«Le ho rubate io e non ne vado fiero, ma mi servivano. Senza di esse dubito che sarei sopravvissuto abbastanza a lungo da raggiungere gli elfi nella Du Weldenvarden. Ho sempre preferito pensare di averle prese in prestito, ma la verità è che le ho rubate, perché non avevo alcuna intenzione di restituirle. Quindi accetta le mie scuse. E poiché le pelli le ho ancora io, perlomeno ciò che ne resta, pagartele mi sembra il minimo.» Eragon prese dalla cintola una delle tre sfere d'oro - dure, rotonde e intiepidite dal calore della sua pelle - e la consegnò a Gedric.
L'uomo fissò la scintillante perla di metallo: aveva l'enorme mascella serrata e rughe dure e inflessibili attorno alle labbra sottili. Non mancò di rispetto a Eragon soppesando l'oro o mordendolo, ma non appena riacquistò il dono della parola disse: «Non posso accettarla. Un tempo ero un bravo conciatore, ma le mie pelli non valevano tanto. La tua generosità ti rende merito, ma se accettassi quest'oro non sarei in pace con me stesso. Sarebbe come se non me lo fossi guadagnato.»
Per nulla sorpreso, Eragon rispose: «Non negheresti a qualcuno la possibilità di contrattare un prezzo più onesto, vero?»
«No.»
«Bene. Io non faccio eccezione, dunque. Di solito si gioca al ribasso, ma diciamo che in questo caso ho scelto di puntare al rialzo. Contratterò comunque con impegno, come se volessi risparmiare una manciata di monete. Per me le tue pelli valgono quell'oro fino all'ultima oncia, e non ti pagherò un solo soldo di meno, nemmeno se mi puntassi un coltello alla gola.»
Gedric strinse le dita massicce attorno alla sfera d'oro. «Visto che insisti, non sarò così villano da continuare a rifiutare. Nessuno può dire che Gedric Ostvensson si è lasciato sfuggire una fortuna perché era troppo occupato ad affermare il proprio scarso valore. Ti ringrazio, Ammazzaspettri.» Avvolse la sfera in una pezza di lana perché non si graffiasse e la ripose in una sacca che teneva legata alla cintola. «Garrow ha fatto un buon lavoro con te, Eragon. Anche con Roran. Sarà stato anche aspro come l'aceto e duro e secco come una rapa invernale, ma vi ha tirati su bene. Sono sicuro che sarebbe stato orgoglioso di voi.»
Eragon sentì un'inaspettata emozione stringergli il petto.
Gedric si voltò per raggiungere i compagni, poi ebbe un ripensamento. «Posso chiederti perché quelle tre pelli valevano tanto per te, Eragon? Che cosa ne hai fatto?»
Eragon ridacchiò. «Che cosa ne ho fatto? Con l'aiuto di Brom ho confezionato una sella per Saphira. Non la mette più spesso come prima, almeno non da quando gli elfi ce ne hanno data una apposta per draghi, ma si è rivelata utilissima in più di un combattimento e in parecchie situazioni pericolose, perfino nella battaglia del Farthen Dûr.»
Sbalordito, Gedric inarcò le sopracciglia, lasciando intravvedere uno strato di pelle chiara che di solito restava nascosto tra le rughe profonde. Come un taglio netto in un masso di granito grigio-azzurro, gli si dipinse sul viso squadrato un largo sorriso, che ne trasformò i lineamenti. «Una sella!» esclamò senza fiato. «Ma te lo immagini? Ho conciato la pelle per la sella di un Cavaliere dei Draghi! E nemmeno lo sapevo! No, non di un Cavaliere, del Cavaliere. Colui che alla fine sconfiggerà il nero tiranno! Se solo mio padre potesse vedermi ora!» Poi prese a scalciare, sollevando i talloni, e improvvisò una giga. Senza smettere di sorridere, fece un inchino a Eragon e tornò trotterellando dagli abitanti del villaggio, poi cominciò a raccontare la sua storia a chiunque fosse a portata d'orecchio.
Ansioso di darsela a gambe prima di ritrovarsi circondato, Eragon scivolò via tra le file di tende, soddisfatto. Forse ci metto un po' più del dovuto, pensò, ma li saldo sempre, i miei debiti.
Ben presto si ritrovò davanti a un'altra tenda, vicina all'estremità orientale dell'accampamento, e bussò al palo d'ingresso.
