al nano Shrrgnien che si era fatto impiantare in ogni nocca, tranne che nei pollici, un dado di metallo a cui avvitava dei chiodi d'acciaio. I chiodi permettevano a Shrrgnien di colpire qualunque cosa senza timore di farsi male, e si potevano anche svitare a piacimento. L'idea era allettante, ma Eragon non aveva alcuna intenzione di farsi trapanare le nocche. E poi, pensò, le mie ossa sono più sottili di quelle dei nani, troppo, forse, per inserirvi un dado di metallo senza che le articolazioni ne risentano... D'accordo, gli Ascûdgamln non sono una buona idea, ma forse potrei...

Avvicinando la bocca alle mani, mormorò: «Thaefathan.»


Il dorso delle mani cominciò a formicolargli e a prudergli come se le avesse infilate in un cespuglio di ortiche. La sensazione era così intensa e spiacevole che gli fece venir voglia di grattarsi furiosamente. Con un enorme sforzo di volontà, rimase immobile a osservare la pelle delle nocche che si gonfiava, formando un callo bianco spesso mezzo pollice su ciascuna. Somigliavano ai depositi cornei all'interno delle zampe dei cavalli. Quando fu soddisfatto della grandezza e della densità dei noduli, interruppe il flusso di magia e cominciò a esplorare con la vista e il tatto le nuove collinette che si ergevano sulle sue nocche.


Le mani erano più pesanti e rigide di prima, ma riusciva ancora a flettere le dita senza problemi. Saranno brutte, pensò, massaggiando le protuberanze della mano destra contro l'altro palmo, e la gente riderà quando le vedrà, ma non m'importa, perché serviranno allo scopo e mi terranno in vita.


Fremente di eccitazione, colpì la sommità di un masso rotondo che spuntava dal terreno fra le sue gambe. L'impatto gli riverberò nel braccio con un tonfo sordo, ma non gli causò più danni che se avesse colpito una tavola di legno coperta da diversi strati d'imbottitura. Eccitato, prese l'anello di Brom dallo zaino e s'infilò al dito la fredda fascia d'oro, controllando che il callo vicino fosse più alto dello zaffiro. Colpì di nuovo la pietra. L'unico suono fu quello delle pelle asciutta e compatta che urtava contro la dura roccia.


«Che cosa stai facendo?» chiese Arya, alzando lo sguardo attraverso la cortina di lunghi capelli neri.


«Niente.» Le mostrò le mani. «Ho pensato che sarebbe stata una buona idea, visto che probabilmente dovrò ancora colpire qualcuno.»


Arya esaminò le sue nocche. «Ti sarà difficile portare i guanti.»


«Posso sempre tagliarli sul dorso per farcele stare.»


Lei annuì e tornò a fissare il fuoco.


Eragon si appoggiò indietro sui gomiti e allungò le gambe, contento di essersi preparato per qualunque tipo di combattimento gli riservasse l'immediato futuro. Più in là non osava spingersi, per evitare di chiedersi come avrebbero fatto lui e Saphira a sconfiggere Murtagh o Galbatorix, e di farsi artigliare il cuore dal panico.


Concentrò lo sguardo sul falò, cercando di dimenticare le sue angosce e le sue responsabilità in quell'inferno palpitante. Ma la danza delle fiamme lo cullò fino a farlo scivolare in una sorta di apatia, dove frammenti di pensieri, suoni, immagini ed emozioni si agitavano dentro di lui come fiocchi di neve turbinanti in un grigio cielo invernale. E nel vortice gli apparve il viso del soldato che gli aveva chiesto pietà. Eragon lo vide di nuovo piangere, e sentì di nuovo le sue disperate invocazioni, e ancora il rumore del collo che si spezzava come un ramo secco.


Tormentato dai ricordi, strinse i denti e respirò forte dalle narici dilatate. Si sentì ricoprire da un velo di sudore freddo. Si agitò, a disagio, e si sforzò di scacciare il fantasma ostile del soldato, ma fu invano. Vattene! gridò. Non è stata colpa mia. È Galbatorix il responsabile della tua morte, non io. Io non volevo ucciderti!


In un punto remoto della pianura buia, un lupo ululò. Qui e là nelle tenebre, gli risposero una ventina di altri lupi, levando le loro voci in una melodia discorde. Eragon sentì formicolare il cuoio capelluto e le braccia nell'udire quel canto soprannaturale. Poi, per un breve istante, gli ululati si fusero in un'unica nota, simile al grido di battaglia di un Kull alla carica.


Eragon si agitò di nuovo, inquieto.


«Cosa c'è?» gli chiese Arya. «Sono i lupi? Non ci daranno fastidio, lo sai. Stanno insegnando ai cuccioli a cacciare, e non permetteranno ai piccoli di avvicinarsi a creature dall'odore strano come il nostro.»


«Non sono i lupi là fuori» disse Eragon, abbracciandosi le gambe. «Sono i lupi qui dentro.» E si batté un dito sulla fronte.


Arya annuì, un guizzo rapidissimo, da uccello, che tradì il fatto che non era una femmina umana, anche se ne aveva assunto le sembianze. «È sempre così. I mostri della mente sono ben peggiori di quelli che esistono nella realtà. Paura, dubbio e odio fanno più danni di quanti ne faccia qualsiasi bestia selvatica.»


«E l'amore» puntualizzò Eragon.


«E l'amore» ammise lei, «e l'avidità, la gelosia e ogni altra ossessione che tormenta le razze senzienti.»


Eragon pensò a Tenga, solo nelle rovine dell'avamposto di Edur Ithindra, accovacciato davanti alla sua preziosa collezione di libri, alla ricerca ossessiva della risposta che gli sfuggiva. Non disse nulla ad Arya dell'eremita, perché in quel momento non voleva parlare di quel curioso incontro. Invece le domandò: «Non ti senti turbata quando uccidi?»


I verdi occhi di Arya si ridussero a due fessure. «Né io né il resto della mia razza mangiamo carne di animali perché non sopportiamo di nuocere a un'altra creatura per soddisfare la nostra fame, e tu hai l'ardire di chiedermi se uccidere ci turba? Possibile che tu ci comprenda così poco da pensare che siamo assassini a sangue freddo?»


«No, certo che no» protestò lui. «Non era questo che intendevo.»


«E allora esprimiti meglio, e non offendere, se non è questa la tua intenzione.»


Scegliendo le parole con estrema cura, Eragon disse: «Ho fatto più o meno la stessa domanda a Roran prima che attaccassimo l'Helgrind. Quello che voglio sapere è come ti senti quando uccidi. Come dovremmo sentirci?» Guardò il fuoco, accigliato. «I guerrieri che hai ucciso tornano mai a fissarti, veri come lo sono io davanti a te?»


Arya strinse ancora di più le braccia intorno alle gambe, pensierosa. Una lingua di fuoco guizzò verso l'alto, carbonizzando una delle falene che volavano intorno al bivacco. «Ganga» mormorò, agitando un dito. Con uno sfarfallio di ali lanuginose, le altre falene si allontanarono. Senza alzare lo sguardo dai ceppi incandescenti, Arya rispose: «Nove mesi dopo essere stata nominata ambasciatrice, l'unica ambasciatrice di mia madre, in realtà, lasciai i Varden del Farthen Dûr per andare nella capitale del Surda, che era ancora un paese giovane a quei tempi. Poco dopo essere partiti dai Monti Beor, i miei compagni e io ci imbattemmo in una banda di Urgali erranti. Noi avremmo tranquillamente proseguito con le spade nei foderi, ma gli Urgali vollero sfidarci per conquistare onore e gloria fra le loro tribù. La nostra forza era superiore alla loro... fra di noi c'era Weldon, l'uomo che succedette a Brom come capo dei Varden... e fu facile sbarazzarsi di quegli Urgali. Fu la prima volta che presi una vita. Quel gesto mi ossessionò per settimane, finché non mi resi conto che sarei impazzita se avessi continuato a pensarci. Molti perdono la ragione, e sono così pieni di rabbia e dolore che non si può più fare affidamento su di loro, oppure i loro cuori si trasformano in pietra e perdono la capacità di distinguere il bene dal male.»


«Come sei riuscita a superare quello che avevi fatto?»


«Ho studiato le ragioni del mio gesto per determinare se erano giuste. Una volta stabilito che sì, lo erano, mi sono chiesta se la nostra causa era tanto importante da continuare a sostenerla, anche a costo di dover uccidere ancora. E infine ho deciso che ogni volta che mi fossero tornati in mente i morti avrei immaginato di trovarmi nei giardini del Palazzo di Tialdarí.»


«E ha funzionato?»


Arya si scostò i capelli dal viso e se li portò dietro un orecchio rotondo. «Sì. L'unico antidoto al corrosivo veleno della violenza è trovare la pace dentro di noi. È una medicina difficile da ottenere, ma ne vale la pena.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Anche la respirazione aiuta.»


«La respirazione?»


«Devi fare respiri lenti, regolari, come se stessi meditando. È uno dei metodi più efficaci per calmarsi.»


Accogliendo il suggerimento, Eragon cominciò a inspirare ed espirare con piena consapevolezza, attento a mantenere un ritmo costante e a svuotare i polmoni a ogni respiro. Nel giro di un minuto, il nodo che gli attanagliava le viscere si allentò, le rughe della fronte si spianarono e la presenza dei nemici uccisi non gli parve più così concreta... I lupi ulularono ancora, ma dopo un primo fremito d'inquietudine, Eragon li ascoltò senza più timore, perché i loro versi avevano perduto il potere di turbarlo. «Grazie» disse. Arya rispose con un leggiadro movimento del capo.


Regnò il silenzio per almeno un quarto d'ora, finché Eragon disse: «Urgali.» Lasciò la parola in sospeso per qualche istante, un monolito verbale di ambiguità. «Cosa pensi del fatto che Nasuada abbia permesso loro di unirsi ai Varden?»


Arya raccolse un fuscello che le si era impigliato nell'orlo della veste e lo rigirò fra le dita affusolate, studiandolo come se contenesse un segreto. «È stata una decisione coraggiosa, e l'ammiro per questo. Nasuada agisce sempre nell'interesse dei Varden, costi quel che costi.»


«Ha fatto infuriare parecchi Varden quando ha accettato l'offerta di aiuto di Nar Garzhvog.»


«E si è riguadagnata la loro fiducia con la Prova dei Lunghi Coltelli. Nasuada è molto abile, quando si tratta di difendere la sua posizione.» Arya lanciò il fuscello nel fuoco. «Non provo simpatia per gli Urgali, ma neppure li odio. Al contrario dei Ra'zac, loro non sono d'animo malvagio, sono solo molto bellicosi. È una distinzione importante, anche se non offre alcuna consolazione alle famiglie delle loro vittime. Noi elfi abbiamo trattato con gli Urgali prima d'ora, e lo faremo di nuovo quando sarà necessario. Vana speranza, a ogni modo.»


Arya non ebbe bisogno di spiegare perché. Molte delle pergamene che Oromis aveva dato da leggere a Eragon erano dedicate all'argomento Urgali, e una in particolare, I viaggi di Gnaevaldrskald, gli aveva insegnato che tutta la cultura Urgali si basava sul combattimento. Gli Urgali maschi potevano migliorare la propria posizione sociale soltanto razziando un altro villaggio - che fosse di Urgali, di umani, di elfi o di nani importava poco - oppure combattendo contro i propri rivali uno per uno, talvolta fino alla morte. E quando era il momento di scegliere un compagno, le femmine Urgali si rifiutavano di prendere in considerazione un maschio che non avesse sconfitto almeno tre avversari. Di conseguenza, ogni nuova generazione di Urgali non aveva scelta se non sfidare i propri pari, gli anziani e girovagare per il paese in cerca di occasioni per dimostrare il proprio valore. La tradizione era così radicata che ogni tentativo di sopprimerla era fallito. Almeno sono fedeli a se stessi, pensò Eragon. Cosa di cui pochi umani possono vantarsi.


«Come ci è riuscito?» chiese Eragon «Durza è riuscito a tendere l'agguato in cui siete caduti tu, Glenwing e Fäolin con gli Urgali? Non avevate incantesimi di protezione contro gli attacchi fisici?»


«Le frecce erano stregate.»


«Allora quegli Urgali erano stregoni?»


Arya chiuse gli occhi e scosse la testa, sospirando. «No. Era una magia nera inventata da Durza. Se n'è vantato quando ero a Gil'ead.»


«Non so come sei riuscita a resistere per tanto tempo. Ho visto come ti aveva ridotta.»


«Non... non è stato facile. Consideravo le torture che mi infliggeva come una prova del mio impegno, come un'occasione per dimostrare che non avevo commesso uno sbaglio e che meritavo davvero il simbolo dello yawë. In questo modo, ho accolto con gioia quel cimento.»


«Comunque sia, gli elfi non sono immuni al dolore. È sorprendente che tu sia riuscita a tenere segreta l'ubicazione di Ellesméra per tutti quei mesi.»


Una sfumatura di orgoglio tinse la voce di Arya. «Non soltanto l'ubicazione di Ellesméra, ma anche dove avevo mandato l'uovo di Saphira, il mio vocabolario nell'antica lingua e tutto quanto poteva essere d'aiuto a Galbatorix.»


La conversazione languì, e dopo un po' Eragon disse: «Pensi spesso a quello che hai sopportato a Gil'ead?» Quando lei non rispose, aggiunse: «Non ne parli mai. Racconti con freddezza gli eventi, ma non dici mai che cosa hai provato in quei mesi di prigionia o come ti senti adesso.»


«Il dolore è dolore» disse lei. «Non c'è bisogno di descriverlo.»


«Giusto, ma ignorarlo può provocare più danni della ferita che l'ha provocato... Nessuno può subire una cosa del genere e sopravvivere indenne. Non dentro di sé, almeno.»


«Perché dai per scontato che non ne abbia già parlato con qualcuno?»


«Chi?»


«Ha importanza? Ajihad, mia madre, un amico a Ellesméra.»


«Forse mi sbaglio» disse lui, «ma non mi sembri così intima di nessuno. Quando cammini, cammini da sola, anche fra quelli della tua stessa razza.»


Arya rimase impassibile. La sua mancanza di espressione era così assoluta che Eragon si chiese se si sarebbe degnata di rispondergli, un dubbio che si era appena trasformato in convinzione quando lei mormorò: «Non è sempre stato così.»


Vigile, Eragon aspettò senza muovere un muscolo, per paura di fare qualcosa che le cancellasse la voglia di aggiungere altro.


«Un tempo avevo qualcuno con cui parlare, una persona che capiva chi ero e da dove venivo. Un tempo... Lui era più grande di me, ma eravamo spiriti affini, entrambi curiosi del mondo al di fuori della nostra foresta, desiderosi di esplorare e di combattere contro Galbatorix. Nessuno dei due voleva più restare nella Du Weldenvarden... a studiare, a fare magie, a inseguire i propri progetti personali... quando sapevamo che l'Assassino dei Draghi, il reietto dei Cavalieri, stava cercando un modo per distruggere la nostra razza. Lui arrivò a questa conclusione dopo di me... decenni dopo che avevo assunto la carica di ambasciatrice e un paio d'anni prima che Hefring rubasse l'uovo di Saphira... ma nel momento in cui capì, si offrì di accompagnarmi ovunque gli ordini di Islanzadi imponessero.» Batté le palpebre ed esitò per un istante. «Io non volevo, ma alla regina l'idea piacque, e lui era così convincente...» Arricciò le labbra e batté di nuovo le palpebre, gli occhi più brillanti del solito.


Il più dolcemente possibile, Eragon chiese: «Era Fäolin?»


«Sì» rispose lei, con un filo di voce.


«Lo amavi?»


Gettando la testa all'indietro, Arya contemplò le stelle, il lungo collo indorato dal bagliore del fuoco e il volto inargentato dal chiaro di luna. «Me lo chiedi per amicizia o per scopi personali?» All'improvviso scoppiò in una brusca, fredda risata, un suono simile allo scorrere dell'acqua sulla nuda roccia. «Scusa. L'aria fredda della notte deve avermi frastornata. Mi ha fatto dimenticare le buone maniere e indotto a dire parole troppo aspre.»


«Non importa.»


«Invece importa, perché mi dispiace, e non lo tollero. Amavo Fäolin? Come definire l'amore? Per più di vent'anni abbiamo viaggiato insieme, unici immortali a camminare fra le altre razze dalla vita breve. Eravamo compagni... e amici.»


Eragon si sentì trafiggere da una stoccata di gelosia. La combatté e la dominò, ma quando provò a eliminarla non ci riuscì. La sensazione continuò a tormentarlo come una scheggia di legno sottopelle.


«Per più di vent'anni» ripeté Arya. Continuando a rimirare le costellazioni, si dondolava avanti e indietro, come dimentica della presenza di Eragon. «E poi, in un solo istante, Durza me lo ha portato via. Fäolin e Glenwing sono stati i primi elfi a morire in combattimento dopo quasi un secolo. Quando ho visto Fäolin cadere, ho capito che il vero dolore della guerra non è morire, ma veder morire le persone che ti stanno a cuore. Era una lezione che avevo già imparato nel periodo trascorso coi Varden quando, uno dopo l'altro, gli uomini e le donne che avevo imparato a rispettare morivano di spada, di freccia, di veleno, di incidenti o di vecchiaia. Quei lutti però non erano mai stati così personali, e quando accadde pensai: "Ora morirò anch'io!" Perché qualunque Pericolo avessimo incontrato prima, Fäolin e io li avevamo superati insieme, e se lui non era riuscito a cavarsela, perché io avrei dovuto?»


Eragon si accorse che l'elfa piangeva; grosse lacrime le scendevano dagli angoli degli occhi, lungo le tempie e nei capelli. Alla luce delle stelle, sembravano rivoli d'argento liquido. L'intensità del suo dolore lo turbò. Non aveva mai pensato che fosse possibile suscitare in lei una reazione simile, e non era questa la sua intenzione.


«E poi Gil'ead» continuò lei. «Quei giorni sono stati i più lunghi della mia vita. Fäolin era morto, io non sapevo se l'uovo di Saphira era al sicuro o se per errore lo avevo rimandato da Galbatorix, e Durza... Durza saziava la sete di sangue degli spiriti che lo controllavano facendomi le cose più orribili. A volte, se esagerava, mi guariva per poter ricominciare il mattino dopo. Se mi avesse dato il tempo di riprendermi, forse avrei potuto ingannare il mio carceriere, come hai fatto tu, ed evitare di prendere la droga che m'impediva di usare la magia, ma non ho mai avuto più di un paio d'ore di tregua.


«Come te e me, anche Durza non aveva bisogno di dormire, e ogni volta che ero cosciente e i suoi altri doveri glielo consentivano, era sempre al mio fianco. Quando mi torturava, ogni secondo sembrava un'ora, ogni ora una settimana, ogni giorno un'eternità. Stava attento a non farmi impazzire... Galbatorix non avrebbe apprezzato... ma ci è arrivato vicino. Molto, molto vicino. Cominciai a sentire canti di uccelli in un luogo dove gli uccelli non potevano entrare, a vedere cose che non esistevano. Una volta, quando ero nella mia cella, una luce dorata entrò nella stanza e io mi sentii riscaldare. Quando alzai lo sguardo, mi ritrovai distesa su un ramo alto di un albero vicino al centro di Ellesméra. Il sole stava per tramontare, e tutta la città risplendeva, come divorata da un incendio. Gli Äthalvard cantavano sul sentiero, e tutto era così calmo, pacifico e bello, che sarei rimasta lì per sempre. Ma poi la luce svanì, e io mi ritrovai di nuovo sul pagliericcio... Non ci avevo più pensato, ma una volta un soldato lasciò una rosa bianca nella mia cella. Fu l'unico gesto gentile che qualcuno mi abbia mai riservato a Gil'ead. Quella notte il fiore mise radici e crebbe fino a diventare un cespuglio enorme, che cominciò a risalire lungo il muro, s'insinuò fra i blocchi di pietra del soffitto spezzandoli e uscì dai sotterranei all'aria aperta. Continuò a salire fino a toccare la luna, dove rimase come una grande torre a spirale che prometteva libertà, se solo fossi riuscita a sollevarmi dal pavimento. Tentai con ogni briciolo di energia residua, ma andava oltre le mie forze, e quando distolsi lo sguardo, il cespuglio di rose era svanito... Questo era il mio stato mentale quando tu mi sognasti e io sentii la tua presenza aleggiare su di me. Non c'è da stupirsi se ignorai la sensazione come un'altra illusione.»


Gli rivolse un fievole sorriso. «E poi siete arrivati. Tu e Saphira. Dopo che avevo abbandonato ogni speranza, quando stavo per essere portata a Urû'baen da Galbatorix, arrivò un Cavaliere a salvarmi. Un Cavaliere col suo drago!»


«E il figlio di Morzan» disse lui. «Entrambi i figli di Morzan.»


«Descrivilo come vuoi, ma è stato un salvataggio così improbabile che a volte penso di essere impazzita e di aver immaginato tutto quello che è successo da allora.»


«E avresti immaginato anche tutti i problemi che ho causato restando all'Helgrind?»


«No» disse lei. «Penso di no.» Si tamponò gli occhi con la manica per asciugarli. «Quando mi svegliai nel Farthen Dûr c'erano troppe cose che richiedevano il mio intervento per indugiare sul passato. Ma gli ultimi eventi sono stati così sanguinosi e oscuri che mi sono scoperta a ricordare sempre più spesso ciò che invece non dovrei. Mi mette di malumore, mi deprime, annulla la pazienza per i banali contrattempi della vita.» Cambiò posizione e si mise a gambe incrociate, le mani appoggiate sul terreno per sorreggersi. «Tu dici che io cammino da sola. Gli elfi non sono inclini alle aperte manifestazioni di amicizia come gli umani e i nani, e io sono sempre stata di natura piuttosto solitaria. Ma se mi avessi conosciuta prima di Gil'ead, se mi avessi conosciuta com'ero veramente, non mi avresti considerata così distaccata e altera. All'epoca cantavo e ballavo e non mi sentivo minacciata da un senso di fatalità incombente.»


Eragon tese la mano destra e la posò sulla sinistra di lei. «Le storie sugli eroi dei tempi che furono non dicono mai che è questo il prezzo che si paga quando si affrontano i mostri delle tenebre e i mostri della mente. Continua a pensare ai giardini del Palazzo di Tialdarí, e sono sicuro che ti sentirai meglio.»


Arya consentì quel contatto fra di loro per quasi un minuto, non un minuto di ardore o di passione per Eragon, ma di pacata amicizia. Lui non fece alcun tentativo di corteggiarla, perché teneva alla sua fiducia più di qualsiasi altra cosa al mondo, tranne il legame con Saphira, e si sarebbe gettato nelle fiamme piuttosto che correre il rischio di perderla. Poi, con un impercettibile movimento del braccio, Arya gli lasciò intendere che il momento era passato, e senza rimpianti Eragon ritrasse la mano.