Sentì un sonoro fruscio, poi i due lembi di stoffa si aprirono di scatto e comparve Helen, la moglie di Jeod, che guardò Eragon con espressione gelida. «Sei venuto per parlare con lui, suppongo.»
«Se c'è...» Eragon sapeva benissimo che l'avrebbe trovato, perché riusciva a leggere nel pensiero di entrambi con la stessa facilità.
Per un momento pensò che la donna avrebbe negato la presenza del marito, poi però Helen si strinse nelle spalle e si fece da parte. «Allora entra pure.»
Eragon trovò Jeod seduto su uno sgabello, immerso in un assortimento di pergamene, libri e fasci di fogli sparsi ammucchiati su una branda senza coperte. Una sottile ciocca di capelli gli pendeva dalla fronte, seguendo il profilo della cicatrice che serpeggiava fino alla tempia sinistra.
«Eragon!» gridò non appena lo vide, e le rughe di concentrazione che gli si erano formate sul volto si spianarono. «Benvenuto, benvenuto!» Gli strinse la mano e poi gli offrì lo sgabello. «Siediti, io mi metterò su un angolo del letto. No, ti prego, sei nostro ospite. Vuoi qualcosa da bere o da mangiare? Nasuada ci dà una razione extra, dunque non fare complimenti, non patiremo la fame per causa tua. È un ben misero pasto rispetto a quello che ti abbiamo servito a Teirm, ma nessuno, nemmeno un re, dovrebbe andare in guerra e aspettarsi di mangiare bene.»
«Una tazza di tè la berrei volentieri» rispose Eragon.
«Vada per tè e biscotti, allora.» Jeod scoccò un'occhiata a Helen.
Stizzita, la donna raccolse il bollitore da terra e se lo appoggiò su un fianco, poi ci infilò il beccuccio di una borraccia di pelle e la premette. Il bollitore echeggiò con un suono basso e continuo man mano che si riempiva. Helen strinse le dita attorno al collo della borraccia, limitando il getto d'acqua a un languoroso gocciolio. Rimase così, con lo sguardo assente di chi sta svolgendo un compito ingrato, mentre le gocce d'acqua continuavano a produrre quel rumore irritante.
Sul viso di Jeod balenò un sorriso di scuse. In attesa che Helen terminasse, fissò un frammento di carta che aveva accanto al ginocchio. Eragon, invece, esaminò una piega su un lato della tenda.
Il pomposo gocciolio continuò per più di tre minuti.
Una volta riempito il bollitore, Helen appese la borraccia ormai vuota a un gancio sul palo centrale della tenda e uscì come una furia.
Eragon guardò Jeod alzando un sopracciglio.
Lui allargò le braccia. «La posizione che occupo tra i Varden non è così importante come sperava, e lei ne dà la colpa a me. Ha acconsentito a fuggire da Teirm convinta che Nasuada mi avrebbe accolto nella cerchia più ristretta dei suoi consiglieri e concesso terre e ricchezze degne di un nobile signore o chissà quale altra generosa ricompensa per aver aiutato a rubare l'uovo di Saphira tanti anni fa, o almeno così credo io, ma non aveva fatto i conti con la vita poco affascinante di un semplice soldato: dormire in una tenda, procurarsi il cibo, fare il bucato e via discorrendo. Non che ricchezza e prestigio siano le sue uniche preoccupazioni, ma devi capirla: in fondo apparteneva a una delle più ricche famiglie di commercianti di Teirm e da quando siamo sposati ho avuto ben poca fortuna. Non è avvezza a certe privazioni, deve ancora abituarsi a questa vita.» Alzò appena le spalle, poi le lasciò ricadere. «Io speravo tanto che questa avventura - sempre che meriti una definizione così romantica - avrebbe colmato la voragine che si era aperta tra noi negli ultimi anni, ma le cose sono sempre più complicate di quanto sembrano.»
«Ma tu ritieni che i Varden avrebbero dovuto mostrarti maggiore considerazione?» gli chiese Eragon.
«Non per me. Per Helen...» Jeod esitò. «Io voglio che sia felice. La ricompensa più grande per me è stata fuggire sano e salvo da Gil'head quando io e Brom fummo attaccati da Morzan, dal suo drago e dai suoi uomini; la soddisfazione di aver contribuito ad assestare un duro colpo a Galbatorix; riuscire a tornare alla mia vita precedente e servire comunque la causa dei Varden; e poi poter sposare Helen. Questa è la mia ricompensa, e sono più che soddisfatto. Ogni mio dubbio è stato fugato nel momento in cui ho visto Saphira levarsi in volo dal fumo delle Pianure Ardenti. Non so cosa fare con Helen, però. Ma dimentico che non sono problemi tuoi e non dovrei sfogarmi con te.»
Eragon toccò una pergamena con la punta dell'indice. «Allora dimmi che te ne fai di tutta questa carta. Sei diventato un copista?»
La domanda divertì Jeod. «Non direi proprio, anche se il mio lavoro è spesso altrettanto noioso. Poiché sono stato io a scoprire il passaggio segreto nel castello di Galbatorix a Urû'baen e sono riuscito a portare con me alcuni dei libri rari che avevo nella mia biblioteca a Teirm, Nasuada mi ha affidato il compito di cercare altri punti deboli nelle diverse città dell'Impero. Se riuscissi a trovare qualche allusione a un tunnel sotterraneo che conduce dentro le mura di Dras-Leona, per esempio, ci risparmieremmo un inutile spargimento di sangue.»
«Dove stai cercando?»
«Ovunque.» Jeod scostò il ciuffo di capelli che gli scendeva sulla fronte. «Storie, miti, leggende, poemi, canzoni, trattati religiosi, gli scritti di Cavalieri, maghi, viandanti, folli, oscuri potentati, generali vari e chiunque possa essere a conoscenza di una porta nascosta o un meccanismo segreto o qualcosa di simile che possiamo sfruttare a nostro vantaggio. La quantità di materiale da esaminare è immensa, perché ogni città è stata eretta secoli fa e alcune risalgono addirittura a prima dell'arrivo degli esseri umani in Alagaësia.»
«Pensi di riuscire a trovare qualcosa?»
«No, è improbabile. Di solito non si cava un ragno dal buco a tentare di svelare i segreti del passato. Ma se avessi abbastanza tempo, potrei anche farcela. Non ho dubbi che quanto sto cercando esiste; le città dell'Impero sono troppo antiche: è impossibile che non abbiano vie di accesso e di fuga clandestine. Ma che ne rimangano tracce scritte, e che tali resoconti siano in nostro possesso, è tutta un'altra questione. Chi è a conoscenza di botole nascoste e stratagemmi di siffatta natura di solito ha tutto l'interesse a tenere l'informazione per sé.» Jeod afferrò una manciata di fogli sulla branda e li avvicinò al viso, poi grugnì e li gettò da parte. «Sto cercando di risolvere indovinelli inventati da chi vuole che rimangano enigmi.»
Eragon e Jeod continuarono a parlare di altri argomenti meno importanti, poi comparve Helen con tre tazze fumanti di tè al trifoglio. Prendendo la sua, Eragon notò che la rabbia di prima sembrava svanita e si domandò se per caso la donna non avesse origliato la loro conversazione. Helen diede al marito la sua tazza e, da. qualche parte dietro Eragon, prese un piatto di metallo colmo di biscottini piatti e un vasetto di terracotta pieno di miele. Poi indietreggiò di qualche metro e si appoggiò al palo centrale, soffiando sul tè bollente.
Per educazione, Jeod attese che Eragon prendesse un biscotto dal piattino e lo addentasse, poi gli chiese: «A cosa devo l'onore, Eragon? Forse mi sbaglio, ma non credo che la tua sia solo una visita di piacere.»
Eragon bevve un sorso. «Dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, ho promesso che ti avrei raccontato com'è morto Brom. Sono venuto per questo.»
Un grigio pallore si diffuse sulle guance esangui di Jeod. «Oh.»
«Se preferisci, non lo farò» si affrettò a chiarire Eragon.
A fatica Jeod scosse la testa. «No, continua. È solo che mi hai colto di sorpresa.»
Vedendo che non chiedeva alla moglie di andarsene, Eragon non capì se era il caso di continuare o meno, poi decise che non avrebbe fatto alcuna differenza se Helen o chiunque altro avesse ascoltato la storia. Con voce lenta e cauta, cominciò a narrare ciò che era successo da quando lui e Brom avevano lasciato la casa di Jeod. Descrisse l'incontro con la banda di Urgali, la ricerca dei Ra'zac a Dras-Leona, l'imboscata che quei mostruosi esseri deformi avevano teso loro fuori dalla città e l'agguato mortale ai danni di Brom, pugnalato dai Ra'zac messi in fuga da Murtagh.