Desideroso di alleviare la pena di Arya come poteva, Eragon si guardò intorno e mormorò a voce così bassa da non essere sentito: «Loivissa.» Guidato dal potere del vero nome, frugò nel terreno ai suoi piedi finché le dita non si chiusero su quello che cercava: un disco fragile e sottile come carta, grande la metà dell'unghia del suo mignolo. Trattenendo il fiato, lo depositò sul proprio palmo destro, al centro del gedwëy ignasia, con tutta la delicatezza possibile. Ripassò quanto gli aveva insegnato Oromis a proposito dell'incantesimo che stava per evocare, per essere certo di non sbagliare, e poi cominciò a cantare alla maniera degli elfi, un canto tenue e fluente:

Eldhrimner O Loivissa nuanen, dautr abr deloi, Eldhrimner nen ono weohnataí medh solus un thringa, Eldhrimner un fortha onr fëon vara,


Wiol allr sjon.

Eldhrimner O Loivissa nuanen...

Eragon continuò a ripetere gli stessi quattro versi rivolgendoli alla piccola scaglia marrone nel suo palmo, che tremò e poi si gonfiò fino a diventare sferica. Sottilissimi tentacoli bianchi lunghi un pollice o due germogliarono dal fondo del bulbo, solleticando Eragon, mentre dalla sommità spuntò un gracile stelo verde che, a un suo cenno, si allungò di quasi un piede. Una singola foglia, larga e piatta, crebbe su un lato dello stelo. Poi la punta dello stelo si ispessì, ricadde su se stessa e dopo un momento di apparente inattività si divise in cinque segmenti che si allargarono a ventaglio trasformandosi nei petali carnosi di un giglio. Il fiore era azzurro pallido, a forma di campana.

Quando ebbe raggiunto la grandezza giusta, Eragon recise il flusso di magia e osservò la sua opera. Cantare le piante era una facoltà che la maggior parte degli elfi acquisiva in tenera età, ma Eragon si era allenato soltanto un paio di volte, e non sapeva se i suoi sforzi avrebbero avuto successo. L'incantesimo lo aveva stancato parecchio: il giglio aveva richiesto una quantità sorprendente di energia per raggiungere in pochi istanti l'equivalente di un anno e mezzo di crescita.

Soddisfatto del proprio lavoro, Eragon porse il fiore ad Arya. «Non è una rosa bianca, ma...» Sorrise e si strinse nelle spalle.


«Non dovevi» disse lei. «Ma sono felice che tu l'abbia fatto.» Accarezzò la corolla e l'avvicinò al viso per annusarla. La sua espressione si addolcì, mentre ammirava il giglio per lunghi minuti. Poi scavò una buca nel terreno, piantò il bulbo e premette di nuovo con la mano la terra intorno al fiore. Toccò ancora i petali e senza smettere di contemplare il giglio disse: «Grazie. Donare un fiore è un'usanza che appartiene a entrambe le nostre razze, ma per noi elfi rappresenta qualcosa di molto più importante che per voi umani. Rappresenta tutto ciò che c'è di buono: vita, bellezza, rinascita, amicizia e altro ancora. Te lo spiego perché tu capisca che cosa significa per me. Non lo sapevi, ma...»


«Lo sapevo.»


Arya lo guardò con espressione solenne, incerta su come interpretare le sue parole. «Perdonami. È la seconda volta che dimentico quanto hai già imparato. Non commetterò più lo stesso errore.»


Arya ripeté il suo ringraziamento nell'antica lingua, e passando a sua volta alla lingua nativa dell'elfa Eragon rispose che era stato un piacere e che era lieto che lei avesse apprezzato il dono. Poi rabbrividì, affamato nonostante avesse appena mangiato. Arya se ne accorse. «Hai consumato troppa energia. Se ne hai ancora dentro Aren, usala per riprenderti.»


Eragon impiegò qualche istante per ricordare che Aren era il nome dell'anello di Brom; lo aveva sentito pronunciare soltanto una volta prima d'allora, da Islanzadi, il giorno che era arrivato a Ellesméra. È il mio anello, adesso, si disse. Devo smettere di pensare che è ancora di Brom. Studiò con occhio critico il grande zaffiro che portava al dito, scintillante nella montatura d'oro. «Non so nemmeno se c'è energia in Aren. Io non ce l'ho mai messa, e non ho mai controllato se Brom l'avesse fatto.» Mentre parlava, espanse la coscienza verso lo zaffiro. Nel preciso istante in cui la sua mente entrò in contatto con la gemma, percepì la presenza di una vasta, ribollente pozza di energia. Con l'occhio interiore vide lo zaffiro pulsare di potere. Si chiese come facesse a non esplodere, con tutta quella forza concentrata nei ristretti confini delle sfaccettature. Dopo che lui ebbe attinto energia per eliminare dolori e ammaccature e ridare forza al corpo, il tesoro celato dentro Aren non era quasi stato intaccato.


Quando sentì la pelle formicolare, Eragon recise il legame con la gemma. Felice della novità e dell'improvviso senso di benessere, scoppiò a ridere, poi raccontò ad Arya cosa aveva scoperto. «Brom deve averci infilato ogni briciolo di energia risparmiata nel suo soggiorno a Carvahall.» Rise di nuovo, stupefatto. «Tutti quegli anni... Con quello che c'è dentro Aren potrei distruggere un intero castello con un solo incantesimo.»


«Sapeva che il nuovo Cavaliere ne avrebbe avuto bisogno quando l'uovo di Saphira si fosse dischiuso» osservò Arya. «E poi sono sicura che Aren fosse un mezzo per proteggersi se avesse dovuto combattere contro uno Spettro o qualche altro formidabile avversario. Non è un caso che sia riuscito a eludere i suoi nemici per buona parte di un secolo... Fossi in te, risparmierei l'energia che ti ha lasciato per un momento di estrema necessità, e ne aggiungerei ogni volta che ti è possibile. È una risorsa preziosissima. Non dovresti sprecarla.»


No, pensò Eragon, non lo farò. Si rigirò l'anello sul dito, ammirando il suo brillio alla luce del falò. Da quando Murtagh mi ha rubato Zar'roc, questo anello, la sella di Saphira e Fiammabianca sono le uniche cose che mi restano di Brom, e anche se i nani mi hanno portato Fiammabianca dal Farthen Dûr, mi capita di rado di cavalcarlo di questi tempi. Aren è davvero l'unica cosa che me lo ricorda... La mia unica eredità. Quanto vorrei che fosse ancora vivo! Non avrò mai l'occasione di parlargli di Oromis, di Murtagh, di mio padre... Oh, l'elenco è infinito. Che cos'avrebbe detto dei miei sentimenti per Arya? Eragon sorrise amaro. Lo so che cosa mi avrebbe detto: mi avrebbe rimproverato di essere uno sciocco accecato dall'amore, che spreca le sue energie per una causa persa... E avrebbe avuto ragione, immagino, ma che cosa posso farci? Lei è l'unica femmina con cui vorrei stare.


Il fuoco crepitò e si levò una nuvola turbinante di scintille. Eragon fissava il falò con gli occhi semichiusi, riflettendo sulle rivelazioni di Arya. Poi gli tornò in mente una domanda che lo tormentava fin dalla battaglia delle Pianure Ardenti. «Arya, i draghi crescono più in fretta delle dragonesse?»


«No. Perché me lo chiedi?»


«Per via di Castigo. Ha soltanto pochi mesi, ma è già grande quasi quanto Saphira. Non capisco.»


Arya raccolse uno stelo secco e cominciò a tracciare sul terreno i sinuosi glifi della scrittura elfica, la Liduen Kvaedhí. «È molto probabile che Galbatorix abbia accelerato la crescita di Castigo per consentirgli di combattere contro Saphira.»


«Ah... Ma non è pericoloso? Oromis mi ha detto che se avesse usato la magia per darmi la forza, la velocità, la resistenza e tutte le altre capacità che mi servivano, non le avrei assimilate come se le avessi conquistate nella maniera consueta, col duro esercizio. E aveva ragione. Anche adesso, i cambiamenti che i draghi hanno provocato sul mio corpo durante l'Agaetí Blödhren a volte mi colgono di sorpresa.»


Arya annuì e continuò a tracciare i glifi nella polvere. «È possibile ridurre gli effetti indesiderati di certi incantesimi, ma è un processo lungo e difficile. Se vuoi conquistare la vera padronanza del tuo corpo, è meglio seguire la strada tradizionale. La trasformazione che Galbatorix ha forzato su Castigo dev'essere incredibilmente inquietante per lui. Castigo adesso ha il corpo di un drago quasi adulto, ma la sua mente è ancora molto giovane.»


Eragon si accarezzò i calli sulle nocche. «Sai anche perché Murtagh è così potente... molto più potente di me?»


«Se lo sapessi, capirei anche come ha fatto Galbatorix ad aumentare la propria forza a livelli innaturali, ma ahimè, non lo so.»


Ma Oromis sì, pensò Eragon. O almeno, l'elfo aveva accennato a una spiegazione, pur senza approfondire l'argomento con Eragon e Saphira. Non appena fossero tornati nella Du Weldenvarden, Eragon avrebbe chiesto al vecchio Cavaliere la verità. Adesso deve rivelarcela! Per colpa della nostra ignoranza Murtagh ci ha sconfitti, e avrebbe potuto facilmente portarci da Galbatorix, se avesse voluto. Eragon stava per raccontare ad Arya i commenti di Oromis, ma all'ultimo momento cambiò idea, perché si rese conto che il vecchio maestro non avrebbe tenuto nascosto un fatto così decisivo per oltre cent'anni se il segreto non fosse stato della massima importanza.


Arya appose un segno finale alla frase che aveva scritto sul terreno. Eragon si sporse e lesse: Alla deriva sul mare del tempo, il dio solitario vaga da sponda a sponda, custode delle leggi delle stelle.


«Che cosa significa?»


«Non lo so» rispose lei, e cancellò la frase con un gesto della mano.


«Come mai» chiese Eragon, parlando lentamente per mettere ordine nei pensieri «nessuno si riferisce ai draghi dei Rinnegati chiamandoli per nome? Diciamo "il drago di Morzan" oppure "il drago di Kialandí", ma non pronunciamo mai i loro nomi. Eppure erano importanti quanto i loro Cavalieri! Non ricordo nemmeno di averli visti sulle pergamene che mi ha dato Oromis... eppure dovevano esserci... Sì, sono sicuro che c'erano, ma per qualche ragione non mi sono rimasti in mente. Non è strano?» Arya fece per rispondere, ma aveva soltanto aperto la bocca quando Eragon proseguì. «Per una volta sono contento che Saphira non sia qui. Mi vergogno di non essermene accorto prima. Perfino tu, Arya, e Oromis e tutti gli altri elfi che ho incontrato vi rifiutate di chiamarli per nome come se fossero animali ottusi, indegni di questo onore. Lo fate di proposito? È perché un tempo erano vostri nemici?»


«Non l'hai imparato in nessuna delle tue lezioni?» chiese Arya, sinceramente sorpresa.


«Mi pare» disse lui «che Glaedr abbia detto a Saphira qualcosa del genere, ma non ne sono sicuro. Ero impegnato nelle flessioni della Danza del Serpente e della Gru, perciò non stavo molto attento a quello che faceva Saphira.» Sorrise imbarazzato e si sentì in dovere di spiegare. «A volte avevo una gran confusione in testa. Oromis mi parlava mentre io ascoltavo i pensieri di Saphira e lei e Glaedr comunicavano con le loro menti. Quel che è peggio, Glaedr usa di rado un linguaggio riconoscibile quando comunica con Saphira; in genere ricorre a immagini, odori e sensazioni al posto delle parole. Per esempio, invece dei nomi manda impressioni delle persone e degli oggetti.»


«Ricordi qualcosa di quello che disse, che fosse a parole oppure no?»


Eragon esitò. «So solo che si trattava di un nome che non era un nome, o qualcosa del genere. Allora non ho capito granché.»


«Quello di cui parlava» disse Arya «era la Du Namar Aurboda, la Revoca dei Nomi.»


«La Revoca dei Nomi?»


Arya ricominciò a scrivere nella polvere con lo stelo secco. «È uno degli eventi più importanti che ebbero luogo durante il conflitto tra Cavalieri e Rinnegati. Quando i draghi si resero conto che tredici di loro erano traditori... che quei tredici stavano aiutando Galbatorix a sterminare il resto della loro razza e che nessuno sarebbe riuscito a fermare il massacro... si infuriarono a tal punto che tutti i draghi non appartenenti ai Rinnegati unirono le loro forze e misero a segno una delle loro inspiegabili magie. Insieme, privarono i tredici dei loro nomi.»


Eragon si sentì schiacciato da un senso di timorosa ammirazione. «Ma com'è possibile?»


«Non ti ho appena detto che è inspiegabile? Tutto quello che sappiamo è che dopo che i draghi ebbero evocato l'incantesimo, nessuno riuscì più a pronunciare i nomi dei tredici: quelli che li ricordavano li dimenticarono presto, e sebbene si possano leggere sulle pergamene e sulle lettere dove vennero scritti, e persino copiarli, se guardi un glifo alla volta, sono incomprensibili. I draghi risparmiarono Jarnunvösk, il primo drago di Galbatorix, perché non fu colpa sua se fu ucciso dagli Urgali, e Shruikan, perché non ha scelto di servire Galbatorix, ma è stato costretto dallo stesso Galbatorix e da Morzan.»


Che destino orribile, perdere il proprio nome, pensò Eragon con un brivido. Se c'è una cosa che ho imparato da quando sono diventato Cavaliere è che mai e poi mai vorresti avere un drago per nemico. «E i loro veri nomi?» chiese. «Furono cancellati anche quelli?»


Arya annuì. «Veri nomi, nomi di nascita, soprannomi, cognomi, titoli. Tutto. Il risultato fu che i tredici diventarono poco più di semplici animali. Non potevano più dire "Mi piace questo" oppure "Non mi piace quest'altro" e nemmeno "Io ho le squame verdi", perché dirlo avrebbe implicato nominare se stessi. Non potevano nemmeno chiamarsi draghi. Parola dopo parola, l'incantesimo revocò tutto ciò che li definiva come creature pensanti, e i Rinnegati non poterono far altro che assistere impotenti al silenzioso declino dei propri draghi nella più assoluta ignoranza. L'esperienza fu così devastante che almeno cinque dei tredici draghi e parecchi Rinnegati impazzirono.» Arya fece una pausa per esaminare un glifo appena disegnato, poi lo cancellò e lo riscrisse. «La Revoca dei Nomi è il motivo principale per cui molti ora credono che i draghi non fossero altro che animali da cavalcare per spostarsi da un luogo all'altro.»


«Non lo crederebbero, se avessero conosciuto Saphira» dichiarò Eragon. Arya sorrise. «Già.» Con un gesto elegante della mano, completò l'ultima frase. Eragon tese il collo e si spostò più vicino per decifrare i glifi che lei aveva scritto. L'illusionista, l'enigmatico, il protettore dell'equilibrio, il multiforme che trova la vita nella morte e che non teme alcun male; colui che cammina attraverso le porte.


«Che cosa ti ha spinto a scrivere questi glifi?»


«Il pensiero che molte cose non sono come appaiono.» Nuvolette di polvere si alzarono dalle sue dita quando l'elfa spazzò il terreno con la mano per cancellare i glifi dalla faccia della terra.


«Qualcuno ha mai tentato di scoprire il vero nome di Galbatorix?» chiese Eragon. «Potrebbe essere il modo più rapido per porre fine a questa guerra. Credo che sia l'unica speranza che abbiamo di sconfiggerlo in battaglia, se devo essere sincero.»


«Perché, finora non sei stato sincero?» chiese Arya, con uno scintillio negli occhi.


Eragon non poté fare a meno di sorridere a quella domanda. «Certo che sì. È soltanto una figura retorica.»


«Alquanto mediocre» disse lei. «A meno che tu non abbia l'abitudine di mentire.»


Eragon rimase sconcertato, poi riprese il filo del discorso e disse: «So che sarebbe difficile scoprire il vero nome di Galbatorix, ma se tutti gli elfi e tutti i membri dei Varden che conoscono l'antica lingua lo cercassero, sono sicuro che ci riusciremmo.»


Come un pallido vessillo sbiancato dal sole, lo stelo d'erba secco pendeva tra il pollice e l'indice di Arya, tremando a ogni pulsazione delle sue vene. Afferrandone la punta con l'altra mano, Arya strappò in due lo stelo nel senso della lunghezza, poi fece lo stesso con le due metà, dividendolo in quattro. A quel punto cominciò a intrecciare le striscioline formando una sorta di bastoncino e disse: «Il vero nome di Galbatorix non è un segreto. Un Cavaliere e due maghi di razza elfica l'hanno scoperto per conto proprio, a molti anni di distanza l'uno dall'altro.»


«Davvero?» esclamò Eragon.


Imperturbabile, Arya colse un altro filo d'erba, lo ridusse a striscioline, le inserì nei buchi del suo bastoncino attorcigliato e ricominciò a intrecciare in un'altra direzione. «Possiamo solo chiederci se Galbatorix stesso conosca il proprio vero nome. Io credo che non lo conosca perché, qualunque esso sia, il suo vero nome dev'essere così terribile che non potrebbe continuare a vivere se lo sentisse.»


«A meno che non sia tanto malvagio o pazzo che la verità non ha il potere di sconvolgerlo.»


«Può darsi.» Le agili dita di Arya si muovevano così in fretta, strappando, intrecciando, tessendo, da essere pressoché invisibili. Raccolse altri due fili d'erba. «Galbatorix sa di avere un vero nome, come tutte le creature e le cose, e che questo rappresenta la sua potenziale debolezza. Così, qualche tempo prima di avventurarsi nella campagna contro i Cavalieri, lanciò un incantesimo che uccide chiunque usi il suo vero nome. E dato che non sappiamo come funziona questo incantesimo, non possiamo difenderci. Capisci dunque perché abbiamo abbandonato questo sentiero. Oromis è uno dei pochi coraggiosi a continuare la ricerca del nome di Galbatorix, anche se in modo indiretto.» Con espressione soddisfatta, Arya tese le mani coi palmi rivolti all'insù. Su di essi era adagiata una deliziosa nave d'erba verde e bianca. Non era lunga più di quattro pollici, ma era così dettagliata che Eragon poté scorgere i banchi dei rematori, le sartie lungo i parapetti e gli oblò grandi quanto semini di lampone. C'era un solo albero centrale, e la prua ricurva aveva le sembianze di una testa e di un collo di drago proteso nel vuoto.


«È bellissima» mormorò.


Arya avvicinò le labbra alla nave e sussurrò: «Flauga.» Vi soffiò sopra e la nave si levò in volo dalle sue mani per navigare intorno al fuoco; poi, acquistando velocità, puntò la prua verso l'alto e si allontanò nelle profondità stellate del cielo notturno.


«Per quanto volerà?»


«Per sempre» rispose lei. «Trae energia dalle piante per volare. Ovunque vi siano piante, la nave volerà.»


Lì per lì Eragon trovò l'idea affascinante, ma poi pensò che era triste che la graziosa nave d'erba dovesse vagare fra le nuvole per il resto dell'eternità, senza altra compagnia se non gli uccelli. «Immagina le storie che la gente racconterà negli anni a venire.»


Arya intrecciò le dita come se volesse costringerle a star ferme. «Al mondo esistono tante cose strane. Più a lungo vivi e più lontano viaggi, più cose strane vedrai.»


Eragon contemplò le fiamme guizzanti del falò per qualche minuto, poi disse: «Se è così importante proteggere il proprio vero nome, non dovrei evocare un incantesimo per impedire a Galbatorix di usare il mio vero nome contro di me?»


«Fallo, se vuoi» disse Arya, «ma dubito che sia necessario. I veri nomi non sono così facili da scoprire. Galbatorix non ti conosce abbastanza da indovinare il tuo, e se fosse dentro la tua mente, capace di esaminare ogni tuo pensiero e ricordo, allora saresti già suo, con o senza vero nome. Se può consolarti, probabilmente nemmeno io saprei indovinarlo.»


«Davvero?» disse lui. Era contento, ma al tempo stesso dispiaciuto che lei fosse convinta di non conoscerlo così a fondo.


Lei lo guardò, poi abbassò lo sguardo. «Già, credo proprio di no. Tu sapresti indovinare il mio?»


«No.»


Il silenzio calò sul bivacco. Nel cielo, le stelle brillavano fredde e bianche. Un vento si levò da est e lambì la pianura, frustando l'erba con un gemito lungo e acuto, come se lamentasse la perdita di una persona cara. Quando arrivò al bivacco, le braci ripresero vigore e una vorticosa criniera di scintille volò verso ovest. Eragon curvò le spalle e si strinse il colletto della casacca. C'era qualcosa di ostile nel vento: lo sferzava con insolita violenza e sembrava isolare lui e Arya dal resto del mondo. Sedevano immobili, naufraghi sulla loro isoletta di luce e calore, mentre la poderosa onda d'aria passava, ululando la sua pena feroce nella vuota distesa di terra.


Quando le raffiche divennero più forti e cominciarono a spingere le scintille oltre la zona di terra brulla che Eragon aveva creato, Arya gettò una manciata di terra sulla brace. Spostandosi in ginocchio, Eragon la raggiunse e cominciò a gettare terra anche lui con entrambe le mani per fare più in fretta. Con il fuoco spento, non riusciva più a vederci bene: la campagna era diventata un fantasma di se stessa, piena di ombre contorte, sagome indistinte e foglie d'argento.


Arya fece per alzarsi, poi rimase accovacciata, le braccia tese per mantenere l'equilibrio, l'espressione vigile. Anche Eragon se ne accorse: l'aria formicolava e ronzava come se stesse per abbattersi un fulmine. I peli sulle mani gli si rizzarono e ondeggiarono nel vento.


«Cosa succede?» chiese.


«Qualcuno ci osserva. Qualunque cosa accada, non usare la magia, altrimenti potresti farci uccidere.»


«Chi...»


«Sssst.»


Guardandosi intorno, trovò un sasso delle dimensioni di un pugno, lo prese e lo soppesò.


In lontananza comparve una manciata di scintillanti luci multicolori. Sfrecciavano verso il bivacco, volando basse sull'erba. Mentre si avvicinavano, Eragon notò che cambiavano di continuo dimensioni, passando da un globo non più grande di una perla a uno di diversi piedi di diametro, e che variavano anche di colore, ripetendo il ciclo di ogni sfumatura dell'arcobaleno. Una nuvola crepitante circondava ogni globo, un alone di tentacoli liquidi che schioccavano e si contorcevano, come bramosi di afferrare qualcosa. Le luci si muovevano così veloci che Eragon non riusciva a contarle, ma stimò che fossero almeno due dozzine.


Piombarono sul bivacco e formarono un muro vorticante intorno a lui e ad Arya. La velocità con cui ruotavano, insieme al fuoco di fila di colori pulsanti, gli faceva girare la testa. Posò una mano a terra per sorreggersi. Il ronzio era così forte, adesso, che gli battevano i denti. Sentì in bocca un sapore metallico, e i capelli gli si rizzarono sul capo. Anche quelli di Arya si sollevarono, malgrado fossero molto più lunghi, e quando la guardò, trovò la scena così buffa che per poco non scoppiò a ridere.


«Che cosa vogliono?» gridò, ma l'elfa non rispose.