Via via che raccontava le ultime ore di Brom, della gelida grotta di pietra arenaria in cui l'aveva assistito fino alla fine, del senso di disperazione che l'aveva assalito mentre lo guardava scivolare nell'oblio, del puzzo di morte che pervadeva l'aria secca, delle ultime parole di Brom, della tomba di pietra arenaria costruita con la magia e poi trasformata in un diamante puro da Saphira, Eragon sentì un nodo stringergli la gola.
«Se avessi avuto le conoscenze di adesso» disse, «avrei potuto salvarlo. Invece...» Incapace di finire la frase, si asciugò gli occhi e trangugiò il tè. Qualcosa di più forte non avrebbe guastato.
Jeod si lasciò sfuggire un sospiro. «Dunque è stata questa la fine di Brom. Ahimè, senza di lui stiamo tutti peggio. Però, se avesse potuto scegliere, credo avrebbe voluto morire così, al servizio dei Varden, difendendo l'ultimo Cavaliere dei Draghi ancora libero.»
«Sapevi che anche lui era stato un Cavaliere?»
Jeod annuì. «I Varden me lo avevano detto prima che ci conoscessimo.»
«Mi sembrava piuttosto restio a parlare di sé» osservò Helen.
Jeod ed Eragon risero. «È vero» confermò l'uomo. «Non mi sono ancora ripreso da quella volta in cui vi vidi, tu e lui, sulla soglia di casa mia. Brom faceva sempre di testa sua, ma quando ci siamo ritrovati a viaggiare insieme siamo diventati buoni amici. Ancora non riesco a capire perché mi aveva lasciato credere di essere morto per... quanti, sedici anni? Diciassette? Comunque troppi. Inoltre, poiché fu lui a consegnare l'uovo di Saphira ai Varden dopo aver ucciso Morzan a Gil'ead, i Varden non avrebbero potuto dirmi che ce l'avevano loro senza rivelarmi che Brom era ancora vivo. E così ho trascorso quasi due decenni convinto che l'unica grande avventura della mia vita si fosse conclusa con un fallimento e che avessimo perso la sola speranza che un Cavaliere dei Draghi ci aiutasse a sconfiggere Galbatorix. Non è stato un peso facile da sopportare, te lo assicuro...»
Si passò una mano sulla fronte. «Quando aprii la porta di casa e mi resi conto di chi avevo davanti, pensai che i fantasmi del passato fossero venuti a perseguitarmi. Brom disse che si era nascosto perché era l'unico modo per sfuggire alla morte e riuscire così ad addestrare il nuovo Cavaliere non appena fosse comparso, ma la sua spiegazione non mi convinse mai fino in fondo. Perché si era allontanato da quasi tutti quelli che conosceva o che gli volevano bene? Di cosa aveva paura? Cosa stava proteggendo?»
Accarezzò il manico della tazza. «Non ne ho le prove, ma ho il sospetto che Brom avesse scoperto qualcosa a Gil'ead mentre stava combattendo contro Morzan e il suo drago, qualcosa di così fondamentale da spingerlo a cambiare vita. È una congettura fantasiosa, lo ammetto, ma non riesco a capire perché abbia deciso di nascondersi se non supponendo che sapesse qualcosa di cui non ha mai parlato ad anima viva, me compreso.»
Jeod fece un altro sospiro e si passò una mano sul lungo volto. «Dopo aver passato tanti anni separati, speravo che io e lui potessimo tornare a cavalcare insieme, ma a quanto pare il fato aveva altri progetti. E perderlo una seconda volta, poche settimane dopo aver scoperto che era ancora vivo... il mondo mi ha giocato proprio uno scherzo crudele.» Helen passò davanti a Eragon e si avvicinò al marito, sfiorandogli la spalla. Lui le fece un pallido sorriso e le cinse la vita sottile con un braccio. «Sono felice che tu e Saphira abbiate costruito per Brom un sepolcro da far invidia al re dei nani. Con tutto ciò che ha fatto per Alagaësia, meritava questo e altro. Anche se ho il terribile sospetto che non appena qualche malintenzionato lo scoprirà non esiterà a profanarlo per rubare il diamante.»