Un globo si staccò dagli altri e volò davanti ad Arya, fermandosi a mezz'aria, all'altezza dei suoi occhi. Rimpiccioliva e si dilatava come un cuore pulsante, alternando il blu intenso al verde smeraldo, con sporadici lampi di rosso. Uno dei tentacoli si attorcigliò a una ciocca dei capelli di Arya. Si udì un secco pop e per un istante la ciocca brillò come un frammento di sole, poi svanì. L'odore di capelli bruciati arrivò fino a Eragon.


Arya non batté ciglio né tradì alcun allarme. Con il volto sereno, tese un braccio e prima che Eragon potesse scattare per fermarla posò la mano sul globo splendente. Il globo divenne bianco e oro e si gonfiò fino ad assumere un diametro di tre piedi. Arya chiuse gli occhi e abbandonò indietro la testa, i lineamenti soffusi di una gioia radiosa. Le sue labbra si mossero, ma qualunque cosa disse, Eragon non riuscì a sentirla. Quando ebbe finito, il globo avvampò di rosso sangue e poi in rapida successione passò dal rosso al verde al viola all'arancione e a un blu così intenso che Eragon dovette distogliere lo sguardo, per finire con un nero purissimo orlato da una corona di bianchi tentacoli splendenti, come il sole durante un'eclissi. Il suo aspetto smise di mutare, come se soltanto l'assenza di colore potesse esprimere adeguatamente il suo umore.


Il globo si allontanò da Arya per avvicinarsi a Eragon, uno squarcio nel tessuto del mondo circondato da una corona di fiamme. Rimase sospeso davanti a lui ronzando con una tale intensità da fargli lacrimare gli occhi. Gli parve di avere la lingua ricoperta di rame, la pelle gli formicolava, e piccoli filamenti di elettricità gli danzavano sulla punta delle dita. Esitante e spaventato, si chiese se doveva toccare il globo come aveva fatto Arya. La guardò, chiedendole consiglio. Lei annuì e gli fece cenno di procedere.


Eragon tese la mano destra verso il vuoto che era il globo. Con sua sorpresa, incontrò resistenza. Il globo era immateriale, eppure premeva contro la sua mano come una corrente d'acqua impetuosa. Più avvicinava la mano, più resistenza incontrava. Con uno sforzo, spinse ancora e toccò il centro della creatura.


Raggi azzurrini guizzarono fra il palmo di Eragon e la superficie del globo, un'esplosione accecante come un fuoco d'artificio, che cancellò la luce degli altri globi e tinse ogni cosa di un celeste pallido. Eragon gridò di dolore quando i raggi gli ferirono gli occhi, li chiuse forte, abbassando la testa. Poi qualcosa si mosse all'interno del globo, come un drago addormentato che si desta dipanando le sue spire, e una presenza entrò nella sua mente, spazzando via le sue difese come foglie secche disperse dal vento d'autunno. Eragon trasalì. Si sentì colmare da una gioia irreale: qualunque cosa fosse il globo, sembrava essere composto da felicità distillata. Gioiva di essere vivo e traeva piacere da ogni cosa che lo circondava. Sarebbe scoppiato a piangere di gioia, ma non aveva più il controllo del proprio corpo. La creatura lo teneva immobilizzato con quei raggi azzurrini che ancora guizzavano sotto il suo palmo, e cominciò a insinuarsi nelle sue ossa e nei suoi muscoli, soffermandosi nei punti dov'era stato ferito; poi tornò nella sua mente. Nonostante la sensazione di euforia, Eragon trovava la presenza della creatura così strana e innaturale da voler fuggire, ma nella sua coscienza non c'era nessun posto dove nascondersi. Fu costretto a sottomettersi a quel contatto intimo con l'anima fiammeggiante della creatura che gli esplorava i ricordi, passando dall'uno all'altro con la rapidità di una freccia elfica. Eragon si chiese come facesse ad assimilare tante informazioni così in fretta. Provò allora a sua volta a sondare la mente del globo, per poter apprendere qualcosa sulla sua natura e le sue origini, ma quello respinse ogni suo tentativo. Le poche impressioni che ricevette furono così diverse da quelle che aveva trovato nelle menti degli altri esseri da risultargli incomprensibili.


Dopo un altro quasi istantaneo giro del suo corpo, la creatura si ritrasse. Il legame fra di loro si spezzò come una corda sottoposta a eccessiva tensione. La raggiera luminosa che avvolgeva la mano di Eragon si dissolse, lasciandogli nel campo visivo immagini persistenti di un rosa livido.


Il globo davanti a Eragon ricominciò a cambiare colore, rimpicciolì fino a diventare non più grosso di una mela e raggiunse i compagni nel vortice di luce che accerchiava lui e Arya. Il ronzio si abbassò fino ai limiti dell'udibile, poi il vortice esplose mentre i globi scintillanti si sparpagliavano in ogni direzione. Si raggrupparono di nuovo a un centinaio di piedi dal bivacco, accalcandosi l'uno sull'altro, simili a gattini giocherelloni, poi sfrecciarono verso sud e scomparvero, come se non fossero mai esistiti. Il vento impetuoso calò fino a diventare una brezza leggera.


Eragon cadde in ginocchio, le braccia tese verso il punto in cui prima fluttuavano i globi, sentendosi vuoto senza quell'impressione di beatitudine che gli avevano regalato. «Cosa...» fece per chiedere, ma poi gli venne un accesso di tosse e dovette ricominciare, con la gola secca. «Cos'erano?»


«Spiriti» rispose Arya. Si mise a sedere.


«Non assomigliavano a quelli che sono usciti da Durza quando l'ho ucciso.»


«Gli spiriti possono assumere diverse forme, secondo il loro capriccio.»


Eragon batté le palpebre più volte e si asciugò gli angoli degli occhi con un dito. «Come si fa a volerli soggiogare con la magia? È mostruoso. Mi vergognerei di essere un negromante. Bah! E Trianna che si vanta di esserlo. La costringerò a smettere di usare gli spiriti, altrimenti la espellerò dal Du Vrangr Gata e chiederò a Nasuada di bandirla dai Varden.»


«Non essere così precipitoso.»


«Non penserai forse che sia giusto che un mago costringa gli spiriti a obbedirgli... Sono così belli che...» S'interruppe e scosse la testa, traboccante di emozione. «Chiunque faccia loro del male dovrebbe essere ucciso senza pietà.»


Con un sorriso accennato, Arya disse: «A quanto pare Oromis doveva ancora introdurre l'argomento quando tu e Saphira siete partiti da Ellesméra.»


«Se intendi dire gli spiriti, no, me ne ha parlato diverse volte.»


«Ma non nel dettaglio, direi.»


«Forse no.»


Nell'oscurità, la sagoma di Arya si mosse mentre lei si sdraiava su un fianco. «Gli spiriti inducono sempre un senso di estasi quando scelgono di comunicare con noi che siamo fatti di materia, ma non lasciarti ingannare. Non sono benevoli, felici o allegri come ti fanno credere. Compiacere quelli con cui stabiliscono un legame è il loro modo di difendersi. Detestano restare legati a un luogo, e tanto tempo fa hanno capito che se la persona con cui hanno a che fare è felice, sarà meno propensa a trattenerli come servi.»


«Non so» disse Eragon. «Ti fanno sentire così bene che è più facile capire il desiderio di trattenerli per sempre, piuttosto che la volontà di liberarli.»


Arya si strinse nelle spalle. «Gli spiriti non sanno prevedere i nostri comportamenti, così come noi non conosciamo i loro. Hanno così poco in comune con le altre razze di Alagaësia che conversare con loro, anche nei termini più semplici, è una sfida, e ogni incontro è irto di pericoli, dato che nessuno sa come reagiranno.»


«Ma niente di tutto questo spiega perché non dovrei ordinare a Trianna di abbandonare la negromanzia.»


«L'hai mai vista evocare gli spiriti?»


«No.»


«Appunto. Trianna è con i Varden da sei anni, e in tutto questo tempo ha dimostrato la sua padronanza della stregoneria soltanto una, dico una volta. E solo dopo molte insistenze di Ajihad e molta preoccupazione e preparazione da parte sua. Ha le capacità, non è una ciarlatana, ma evocare gli spiriti è troppo pericoloso, e non ci si avventura in un'impresa simile a cuor leggero.»


Eragon si massaggiò il palmo luccicante con il pollice sinistro. La sfumatura di colore cambiò quando il sangue affluì in superficie, ma i suoi sforzi non servirono a ridurre la quantità di luce irradiata dalla sua mano. Si grattò il gedwëy ignasia con le unghie. Sarà meglio che scompaia nel giro di qualche ora. Non posso risplendere come una lanterna. Mi farei uccidere. Ed è anche ridicolo. Chi ha mai sentito parlare di un Cavaliere dei Draghi con una parte del corpo sfolgorante?


Rifletté su quanto gli aveva detto Brom. «Non sono spiriti umani, vero? E non appartengono nemmeno agli elfi, ai nani, o a nessuna altra creatura. Voglio dire, non sono fantasmi. Non diventiamo come loro, dopo morti.»


«No. E per favore non chiedermelo, perché già so dove vuoi andare a parare. Vuoi sapere che cosa sono, ma è una risposta che dovrai ottenere da Oromis, non da me. Lo studio della negromanzia, se fatto come si deve, è un lavoro lungo e arduo, e dovrebbe essere affrontato con la massima prudenza. Non voglio dire niente che possa interferire con le lezioni che Oromis ha stabilito per te, e di certo non voglio che tu corra il rischio di farti del male cercando di mettere in pratica qualcosa che ti ho detto quando manchi ancora della dovuta istruzione.»


«E quando tornerò a Ellesméra?» chiese lui. «Non posso lasciare di nuovo i Varden, non adesso, non mentre Castigo e Murtagh sono ancora vivi. Finché non sconfiggeremo l'Impero, o l'Impero sconfiggerà noi, io e Saphira dovremo aiutare Nasuada. Se Oromis e Glaedr vogliono davvero completare il nostro addestramento, allora dovrebbero raggiungerci, e addio Galbatorix!»


«Ti prego, Eragon» disse lei. «Questa guerra non finirà presto come credi. L'Impero è vasto, e noi non abbiamo fatto altro che punzecchiargli la pelle. Finché Galbatorix non sa dell'esistenza di Oromis e Glaedr, abbiamo un vantaggio.»


«È un vantaggio il fatto che non si mostrino mai?» mugugnò lui. Arya non rispose e, dopo un istante, Eragon si sentì infantile per essersi lamentato. Oromis e Glaedr volevano distruggere Galbatorix più di chiunque altro, e se avevano scelto di nascondersi a Ellesméra avevano le loro ottime ragioni. Eragon stesso ne conosceva parecchie, compresa la più importante: l'incapacità di Oromis di evocare incantesimi che richiedessero molta energia.


Infreddolito, Eragon si abbassò le maniche fin sulle mani e incrociò le braccia. «Che cos'hai detto allo spirito?»


«Voleva sapere perché abbiamo usato la magia; ecco che cosa li ha attirati. Gliel'ho spiegato, e ho spiegato loro anche che tu eri quello che ha liberato gli spiriti intrappolati dentro Durza. Ne sono stati molto contenti.» Una pausa di silenzio, poi Arya si spostò verso il giglio e lo toccò ancora. «Oh!» esclamò. «Sono stati molto riconoscenti. Naina!»


Al suo comando, una pioggia di luce soffusa illuminò il bivacco. Eragon vide allora che la foglia e lo stelo del giglio erano diventati d'oro massiccio, i petali di un metallo bianco che non conosceva, e il cuore del fiore, come Arya rivelò inclinando la corolla, era fatto di rubini e diamanti. Stupefatto, Eragon fece scorrere un dito sulla foglia ricurva, e la sottile peluria metallica lo solleticò. Proteso in avanti, scorse la stessa collezione di escrescenze, solchi, forellini, venature e altri minuscoli dettagli con cui aveva adornato la versione originale della pianta; con l'unica differenza che adesso erano d'oro.


«È una copia perfetta!» commentò.


«Ed e ancora vivo.»


«È impossibile!» Eragon si concentrò per cercare qualche debole traccia di calore e movimento che gli confermasse che il giglio non era soltanto un oggetto inanimato. Ne trovò diverse, intense come sempre in una pianta durante le ore notturne. Accarezzando di nuovo la foglia, disse: «Questo va al di là di ogni mia conoscenza della magia. Secondo ogni logica, questo fiore dovrebbe essere morto. Invece è vivo e vegeto. Non so nemmeno immaginare che cosa sia necessario per trasformare una pianta in metallo vivente. Forse Saphira potrebbe farlo, ma non sarebbe mai capace di insegnare l'incantesimo a qualcun altro.»


«La vera domanda» disse Arya «è se questo fiore produrrà semi fertili.»


«Può riprodursi?»


«Non mi sorprenderebbe. In tutta Alagaësia esistono numerosi esempi di magia autoperpetrante, come il cristallo flottante sull'isola di Eoam e il pozzo dei sogni nelle Grotte di Mani. Quello a cui abbiamo appena assistito non sarebbe un fenomeno più improbabile di questi altri due.»


«Purtroppo se qualcuno scoprisse questo fiore o i suoi discendenti li coglierebbe tutti. Ogni cercatore di tesori del paese verrebbe qui a sradicare i gigli d'oro.»


«Non credo che siano tanto facili da distruggere, ma soltanto il tempo potrà dirlo.»


All'improvviso Eragon si sentì travolgere da un accesso d'ilarità. Contenendo a stento la risata, disse: «Avevo sentito l'espressione "indorare il giglio" quando uno vuol dire che si sciupa qualcosa con ornamenti inutili, ma gli spiriti l'hanno fatto davvero! Hanno indorato il giglio!» E scoppiò a ridere, lasciando che la sua voce rimbombasse in tutta la pianura.


Arya arricciò le labbra. «Be', le loro intenzioni erano nobili. Non possiamo incolparli di non conoscere i modi di dire umani.»


«No, ma... oh, ha, ha, ha!»


Arya fece schioccare le dita e la pioggia di luce svanì. «Abbiamo parlato quasi tutta la notte. È ora di riposare. L'alba è vicina, e dobbiamo partire al sorgere del sole.»


Eragon si distese su una macchia di terra priva di sassi e continuò a ridere mentre scivolava in un sonno vigile.

UN BAGNO DI FOLLA

Era metà pomeriggio quando finalmente arrivarono in vista dei Varden. Eragon e Arya si fermarono sulla cresta di una bassa collina e studiarono l'immensa città di tende grigie che si estendeva davanti a loro, brulicante di migliaia di uomini, cavalli e falò accesi. A ovest delle tende serpeggiava il fiume Jiet, fiancheggiato di alberi. A mezzo miglio verso est c'era un altro accampamento più piccolo, simile a un'isoletta appena al largo del continente da cui si è staccata, che ospitava gli Urgali guidati da Nar Garzhvog. Nel raggio di parecchie miglia intorno si muovevano numerosi gruppi di uomini a cavallo. Erano pattuglie di vigilanti, messaggeri con i vessilli, squadre di incursori che partivano o tornavano da una missione. Due delle pattuglie individuarono Eragon e Arya e, dopo aver suonato i corni di segnalazione, si lanciarono verso di loro al galoppo sfrenato.

Il volto di Eragon s'illuminò di un sorriso trionfante, e il giovane Cavaliere si mise a ridere, sollevato. «Ce l'abbiamo fatta!» esclamò. «Murtagh, Castigo, centinaia di soldati, combriccole di stregoni, i Ra'zac... nessuno è riuscito a prenderci. Ha! Che bello scherzetto per il re. Gli si arriccerà la barba quando lo verrà a sapere.»

«Allora diventerà due volte più pericoloso» lo ammonì Arya. «Lo so» disse lui, con uno ghigno sempre più ampio. «Magari si arrabbierà tanto da dimenticare di pagare le truppe, i suoi soldati getteranno l'uniforme alle ortiche e si uniranno ai Varden.»


«Sei di ottimo umore, oggi.»


«E perché non dovrei?» ribatté lui. Alzandosi in punta di piedi, spalancò la mente il più possibile e con tutte le sue forze gridò Saphira!, scagliando il pensiero sulla pianura come una lancia.


La risposta non si fece attendere.


Eragon!


Si abbracciarono con la mente, accarezzandosi con ondate di affetto, gioia e premura. Si scambiarono ricordi del periodo trascorso separati, e Saphira consolò Eragon per i soldati che aveva ucciso, purificandolo dal dolore e dalla rabbia accumulati dal giorno dello scontro. Eragon sorrise. Con Saphira così vicina, tutto nel mondo gli sembrava tornare al suo posto.


Mi sei mancata, disse.


Anche tu, piccolo mio, disse lei. Poi gli inviò un'immagine dei soldati che lui e Arya avevano combattuto e aggiunse: Ogni volta che ti lascio ti cacci nei guai. Sempre! Detesto quando siamo costretti a separarci perché ho sempre paura che ti succeda qualcosa nel momento stesso in cui ti tolgo gli occhi di dosso.


Sii giusta: mi ritrovo in un mare di guai anche quando sono con te. Non mi succede soltanto se rimango solo. Siamo come calamite che attirano eventi imprevisti.


No, tu sei una calamita per eventi imprevisti, sbuffò lei. A me non succede niente di straordinario quando sto da sola. Ma tu attiri duelli, agguati, nemici immortali, creature oscure come i Ra'zac, membri della famiglia da tempo perduti e misteriosi incantesimi, quasi fossero lupi affamati e tu un coniglio che si aggira davanti alla loro tana.


E il tempo che hai trascorso nelle grinfie di Galbatorix? Anche quello è stato un evento normale?


Non ero ancora nata, obiettò lei. Quello non vale. La differenza fra te e me è che a te le cose succedono, mentre io le faccio succedere.


Può darsi, ma è perché sto ancora imparando. Dammi qualche anno e diventerò bravo quanto Brom, ci scommetti? Non puoi dire che non ho preso l'iniziativa con Sloan.


Mmh. Di questo dobbiamo ancora parlare. Se mi cogli di sorpresa a quel modo un'altra volta, ti inchiodo per terra e ti lecco dalla testa ai piedi.


Eragon rabbrividì. La lingua di Saphira era ricoperta di barbigli uncinati che avrebbero potuto strappare a un cervo peli, pelle e carne con una sola passata. Lo so, ma non sapevo nemmeno io se avrei ucciso Sloan o se lo avrei lasciato libero fino a quando non me lo sono trovato davanti. Per di più, se ti avessi detto che volevo restare, avresti cercato di fermarmi.


Eragon percepì un ringhio potente tuonare nel petto della dragonessa. Saphira disse: Avresti dovuto fidarti di me. Se non possiamo parlare apertamente, come possiamo essere davvero drago e Cavaliere?


E quindi la cosa giusta da fare era che tu mi trascinassi via dall'Helgrind senza badare ai miei desideri?


No, forse no, rispose lei, sulla difensiva.


Eragon sorrise. Comunque hai ragione. Avrei dovuto discutere il mio piano con te. Mi dispiace. Da adesso in poi ti prometto che ti consulterò prima di fare qualunque cosa. D'accordo?


Solo se riguarda armi, magia, re o familiari, rispose lei.


O fiori.


O fiori, convenne lei. Non ho bisogno di sapere se decidi di mangiare pane e formaggio nel cuore della notte.


A meno che non ci sia un uomo con un lungo coltello che mi aspetta fuori dalla tenda.


Se non riuscissi a difenderti da un uomo solo con un lungo coltello, allora saresti proprio un ben misero Cavaliere.


Per non dire un Cavaliere morto.


Be'...


Secondo i tuoi ragionamenti, dovrei sentirmi sollevato al pensiero che pur attirando su di me le peggiori sventure sono perfettamente capace di sfuggire a situazioni in cui la maggior parte della gente soccomberebbe.


Anche i guerrieri più valorosi possono cadere sotto i colpi della sfortuna, disse la dragonessa. Ricordi il re dei nani Kaiga, che fu ucciso da un novellino... un nanovellino... quando inciampò su un sasso? Dovresti sempre essere prudente perché per quanto tu sia valoroso non puoi anticipare e prevenire ogni fatalità che il destino ti riserva.


Giusto. Ma adesso possiamo abbandonare questa noiosa conversazione? Negli ultimi giorni mi sono sfinito a furia di pensare al destino, al futuro, alla giustizia e ad altri cupi argomenti di questo genere. Secondo me le domande filosofiche servono più a confondersi e deprimersi che a migliorare le proprie condizioni di vita. Voltando la testa da una parte e dall'altra, Eragon scrutò la pianura e il cielo, in cerca del familiare scintillio azzurro delle squame di Saphira. Dove sei? Ti sento vicina, ma non ti vedo.


Proprio sopra di te!


Con un ruggito di gioia, Saphira sbucò da una grossa nuvola a diverse centinaia di iarde di altezza e scese in picchiata tenendo le ali aderenti al corpo. Aprì le fauci possenti e sprigionò una vampa di fuoco, che le risalì lungo la testa e il collo come una criniera fiammeggiante. Eragon rise e le tese le braccia. I cavalli della pattuglia che galoppavano verso lui e Arya s'impennarono quando videro e udirono Saphira e sfrecciarono nella direzione opposta mentre i cavalieri cercavano di trattenerli tirandoli per le redini.


«Avevo sperato di poter arrivare all'accampamento senza destare troppa attenzione» disse Arya, «ma avrei dovuto sapere che non si può passare inosservati quando c'è Saphira nei paraggi. Un drago è difficile da ignorare.»


Ti ho sentito, disse Saphira, dispiegando le ali e atterrando con un tonfo poderoso. I muscoli delle cosce e delle spalle s'incresparono di onde mentre assorbivano la potenza dell'impatto. Una forte corrente d'aria investì Eragon, e il terreno gli tremò sotto i piedi. Il giovane Cavaliere fletté le ginocchia per mantenere l'equilibrio. Ripiegando le ali sul dorso, la dragonessa disse: Posso passare inosservata, se voglio. Poi allungò il muso e batté le palpebre, frustrando l'aria con la coda. Ma oggi non voglio passare inosservata! Oggi sono un drago, non un piccione timoroso che cerca di non farsi vedere da un falco.


Quand'è che non sei un drago? chiese Eragon correndo verso di lei. Leggero come una piuma, le balzò sulla zampa per risalire fino alla spalla e poi nell'incavo alla base del collo, il suo rifugio abituale. Si mise a cavalcioni e l'abbracciò, sentendo i muscoli che si alzavano e si abbassavano accompagnando il suo respiro. Sorrise ancora, pervaso da un profondo senso di soddisfazione. Il mio posto è questo: qui con te. Le sue gambe vibrarono quando Saphira mugolò di compiacimento, un rombo profondo seguito da una strana, sottile melodia che lui non conosceva.


«Salute a te, Saphira» disse Arya, ruotando il polso e portando la mano al petto, nel consueto gesto di saluto degli elfi.


Appiattita sul ventre, allungando il collo, Saphira sfiorò Arya sulla fronte con la punta del muso, come aveva fatto quando aveva benedetto Elva nel Farthen Dûr, e disse: Salute a te, älfa-kona. Benvenuta, e che il vento ti accompagni soffiando sotto le tue ali. La dragonessa si rivolse ad Arya con lo stesso tono affettuoso che fino a quel momento aveva usato soltanto con Eragon, come se ormai considerasse l'elfa parte della loro piccola famiglia e Arya meritasse lo stesso rispetto e la stessa intimità che già condividevano loro due. Il suo gesto sorprese Eragon, ma dopo un'iniziale fitta di gelosia, il giovane approvò l'iniziativa del drago. Saphira continuò a parlare. Ti sono riconoscente per aver aiutato Eragon a tornare illeso. Se fosse stato catturato, non so che cosa avrei fatto!


«La tua gratitudine significa molto per me» disse Arya, e s'inchinò. «Quanto a ciò che avresti fatto se Galbatorix avesse catturato Eragon, be', saresti andata a salvarlo, e io ti avrei accompagnata, fosse stato anche nel cuore di Urû'baen!»


Sì, mi piace pensare che ti avrei salvato, Eragon, disse Saphira, voltandosi a guardarlo, ma temo che avrei dovuto consegnarmi all'Impero per farlo, senza pensare alle conseguenze su Alagaësia. Poi scosse la testa e rivoltò un po' di terra con gli artigli. Ah, ma queste sono riflessioni inutili. Sei qui, sano e salvo, ed è questa la realtà. Sprecare la giornata a riflettere sui mali che avrebbero potuto accaderci avvelena la felicità di cui godiamo in questo momento...


Proprio allora una pattuglia si avvicinò al galoppo. Si fermò a trenta iarde di distanza perché i cavalli erano nervosi e i soldati chiesero se potevano scortarli tutti e tre da Nasuada. Uno degli uomini smontò da cavallo per cedere lo stallone ad Arya, e poi tutti insieme si avviarono verso il mare di tende a sud-ovest. Saphira teneva una gradevole andatura dondolante che permise a lei e a Eragon di godere della compagnia reciproca prima di immergersi nel rumore e nel caos che li avrebbero investiti non appena si fossero avvicinati all'accampamento.


Eragon chiese notizie di Roran e Katrina, poi disse: Hai mangiato abbastanza fiori di epilobio? Hai l'alito più forte del solito.


Certo che ne ho mangiati abbastanza. L'hai notato solo perché sei stato via tanti giorni. Il mio odore è proprio quello che deve avere un drago, e ti sarei grata se non facessi più commenti sgradevoli sull'argomento, a meno che tu non voglia ritrovarti per terra. E poi voi umani avete poco da vantarvi, cosini sudati, unti e puzzolenti che non siete altro. Le uniche creature della natura con un odore simile al vostro sono i caproni e gli orsi ibernati. In confronto a quello che vi portate dietro voi, l'odore di un drago è un profumo delizioso come un prato fiorito.


Andiamo, non esagerare. Anche se, disse Eragon, arricciando il naso, dal giorno dell'Agaetí Blödhren ho notato che gli umani tendono a essere un tantino maleodoranti. Ma non puoi mettermi nel mucchio, perché io non sono più del tutto umano.


Può darsi, ma comunque un bel bagno non ti farebbe male!


Mentre attraversavano la pianura, una folla sempre più numerosa si andava radunando intorno a Eragon e Saphira, trasformandosi in una superflua ma impressionante scorta d'onore. Dopo aver passato tanto tempo nelle lande desolate di Alagaësia, la pressione dei corpi, il frastuono delle voci, la tempesta di pensieri ed emozioni non schermati e il confuso movimento di braccia che sventolavano e cavalli che s'impennavano diedero a Eragon l'impressione di essere finito in una marea travolgente.


Il giovane si ritrasse in se stesso, dove il coro dissonante di rumori si ridusse a un remoto sciabordio. Nonostante gli strati protettivi di barriere magiche, percepì l'approssimarsi di dodici elfi che correvano in formazione dall'altra parte dell'accampamento, veloci e agili come linci dagli occhi gialli. Desideroso di fare una buona impressione, Eragon si passò le dita fra i capelli e raddrizzò le spalle, ma irrobustì anche le difese mentali perché nessuno, oltre a Saphira, potesse sentire i suoi pensieri. Gli elfi erano venuti per proteggere lui e Saphira, ma erano prima di tutto fedeli alla regina Islanzadi. Per quanto fosse contento della loro presenza, e dubitasse che la loro innata cortesia consentisse loro di sbirciare nella sua coscienza, Eragon non voleva dare alla regina degli elfi alcuna opportunità di apprendere i segreti dei Varden o di esercitare pressioni su di lui. Se Islanzadi avesse potuto strapparlo a Nasuada, lo avrebbe fatto. Gli elfi non si fidavano degli umani, non dopo il tradimento di Galbatorix, e per questa e altre ragioni era sicuro che la regina avrebbe preferito avere lui e Saphira sotto il suo diretto comando. E di tutti i sovrani e i capi militari che aveva conosciuto, Islanzadi era quella di cui Eragon si fidava meno. Era troppo autoritaria ed elusiva.


I dodici elfi si fermarono davanti a Saphira. S'inchinarono e fecero con la mano il loro tipico gesto di cortesia, poi, uno per uno, si presentarono con la tradizionale frase iniziale del saluto elfico; Eragon rispose con la consueta formula. Quello che doveva essere il capo, un elfo alto e affascinante, con il corpo ricoperto da una pelliccia blu notte, annunciò lo scopo della loro missione davanti a tutti i presenti e chiese formalmente a Eragon e Saphira se potevano assumere l'incarico.


«Concesso» disse Eragon.


Concesso, disse Saphira.


Eragon domandò: «Blödhgarm-vodhr, ci siamo per caso già visti all'Agaetí Blödhren?» Ricordava infatti di aver visto un elfo con una pelliccia simile danzare fra gli alberi durante i festeggiamenti.


Blödhgarm sorrise, mostrando una chiostra di zanne ferine. «Credo che tu abbia visto mia cugina Liotha. Abbiamo molti tratti in comune, anche se la sua pelliccia è marrone e screziata, mentre la mia è blu scuro.»


«Avrei giurato che eri tu.»


«Purtroppo in quei giorni ero impegnato e non ho potuto prendere parte alla cerimonia. Forse ne avrò l'opportunità la prossima volta, fra cento anni.»


Non ti sembra, disse Saphira a Eragon, che abbia un buonissimo odore?


Eragon fiutò l'aria. Non sento niente. E lo sentirei, se ci fosse qualcosa di particolare.


Strano. La dragonessa gli trasmise tutta la gamma di aromi che aveva percepito, e all'improvviso Eragon capì che cosa intendeva. Un forte odore muscoso lo avvolse come una nuvola densa e inebriante, un tiepido aroma di fumo che conteneva tracce di ginepro frantumato e che faceva fremere le narici di Saphira. Tutte le donne dei Varden sembrano invaghite di lui, disse la dragonessa. Lo seguono ovunque vada, smaniose di parlargli, ma sono così timide che quando lui le guarda non riescono a far altro che squittire.


Magari soltanto le femmine riescono a sentire il suo odore. Eragon scoccò un'occhiata preoccupata ad Arya. Su di lei però non sembra avere effetto.


Arya è protetta dalle influenze magiche.


Lo spero... Credi che dovremmo fermare Blödhgarm? Il suo è un sotterfugio subdolo per conquistare il cuore di una donna.


Più subdolo che adornarsi di abiti eleganti per attirare lo sguardo dell'amato? Blödhgarm non si è approfittato delle donne che ha ammaliato, e mi sembra improbabile che abbia composto le note del suo profumo per attirare le donne umane in particolare. Credo invece che sia una conseguenza involontaria e che il suo aroma abbia tutto un altro scopo. A meno che non superi i limiti della decenza, credo che non dovremmo interferire.


E Nasuada? Non è vulnerabile al suo influsso?


Nasuada è una donna saggia e accorta. Si è fatta circondare da un incantesimo di difesa evocato da Trianna per non soccombere al fascino di Blödhgarm.


Bene.


Quando arrivarono alle tende, la folla crebbe a tal punto da dare l'impressione che mezza popolazione Varden si fosse radunata intorno a Saphira. Eragon alzò la mano verso la folla che lo acclamava: «Argetlam!» e «Ammazzaspettri!», mentre altri gridavano: «Dove sei stato, Ammazzaspettri? Raccontaci le tue avventure!» Altri ancora lo chiamarono Sterminatore di Ra'zac, e l'appellativo gli piacque a tal punto che lo ripeté quattro volte sottovoce. La gente invocava benedizioni sulla sua salute e quella di Saphira, lo invitava a cena, gli offriva oro e gioielli, e qualcuno gli fece particolari richieste di aiuto: guarire un figlio nato cieco, rimuovere un tumore che stava uccidendo una moglie, sanare la zampa rotta di un cavallo o addirittura riparare una spada piegata al grido di: «Era di mio nonno!» Due volte una voce di donna si levò dalla folla dicendo: «Ammazzaspettri, vuoi sposarmi?» Eragon si guardò intorno, ma non riuscì a capire chi aveva parlato.


In quel delirio, i dodici elfi restavano impassibili. Sapere che stavano guardando quello che lui non poteva vedere e ascoltando quello che lui non poteva sentire era un conforto, e gli consentiva di intrattenersi con i Varden ammassati con una tranquillità di cui in passato non aveva mai goduto.


Poi dalle file di tende cominciarono a farsi avanti gli ex abitanti del villaggio di Carvahall. Eragon smontò da Saphira e camminò fra gli amici e i conoscenti della sua giovinezza, scambiando strette di mano e pacche sulle spalle e ridendo alle battute, incomprensibili per chiunque non fosse cresciuto dalle parti di Carvahall. C'era anche Horst, il fabbro. Eragon gli strinse l'avambraccio abbronzato. «Bentornato, Eragon. Complimenti. Ti siamo debitori per aver distrutto i mostri che ci hanno costretti a lasciare le nostre case. Sono contento di vederti ancora tutto intero.»


«I Ra'zac avrebbero dovuto essere molto più svelti per riuscire a portarmi via anche un solo pezzo!» rise Eragon. Poi lo salutarono i figli di Horst, Albriech e Baldor; Loring il calzolaio con i suoi tre figli; Tara e Morn, proprietari della locanda di Carvahall; Fisk; Felda; Calitha; Delwin e Lenna; e infine Brigit dallo sguardo feroce, che gli disse: «Ti ringrazio, Eragon figlio di Nessuno. Ti ringrazio per aver inflitto la giusta punizione alle creature che hanno mangiato mio marito. Il mio cuore ti appartiene, ora e per sempre.»


Prima che Eragon avesse modo di rispondere, la folla li divise. Figlio di Nessuno? pensò. Ha! Ce l'ho un padre, e lo odiano tutti.


Poi, con sommo piacere, vide Roran farsi strada a spintoni tra la folla, con Katrina al fianco. Lui e Roran si abbracciarono, poi il cugino borbottò: «È stata una vera pazzia restare nell'Helgrind. Dovrei prenderti a calci nel sedere per averci abbandonati in quel modo. La prossima volta avvertimi quando decidi di andartene a zonzo da solo. Sta diventando un'abitudine. E avresti dovuto vedere come ha sofferto Saphira durante il volo di ritorno.»


Eragon posò una mano su una zampa di Saphira e disse: «Mi dispiace se non ho potuto dirti prima che sarei rimasto, ma non l'ho saputo nemmeno io fino all'ultimo momento.»


«E quale sarebbe il motivo preciso che ti ha trattenuto in quelle grotte malefiche?»


«C'era una cosa che dovevo scoprire.»


Roran s'incupì a quella risposta stringata, e per un istante Eragon temette che avrebbe insistito per avere altre spiegazioni, ma poi disse: «Be', che speranze ha un uomo qualunque come me di comprendere i modi e le ragioni di un Cavaliere dei Draghi, anche se è mio cugino? L'unica cosa che conta è che mi hai aiutato a liberare Katrina e adesso sei qui, sano e salvo.» Tese il collo, come se stesse cercando qualcosa in groppa a Saphira, poi guardò Arya, a diversi metri di distanza da loro, e disse: «Hai perso il mio bastone? Ho attraversato tutta Alagaësia con quel bastone, e tu sei riuscito a perderlo nel giro di un paio di giorni?»


«L'ho dato a un uomo che ne aveva più bisogno di me» rispose Eragon.


«Oh, smettila di punzecchiarlo» disse Katrina a Roran, e dopo un attimo di esitazione abbracciò Eragon. «È molto contento di vederti, lo sai. È solo che non riesce a trovare le parole per dirlo.»


Con un sorriso imbarazzato, Roran disse: «Ha ragione. Come sempre quando parla di me.» I due si scambiarono uno sguardo colmo d'amore.


Eragon studiò Katrina con attenzione. I capelli ramati avevano riacquistato l'antico splendore e i segni lasciati dai patimenti che aveva sofferto erano scomparsi, anche se la ragazza era sempre più magra e pallida del normale.


Avvicinandosi ancora di più, perché nessuno dei Varden lì intorno la sentisse, Katrina mormorò: «Non avrei mai pensato di doverti tanto, Eragon. Che noi ti dovessimo tanto. Da quando Saphira ci ha portati qui, ho capito che cosa hai rischiato per salvarmi, e te ne sono riconoscente. Se fossi rimasta anche solo un'altra settimana nell'Helgrind sarei morta, o impazzita, che è come morire continuando a vivere. Per avermi salvata da quel destino, e per aver guarito la spalla di Roran, ti ringrazio, ma avrai la mia eterna gratitudine soprattutto per averci riuniti. Se non fosse stato per te, non ci saremmo mai più ritrovati.»


«Sono convinto che in qualche modo Roran sarebbe riuscito a portarti fuori dall'Helgrind, anche senza di me» osservò Eragon. «Sa essere molto persuasivo quando è arrabbiato. Avrebbe convinto un altro mago ad aiutarlo... magari Angela l'erborista... e sarebbe comunque riuscito nel suo intento.»


«Angela l'erborista?» esclamò Roran. «Quella lingualunga non sarebbe mai stata capace di battere i Ra'zac.»


«Oh, rimarresti sorpreso dalle sue capacità. È molto più abile di quanto sembra... o di quanto non dica.» Poi Eragon si azzardò a fare una cosa che non avrebbe mai fatto quando viveva nella Valle Palancar, ma che adesso, in qualità di Cavaliere dei Draghi, gli parve appropriata: baciò sulla fronte Katrina e poi Roran, e disse: «Roran, tu per me sei come un fratello. Katrina, tu sei come una sorella. Se vi dovesse mai accadere qualcosa, chiamatemi, e che abbiate bisogno di Eragon il Contadino o di Eragon il Cavaliere, io sarò a vostra disposizione.»


«Lo stesso vale per noi» disse Roran. «Se mai dovessi cacciarti nei guai, chiamaci, e noi correremo in tuo aiuto.»


Eragon annuì, ma si trattenne dal commentare che i guai in cui era solito cacciarsi non erano del genere che uno dei due avrebbe potuto risolvere. Posò le mani sulle spalle di entrambi e disse: «Che possiate vivere a lungo, felici, e stare insieme per sempre, e che possiate avere molti bambini.» Il sorriso di Katrina vacillò per un istante, ed Eragon si domandò come mai.


Su insistenza di Saphira, ricominciarono a camminare verso il padiglione rosso di Nasuada al centro dell'accampamento. Accompagnati dal corteo di Varden esultanti, arrivarono davanti all'ingresso dove Nasuada li aspettava, con re Orrin alla sua sinistra e decine di nobili e funzionari radunati dietro una doppia fila di guardie schierate ai lati.


Nasuada indossava una lunga veste di seta verde che scintillava al sole come le piume sul petto di un colibrì, in netto contrasto con la pelle scura. Le maniche del vestito, lunghe fino al gomito, avevano un orlo di merletto. Da quel punto in poi, fino ai polsi sottili, le braccia erano fasciate da candide bende di lino. Il capo dei Varden spiccava sul resto della folla come uno smeraldo adagiato su un letto di foglie marroni. Soltanto Saphira poteva competere con lo splendore del suo aspetto.


Eragon e Arya si presentarono a Nasuada e poi a re Orrin. Nasuada diede loro il benvenuto formale da parte di tutti i Varden e li lodò per il loro coraggio. Concluse dicendo: «Sì, Galbatorix può anche avere un Cavaliere e un drago che combattono per lui come Eragon e Saphira combattono per noi. Può avere un esercito così numeroso da oscurare la terra. E può evocare strani e orribili sortilegi, abominio dell'arte magica. Ma con tutto il suo malefico potere non ha potuto impedire a Eragon e a Saphira di entrare nel suo regno e di uccidere quattro dei suoi servitori preferiti, né a Eragon di attraversare impunito l'Impero. Il braccio dell'usurpatore si è davvero indebolito se non è riuscito a difendere i suoi confini e a proteggere i suoi turpi agenti nel loro covo inaccessibile.»


Mentre i Varden esplodevano in un coro di acclamazioni, Eragon sorrise fra sé nel riconoscere quanto era abile Nasuada nel far leva sulle loro emozioni, ispirando fiducia, lealtà e ottimismo, nonostante la situazione in cui si trovavano. Non che mentisse: per quanto Eragon ne sapeva, Nasuada non mentiva mai, nemmeno quando aveva a che fare con il Consiglio degli Anziani o altri avversari politici. Quello che faceva era riferire le verità che più rafforzavano la sua posizione e i suoi argomenti. In questo, pensò Eragon, era molto simile agli elfi.


Quando le manifestazioni di esultanza dei Varden si furono placate, re Orrin salutò Eragon e Arya come aveva fatto Nasuada. Le sue parole furono più misurate di quelle della ragazza, e sebbene tutti avessero ascoltato in rispettoso silenzio e alla fine avessero applaudito, era ovvio che per quanto la folla lo rispettasse, non lo amava come amava Nasuada, e che Orrin non riusciva a infiammare l'immaginazione dei soldati quanto lei. Il re dal volto glabro era dotato di un intelletto superiore, ma la sua personalità era troppo distaccata, eccentrica e mite per rappresentare il concentrato delle speranze degli umani che si opponevano a Galbatorix.


Se sconfiggiamo Galbatorix, disse Eragon a Saphira, non dovrà essere Orrin a sostituirlo a Urû'baen. Non sarebbe in grado di unire il paese come Nasuada ha unito i Varden.


Sono d'accordo.


Re Orrin concluse il suo discorso. Nasuada sussurrò all'orecchio di Eragon: «Adesso tocca a te rivolgerti a coloro che si sono radunati per acclamare il famoso Cavaliere dei Draghi.» Nei suoi occhi balenò una scintilla di divertita malizia.


«A me?»


«Tutti si aspettano che tu lo faccia.»


Allora Eragon si volse per affrontare la moltitudine, con la lingua asciutta come sabbia. Aveva la mente vuota, e per un paio di secondi di panico pensò di aver perso il dono della parola, e che avrebbe fatto una figuraccia davanti all'intera popolazione dei Varden. Da qualche parte si levò il nitrito di un cavallo, ma per il resto l'accampamento sembrava immerso in un silenzio irreale. Fu Saphira a spezzare la sua paralisi dandogli un colpetto col muso sul braccio e dicendo: Di' che sei onorato di avere il loro sostegno e che sei felice di essere tornato fra di loro. Grazie al suo incoraggiamento, Eragon riuscì a spiccicare qualche parola appena accettabile, poi s'inchinò e fece un passo indietro.


Abbozzando un sorriso mentre la folla lo applaudiva e lo acclamava e batteva le spade sugli scudi, Eragon disse: È stato orribile! Preferirei combattere contro uno Spettro piuttosto che farlo di nuovo.


Su! Non è stato così difficile.


Non difficile: tremendo.


Uno sbuffo di fumo si levò dalle narici della dragonessa.


Ma che bel Cavaliere dei Draghi sei, terrorizzato all'idea di parlare alla folla! Se solo Galbatorix lo sapesse, gli basterebbe chiederti di fare un discorso alle sue truppe per costringerti alla resa. Ha!


Non sei spiritosa, borbottò lui, ma Saphira continuò a ridacchiare.

RISPETTO PER UN RE

Dopo il brevissimo discorso di Eragon ai Varden, Nasuada fece un cenno a Jörmundur, che subito accorse al suo fianco. «Fa' tornare tutti ai loro posti. Se ci attaccassero in questo momento, saremmo spacciati.»

«Sì, mia signora.»

Chiamando a sé Eragon e Arya, Nasuada posò la mano sinistra sul braccio di re Orrin, e insieme entrarono nel padiglione.


E tu? chiese Eragon a Saphira mentre seguiva i due. Quando entrò nel padiglione, però, notò che uno dei pannelli di stoffa era stato arrotolato e fissato a una trave per consentire a Saphira di infilare la testa e partecipare alla riunione. Aspettò qualche istante prima che il muso e il collo scintillanti della dragonessa sbucassero da dietro l'apertura, oscurando l'interno della tenda quando lei si accovacciò. Le pareti erano costellate di luminosi puntini viola, i riflessi delle sue squame azzurre sul tessuto rosso.


Eragon osservò il resto della tenda. In confronto a quando l'aveva visitata l'ultima volta era spoglia, risultato della devastazione provocata da Saphira quando era entrata nel padiglione per vedere Eragon nello specchio magico. Con solo quattro pezzi di arredamento, il padiglione era austero persino per i canoni militari. C'era lo scranno di legno levigato dov'era seduta Nasuada, con re Orrin in piedi al suo fianco; lo specchio magico montato su un'asta di ottone inciso; uno sgabello pieghevole; e un basso tavolo straripante di mappe e altri documenti. Il pavimento era coperto da un tappeto annodato di arte nanesca. Oltre ad Arya e a lui, c'erano già una ventina di altre persone radunate di fronte a Nasuada. Lo guardavano tutti. Fra di loro riconobbe Narheim, il comandante in carica delle truppe dei nani; Trianna e gli altri stregoni del Du Vrangr Gata; Sabrae, Umérth e il resto del Consiglio degli Anziani, tranne Jörmundur; un gruppo di nobili e funzionari della corte di re Orrin. Si disse che quelli che non conosceva dovevano essere membri importanti di una delle molte fazioni che sostenevano l'esercito dei Varden. Erano presenti sei delle guardie di Nasuada - due appostate all'ingresso e quattro intorno al suo scranno - ed Eragon percepì anche l'intricato mosaico degli oscuri e contorti pensieri di Elva, nascosta da qualche parte in fondo al padiglione.


«Eragon» disse Nasuada, «non vi siete mai conosciuti, perciò ti presento Sagabato-no Inapashunna Fadawar, capo della tribù Inapashunna. È un uomo molto coraggioso.»


Per tutta l'ora successiva Eragon sopportò quella che gli parve una serie infinita di presentazioni, congratulazioni e domande a cui non poteva rispondere direttamente senza rivelare segreti che era meglio tenere celati. Quando tutti gli ospiti gli ebbero parlato, Nasuada fece loro cenno di congedarsi. Mentre uscivano dal padiglione, Nasuada batté le mani e le guardie fuori fecero entrare un secondo gruppo di notabili e poi, quando questi ebbero gustato i dubbi frutti della loro visita, un terzo. Eragon continuò a sorridere per tutto il tempo, scambiando una stretta di mano dopo l'altra. Rivolse e ricevette insulsi convenevoli, sforzandosi di mandare a memoria la folla di nomi e titoli che lo assediavano e comportandosi con la perfetta cortesia che ci si aspettava da lui. Sapeva che lo onoravano non perché era loro amico ma per la possibilità di vittoria che incarnava per i popoli liberi di Alagaësia, per il suo potere, e perché speravano di ottenere qualcosa da lui. Dentro di sé ululava di frustrazione e non vedeva l'ora di liberarsi dai rigidi vincoli delle buone maniere e dell'etichetta per salire in groppa a Saphira e volare lontano a godersi un po' di pace.