«In quel caso, se ne pentirà amaramente» borbottò Eragon. Decise che sarebbe tornato sul luogo della sepoltura appena possibile, a scagliare incantesimi di protezione contro eventuali ladri. «E poi il ladro sarà troppo impegnato a raccogliere gigli d'oro per disturbare Brom.»
«Come?»
«Niente. Non è importante.» I tre continuarono a bere. Helen mordicchiò un biscotto. Poi Eragon chiese a Jeod: «Tu l'hai conosciuto, Morzan, vero?»
«Sì, anche se sempre in situazioni tutt'altro che amichevoli.» «Com'era?»
«Come persona, dici? Non saprei, davvero, benché abbia sentito parlare spesso delle atrocità che ha commesso. Ogni volta che io e Brom lo incrociavamo sul nostro cammino, cercava di ucciderci. Anzi, di catturarci, torturarci e poi ucciderci: non mi sembrano i presupposti migliori per avviare uno stretto rapporto di amicizia, no?» Eragon era troppo assorto per rispondere alla battuta. Jeod cambiò posizione sul letto. «Come guerriero, invece, era terrificante. Se non ricordo male, abbiamo trascorso buona parte del nostro tempo in fuga da lui e dal suo drago. Non c'è niente di più spaventoso di un drago inferocito che ti dà la caccia.»
«Che aspetto aveva?»
«Mi sembri parecchio interessato a lui.»
Eragon batté le palpebre. «Sono curioso. È stato l'ultimo dei Rinnegati a morire, e per mano di Brom. E adesso suo figlio è il mio nemico giurato.»
«Dunque, vediamo... Era alto, aveva le spalle larghe, i capelli scuri come le penne del corvo e gli occhi di colore diverso, uno azzurro e uno nero. Niente barba, e gli mancava la punta di un dito, ma non ricordo quale. Era un bell'uomo, sì, ma di una bellezza crudele e altera, ed era quando parlava che esibiva tutto il suo fascino. L'armatura era sempre lucente, che indossasse la cotta o il pettorale, come se non temesse di essere visto dai nemici, e non stento a credere che fosse davvero così. Quando rideva, sembrava che soffrisse.»
«E la sua compagna, Selena? Hai conosciuto anche lei?»
Jeod rise. «Se così fosse, oggi non sarei qui. Morzan può essere stato un abile spadaccino, un mago straordinario e un traditore assassino, ma a incutere vero terrore nelle persone era quella donna. Lui le affidava solo le missioni più ripugnanti, difficili o segrete, quelle che nessun altro avrebbe accettato di compiere. Era la sua Mano Nera, e la sua presenza annunciava sempre morte imminente, torture, tradimenti e chissà quali altri orrori.» Sentendo Jeod descrivere sua madre in quel modo, Eragon fu colto dalla nausea. «Era implacabile, non provava pietà né compassione. Correva voce che, quando aveva offerto a Morzan i suoi servigi, lui l'avesse messa alla prova. Prima le aveva insegnato a pronunciare la parola "guarire" nell'antica lingua - oltre che una guerriera era anche una strega, sai? - e poi l'aveva opposta a dodici uomini armati di spada, scelti tra i suoi migliori soldati.»
«Come riuscì a sconfiggerli?»
«Con un incantesimo fece loro dimenticare la paura, l'odio e tutti gli altri sentimenti che spingono un uomo a uccidere. Poi, mentre se ne stavano lì a sorridersi come sciocchi pecoroni, li sgozzò... Ti senti bene, Eragon? Sei pallido come un cadavere.»
«Sì, sto bene. Cos'altro ricordi?»