Una delle poche cose che lo divertirono fu la reazione dei postulanti davanti ai due Urgali che incombevano sullo scranno di Nasuada. Alcuni facevano finta di ignorare i guerrieri cornuti - anche se dalla rapidità dei loro movimenti e dai toni striduli delle loro voci si intuiva che le creature li innervosivano - mentre altri guardavano gli Urgali con diffidenza, le mani strette su spade o pugnali, e altri ancora ostentavano un falso coraggio mostrandosi superiori alla famigerata forza degli Urgali. Soltanto un gruppo ristretto di persone sembrava indifferente a quella vista: Nasuada in primo luogo, ma anche re Orrin, Trianna e un conte che disse di aver visto Morzan e il suo drago radere al suolo un'intera città quando era appena un bambino.


Quando Eragon arrivò al limite della sopportazione, Saphira gonfiò il petto ed emise un cupo ringhio vibrante così potente da far tremare lo specchio nella sua cornice. Sul padiglione calò un silenzio di tomba. Il ringhio non aveva intenzioni minacciose, ma catturò l'attenzione di tutti e palesò l'impazienza che pervadeva la dragonessa. Nessuno degli ospiti fu abbastanza stupido da mettere alla prova la sua resistenza. Con scuse frettolose, raccolsero le proprie cose e uscirono in fila dal padiglione, affrettando il passo quando Saphira cominciò a tamburellare con gli artigli sul terreno.


Nasuada sospirò quando il lembo di stoffa dell'ingresso si chiuse alle spalle dell'ultimo visitatore. «Ti ringrazio, Saphira. Mi dispiace di averti fatto subire questa tortura delle presentazioni, Eragon, ma sono sicura che comprendi. Tu occupi una posizione di straordinario rilievo fra i Varden, e non posso più tenerti solo per me. Appartieni al popolo, adesso. Ti chiedono un riconoscimento ufficiale e pretendono ciò che considerano una giusta parte del tuo tempo. Né tu né io né Orrin possiamo ignorare i desideri della folla. Perfino Galbatorix, sul suo oscuro trono di Urû'baen, teme i capricci del popolo, anche se forse lo nega perfino a se stesso.»


Senza più gli ospiti presenti, re Orrin abbandonò la maschera di regale decoro. Il suo rigido atteggiamento si trasformò in una più umana espressione di sollievo, irritazione e spasmodica curiosità. Sciogliendo le spalle sotto il peso della veste cerimoniale, guardò Nasuada e disse: «Non credo che abbiamo più bisogno dei tuoi Falchineri qui dentro.»


«D'accordo.» Nasuada batté le mani, congedando le guardie.


Trascinando lo sgabello pieghevole accanto alla regina, re Orrin sedette cercando di districarsi dal groviglio di stoffe pesanti che gli impacciavano i movimenti. «Bene» disse, guardando ora Eragon, ora Arya. «È arrivato il momento di farci conoscere ogni dettaglio della tua impresa, Eragon Ammazzaspettri. Ho sentito soltanto vaghe spiegazioni sulla ragione che ti ha spinto a decidere di attardarti nell'Helgrind, e io ne ho abbastanza di risposte evasive o incomplete. Sono deciso a sapere la verità sulla questione, perciò ti avverto, non cercare di nascondere niente di quello che è successo mentre ti trovavi nel territorio dell'Impero. Finché non sarò convinto che mi hai detto tutto quello che c'è da dire, nessuno di noi metterà un piede fuori da questa tenda.»


Con voce fredda e tagliente come una scheggia di ghiaccio, Nasuada intervenne. «Mi pare che tu pretenda un po' troppo... sire. Non hai autorità su di me per tenermi confinata qui; né su Eragon, che è mio vassallo; né su Saphira; né su Arya, che non risponde a nessun signore mortale ma a una sovrana che è molto più potente di noi due messi insieme. Né noi abbiamo autorità su di te. Noi cinque siamo uguali a tutti coloro che ricoprono il nostro stesso incarico nell'intera Alagaësia.»


Re Orrin rispose a tono: «Travalico dunque i confini della mia sovranità? Può darsi. Hai ragione: non ho potere su di voi. Tuttavia, se siamo uguali, devo ancora vederne la prova nel trattamento che mi riservi. Eragon risponde a te e a te soltanto. Con la Prova dei Lunghi Coltelli hai conquistato il potere sulle tribù nomadi, molte delle quali prima contavo fra i miei sudditi. E comandi a tuo piacimento sia i Varden che i cittadini del Surda, che da tempo servono la mia famiglia con un coraggio e una determinazione che vanno ben oltre quelli degli uomini comuni.»


«Sei stato tu a chiedermi di organizzare questa campagna» ribatté Nasuada. «Io non ti ho deposto.»


«Giusto, sono stato io a chiederti di assumere il comando delle nostre forze frammentate. Non mi vergogno ad ammettere che tu hai molta più esperienza e capacità di me nel muovere guerra. Il nostro futuro è troppo incerto perché io, tu o uno qualsiasi di noi possa indulgere in un falso orgoglio. Tuttavia dal momento della tua investitura sembri aver dimenticato che sono ancora il re del Surda, e che noi della famiglia Langfeld possiamo vantare origini che risalgono a Thanebrand il Donatore dell'Anello, che a sua volta succedette al vecchio Palancar il Matto, e che fu il primo a sedere sul trono di quella che adesso è Urû'baen.


«Considerando il nostro lignaggio e l'aiuto che il Casato di Langfeld ti ha fornito in questa causa, è offensivo da parte tua ignorare i diritti della mia posizione. Ti comporti come se il tuo fosse l'unico verdetto importante e le opinioni degli altri non contassero nulla e fossero solo pareri da calpestare sulla strada che ti porta a perseguire lo scopo che hai già deciso essere il migliore per quella parte di umanità libera che è abbastanza fortunata da averti come capo. Tu negozi trattati e alleanze, come quella con gli Urgali, di tua iniziativa, e pretendi che io e gli altri accettiamo le tue decisioni, come se parlassi a nome di tutti noi. Tu organizzi visite di Stato, come quella con Blödhgarm-vodhr, e non ti prendi il disturbo di avvisarmi, né aspetti il mio arrivo perché possiamo ricevere l'ambasceria insieme come pari grado. E quando ho l'ardire di chiedere a Eragon... l'uomo la cui esistenza è la prima ragione per cui ho trascinato il mio paese in questa avventura... quando ho l'ardire di chiedere perché questa persona importantissima ha deciso di mettere in pericolo la vita dei surdani e di ogni creatura che si oppone a Galbatorix per restare nel cuore del paese nemico, tu come reagisci? Trattandomi come se non fossi altro che un sottoposto troppo zelante e curioso, le cui infantili preoccupazioni ti distraggono da questioni molto più urgenti. Bah! Sappi che non lo accetto. Se non riesci a rispettare la mia carica e un'equa divisione di responsabilità, così come dovrebbero fare due alleati, allora sono dell'opinione che tu sia inadatta a comandare una coalizione come la nostra, e ti ostacolerò in qualsiasi circostanza.»


Quante parole! commentò Saphira.


Allarmato dalla piega che aveva preso la conversazione, Eragon disse: Che cosa devo fare? Non voglio raccontare a nessuno di Sloan, tranne che a Nasuada. Meno persone sanno che è ancora vivo, meglio è.


Un fremito color oceano scintillò lungo il collo di Saphira quando le punte aguzze e frastagliate delle squame a losanga si sollevarono di una frazione di pollice dalla pelle, dandole un aspetto feroce e selvaggio. Non posso dirti io che cosa è meglio, Eragon. In questa occasione devi fondarti sul tuo giudizio. Ascolta bene quello che ti dice il cuore e forse capirai come districarti da queste trappole insidiose.


In risposta all'arringa di re Orrin, Nasuada si strinse le mani in grembo, le bende bianche in netto contrasto con il verde del vestito, e con voce tranquilla e monotona disse: «Se ti ho mancato di rispetto, sire, è stato soltanto per leggerezza e precipitazione, e non per il desiderio di screditare te o il tuo casato. Ti prego di perdonare le mie manchevolezze. Non accadrà più, te lo prometto. Come hai giustamente sottolineato, è da poco che ricopro questa carica e devo ancora impararne le implicite sottigliezze.»


Orrin inclinò la testa in un gesto di fredda ma compiaciuta approvazione.


«Quanto a Eragon e alle sue attività nell'Impero, non ho potuto fornirti i dettagli specifici perché io stessa non sapevo nulla al riguardo. E questa, come immagino tu capirai, non era una cosa che avevo interesse a rendere di pubblico dominio.»


«No, è ovvio.»


«A questo punto credo che la cura più rapida per sanare la disputa in corso sia lasciare che Eragon ci esponga i fatti come si sono svolti, affinché noi possiamo comprenderne la portata e poi giudicare.»


«Più che una cura» ribatté re Orrin «direi che si tratta del principio di una cura, e sono più che disposto ad ascoltare.»


«Allora non indugiamo oltre» disse Nasuada. «Cominciamo dal principio e finiamola con questa trepida attesa. Eragon, è giunto il momento che ci spieghi.»


Mentre Nasuada e gli altri lo fissavano con occhi curiosi, Eragon fece la sua scelta. Levando il mento, disse: «Quello che vi dirò sarà in assoluta confidenza. So che non posso pretendere da te, re Orrin, e da te, Lady Nasuada, che mi giuriate di mantenere il segreto da adesso fino al giorno della vostra morte, ma vi prego di comportarvi come se lo aveste fatto. Se questo segreto arrivasse alle orecchie sbagliate potrebbe causare un immenso dolore.»


«Un re non rimane re a lungo se non sa apprezzare il valore del silenzio» disse Orrin.


Senza altri indugi, Eragon descrisse tutto quello che gli era accaduto nell'Helgrind e nei giorni seguenti. Poi toccò ad Arya spiegare come aveva fatto a trovare Eragon e confermare il suo racconto fornendo dettagli e osservazioni sul viaggio. Quando entrambi ebbero finito, nel padiglione calò il silenzio; Orrin e Nasuada sedevano immobili. Eragon ebbe l'impressione di essere tornato bambino, in attesa che Garrow gli dicesse quale punizione avrebbe ricevuto per aver combinato una marachella delle sue.


Orrin e Nasuada rimasero assorti nelle loro riflessioni per lunghi minuti, poi Nasuada si lisciò il vestito e disse: «Re Orrin potrà forse essere di opinione diversa, e in tal caso sono curiosa di saperne i motivi, ma da parte mia ti dico che hai fatto la cosa giusta, Eragon.»


«Sono d'accordo» disse Orrin, con grande sorpresa di tutti i presenti.


«Davvero?» esclamò Eragon. Esitò. «Non voglio sembrare impertinente, perché sono contento che approviate, ma non mi aspettavo che accettaste la mia decisione di risparmiare la vita di Sloan. Se posso chiederlo, perché...»


Re Orrin lo interruppe. «Perché approviamo? Perché bisogna seguire la legge. Se ti fossi autonominato boia di Sloan, Eragon, ti saresti arrogato i diritti che spettano a Nasuada e a me. Perché colui che ha l'audacia di decidere chi deve vivere e chi morire non serve più la legge, ma detta legge. E per quanto magnanimo tu possa essere, non sarebbe un bene per le nostre razze. Io e Nasuada, quantomeno, rispondiamo all'unico signore davanti al quale tutti i re devono inginocchiarsi. Rispondiamo ad Angvard, nel suo regno di eterno crepuscolo. Rispondiamo al Grigio sul suo cavallo grigio. La Morte. Potremmo essere i peggiori tiranni nella storia del mondo, eppure a tempo debito Angvard ci metterà in ginocchio... Tu non subirai questa sorte. Gli umani sono una razza dalla vita breve, e non dovremmo essere governati da un Immortale. Non ci serve un altro Galbatorix.» Una risata sinistra sfuggì dalle labbra di Orrin, poi, con la bocca deformata da un sorriso amaro, il re del Surda proseguì. «Non capisci, Eragon? Sei così pericoloso che siamo costretti a dirtelo apertamente e sperare che tu sia uno dei rari esseri refrattari alle malie del potere.»


Re Orrin intrecciò le dita sotto il mento e fissò una piega del suo vestito. «Ho detto più di quanto volessi... Quindi, per questo motivo e altri ancora, sono d'accordo con Nasuada. Hai fatto bene a trattenere la mano quando hai trovato questo Sloan nell'Helgrind. Per quanto increscioso possa essere questo episodio, sarebbe stato peggio, soprattutto per te, se lo avessi ucciso per tua soddisfazione personale e non per difenderti o per servire gli altri.»


Nasuada annuì. «Parole sacrosante.»


Per tutto il tempo, Arya aveva ascoltato con un'espressione indecifrabile. Quali che fossero i suoi pensieri, non li manifestò.


Orrin e Nasuada fecero a Eragon tutta una serie di domande sui giuramenti che aveva imposto a Sloan, come anche sul resto del viaggio. L'interrogatorio proseguì così a lungo che Nasuada fece portare un vassoio con sidro ghiacciato, frutta e pasticcio di carne, insieme a un quarto di manzo per Saphira. Nasuada e Orrin ebbero l'opportunità di mangiare fra una domanda e l'altra, ma Eragon era così impegnato a parlare che riuscì a dare appena due morsi a un frutto e a bere qualche sorso di sidro per bagnarsi la gola.


Alla fine re Orrin si congedò per andare a passare in rivista la sua cavalleria. Arya uscì dal padiglione un minuto dopo, spiegando che doveva fare rapporto alla regina Islanzadi. «Chiederò che mi venga scaldata una tinozza d'acqua» aggiunse «per lavarmi via la sabbia dalla pelle, e poi riprenderò il mio aspetto consueto. Non mi sento a mio agio senza le orecchie a punta e con gli occhi rotondi e diritti, e le ossa del viso nei posti sbagliati.»


Quando fu rimasta sola con Eragon e Saphira, Nasuada sospirò e abbandonò la testa contro lo schienale dello scranno. Eragon rimase colpito da quell'improvvisa manifestazione di stanchezza. Scomparsa era la sua vitalità, scomparsa l'imperiosa presenza, scomparso il fuoco dai suoi occhi. In quel momento Eragon capì che Nasuada aveva finto di essere più forte di quanto era per evitare di allettare i nemici e di demoralizzare i Varden con lo spettacolo della sua debolezza.


«Stai male?» le chiese.


Lei si guardò le braccia. «Non proprio. È solo che impiegano più tempo del previsto a guarire... Certi giorni sono peggio di altri.»


«Se vuoi, posso...»


«No. Grazie, no. Non mi tentare. Una delle regole della Prova dei Lunghi Coltelli è che devi lasciare che le ferite guariscano da sole, senza magia. Altrimenti i contendenti non sperimenterebbero la piena misura del dolore.»


«Ma è una barbarie!»


Un lieve sorriso le affiorò sulle labbra. «Può darsi, ma le cose stanno così e non fallirò a prova ormai conclusa solo perché non riesco a sopportare un po' di dolore.»


«E se le ferite si infettano?»


«Se si infettano, pagherò il prezzo del mio errore. Ma dubito che accadrà finché c'è Angela a curarle. La sua conoscenza delle piante medicinali è straordinaria. Sono quasi convinta che saprebbe dire il vero nome di ogni specie di piante delle pianure a est di questo accampamento soltanto toccandone le foglie.»


Saphira, che era rimasta così immobile da sembrare addormentata, sbadigliò - le fauci quasi toccavano il pavimento e il soffitto -, scrollò la testa e distese il collo, facendo vorticare a una velocità da capogiro i puntini di luce che le squame proiettavano sulle pareti della tenda.


Raddrizzandosi sullo scranno, Nasuada disse: «Ah, mi dispiace. So quanto dev'essere stato noioso. Siete stati tutti e due molto pazienti. Grazie.»


Eragon s'inginocchiò e posò una mano sulle sue. «Non devi preoccuparti per me, Nasuada. Conosco i miei doveri. Non ho mai aspirato al comando: non è questo il mio destino. E se mai mi venisse offerto un trono, lo rifiuterei, assicurandomi che lo occupasse qualcuno di più adatto di me a guidare la nostra razza.»


«Sei una brava persona, Eragon» mormorò Nasuada, e gli strinse la mano fra le sue. Poi ridacchiò. «Fra te, Roran e Murtagh, passo la maggior parte del tempo a preoccuparmi dei membri della tua famiglia.»


Eragon alzò il capo a quelle parole, irato. «Murtagh non fa parte della mia famiglia.»


«Ma certo. Perdonami. Eppure devi ammettere che è straordinaria la mole di problemi che tutti e tre avete riversato sia sull'Impero che sui Varden.»


«È la nostra specialità» scherzò Eragon.


Scorre nel loro sangue, disse Saphira. Ovunque vadano, s'infilano nei peggiori pericoli possibili. Toccò il braccio di Eragon col muso. Soprattutto questo qui. Ma cos'altro ci si può aspettare dai nati nella Valle Palancar? Tutti discendenti di un re folle.


«Ma non folli» disse Nasuada. «Almeno, non credo. È difficile dirlo, a volte.» Scoppiò a ridere. «Se tu, Roran e Murtagh veniste chiusi nella stessa cella, non so chi sopravviverebbe.»


Anche Eragon rise. «Roran. Non permetterebbe mai a una cosuccia insignificante come la morte di intromettersi fra lui e Katrina.»


Il sorriso di Nasuada si fece più teso. «Già, immagino di no.» Per un minuto rimase in silenzio, poi disse: «Ah, ma quanto sono egoista. La giornata è quasi finita e io sono qui a trattenerti solo per il gusto di un paio di minuti di amena conversazione.»


«Il piacere è mio.»


«Sì, ma ci sono posti migliori di questo per quattro chiacchiere fra amici. Dopo quello che hai passato, immagino che tu abbia voglia di un bel bagno, di abiti puliti, e di un pasto come si deve, dico bene? Devi avere una fame da lupi!» Eragon scoccò un'occhiata alla mela che aveva appena addentato, e decise che sarebbe stato villano continuare a mangiare quando il suo incontro con Nasuada stava volgendo al termine. Nasuada si accorse del suo sguardo e disse: «Il tuo volto risponde per te, Ammazzaspettri. Be', non prolungherò questa tortura. Sembri un lupo affamato. Vai a lavarti e a metterti la tua tunica migliore. Quando sarai presentabile, sarò lieta se accetterai il mio invito a cena. Sappi che non sarai il mio unico ospite, perché gli affari dei Varden richiedono la mia costante attenzione, ma mi alleggerirai di parecchio la fatica se decidi di partecipare.»


Eragon represse una smorfia al pensiero di altre lunghe ore passate a parare affondi e stoccate verbali da parte di coloro che cercavano di usarlo a proprio vantaggio o per soddisfare la propria curiosità sui Cavalieri e i draghi. Eppure non si poteva dire di no a Nasuada, e così s'inchinò e accettò l'invito.

FESTA FRA AMICI

Eragon e Saphira uscirono dal padiglione rosso di Nasuada attorniati dal contingente di elfi e si incamminarono verso la piccola tenda che era stata loro assegnata quando si erano uniti ai Varden sulle Pianure Ardenti. Lì Eragon trovò ad attenderlo un barilotto d'acqua calda, le spire di vapore opalescenti nella luce obliqua del grande sole della sera, ma sul momento lo ignorò, e si chinò per entrare nella tenda.

Dopo avere controllato che nessuno dei suoi averi fosse stato toccato mentre era lontano, Eragon si liberò dello zaino e ne tolse l'armatura con cautela, riponendola sotto la branda. Andava pulita e oliata, ma poteva aspettare. Poi rovistò ancora sotto la branda, graffiando con le dita la parete di tessuto, e cercò a tastoni finché non raggiunse un oggetto lungo e solido. Afferrò il pesante fagotto e se lo appoggiò sulle ginocchia. Sciolse i nodi che chiudevano la stoffa e poi, partendo dall'estremità più voluminosa, cominciò a sbrogliare le strisce di tela grezza.

Un pollice dopo l'altro, apparve la consunta impugnatura di cuoio della spada di Murtagh. Quando ebbe sfoderato l'elsa, la guardia crociata e buona parte della scintillante lama, dentellata come una sega nei punti in cui si era opposta a Zar'roc, si fermò.

Rimase seduto a fissare l'arma, combattuto. Non sapeva che cosa l'avesse spinto a farlo, ma il giorno dopo la battaglia era tornato sul pianoro e aveva recuperato la spada dal pantano dove Murtagh l'aveva abbandonata. Benché fosse rimasta esposta alle intemperie una sola notte, sull'acciaio era apparso un velo di macchioline di ruggine, che Eragon aveva subito dissolto con un incantesimo. Forse si era sentito in obbligo di prendere la spada di Murtagh perché Murtagh gli aveva rubato la sua, come se lo scambio, seppur impari e imposto, potesse compensare la perdita. O forse desiderava conservare un ricordo di quel sanguinoso conflitto. O forse nutriva ancora una sorta di affetto latente per Murtagh, nonostante le squallide circostanze che li avevano visti schierati l'uno contro l'altro. Per quanto aborrisse ciò che era diventato Murtagh e insieme provasse compassione per lui, non poteva negare il legame che c'era tra loro. Condividevano un destino comune. Se non fosse stato per un caso legato alla loro nascita, Eragon forse sarebbe stato allevato a Urû'baen e Murtagh nella Valle Palancar, e i loro ruoli avrebbero potuto essere scambiati. Le loro vite erano legate inesorabilmente.

Mentre osservava l'acciaio splendente, Eragon pronunciò un incantesimo per cancellare i graffi dalla lama, eliminare le sbeccature lungo i bordi e ristabilire la solidità della tempra. Tuttavia si domandò se fosse il caso. Aveva tenuto la cicatrice che gli aveva procurato Durza come ricordo del loro incontro, almeno finché i draghi non l'avevano cancellata durante l'Agaetí Blödhren. Avrebbe dovuto conservare anche quest'altra cicatrice? Sarebbe stato un bene per lui portare alla cintura un ricordo così doloroso? E se avesse scelto di impugnare la lama di un traditore, quale messaggio avrebbe trasmesso ai Varden? Zar'roc era stata un dono di Brom: allora non aveva potuto rifiutarla, e nemmeno gli dispiaceva di averla accettata. Ma adesso non aveva alcun obbligo di reclamare per sé l'anonima arma che teneva sulle gambe.

Ho bisogno di una spada,

pensò.

Ma non di questa.

La riavvolse nel sudario di tela e la ripose sotto la branda. Poi, con una camicia e una tunica pulite sotto il braccio, uscì e andò a lavarsi.


Pulito ed elegante nella camicia e nella tunica di fine làmarae, uscì per andare all'appuntamento con Nasuada vicino alle tende dei guaritori, come lei gli aveva chiesto. Saphira ci andò in volo, dicendo che l'accampamento era troppo affollato e continuava a inciampare nelle tende. E poi se cammino al tuo fianco verremo accerchiati da una tale folla che non riusciremo a muovere nemmeno un passo.


Nasuada li aspettava accanto a una fila di tre aste, da cui penzolavano flosci cinque o sei vivaci stendardi nell'aria fresca della sera. Da quando si erano separati, la regina si era cambiata d'abito e adesso indossava un leggero vestito estivo di un delicato color paglia. Aveva raccolto i capelli folti come muschio in un'acconciatura alta, un intricato ammasso di nodi e treccine tenuto insieme da un nastro bianco.


Sorrise a Eragon, che ricambiò e affrettò il passo. A mano a mano che si avvicinava, le sue guardie si mischiarono a quelle della regina con evidente dimostrazione di sospetto da parte dei Falchineri e studiata indifferenza da parte degli elfi.


Nasuada lo prese sottobraccio e, mentre parlavano tranquilli, lo guidò attraverso la distesa di tende. Saphira volteggiava sull'accampamento, in attesa che giungessero a destinazione prima di affrontare la fatica dell'atterraggio. Il Cavaliere e la regina parlarono di molte cose. Nulla di importante, ma Eragon rimase affascinato dall'acume, dall'allegria e dall'attenzione dei commenti di Nasuada. Parlare con lei gli risultava facile, ancora di più ascoltarla, e fu proprio quella disinvoltura a fargli capire quanto le volesse bene. L'ascendente che aveva su di lui superava di molto il normale rapporto tra signore e vassallo. Il loro legame era un sentimento nuovo. A parte la zia Marian, di cui serbava solo un vago ricordo, Eragon era cresciuto in un mondo di uomini e non aveva mai avuto l'opportunità di fare amicizia con una donna. Era inesperto e insicuro, e anche goffo, ma Nasuada non sembrava farci caso.


Lo fece fermare di fronte a una tenda. Dentro risplendeva la luce di mille candele e risuonava una moltitudine di voci incomprensibili. «È giunto il momento di rituffarci nel pantano della politica. Preparati.»


Quando Nasuada scostò il lembo di stoffa all'ingresso, una folla di persone gridò: «Sorpresa!» ed Eragon ebbe un sussulto. In mezzo alla tenda dominava un ampio tavolo sostenuto da cavalletti e traboccante di cibo, a cui erano seduti Roran, Katrina e una ventina di abitanti di Carvahall, tra cui Horst e la sua famiglia, Angela l'erborista, Jeod e la moglie Helen e diverse altre persone che Eragon non conosceva ma che avevano tutta l'aria di essere marinai. Cinque o sei bambini che stavano giocando per terra accanto al tavolo si bloccarono di colpo e fissarono Eragon e Nasuada a bocca aperta, quasi incapaci di decidere quale tra le due strane figure meritasse di più la loro attenzione.


Sopraffatto, Eragon fece un gran sorriso. Prima che gli venisse in mente qualcosa da dire, Angela levò il boccale e lo invitò: «Be', non startene lì impalato! Vieni a sederti. Muoio di fame!»


Scoppiarono a ridere tutti e Nasuada trascinò Eragon verso le due sedie libere vicino a Roran. Eragon la aiutò a prendere posto, poi si sedette e le chiese: «Hai organizzato tu tutto questo?»


«Roran mi ha suggerito chi invitare, ma... sì, è stata un'idea mia. Come puoi vedere ho aggiunto di mia iniziativa qualche nome alla lista degli ospiti.»


«Grazie» rispose umilmente Eragon. «Grazie davvero.»


Vide Elva seduta a gambe incrociate in fondo alla tenda, sulla sinistra, con un piatto in grembo. Gli altri bambini la evitavano - non che avessero molto in comune, si disse - e nemmeno gli adulti, tranne Angela, sembravano a proprio agio in sua presenza. La bambina minuta con le spalle spioventi alzò il capo e lo guardò da dietro la frangetta nera con quei suoi terribili occhi viola, poi scandì due mute parole, forse: "Salve, Ammazzaspettri."


"Salve, Veggente" rispose lui allo stesso modo muto. Le piccole labbra rosa di Elva si distesero in un sorriso che sarebbe stato affascinante non fosse stato per le feroci orbite ardenti che lo sovrastavano.


All'improvviso il tavolo tremò, i piatti presero a tintinnare e le pareti della tenda si gonfiarono. Eragon si aggrappò ai braccioli della sedia. Contro la parete di fondo si profilò uno strano rigonfiamento, poi fece capolino Saphira. Carne! esclamò. Sento odore di carne!


Nelle ore che seguirono, Eragon si smarrì in un vortice confuso di cibo e bevande, e godette il piacere della buona compagnia. Gli sembrava di essere tornato a casa. Il vino scorreva a fiumi, e dopo averne scolate un paio di coppe gli abitanti del villaggio dimenticarono ogni deferenza e lo trattarono come uno di loro, il dono più grande che potessero fargli. Si dimostrarono altrettanto generosi con Nasuada, ma si trattennero dal rivolgerle battute di spirito, come invece facevano a volte con Eragon. Via via che le candele si consumavano, un pallido fumo colmò la tenda. Accanto a sé, Eragon sentiva risuonare all'infinito la fragorosa risata di Roran; dall'altra parte del tavolo Horst rideva anche più forte. Angela borbottò un incantesimo e con grande divertimento dei presenti fece danzare un omino che aveva modellato con la crosta di una pagnotta. A poco a poco i bambini vinsero la paura per Saphira e osarono avvicinarsi e accarezzarla sul muso. Dopo appena una manciata di minuti, cominciarono ad arrampicarsi sul collo della dragonessa, a dondolarsi sulle sue punte cervicali e a tirarle le creste sopra gli occhi. Eragon li guardava e rideva. Jeod intrattenne i presenti con una canzone che aveva letto in un libro molto tempo prima. Tara ballò una giga. Ogni volta che Nasuada gettava la testa all'indietro, i suoi denti bianchi risplendevano. Dietro le insistenze dei presenti, Eragon narrò molte delle sue avventure, compresa una dettagliata descrizione della sua fuga da Carvahall insieme a Brom, che suscitò un particolare interesse nel pubblico.


«Ma ve lo immaginate? Avevamo una dragonessa nella nostra vallata e non ce ne siamo mai accorti» disse Gertrude, la guaritrice dal viso rubicondo, aggiustandosi lo scialle. Poi sfilò dalle maniche un paio di ferri da calza e li puntò contro Eragon. «E pensare che ti ho curato io quando ti sei graffiato le gambe volando con Saphira, ma non ho mai sospettato niente.» Scosse la testa e schioccò la lingua, poi intrecciò punti con la lana marrone e cominciò a sferruzzare con la velocità di chi vanta un'esperienza decennale.


Esausta per l'avanzata gravidanza, Elain fu la prima ad abbandonare la festa, accompagnata da uno dei figli, Baldor. Mezz'ora dopo anche Nasuada si alzò per tornare al padiglione rosso, spiegando che la sua posizione le impediva di trattenersi fino a quando avrebbe desiderato; augurò a tutti salute e felicità, aggiungendo che sperava che avrebbero continuato a sostenerla nella lotta contro l'Impero.


Mentre si allontanava dal tavolo fece un cenno a Eragon, che la raggiunse all'ingresso. Dando le spalle ai convenuti, gli disse: «So che hai bisogno di tempo per riprenderti dal viaggio e che hai delle faccende personali da sbrigare. Domani e dopodomani potrai fare ciò che vuoi. Ma la mattina del terzo giorno presentati al mio padiglione: dobbiamo parlare del tuo futuro. Ho un'importantissima missione da affidarti.»


«Certo, mia signora.» Poi aggiunse: «Porti Elva con te dappertutto, non è vero?»


«Sì, mi protegge da qualsiasi pericolo dovesse sfuggire ai Falchineri. E poi la sua capacità di prevedere ciò che affligge le persone si è rivelata di grande aiuto. È molto più facile ottenere la collaborazione di qualcuno quando ne conosci le più segrete afflizioni.»


«Sei disposta a rinunciare a lei?»


Nasuada lo trafisse con lo sguardo. «Intendi davvero annullare la maledizione di Elva?»


«Voglio provare. Ricordi? Gliel'avevo promesso.»


«Sì, c'ero anch'io.» Lo schianto di una sedia caduta la distrasse per un istante, poi continuò: «Le tue promesse saranno la nostra morte... Elva è insostituibile; nessun altro ha il suo dono. E l'aiuto che mi dà - negli ultimi giorni ne ho avuto la prova - vale più di una montagna d'oro. Ho pensato addirittura che tra tutti noi sia l'unica che possa sconfiggere Galbatorix. Sarebbe in grado di anticiparne ogni mossa e grazie al tuo incantesimo saprebbe come contrattaccare e uscirne comunque vincitrice, purché questo non le costi la vita... Per il bene dei Varden, Eragon, per il bene di tutta Alagaësia, non potresti solo fingere di guarirla?»


«No» rispose lui, sputando la risposta come risentito. «Non lo farei nemmeno se potessi. Sarebbe sbagliato. Se costringiamo Elva a restare com'è, ci si rivolterà contro, e non voglio averla come nemica.» Si interruppe, poi, vedendo l'espressione di Nasuada, aggiunse: «E ci sono ottime possibilità che io fallisca. Nella migliore delle ipotesi, rimuovere un incantesimo pronunciato in termini tanto vaghi è una cosa molto difficile... Posso darti un consiglio?»


«Prego.»


«Sii sincera con Elva. Spiegale quanto è importante per i Varden e chiedile se vuole continuare a portare questo fardello per il bene di tutte le persone libere. Potrebbe anche rifiutare, ne ha ogni diritto, e in quel caso non potremmo più contare su di lei. Se accetta, invece, sarà stata una sua scelta.»


Aggrottando appena la fronte, Nasuada annuì. «Le parlerò domani. Dovrai essere presente anche tu per aiutarmi a convincerla e, se dovessimo fallire, annullare la maledizione. Vieni nel mio padiglione tre ore dopo l'alba.» Poi si incamminò nella notte illuminata dalle torce.


Molto più tardi, quando le candele brillavano fioche sui loro sostegni e gli abitanti del villaggio cominciavano a disperdersi in gruppi di due o tre, Roran afferrò Eragon per il gomito e lo trascinò fuori dalla tenda, per poi fermarsi vicino a Saphira, dove gli altri non avrebbero sentito. «Ciò che hai detto prima dell'Helgrind era tutto vero?» gli domandò. Gli stringeva il braccio a tal punto che a Eragon parve di avere un paio di tenaglie di ferro conficcate nella carne. Aveva lo sguardo duro e interrogativo, e anche insolitamente vulnerabile.


Eragon lo fissò. «Se ti fidi di me, Roran, non chiedermelo mai più. Non sono cose che ti riguardano.» Perfino mentre parlava, Eragon avvertiva una profonda sensazione di disagio per il fatto di dover nascondere a Roran e Katrina che Sloan era ancora vivo. Sapeva che l'inganno era necessario, tuttavia mentire alla sua famiglia lo metteva in difficoltà. Per un momento prese in considerazione l'ipotesi di dire loro la verità, poi però gli tornarono in mente tutte le ragioni per cui aveva deciso di non farlo e tenne a freno la lingua.


Roran esitò, turbato, poi serrò la mascella e gli lasciò andare il braccio. «Sì, mi fido di te. Dopotutto, si fa così in una famiglia, no? Ci si fida.»


«E ci si uccide.»


Roran rise e si strofinò il naso con il pollice. «Già, si fa anche quello.» Fece roteare le massicce spalle curve e massaggiò quella destra, un'abitudine che gli era rimasta da quando il Ra'zac l'aveva morso. «Ho un'altra domanda.»


«Dimmi.»


«Mi serve una benedizione... un favore.» Un sorriso astuto gli si dipinse sulle labbra, poi si strinse nelle spalle. «Mai avrei pensato di parlarne proprio con te, Eragon. In fondo sei più giovane di me, da poco hai raggiunto la maggiore età e per giunta sei mio cugino.»


«Parlare? E di cosa? Vieni al punto.»


«Di matrimonio» rispose Roran, e levò il mento. «Vuoi celebrare il matrimonio tra me e Katrina? Mi farebbe molto piacere, e anche se non le ho voluto anticipare niente prima di avere la tua risposta, so che lei sarebbe altrettanto onorata se tu accettassi.»


Eragon, sbalordito, rimase senza parole. Alla fine riuscì a balbettare: «Io?» Poi si affrettò a dire: «Ne sarei felice, ovvio, ma... io? Sei sicuro di volere che sia io a farlo? Sono certo che Nasuada accetterebbe di sposarvi... Oppure potreste chiederlo a re Orrin, lui è un vero re! Se ciò lo aiutasse a conquistarsi i miei favori, farebbe salti di gioia all'idea di presiedere la cerimonia.»


«Voglio che sia tu a farlo, Eragon» rispose Roran, dandogli una pacca sulla spalla. «Sei un Cavaliere, e poi sei l'unica persona ancora in vita nelle cui vene scorre il mio stesso sangue; Murtagh non conta. Non mi viene in mente nessun altro che potrebbe legare il mio polso a quello di Katrina.»


«Allora d'accordo» rispose Eragon. Roran lo abbracciò, stringendolo con tutta la sua forza prodigiosa, e lo lasciò senza fiato. Quando alla fine lo lasciò, Eragon ci mise un po' a riprendersi, poi gli domandò: «Quando? Nasuada ha una missione da affidarmi. Non conosco ancora i dettagli, ma immagino che mi terrà occupato per un bel po'. Dunque... che ne dici del mese prossimo, se la situazione lo permetterà?»


Roran incassò il collo nelle spalle e scosse la testa come un toro che strofina le corna in un cespuglio di rovi. «Dopodomani?»


«Così presto? Non state correndo un po' troppo? Non c'è nemmeno il tempo per i preparativi. La considereranno tutti una cosa inopportuna.»


Roran drizzò le spalle; gli si gonfiarono le vene delle mani mentre apriva e stringeva i pugni. «Non posso aspettare. Se non ci sposiamo subito, le vecchie comari avranno qualcosa di ben più interessante della mia impazienza di cui sparlare. Ci siamo capiti?»


A Eragon ci volle un momento per afferrare il significato di quelle parole, ma poi non riuscì a evitare che gli si stampasse sulla faccia un gran sorriso. Roran diventerà padre! pensò. Ancora sorridendo, gli disse: «Credo di sì. E sia, vada per dopodomani.» Grugnì quando Roran lo abbracciò di nuovo, dandogli una pacca sulla schiena, ma riuscì a liberarsi, seppur con qualche difficoltà.


«Ti sono debitore» rispose Roran, ricambiando il sorriso. «Grazie. Adesso vado a dare la notizia a Katrina, poi faremo il possibile per organizzare il banchetto di nozze. Appena l'avremo decisa, ti farò sapere l'ora esatta.»


«Perfetto.»


Roran si incamminò verso la sua tenda, poi si voltò e lanciò le braccia in alto, come se volesse stringersi al petto il mondo intero. «Eragon, mi sposo!»


Eragon scoppiò a ridere e gli fece un cenno di saluto con la mano. «Muoviti, pazzo che non sei altro. Katrina ti sta aspettando.»


Non appena il cugino fu rientrato nella sua tenda, Eragon si arrampicò su Saphira. «Blödhgarm» chiamò. Silenzioso più di un'ombra, l'elfo scivolò alla luce, gli occhi gialli che brillavano come brace. «Io e Saphira andiamo a fare un voletto. Ci vediamo dopo, da me.»


«Come vuoi, Ammazzaspettri» rispose Blödhgarm, chinando il capo.


Poi Saphira dispiegò le immense ali, fece tre passi di corsa e si lanciò sopra la fila di tende, sferzandole col gran vento sollevato dal battito. I movimenti del suo corpo scossero Eragon, che per non cadere si aggrappò alla punta cervicale della dragonessa. Saphira salì a spirale finché l'accampamento illuminato si ridusse a un insignificante fazzoletto di luce, minuscolo rispetto al paesaggio buio che lo circondava. Rimasero lassù, fluttuando tra terra e cielo, dove tutto era silenzio.


Eragon posò la testa sul collo della dragonessa e guardò la scintillante striscia di polvere che attraversava il cielo.


Riposa, se vuoi, piccolo mio, disse Saphira, non ti lascerò cadere.


Ed Eragon scivolò nel suo sonno vigile, ma fu assalito dalle visioni: una città di pietra, dal perimetro circolare, che sorgeva in mezzo a una pianura infinita, e una bambina che vagava tra i tortuosi vicoli angusti cantando una melodia ossessiva.


La notte si trascinava lenta verso il mattino.

INTRECCIO DI SAGHE

Passata da poco l'alba, Eragon era seduto sulla branda a oliare l'usbergo di maglia, quando uno degli arcieri dei Varden venne a implorarlo di salvare sua moglie, afflitta da un tumore maligno. Benché mancasse meno di un'ora all'appuntamento con Nasuada, Eragon accettò e accompagnò l'uomo alla sua tenda. Trovò la donna molto indebolita dalla crescita della massa tumorale e dovette fare appello a tutti i suoi poteri per estrarre le insidiose propaggini della malattia dalla carne. Per lo sforzo si ritrovò spossato, ma fu felice di essere riuscito a salvare quella donna da una morte lunga e dolorosa.

Poi raggiunse Saphira fuori e rimase con lei qualche minuto, accarezzandole i muscoli vicino alla base del collo. La dragonessa faceva le fusa, ondeggiava la coda sinuosa e torceva la testa e le spalle così che Eragon potesse raggiungere più facilmente la pelle liscia. Mentre eri occupato con l'arciere, altre persone sono venute a chiederti udienza, ma Blödhgarm e i suoi li hanno allontanati perché le loro richieste non erano urgenti, gli disse.

Davvero? Le infilò le dita sotto il bordo di una delle grosse squame che aveva sul collo e grattò con più forza. Forse dovrei fare come Nasuada.


Cioè?


Il sesto giorno di ogni settimana, dal mattino fino a mezzodì, la regina riceve chiunque abbia richieste o dispute da sottoporre alla sua attenzione. Potrei fare la stessa cosa.


Bella idea, rispose Saphira. Solo che dovrai stare attento a non sprecare troppa energia per dar retta alle persone. Dobbiamo essere pronti a combattere contro l'Impero da un momento all'altro. Poi gli spinse il collo contro la mano, facendo ancora più forte le fusa.


Mi serve una spada, le disse Eragon.


E allora trovane una.


Mmm...


Eragon continuò a coccolarla finché Saphira non si scostò e disse: Se non ti sbrighi, arriverai in ritardo all'appuntamento con Nasuada.


Si avviarono verso il centro dell'accampamento e il padiglione rosso. Non era molto distante, così la dragonessa decise di camminare insieme a lui invece di librarsi tra le nuvole.


A un centinaio di metri dal padiglione si imbatterono in Angela l'erborista. Era inginocchiata tra due tende e indicava un quadrato di pelle disteso su una roccia bassa e piatta su cui giaceva un mucchio disordinato di ossi lunghi un dito, ogni lato marchiato con un simbolo diverso: erano gli ossi di zampa di drago con cui gli aveva predetto il futuro a Teirm.


Di fronte a lei c'era una donna alta e con le spalle larghe, la pelle abbronzata e segnata dalle intemperie, i capelli neri raccolti in una lunga e folta treccia che le ricadeva sulla schiena, il viso ancora grazioso nonostante le profonde rughe che gli anni le avevano scolpito intorno alla bocca. Indossava un abito rosso scuro che le stava piccolo, tanto che le maniche erano corte e le lasciavano scoperta gran parte degli avambracci. Attorno a ogni polso aveva una benda di tela nera, ma quella sul sinistro si era allentata, e le era scivolata fino al gomito; Eragon poté così scorgere spessi strati di cicatrici, provocate di sicuro dal continuo sfregamento di un paio di manette. Intuì che doveva essere stata rapita dai nemici e che si era ribellata, lacerandosi i polsi fino all'osso. Si domandò se era una criminale o una schiava, e al pensiero che qualcuno potesse essere così crudele da permettere a un prigioniero sotto la propria custodia di ferirsi a quel modo, benché da solo, si incupì.


Accanto alla donna c'era una ragazza dall'aria seria, la cui bellezza da adolescente stava sbocciando in un'avvenenza più matura. I muscoli degli avambracci erano insolitamente sviluppati, come se fosse stata l'apprendista di un fabbro o di uno spadaccino, cosa piuttosto improbabile per una ragazza, per quanto forte potesse essere.


Angela aveva appena finito di dire loro qualcosa quando Eragon e Saphira si fermarono dietro la strega dai capelli ricci. Con un solo gesto, Angela raccolse gli ossi nel lembo di pelle e li ripose sotto la fascia gialla che aveva in vita. Si rialzò e rivolse ai due un sorriso radioso. «Però, che tempismo impeccabile! A quanto pare, arrivate sempre quando il pendolo del destino comincia a muoversi.»


«Il pendolo del destino?» domandò Eragon.


Angela fece spallucce. «Be', allora? Non è che mi possa inventare sempre chissà quale novità.» Indicò con un cenno le due sconosciute, che nel frattempo si erano alzate, e disse: «Eragon, concederai loro la tua benedizione? Hanno affrontato molti pericoli e davanti a loro si apre un cammino irto di difficoltà. Sono certa che ti saranno grate per qualunque protezione riceveranno da un Cavaliere dei Draghi come te.»


Eragon esitò. Sapeva che di rado Angela leggeva gli ossi di drago a chi richiedeva i suoi servigi - di solito solo a coloro con cui Solembum si degnava di parlare - perché una previsione di quel genere non era un numero di magia da ciarlatani ma una predizione in piena regola, in grado di svelare i misteri del futuro. Che avesse deciso di farlo per la bella donna con le cicatrici ai polsi e per la ragazza con gli avambracci da schermidore gli fece capire che erano due persone di spicco, che avevano o avrebbero avuto un ruolo importante nella costruzione della futura Alagaësia. A conferma dei suoi sospetti, scorse Solembum nella forma di un gattone con enormi orecchie pelose nascosto dietro una tenda vicina, intento a osservare la scena con enigmatici occhi gialli. Tuttavia Eragon era titubante, perseguitato dal ricordo della prima e unica benedizione che aveva impartito: a causa della sua scarsa familiarità con l'antica lingua aveva deviato il normale corso della vita di una bambina innocente.


Saphira, chiamò.


La dragonessa fece schioccare la coda. Non essere così restio. Hai imparato la lezione dai tuoi errori, non ne commetterai altri. Perché trattenerti dall'elargire la tua benedizione a chi potrebbe trarne vantaggio? Fallo, e stavolta fallo come si deve.


«Come vi chiamate?» domandò Eragon.


«Se non ti dispiace, Ammazzaspettri, i nomi hanno un potere, e preferiremmo che i nostri restassero segreti» rispose la donna alta e bruna, con un lieve accento di cui lui non riconobbe la provenienza. Teneva lo sguardo appena inclinato verso il basso, ma il tono di voce era fermo e inflessibile. La ragazza trattenne il respiro, sconvolta da tanta sfacciataggine.