Jeod tamburellò con le dita sul fianco della tazza. «Di Selena? Davvero poco. È sempre stata un enigma. Fino a pochi mesi prima che Morzan morisse, nessuno oltre a lui conosceva il suo vero nome. Per tutti era la Mano Nera; Galbatorix si è ispirato a lei quando ha creato la sua rete di spie, assassini e maghi che conducono i loschi traffici dell'Impero. Perfino tra i Varden solo uno sparuto gruppo di persone conosceva il suo nome, ma ormai sono quasi tutti sottoterra. Ricordo che fu Brom a scoprirne la vera identità. Prima che andassi a riferire ai Varden del passaggio segreto per il castello di Ilirea, che gli elfi costruirono millenni or sono e che Galbatorix ha ampliato fino a formare la nera cittadella che adesso domina Urû'baen, Brom sorvegliava da tempo la proprietà di Morzan nella speranza di individuare qualche punto debole fino ad allora rimasto nascosto... Credo che sia riuscito a penetrare nel suo palazzo spacciandosi per un servo. Fu allora che scoprì tutto su Selena. Eppure non capimmo mai perché fosse così legata a Morzan. Forse lo amava. Gli è sempre stata fedelissima, fino in punto di morte. Poco dopo che Brom ebbe ucciso Morzan, ai Varden giunse voce che si fosse ammalata. Come se il falco fosse così affezionato al padrone che l'aveva addestrato da non poter vivere senza di lui.»
Proprio fedelissima non direi, pensò Eragon. Ha sfidato Morzan per il mio bene, anche se poi ha perso la vita per questo. Oh, se fosse riuscita a liberare anche Murtagh... Quanto al resoconto poco edificante di Jeod, Eragon scelse di credere che Morzan avesse traviato la natura essenzialmente buona di Selena. Non poteva accettare che entrambi i suoi genitori fossero malvagi, o sarebbe impazzito.
«Lo amava» rispose, fissando il torbido fondo della tazza. «All'inizio, di sicuro; forse alla fine un po' meno. Murtagh è suo figlio.»
Jeod inarcò un sopracciglio. «Davvero? Te l'avrà detto lui stesso, suppongo.» Eragon annuì. «Be', questo spiega molte cose. La madre di Murtagh... Sono sorpreso che Brom non mi abbia mai svelato quel segreto.»
«Morzan fece tutto il possibile per nascondere l'esistenza di Murtagh perfino agli altri Rinnegati.»
«Conoscendo la storia di quei furfanti traditori e affamati di potere è probabile che gli abbia salvato la vita. Peccato.»
Tra di loro si insinuò il silenzio, come un timido animale pronto a fuggire al minimo movimento. Eragon continuò a guardare dentro la tazza. Era assillato da una quantità di domande, ma sapeva che né Jeod né nessun altro avrebbe potuto rispondere: perché Brom si era nascosto a Carvahall? Per vegliare su Eragon, il figlio del suo più acerrimo nemico? Era stato uno scherzo crudele dargli Zar'roc, la spada di suo padre? E perché Brom non gli aveva detto la verità sui suoi genitori? Strinse la tazza con più forza e, senza volerlo, la mandò in frantumi.
A quel rumore improvviso trasalirono tutti e tre.
«Aspetta, ti aiuto» disse Helen, correndogli incontro e tamponandogli la tunica con uno straccio. Imbarazzato, Eragon si scusò più volte, e i suoi ospiti lo rassicurarono dicendogli di non preoccuparsi, che non era nulla di grave.
Mentre Helen raccoglieva i cocci di terracotta, Jeod cominciò a rovistare tra i cumuli di libri, pergamene e fogli che coprivano il letto, poi disse: «Ah, per poco non me ne dimenticavo. Ho una cosa per te, Eragon, che potrebbe rivelarsi utile. Se solo riuscissi a trovarla...» Con un grido di gioia si raddrizzò sventolando un libro, che consegnò al giovane.
Era il Domia abr Wyrda, il Dominio del Fato, la storia di Alagaësia scritta da Heslant il Monaco. Eragon l'aveva visto per la prima volta nella biblioteca di Jeod a Teirm, e non si aspettava di poterlo ammirare ancora. Assaporando la sensazione, passò le mani sulla copertina di pelle intarsiata, lisa, poi aprì il libro e ammirò le ordinate file di rune scritte in lucido inchiostro rosso. Impressionato dall'immensa quantità di conoscenza che reggeva tra le mani, Eragon gli chiese: «Davvero vuoi che lo tenga io?»
«Sì» disse Jeod, facendosi da parte mentre Helen recuperava un frammento di tazza da sotto il letto. «Credo che potresti trarne vantaggio. Sei coinvolto in eventi che sono storia, Eragon, e le difficoltà che stai affrontando hanno radici lontane, che risalgono a fatti occorsi decenni, secoli, millenni fa. Se fossi in te, coglierei ogni opportunità per imparare la lezione che la storia ha da insegnarci: potrebbe aiutarti a risolvere i tuoi problemi di oggi. Per quanto mi riguarda, leggere i resoconti del passato mi ha dato spesso il coraggio e l'acume necessari a scegliere la giusta via.»