Eragon annuì, né turbato né sorpreso, benché la reticenza della donna avesse solleticato ancora di più la sua curiosità. Gli sarebbe piaciuto sapere come si chiamavano, ma non era indispensabile. Si levò il guanto destro e posò il palmo sulla fronte calda della donna, che al contatto trasalì, ma non si ritrasse. Le si dilatarono le narici, gli angoli della bocca si assottigliarono e aggrottò le sopracciglia. Eragon la sentì tremare, come se il suo tocco le provocasse dolore e stesse combattendo contro l'istinto di scansargli il braccio. Eragon avvertì che Blödhgarm si stava avvicinando furtivo, pronto ad avventarsi sulla donna nel caso che si fosse rivelata ostile.


Sconcertato da quella reazione, Eragon fece breccia nella barriera della propria mente, si immerse nel flusso di magia e, con il potere dell'antica lingua, disse: «Atra guliä un ilian tauthr ono un atra ono waíse sköliro fra rauthr.» Infondendo energia alla frase, come se fossero le parole di un incantesimo, era certo che avrebbe modificato il corso degli eventi e di conseguenza migliorato il destino della donna. Fece attenzione a limitare la quantità di energia trasferita nella benedizione, perché altrimenti un incantesimo di quel genere gli avrebbe consumato il corpo fino a prosciugarne tutta la vitalità, lasciando solo un involucro vuoto. Nonostante la cautela, dissipò molte più energie del previsto; gli si annebbiò la vista e le gambe presero a tremare, minacciando di cedere.


Un momento dopo si riprese.


Fu con un senso di sollievo che tolse la mano dalla fronte della donna, e gli parve che lei ne fosse altrettanto felice, perché indietreggiò e si strofinò le braccia. Ebbe l'impressione che cercasse di ripulirsi da qualche sudicia sostanza.


Poi Eragon ripeté il procedimento con la ragazza. Mentre l'incantesimo veniva pronunciato, le si distese il viso come se sentisse la sua forza diventare parte del proprio corpo. Alla fine gli fece un inchino. «Grazie, Ammazzaspettri. Ti siamo debitrici. Spero che tu riesca a sconfiggere Galbatorix e l'Impero.»


Poi si voltò e fece per andarsene, ma si fermò non appena Saphira grugnì e protese la testa oltre Eragon e Angela, soffermandosi su di lei e sulla compagna. La dragonessa piegò il collo, alitò prima sul viso della donna e poi su quello della ragazza e, proiettando i propri pensieri con tanta forza da superare ogni barriera salvo le più solide - lei ed Eragon, infatti, avevano notato che la donna aveva una mente difficile da penetrare - disse: Buona caccia, creature della foresta. Possa il vento sospingere le vostre ali, possa il sole splendere sempre alle vostre spalle e possiate catturare le vostre prede cogliendole alla sprovvista. E tu, Occhi di Lupo, spero che quando troverai colui che ti ha mozzato le zampe nelle sue trappole tu non lo uccida subito.


Non appena Saphira cominciò a parlare, entrambe le donne si irrigidirono. Poi la più anziana si batté un pugno sul petto e disse: «Non accadrà, o Leggiadra Cacciatrice.» Infine si inchinò ad Angela e le disse: «Lavora sodo, colpisci per prima, Veggente.»


«Salute, Cantalama.»


Con un fruscio di sottane, le due donne si allontanarono e presto sparirono nel dedalo delle tende grigie.


Stavolta niente segni sulla fronte? chiese Eragon a Saphira.


Elva è un'eccezione. Non marchierò più nessuno così. Ciò che accadde nel Farthen Dûr... be', ormai è acqua passata. È stato l'istinto a guidarmi. Più di questo non posso spiegarti.


Mentre i tre si incamminavano verso il padiglione di Nasuada, Eragon scoccò uno sguardo ad Angela. «Chi erano quelle due?»


Lei storse le labbra. «Pellegrine impegnate nella loro ricerca.»


«Non mi pare una gran risposta» si lamentò Eragon.


«Non è mia abitudine distribuire segreti come noccioline caramellate durante il solstizio d'inverno. Soprattutto se appartengono ad altri.»


Eragon rimase in silenzio per un po'. «Se qualcuno si rifiuta di rivelarmi un'informazione, mi rende solo più deciso a scoprire la verità. Detesto non sapere le cose. Una risposta non data è come una spina nel fianco che mi fa male ogni volta che mi muovo, almeno finché non riesco a estrarla» aggiunse.


«Hai tutta la mia solidarietà.»


«Perché?»


«Se le cose stanno così, ho il sospetto che tu passi tutto il giorno in preda a un dolore mortale, perché la vita è piena di domande a cui non si trova risposta.»


A una sessantina di piedi dal padiglione di Nasuada, un contingente di lancieri in marcia attraverso l'accampamento bloccò loro la strada. Mentre aspettavano che passassero, Eragon fu scosso da un brivido e si soffiò sulle mani. «Magari avessimo il tempo di mangiare qualcosa.»


Più rapida che mai, Angela gli chiese: «È la magia, vero? Ti ha spossato.» Eragon annuì. Allora l'erborista infilò una mano in una delle sacche che teneva appese in vita e ne trasse una barretta marrone punteggiata di scintillanti semi di lino. «Tieni, ti calmerà la fame almeno fino all'ora di pranzo.»


«Che cos'è?»


«Mangiala, ti piacerà. Fidati» insisté, porgendogliela. Mentre Eragon le prendeva la barretta unta dalle dita, Angela gli afferrò il polso con l'altra mano e lo tenne fermo finché non ebbe ispezionato i calli spessi mezzo pollice che aveva sulle nocche. «Molto astuto da parte tua» commentò. «Sono disgustosi come le verruche dei rospi, ma che importa? Almeno la pelle resterà intatta. Grande idea. Davvero una grande, grande idea. Ti sei ispirato agli Ascûdgamln, i pugni d'acciaio dei nani?»


«Non ti sfugge niente, eh?»


«Se anche fosse, poco male. Mi occupo solo delle cose che esistono.» Eragon batté le palpebre, sconcertato come sempre dall'arguzia dell'erborista. Angela gli tastò un callo con un'unghia corta. «Me li farei crescere anch'io, solo che poi, lavorando a maglia o al telaio, mi si impiglierebbero nella lana.»


«Tu lavori a maglia?» le domandò, sorpreso che svolgesse un'attività tanto ordinaria.


«Ma certo! È un modo meraviglioso di rilassarsi. E se non lo facessi, dove troverei un maglione con ricamate sul petto le difese di Dvalar contro i conigli rabbiosi nell'antica lingua, o una retina per capelli tinta di giallo, verde e rosa acceso?»


«I conigli rabbiosi...»


Angela scosse la folta chioma riccia. «Rimarresti strabiliato nello scoprire quanti maghi sono morti per il morso di un coniglio rabbioso. Capita molto più spesso di quello che si crede.»


Eragon la fissò. Secondo te mi sta prendendo in giro? chiese a Saphira.


Se ci tieni tanto a saperlo, domandaglielo.


Si limiterebbe a rispondermi con un altro scioglilingua.


Passati i lancieri, i tre procedettero verso il padiglione rosso accompagnati da Solembum, che li aveva raggiunti di soppiatto. Facendosi strada tra i mucchi di sterco lasciati dai cavalli di re Orrin, Angela gli chiese: «Allora, dimmi: oltre al combattimento con i Ra'zac, non ti è successo niente di tremendamente interessante durante il viaggio? Lo sai che adoro sentir parlare di cose interessanti.»


Eragon sorrise, ripensando agli spiriti che avevano fatto visita a lui e ad Arya. Tuttavia non voleva discuterne, così rispose: «Visto che me lo chiedi, in effetti mi sono successe un sacco di cose interessanti. Per esempio, ho incontrato un eremita di nome Tenga che viveva tra le rovine di una torre elfica. Aveva la biblioteca più stupefacente che avessi mai visto. C'erano sette...»


Angela si bloccò così di colpo che Eragon fece altri tre passi avanti prima di accorgersene e tornare indietro. La strega sembrava stordita, come se l'avessero colpita sulla testa. Solembum avanzò verso di lei quatto quatto, le si strusciò contro le gambe e alzò il muso. Angela si inumidì le labbra, poi disse: «Sei...» Tossicchiò. «Sei sicuro che si chiamasse Tenga?»


«Lo conosci?»


Solembum soffiò e gli si rizzò il pelo sulla schiena. Eragon si scostò dal gatto mannaro, ansioso di mettersi al riparo dai suoi artigli.


«Se lo conosco?» Con una risata amara, Angela si portò le mani ai fianchi. «Se lo conosco? Altroché! Sono stata la sua apprendista per... per uno sventurato numero di anni.»


Eragon non si aspettava che la donna avrebbe mai rivelato qualcosa del suo passato. Desideroso di saperne di più, le chiese: «Quando l'hai conosciuto? E dove?»


«Molto tempo fa e molto lontano da qui. Tuttavia ci siamo separati in malo modo e non lo vedo da tantissimi anni.» Angela si accigliò. «Anzi, pensavo che fosse morto.»


Poi fu la volta di Saphira: Dato che sei stata la sua apprendista, sai a quale domanda sta cercando risposta?


«Non ne ho la minima idea. Tenga stava sempre cercando la risposta a qualche domanda. Quando la trovava, passava a un'altra, e così via, all'infinito. Dall'ultima volta che l'ho visto potrebbe aver trovato risposta a un centinaio di domande, ma anche essere ancora alle prese con lo stesso enigma di quando me ne sono andata.»


Ovvero?


«Se le fasi lunari influenzano il numero e la qualità di opali che si formano alle pendici dei Monti Beor, come credono i nani.»


«Ma come si fa a dimostrarlo?» obiettò Eragon.


Angela si strinse nelle spalle. «Se c'è una persona in grado di riuscirci, è Tenga. Sarà un po' pazzo, ma non si può negare che sia brillante.»


È uno che prende a calci i gatti, intervenne Solembum, come se quel commento riassumesse il carattere dell'eremita.


Poi Angela batté le mani e disse: «Basta! Mangia il tuo dolcetto, Eragon, e andiamo da Nasuada.»

RIMEDIARE A UN ERRORE

«Siete in ritardo» disse Nasuada a Eragon e Angela mentre prendevano posto sulle sedie disposte a semicerchio di fronte allo scranno dall'alto schienale. C'erano anche Elva e Greta, l'anziana domestica che nel Farthen Dûr aveva pregato Eragon di benedire la sua protetta. Come sempre, Saphira si era accucciata fuori e aveva infilato la testa in un'apertura su un lato per poter prendere parte alla riunione. Solembum era acciambellato accanto alla sua testa. A parte qualche scatto della coda, sembrava profondamente addormentato.

Eragon e Angela si scusarono, poi il Cavaliere ascoltò Nasuada spiegare a Elva il valore del suo dono per i Varden - Come se non lo sapesse, commentò Eragon rivolto a Saphira - e la supplicò di sciogliere Eragon dalla promessa di cancellare gli effetti della sua benedizione. Comprendeva quanto fosse difficile ciò che le stava chiedendo, ma era in gioco il destino dell'intero paese: sacrificare il proprio bene per aiutare a salvare Alagaësia dalle grinfie malefiche di Galbatorix non era un motivo più che valido? Fu un discorso magnifico: eloquente, appassionato e ricco di argomentazioni studiate per far presa sui più nobili sentimenti della bambina.

Elva, che si reggeva il piccolo mento aguzzo con i pugni, alzò la testa e rispose: «No.» Nel padiglione calò un silenzio carico d'angoscia. Fissando impassibile tutti i presenti, la bambina continuò: «Eragon, Angela, sapete entrambi cosa significa condividere i pensieri e le emozioni di chi sta per morire. Sapete quanto sia orribile e straziante: è come se una parte di me svanisse per sempre. E provo la stessa sensazione ogni volta che muore qualcuno. Voi non siete costretti a sopportare questa esperienza, a meno che non lo vogliate, mentre io... Io non ho altra scelta. Avverto ogni morte accanto a me. Perfino ora sento che la vita sta per abbandonare Sefton, uno dei tuoi spadaccini ferito sulle Pianure Ardenti, Nasuada, e so quali parole potrei dirgli per alleviare il suo terrore dell'oblio. La sua paura è così immensa, oh, che mi fa venire i brividi!» Con un grido incoerente, si portò le braccia davanti al viso come per schivare un colpo, poi disse: «Ah, è morto. Ma ce ne sono altri. C'è sempre qualcuno che muore. La fila dei morti non finisce mai.» La nota di amaro sarcasmo della sua voce, solo una parodia del tono che avrebbe dovuto tenere qualunque bambina di quell'età, si fece più marcata. «Lo capisci Nasuada, Lady Furianera, Colei che Diventerà la Regina del Mondo? Lo capisci? Io avverto tutto il dolore che c'è intorno a me, fisico o mentale che sia. Lo sento come se fossi io stessa a provarlo e la magia di Eragon mi obbliga ad alleviare il disagio di coloro che soffrono, noncurante di ciò che comporta per me. E se mi oppongo, come sto facendo ora, il mio corpo si ribella: lo stomaco brucia, mi scoppia la testa come se un nano mi stesse prendendo a martellate, fatico a muovermi e ancora di più a pensare. È questo che desideri per me, Nasuada?

«Non ho mai tregua dai dolori del mondo, né di notte né di giorno. Da quando Eragon mi ha dato la sua benedizione, non ho conosciuto altro che sofferenza e paura, mai felicità o piacere. Le cose più spensierate della vita, quelle che rendono tollerabile l'esistenza, mi sono negate. Mai le ho viste. Mai ho potuto viverle. Intorno a me c'è solo buio. Solo le disgrazie di uomini, donne e bambini nel raggio di un miglio, che mi travolgono come un temporale di mezzanotte. Questa benedizione mi ha privato dell'opportunità di essere come gli altri bambini. Ha costretto il mio corpo, e ancora di più la mia mente, a maturare più in fretta del normale. Eragon potrà anche cancellare questo mio terribile dono e tutti gli obblighi ad agire che l'accompagnano, ma non potrà mai restituirmi ciò che ero un tempo e nemmeno ciò che dovrei essere, almeno non senza distruggere ciò che sono diventata. Sono un mostro, né bambina né adulta, per sempre condannata a essere una reietta. Non sono cieca, sapete? Lo vedo come vi ritraete quando mi sentite parlare.» Scosse il capo. «No, mi state chiedendo troppo. Non continuerò così per il tuo bene, Nasuada, né per quello dei Varden o di tutta Alagaësia, e nemmeno della mia cara mamma, se fosse ancora viva. Non ne vale la pena. Potrei anche vivere da sola, così mi libererei dalle afflizioni degli altri, ma non voglio. No, l'unica soluzione è che Eragon provi a rimediare al suo errore.» Incurvò le labbra in un sorriso ambiguo. «E se non siete d'accordo con me, se pensate che sia stupida ed egoista, allora fareste meglio a ricordare che sono poco più di una neonata in fasce: non ho ancora compiuto due anni. Solo uno sciocco si aspetterebbe che una bambina si sacrifichi per un bene più grande. Bambina o no, comunque, ho preso la mia decisione, e niente di ciò che direte potrebbe convincermi a cambiarla. Non mi piegherò mai al vostro volere. In questo sono come il ferro.»

Nasuada tentò di nuovo di farla ragionare, ma come Elva aveva garantito, il tentativo si rivelò inutile. Alla fine la regina chiese ad Angela, Eragon e Saphira di intervenire. L'erborista si rifiutò, dicendo che non avrebbe potuto trovare parole migliori delle sue; e poi pensava che quella di Elva fosse una scelta personale, che la bambina dovesse fare ciò che voleva senza essere tormentata come un'aquila da uno stormo di ghiandaie. Eragon era più o meno della stessa opinione, ma acconsentì a dirle un'ultima cosa: «Elva, non posso suggerirti ciò che devi fare, perché solo tu puoi deciderlo, ma non respingere la richiesta di Nasuada senza riflettere. Sta cercando di salvarci da Galbatorix e se vogliamo avere qualche possibilità di successo ha bisogno del nostro sostegno. Non vedo nel futuro, ma credo che il tuo dono potrebbe essere l'arma perfetta contro di lui. Potresti prevedere ogni sua mossa. Potresti dirci come respingere le sue schiere. E soprattutto avvertiresti dove è più vulnerabile, dove è più fragile, e potresti dirci che cosa fare per ferirlo.»

«Se vuoi che cambi idea, Cavaliere, dovrai fare di meglio.» «Non voglio che cambi idea» rispose Eragon. «Voglio solo assicurarmi che tu abbia considerato quali implicazioni avrà la tua decisione, e che essa non sia stata troppo affrettata.»


La bambina si agitò un po', ma non rispose.


Poi Saphira le chiese: Che cosa c'è nel tuo cuore, Fronte Lucente?


Elva rispose con dolcezza, senza alcuna malizia. «Ho già detto cosa c'è nel mio cuore, Saphira. Aggiungere altro risulterebbe superfluo.»


Se anche Nasuada era frustrata dall'ostinazione di Elva, non lo diede a vedere, benché avesse un'espressione austera in volto, come richiedeva il tono della discussione. «Non condivido la tua scelta, Elva» le disse, «ma la rispetteremo, perché mi pare ovvio che non c'è modo di persuaderti. Suppongo di non poterti biasimare, poiché non conosco la sofferenza a cui sei esposta ogni giorno, e se fossi al tuo posto è probabile che mi comporterei alla stessa maniera. Eragon, se vuoi...»


Alla richiesta di Nasuada, Eragon si inginocchiò davanti a Elva, che lo trafisse con gli splendenti occhi viola mentre lui le prendeva le mani tra le sue. La pelle della bambina scottava, come se avesse la febbre.


«Le farà male, Ammazzaspettri?» chiese Greta con voce tremante.


«Non dovrebbe, ma non ne sono sicuro. Rompere un incantesimo è un'arte imprecisa, molto più che evocarlo. Proprio per le difficoltà che comporta, i maghi tentano una cosa simile di rado, anzi, non lo fanno quasi mai.»


Le rughe sul viso della vecchia si contrassero per la preoccupazione, poi Greta accarezzò Elva sulla testa e le disse: «Sii forte, prugnetta mia. Sii forte.» Non parve accorgersi dell'occhiataccia irritata che le rifilò la bambina.


Eragon ignorò l'interruzione. «Elva, ascoltami. Ci sono due modi per rompere un incantesimo. Prima di tutto, il mago che l'ha evocato può aprirsi all'energia che alimenta la magia e...»


«Questa è la parte in cui ho sempre avuto problemi» intervenne Angela. «Ecco perché mi affido più a piante, pozioni e talismani, magici già per loro natura, che non agli incantesimi.»


«Se non ti dispiace...»


Sulle guance dell'erborista si formarono due fossette; poi disse: «Scusami. Procedi pure.»


«Bene» ringhiò Eragon. «Allora, come dicevo, un mago può...»


«O una maga» precisò Angela.


«Vuoi lasciarmi finire, per favore?»


«Scusa.»


Eragon vide Nasuada trattenere un sorriso. «Dicevo... Il mago si apre al flusso di energia che gli scorre in corpo e recita nell'antica lingua non solo le parole dell'incantesimo ma anche l'obiettivo finale. È una cosa molto difficile, come potete immaginare. Se il mago non è animato dalle migliori intenzioni, l'incantesimo di partenza verrà solo modificato e non infranto del tutto, così alla fine da sciogliere ce ne saranno due, e per giunta sovrapposti.


«Il secondo metodo, invece, consiste nell'evocare un nuovo incantesimo che agisca contro gli effetti del primo e che, se eseguito correttamente, lo renda inefficace. Col tuo permesso, Elva, avrei deciso di procedere così.»


«Una soluzione davvero elegante» proclamò Angela, «ma ti prego, dimmi: chi fornirà il flusso continuo di energia necessaria per sostenere il controincantesimo nel tempo? E poi, visto che qualcuno dovrà pur chiederlo, che cosa potrebbe andare storto?»


Eragon tenne lo sguardo fisso su Elva. «L'energia dovrà venire da te» le disse, stringendole le mani tra le sue. «Non ne servirà molta, ma ti indebolirà lo stesso. Non sarai più in grado di correre o di portare legna come tutte le persone normali.»


«Perché non ce la metti tu?» gli chiese Elva, inarcando un sopracciglio. «Dopotutto è colpa tua se mi trovo in questo guaio.»


«Lo farei, ma in quel caso, più mi allontano da te, più sarà difficile inviartela. E se mi trovassi troppo distante - un miglio, diciamo, forse anche qualcosa in più - lo sforzo mi ucciderebbe. Quanto a ciò che potrebbe andare storto, l'unico rischio è che pronunci il controincantesimo in maniera scorretta, con il risultato di non riuscire ad annullare la mia benedizione. In quel caso dovrò evocarne un altro.»


«E se nemmeno quello va a buon fine?»


Eragon tacque. «Posso sempre ricorrere al primo metodo che ho spiegato. Preferirei evitarlo, tuttavia. È l'unico modo per annullare del tutto un incantesimo, ma se il tentativo non riesce - cosa più che possibile - ti ritroveresti in una situazione perfino peggiore di quella attuale.»


Elva annuì. «Capisco.»


«Ho il tuo permesso, dunque? Posso procedere?»


Quando la bambina abbassò di nuovo il mento, Eragon trasse un profondo respiro e si preparò. Per concentrarsi socchiuse gli occhi e poi cominciò a parlare nell'antica lingua. Ogni parola gli sgorgava dalla bocca pesante come un colpo di martello. Pronunciava con cautela ogni sillaba, ogni suono diverso dalla sua lingua, per evitare contrattempi potenzialmente terribili. Il controincantesimo era impresso a fuoco nella sua memoria. Durante il viaggio di ritorno dall'Helgrind vi aveva dedicato molte ore, aveva lavorato sodo e sfidato se stesso per trovare alternative sempre migliori in vista del giorno in cui avrebbe tentato di rimediare al torto causato a Elva. Mentre parlava, Saphira incanalò la propria forza dentro di lui. Eragon la sentì sostenerlo e vegliare su di lui, pronta a intervenire non appena avesse intuito che era sul punto di storpiare la formula magica. Il controincantesimo era molto lungo e complesso, perché doveva andare a colpire ogni possibile interpretazione della sua benedizione. Trascorsero cinque minuti buoni prima che Eragon pronunciasse l'ultima frase, l'ultima parola e, infine, l'ultima sillaba.


Nel silenzio che seguì, il viso di Elva si rabbuiò per la delusione. «Li sento ancora» disse.


Nasuada si sporse dallo scranno. «Chi?»


«Tu, lui, lei, chiunque stia soffrendo. Le voci non sono sparite! Non avverto più il bisogno di aiutare le persone, ma il dolore scorre ancora dentro di me.»


«Eragon» disse Nasuada.