Eragon ardeva dal desiderio di accettare il dono, tuttavia esitò. «Brom diceva che il Domia abr Wyrda era l'oggetto di maggior valore che avevi in casa. E il più raro... E poi che ne sarà del tuo lavoro? Non ti serve per le tue ricerche?»
«Sì, è un libro raro e di immenso valore» convenne Jeod, «ma solo entro i confini dell'Impero, perché Galbatorix ne brucia ogni copia che trova e manda alla forca gli sfortunati proprietari. Qui all'accampamento i cortigiani di re Orrin me ne hanno già rifilate sei copie, e direi che questo non si possa definire un importante centro culturale. Tuttavia non me ne separo a cuor leggero, ma solo perché tu possa farne un uso migliore di quanto riuscirei a fare io. I libri devono andare dove sono più apprezzati e non restare silenziosi a impolverarsi su mensole abbandonate, non trovi?»
«Giusto.» Eragon chiuse il volume e di nuovo seguì con le dita l'intricato profilo della scritta sulla copertina, affascinato dai contorti ghirigori intagliati nella pelle. «Grazie. Lo custodirò come un tesoro finché sarà in mio possesso.» Jeod chinò il capo e si appoggiò alla parete della tenda con aria soddisfatta. Eragon voltò il libro ed esaminò l'iscrizione sul dorso. «A che ordine religioso apparteneva Heslant?»
«A una piccola setta segreta chiamata Arcaena, originaria della zona vicino a Kuasta. Il loro ordine, che sopravvive da almeno cinque secoli, crede che ogni forma di conoscenza sia sacra.» Un accenno di sorriso diede ai lineamenti di Jeod un'espressione misteriosa. «Si occupano di raccogliere ogni informazione possibile e di proteggerla in attesa di un'epoca in cui, secondo loro, si abbatterà una non meglio precisata catastrofe che distruggerà ogni traccia di civilizzazione in Alagaësia.»
«Mi pare una religione un po' strana» commentò Eragon.
«Non sono tutte così, viste da fuori?» ribatté Jeod.
«Anch'io ho un regalo per te. Be', in realtà è per tua moglie.» Helen inclinò la testa da un lato e aggrottò le sopracciglia con fare interrogativo. «Tu vieni da una famiglia di commercianti, vero?» La donna fece cenno di sì con il capo. «Anche tu avevi fiuto per gli affari?»
Un lampo balenò negli occhi della donna. «Quando mio padre morì, se non avessi sposato lui» - e indicò Jeod con un gesto della spalla - «avrei ereditato l'attività di famiglia. Sono figlia unica, mio padre mi ha insegnato tutto ciò che sapeva.»
Era quello che Eragon sperava. «Hai detto di essere soddisfatto della tua vita qui con i Varden, no?» chiese poi a Jeod.
«Nel complesso sì.»
«Capisco. Però hai rischiato tanto aiutando me e Brom, e ancora di più Roran e gli altri abitanti di Carvahall.»
«I Pirati di Palancar.»
Eragon ridacchiò, poi proseguì. «Senza il tuo intervento, di sicuro l'Impero li avrebbe catturati. E a causa del tuo atto di ribellione hai perso quanto di più caro avevi a Teirm.»
«L'avremmo perso comunque. Ero in bancarotta e i Gemelli mi hanno tradito. Era solo questione di tempo prima che Lord Risthart mi facesse arrestare.»
«Forse; comunque hai aiutato Roran. Chi può biasimarti se nel contempo pensavi a salvarti la pelle? Resta il fatto che hai rinunciato alla tua vita a Teirm per rubare l'Ala di Drago con Roran e gli altri abitanti. E ti sarò sempre grato per il tuo sacrificio. Questo è il mio ringraziamento...»
Eragon passò un dito sotto la cintura, estrasse la seconda delle tre sfere d'oro e la consegnò a Helen, che la prese fra le mani con dolcezza, come se fosse un pulcino di pettirosso. Mentre la fissava meravigliata e Jeod tendeva il collo per sbirciare, Eragon disse: «Non è una fortuna, ma se sarete accorti, riuscirete a farla fruttare. Ciò che ha fatto Nasuada con il pizzo mi ha insegnato che la guerra offre ottime occasioni per arricchirsi.»