Lui aggrottò le sopracciglia. «Devo aver saltato qualcosa. Datemi un istante per riflettere, poi metterò insieme un altro incantesimo che potrebbe funzionare. Ho preso in considerazione altre possibilità, ma...» La voce gli venne meno a poco a poco; era turbato perché non era riuscito nel suo intento. Ed evocare un incantesimo per bloccare il dolore di Elva sarebbe stato molto più difficile che non eliminare la benedizione nel suo complesso. Una parola sbagliata, una frase mal costruita e avrebbe potuto distruggere la capacità di Elva di immedesimarsi negli altri e precluderle la possibilità di imparare a comunicare con la propria mente, oppure soffocare il suo senso del dolore, tanto che, se si fosse ferita, non se ne sarebbe accorta subito.


Eragon si stava consultando con Saphira quando Elva esclamò: «No!»


Lui la guardò confuso.


Un bagliore estatico sembrava emanare dalla bambina. Mentre sorrideva, i denti arrotondati e bianchi come perle luccicavano e gli occhi brillavano di gioia trionfante. «No, non riprovarci più.»


«Ma, Elva, perché...»


«Perché non voglio perdere altre forze. E perché mi sono appena resa conto che posso ignorarli!» Afferrò i braccioli della sedia, tremando per l'eccitazione. «Non provando più il bisogno spasmodico di aiutare i sofferenti, posso ignorarne i problemi e non stare più male! Posso ignorare l'uomo a cui è stata amputata una gamba, posso ignorare la donna che si è appena scottata la mano, posso ignorarli tutti e non sentirmi cattiva per questo! È vero, non riesco a bloccare del tutto i loro pensieri, non ancora, perlomeno, ma... Oh! Che sollievo! C'è silenzio. Un silenzio benedetto! Basta con i tagli, i graffi, le sbucciature e le ossa rotte. Basta con le futili preoccupazioni di giovani scapestrati. Basta con l'angoscia delle mogli abbandonate e dei mariti ingannati. Basta con le migliaia di insopportabili ferite di guerra. Basta col panico che ti torce le budella e precede il buio finale.» Con le guance rigate di lacrime, rideva, un roco gorgheggio che fece venire i brividi a Eragon.


Che follia è mai questa? chiese Saphira. Anche se riesci a toglierti dalla testa il dolore degli altri, perché restarvi legata se Eragon può liberarti?


Gli occhi di Elva brillarono di una spiacevole gioia. «Io non sarò mai come gli altri. Se il mio destino è di essere diversa, allora ben venga la mia diversità. Finché riesco a controllare il mio potere, come sembra, non mi spaventa l'idea di portare questo fardello perché sarà una mia scelta, Eragon, non qualcosa che mi hai imposto con la tua magia! Ah! Da questo momento non obbedirò più a niente e a nessuno. Se aiuterò qualcuno, sarà per mio volere. Se sceglierò di mettermi al servizio dei Varden, sarà perché me lo suggerisce la mia coscienza e non perché me lo chiedi tu, Nasuada, o perché se mi oppongo mi verrà da vomitare. Farò ciò che voglio, guai a chi tenterà di fermarmi: conosco tutte le vostre paure e non esiterò a sfruttarle per veder esauditi i miei desideri.»


«Elva!» esclamò Greta. «Non dire queste cose terribili! Non posso credere che le pensi davvero!»


La bambina si volse verso di lei così bruscamente che i capelli le sventagliarono sulle spalle. «Ah, sì, mi ero dimenticata di te, domestica mia. Sempre fedele. Sempre apprensiva. Ti sono grata per avermi adottata dopo la morte di mia madre e per avermi curata fin dai giorni del Farthen Dûr, ma non mi servi più. Vivrò da sola, baderò a me stessa e non dovrò mostrarmi riconoscente a nessuno.» Intimidita, la vecchia si coprì la bocca con il bordo di una manica e si ritrasse.


Le parole di Elva lasciarono Eragon inorridito. Decise che l'avrebbe privata del suo dono, se aveva intenzione di abusarne. Con l'aiuto di Saphira, che era d'accordo con lui, scelse il più promettente tra tutti i nuovi controincantesimi che aveva contemplato nei giorni precedenti e prese fiato per pronunciarne i versi.


Veloce come un serpente, Elva gli tappò la bocca con una mano, impedendogli di parlare. Quando Saphira ringhiò, quasi assordando Eragon, che aveva un udito fuori dal comune, il padiglione fu scosso da un fremito. Indietreggiarono tutti, tranne Elva, che continuava a tenere la mano premuta contro il viso di Eragon, e Saphira gridò: Lascialo andare, pulcino!


Richiamate dal ringhio della dragonessa, le sei guardie di Nasuada fecero irruzione nella tenda brandendo le armi, mentre Blödhgarm e gli altri elfi corsero da Saphira e si piazzarono alla sua destra e alla sua sinistra, all'altezza delle spalle, scostando la parete di stoffa del padiglione così da poter vedere cosa stava succedendo. Nasuada fece loro un cenno e i Falchineri abbassarono le armi; gli elfi rimasero schierati, pronti a intervenire. Le loro spade scintillavano come ghiaccio.


In apparenza Elva non fu turbata né dal trambusto che aveva provocato né dalle lame puntate contro di lei. Abbassò il capo e guardò Eragon come se fosse uno strano insetto che aveva sorpreso a strisciare lungo il bordo della sedia, poi sorrise con un'espressione così dolce e innocente che il Cavaliere si chiese perché non aveva riposto più fiducia in lei. Con voce suadente come il miele caldo, la bimba gli disse: «Eragon, basta. Se pronunci il tuo incantesimo mi farai ancora del male come l'altra volta. E tu non lo vuoi. Altrimenti ogni sera, quando ti coricherai, penserai a me e il ricordo del torto commesso ti tormenterà. Ciò che stavi per fare era una cosa malvagia, Eragon. Sei forse il giudice del mondo? Vuoi condannarmi anche se non ho commesso alcun crimine solo perché non approvi la mia condotta? Quella strada porta al depravato piacere di controllare gli altri per la propria soddisfazione. Galbatorix sarebbe felice di te.»


Poi lo lasciò andare, ma Eragon era troppo sconvolto per muoversi. L'aveva colpito nel profondo e lui non aveva argomentazioni con cui difendersi, perché le domande e le osservazioni di Elva erano le stesse che rivolgeva a se stesso. Al pensiero che la bambina l'avesse compreso così bene sentì un brivido gelido lungo la schiena. «Ti sono grata comunque, Eragon, perché oggi sei venuto a porre rimedio al tuo errore» continuò Elva. «Non tutti sono disposti ad ammettere e ad affrontare le proprie mancanze. Tuttavia non ti sei conquistato i miei favori. Hai pareggiato il conto meglio che potevi, ma era il minimo che avrebbe fatto qualsiasi persona rispettabile. Non mi hai risarcito per tutto ciò che ho dovuto sopportare; è impossibile. Dunque, la prossima volta che le nostre strade si incroceranno, Eragon Ammazzaspettri, non contare su di me, né come amica né come nemica. Provo sentimenti contrastanti, Cavaliere; sono pronta tanto a odiarti quanto ad amarti. E molto dipende da te... Saphira, tu mi hai dato la stella sulla fronte e sei sempre stata gentile con me. Sono e sarò la tua fedele serva.»


Levando il mento per sfruttare al massimo la sua altezza di soli tre piedi e mezzo, Elva passò in rassegna l'interno del padiglione. «Eragon, Saphira, Nasuada... Angela. Buona giornata a tutti voi.» Poi si avviò di corsa verso l'ingresso e i Falchineri si fecero da parte per lasciarla uscire.


Eragon si alzò, incerto sulle gambe. «Che razza di mostro ho creato?» I due Falchineri Urgali si toccarono la punta delle corna per scacciare la sventura. «Mi dispiace. A quanto pare non faccio che complicare le cose a te e a tutti noi» disse a Nasuada.


Tranquilla come un lago di montagna, la regina si aggiustò la veste prima di rispondere: «Non importa. È solo che il gioco si è fatto un po' più complicato del previsto, tutto qui. E c'era da aspettarselo, visto che ci stiamo avvicinando sempre più a Urû'baen e a Galbatorix.»


Un istante dopo Eragon sentì un sibilo nell'aria, come se stesse per essere colpito da un oggetto in volo. Trasalì, ma, per quanto rapido, non fece in tempo a evitare il sonoro schiaffo che gli fece voltare la testa da una parte e lo scaraventò barcollando contro una sedia. Rotolò al di là e poi si rialzò, il braccio sinistro levato per respingere un secondo schiaffo, il destro caricato all'indietro e pronto a intervenire con il coltello da caccia che nel frattempo aveva estratto dalla cintola. Con sua grande sorpresa, vide che era stata Angela a schiaffeggiarlo. Gli elfi erano riuniti pochi pollici dietro l'indovina, pronti a immobilizzarla se l'avesse attaccato di nuovo e a scortarla via se Eragon l'avesse ordinato. Solembum era ai suoi piedi, denti e artigli sfoderati, il pelo ritto sulla schiena.


In quel preciso istante, a Eragon degli elfi non importava nulla. «Perché mi hai colpito?» le domandò, e trasalì, perché parlando la ferita che aveva sul labbro di sotto si era aperta un po' di più. Eragon sentì sulla lingua il sapore metallico del sangue caldo.


Angela scosse la testa. «Adesso mi toccherà passare i prossimi dieci anni a insegnare a Elva come comportarsi! Non è questo che avevo in mente!»


«Insegnarle come comportarsi?» esclamò Eragon. «Non te lo permetterà. Te lo impedirà con la stessa facilità con cui ha fermato me.»


«Mmm. Non credo proprio. Non sa come importunarmi né ferirmi. L'ho capito il giorno in cui ci siamo conosciute.»


«Vuoi spiegarlo anche a noi?» chiese Nasuada. «Dopo gli ultimi sviluppi, mi pare prudente trovare un modo per proteggerci da Elva.»


«No, non credo che lo farò» rispose Angela; poi anche lei uscì dal padiglione a grandi falcate e Solembum la seguì furtivo, facendo ondeggiare la coda con estrema grazia.


Gli elfi rinfoderarono le spade e indietreggiarono fino a trovarsi a una certa distanza dalla tenda.


Nasuada si massaggiò le tempie con movimenti circolari. «Ah, la magia!» imprecò.


«Già, la magia» convenne Eragon.


Quando Greta si gettò a terra e cominciò a piangere e a lamentarsi strappandosi i radi capelli, i due sobbalzarono. «Oh, la mia bambina! Ho perso il mio agnellino! L'ho perso! Cosa ne sarà di lei, tutta sola? Oh, povera me, il mio fiorellino mi ha cacciata. Che vergognosa ricompensa per il mio lavoro. Mi sono spaccata la schiena come una schiava per lei. Che mondo duro e crudele, non fa che renderti infelice.» Gemette. «La mia prugnetta. La mia rosellina. Il mio pisellino dolce. Se n'è andata! Chi baderà a lei? Ammazzaspettri! La proteggerai?»


Eragon la prese per un braccio e la aiutò a rialzarsi, poi per consolarla le promise che lui e Saphira avrebbero tenuto d'occhio Elva. Se ci riusciamo, disse Saphira a Eragon, perché potrebbe tentare di infilarci un coltello tra le costole.

DONI D'ORO

Eragon era accanto a Saphira, a una cinquantina di iarde dal padiglione rosso di Nasuada. Felice di essersi liberato della confusione scoppiata attorno a Elva, alzò lo sguardo al terso cielo turchino e si massaggiò le spalle, già stanco per gli eventi della giornata. Saphira voleva raggiungere in volo il fiume Jiet e fare un bagno nelle sue placide acque profonde; lui invece era meno sicuro sul da farsi. Doveva ancora finire di oliare l'armatura, prepararsi per il matrimonio di Roran e Katrina, andare a far visita a Jeod, trovare una spada, e poi... Si grattò il mento.

Quanto starai via? le chiese.


Saphira dispiegò le ali, pronta a spiccare il volo. Qualche ora. Ho fame. Quando sarò pulita, catturerò due o tre di quei cervi paffuti che ho visto pascolare lungo la riva ovest del fiume, anche se i Varden ne hanno abbattuti parecchi. Forse prima di trovare qualche preda che valga la pena di cacciare dovrò volare cinque o sei leghe verso la Grande Dorsale.


Non allontanarti troppo, la mise in guardia lui. Potresti fare spiacevoli incontri con l'Impero.


D'accordo, ma se per caso dovessi imbattermi in un solitario manipolo di soldati... Si leccò i baffi. Un veloce combattimento non mi dispiacerebbe. Gli esseri umani sono gustosi quanto i cervi.


Saphira, dimmi che stai scherzando...


Gli occhi della dragonessa brillarono. Forse sì, forse no. Dipende se indossano l'armatura o meno. Detesto addentare il metallo, ed estrarre il cibo dal guscio è altrettanto fastidioso.


Capisco. Eragon scoccò un'occhiata all'elfo più vicino, una donna alta dai capelli argentei. Gli elfi non vogliono che tu vada da sola. Ti spiace caricartene in groppa un paio? Altrimenti non riusciranno mai a starti al passo.


No. Oggi voglio andare a caccia da sola! Battendo le ali, prese il volo, librandosi in alto nel cielo. Mentre virava verso ovest, diretta al fiume Jiet, la sua voce risuonò nella mente di Eragon, affievolita dalla distanza. Al mio ritorno ce lo facciamo un voletto insieme, vero?


Sì, quando tornerai andremo a fare un voletto insieme, solo tu e io. Il piacere che provò la dragonessa a quella proposta lo fece sorridere mentre la osservava sfrecciare lontano.


Vedendo Blödhgarm correre verso di lui, svelto come un gatto selvatico, Eragon abbassò lo sguardo. L'elfo gli chiese dove stesse andando Saphira e non parve felice della spiegazione; tuttavia, se anche aveva qualcosa da obiettare, lo tenne per sé.


«D'accordo» si disse Eragon mentre Blödhgarm tornava dai compagni. «Prima le cose veramente importanti.»


Attraversò l'accampamento e raggiunse un ampio spiazzo quadrato in cui una trentina di Varden si stavano esercitando con un vasto assortimento di armi. Con suo grande sollievo, erano troppo occupati per accorgersi della sua presenza. Si accovacciò e appoggiò la mano destra sulla terra battuta, col palmo rivolto verso l'alto. Scelse con cura le parole nell'antica lingua, poi mormorò: «Kuldr, rïsa lam iet un malthinae unin böllr.»


Benché il suolo sembrasse intatto, sentì l'incantesimo filtrare sottoterra per centinaia di piedi in ogni direzione. Non più di cinque secondi dopo, la superficie del terreno cominciò a ribollire come l'acqua in una pentola lasciata sul fuoco troppo a lungo e si ricoprì di una brillante patina gialla. Eragon aveva imparato da Oromis che la terra conteneva sempre minuscole particelle quasi di ogni elemento, troppo piccole e disperse per poter essere estratte con i metodi tradizionali; pero un mago esperto poteva riuscirci, seppur con grande sforzo.


Dal centro della macchia gialla di terra si levò un getto arcuato di polvere luccicante che gli ricadde sul palmo. Ogni granello scintillante si fuse con quello accanto fino a formare tre sfere d'oro zecchino, ciascuna delle dimensioni di una grossa nocciola.


«Letta» disse Eragon, e pose fine alla magia. Si accovacciò sui talloni e si appoggiò con le mani al terreno, sopraffatto dalla stanchezza. La testa gli ciondolava in avanti; socchiuse le palpebre perché gli si annebbiava la vista. Trasse un profondo respiro e ammirando i globi dorati che aveva nella mano, lisci come specchi, attese che gli tornassero le forze. Che meraviglia, pensò. Se solo ne fossi stato capace anche quando vivevamo nella Valle Palancar... Quasi quasi, però, sarebbe stato più facile estrarre l'oro a colpi di piccone. Era da quando ho trasportato Sloan giù dalla vetta dell'Helgrind che un incantesimo non mi prosciugava tanto.


Infilò l'oro in tasca e riprese il cammino. Trovò la tenda delle cucine e consumò un lauto pasto; del resto ne aveva bisogno, dopo aver evocato tanti incantesimi complessi. Poi andò verso le tende degli abitanti di Carvahall. Nell'avvicinarsi udì un clangore metallico. Incuriosito, procedette in quella direzione.


Aggirò tre carri disposti in fila davanti all'imbocco di un vialetto e vide Horst in mezzo a due tende, distanti fra loro una trentina di metri, che reggeva una sbarra di metallo lunga cinque piedi. L'estremità opposta, di un vivo rosso ciliegia, era posata su un'immensa incudine di duecento libbre issata sopra un gran ceppo basso. Su entrambi i lati, i due corpulenti figli del fabbro, Albriech e Baldor, facevano roteare la mazza sopra la testa in ampi cerchi e poi colpivano l'acciaio a turno. Dietro di loro ardeva una forgia improvvisata.


Il fragore dei colpi era così assordante che Eragon rimase a debita distanza finché i due ragazzi non ebbero finito di appiattire e modellare il metallo e Horst non ebbe rimesso la sbarra nella forgia. Agitando il braccio libero, l'uomo lo salutò a gran voce: «Salute, Eragon!» Poi alzò un dito, anticipando la risposta di Eragon, e si tolse un tappo di feltro dall'orecchio sinistro. «Ah, adesso sì che ci sento. Che ci fai da queste parti?» Mentre parlava, i suoi figli presero dell'altro carbone da un secchio e lo gettarono nel fuoco, poi cominciarono a riordinare pinze, martelli, stampi e altri utensili sparsi a terra. Erano tutti e tre madidi di sudore.


«Volevo capire da dove proveniva questo frastuono» spiegò Eragon. «Avrei dovuto immaginarlo che eri tu. Solo un abitante di Carvahall potrebbe fare un simile fracasso!»


Horst rise, puntando la folta barba a forma di badile verso il cielo, finché quello sfogo di ilarità non si fu esaurito. «Ah, così stuzzichi il mio orgoglio. Proprio tu, che ne sei la prova vivente...»


«Lo siamo tutti» rispose Eragon. «Tu, io, Roran, chiunque venga da Carvahall. Quando ce ne saremo andati, Alagaësia non sarà più la stessa.» Indicò la forgia e le altre attrezzature. «Che ci fai qui? Pensavo che tutti i fabbri fossero...»


«Sì, in effetti è così, Eragon. Tuttavia, ho convinto il capitano responsabile di questa parte dell'accampamento a lasciarmi lavorare più vicino alla nostra tenda.» Horst strattonò l'estremità della barba. «Per via di Elain, sai com'è... Questo bambino la sta facendo penare e considerato ciò che abbiamo passato per arrivare fin qui non c'è da stupirsene. È sempre stata delicata, e adesso ho paura che... be'...» Si scrollò come un orso che si libera dalle mosche. «Magari, quando ti capita, potresti darle un'occhiata e vedere se riesci ad alleviarle il dolore.»


«Contaci» promise Eragon.


Con un grugnito di soddisfazione, Horst estrasse metà sbarra dalla brace per valutare meglio la colorazione dell'acciaio, poi la ricacciò nel fuoco e fece un cenno con il mento a Albriech. «Su, pompa un po' d'aria. È quasi pronta.» Mentre il figlio azionava il mantice di cuoio, Horst fece un gran sorriso a Eragon. «Quando ho detto ai Varden che lavoro facevo, erano felici come se fossi stato anch'io un Cavaliere dei Draghi. Sai, qui i fabbri scarseggiano. E mi hanno perfino procurato gli attrezzi che mi mancavano, compresa quell'incudine. Quando lasciammo Carvahall, piansi all'idea che non avrei più potuto esercitare il mio mestiere. Non sono in grado di forgiare spade, ma qui... ah, qui c'è abbastanza lavoro da tenere me, Albriech e Baldor occupati per i prossimi cinquant'anni. La paga è quella che è, ma almeno non siamo appesi a testa in giù nei sotterranei di Galbatorix.»


«E nemmeno mangiucchiati dai Ra'zac» osservò Baldor.


«Giusto, ben detto.» Horst fece cenno ai figli di riprendere le mazze e poi, portandosi il tappo di feltro accanto all'orecchio sinistro, disse: «Ti serve altro, Eragon? L'acciaio è pronto, non posso lasciarlo nel fuoco un secondo di più, altrimenti si piega.»


«Sai dov'è Gedric?»


«Gedric?» La ruga tra le sopracciglia di Horst si fece più profonda. «Credo che si stia esercitando con spada e lancia insieme agli altri uomini, laggiù, a circa un quarto di miglio da qui.» Gli indicò la direzione con il pollice.


Eragon lo ringraziò e si avviò. Il ripetitivo clangore metallico riprese, chiaro quanto i rintocchi di una campana, acuto e penetrante come un ago di vetro che fende l'aria. Eragon si tappò le orecchie e sorrise. Lo confortava che la determinazione di Horst non fosse venuta meno, anche se aveva perso casa e ricchezza, e che fosse rimasto quello di prima. Per certi versi la coerenza e la determinazione del fabbro rinnovarono la sua fiducia nel fatto che, se fossero riusciti a detronizzare Galbatorix, alla fine sarebbe tornato tutto al suo posto, e la sua vita e quella degli altri abitanti del villaggio avrebbe riacquistato una parvenza di normalità.


Poco dopo arrivò al campo dove gli uomini di Carvahall si stavano esercitando con le nuove armi. Gedric era lì, come aveva immaginato Horst, e combatteva con Fisk, Darmmen e Morn. Bastò un veloce scambio di battute con il veterano monco di un braccio che conduceva l'addestramento perché Gedric ne fosse dispensato.


Il conciatore gli corse incontro e gli si parò davanti, lo sguardo rivolto a terra. Era basso e scuro di carnagione; aveva la mascella di un mastino e folte sopracciglia, e a furia di mescolare il contenuto delle botti maleodoranti in cui conciava le pelli, le braccia gli erano diventate forti e nodose. Benché fosse tutt'altro che bello, Eragon sapeva che era un uomo gentile e onesto.


«Posso fare qualcosa per te, Ammazzaspettri?» bofonchiò.


«L'hai già fatto. E sono venuto a ringraziarti e ricompensarti.»


«Io? E in che modo ti avrei aiutato, sentiamo?» Parlava piano, con cautela, come temendo che Eragon gli stesse tendendo una trappola.


«Subito dopo la mia fuga da Carvahall, hai scoperto che qualcuno ti aveva rubato tre pelli di vacca dalla casupola in cui le metti ad asciugare, vicino alle botti. Giusto?»


Per l'imbarazzo, Gedric si adombrò e prese a sfregare i piedi per terra. «Ah... be', non l'avevo chiusa a chiave. Chiunque poteva intrufolarsi dentro e portare via quelle pelli. E considerato cos'è successo poi, non capisco che differenza fa. Ho distrutto quasi tutte le pelli prima di marciare sulla Grande Dorsale per evitare che l'Impero e quegli schifosi dei Ra'zac mettessero gli artigli su qualcosa di utile. Chiunque le ha prese mi ha solo risparmiato la fatica di doverne distruggere altre tre. Ormai quel che è stato è stato.»


«Forse» rispose Eragon, «ma il mio senso dell'onore mi spinge a confessarti che il colpevole sono io.»


A quel punto Gedric alzò la testa e lo guardò come se fosse una persona qualunque, senza paura, timore o reverenza, quasi il conciatore stesse rivalutando l'opinione che aveva di lui.

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