«Oh, sì» replicò Helen, senza fiato. «Le guerre sono la delizia dei mercanti.»
«Per esempio, ieri sera a cena Nasuada mi ha riferito che i nani sono a corto di idromele e, come potrai immaginare, hanno i mezzi per comprarne tutti i barili che vogliono, anche se il prezzo fosse mille volte più alto di prima della guerra. Ma il mio è solo un suggerimento. Se vi date da fare, potreste trovare altra gente più avida ancora di loro con cui entrare in affari.»
Quando Helen corse ad abbracciarlo, Eragon fece un passo indietro, barcollando. I capelli di lei gli solleticarono il collo. All'improvviso intimidita, Helen si allontanò, poi fu pervasa dall'eccitazione di prima, portò la sfera color miele davanti al naso e disse: «Grazie, Eragon! Oh, grazie!» Indicò l'oro. «So come utilizzarlo. Con questo costruirò un impero perfino più grande di quello di mio padre.» Fece sparire la sfera scintillante nel pugno chiuso. «Tu credi che la mia ambizione superi le mie capacità? Aspetta e vedrai. Non fallirò!»
Eragon le fece un inchino. «Spero che trarremo tutti beneficio dal tuo successo.»
Helen si inchinò a sua volta e gli rispose: «Sei molto generoso, Ammazzaspettri. Grazie ancora.» Eragon notò che le si tendevano i muscoli del collo.
«Sì, grazie» intervenne Jeod, alzandosi dal letto. «Non credo che ce lo meritiamo» - Helen gli scoccò un'occhiata furiosa, che lui ignorò - «ma lo apprezziamo molto.»
Improvvisando, Eragon aggiunse: «C'è un regalo anche per te, Jeod, non da parte mia, ma di Saphira. Non appena avrete entrambi un paio d'ore libere, ha accettato di portarti a fare un giro.» Dividere Saphira con altri lo addolorava e sapeva che lei si sarebbe indispettita perché non l'aveva consultata prima di offrire i suoi servigi a qualcuno, ma dopo aver dato l'oro a Helen si sarebbe sentito in colpa se non avesse offerto a suo marito qualcosa di pari valore.
Un velo di lacrime offuscò gli occhi di Jeod. Afferrò la mano di Eragon e gliela strinse, poi, senza lasciarla, disse: «Non posso immaginare un onore più grande. Grazie. Non sai quanto hai fatto per noi.»
Divincolandosi dalla stretta, Eragon raggiunse a passo lento l'ingresso della tenda, scusandosi con più garbo possibile e congedandosi. Alla fine, dopo un'altra tornata di ringraziamenti da parte degli ospiti e un suo modesto: «Non ho fatto proprio niente», riuscì a fuggire.
Fuori, sollevò il Domia abr Wyrda e poi osservò il sole. Saphira sarebbe tornata a breve, ma c'era ancora tempo per sbrigare un'altra faccenda. Prima però doveva tornare nella sua tenda; non voleva rischiare di sciupare il libro portandolo con sé per tutto l'accampamento.
Possiedo un libro, pensò, al settimo cielo.
Si avviò di buon passo, stringendo il volume al petto, seguito a ruota da Blödhgarm e dagli altri elfi.
MI SERVE UNA SPADA!
Nascosto il Domia abr Wyrda al sicuro nella sua tenda, Eragon andò nell'armeria dei Varden, un grande padiglione a cielo aperto zeppo di rastrelliere cariche di lance, spade, picche, archi e balestre. C'erano casse di legno traboccanti di scudi e armature di cuoio. Le cotte, le tuniche, le cuffie e i gambali più costosi erano appesi a ganci di legno. Centinaia di elmi conici scintillavano come argento lustro. Balle di frecce erano allineate lungo il perimetro e tra loro sedevano una ventina di arcieri, o forse più, impegnati a riparare i pennacchi danneggiati durante la battaglia delle Pianure Ardenti. Un flusso costante di uomini entrava e usciva di corsa: chi portava armi e cotte a far sistemare, chi nuove reclute da equipaggiare, chi trasportava attrezzature varie da una parte all'altra dell'accampamento. Sembrava che gridassero tutti a squarciagola. E nel bel mezzo di quel caos Eragon scorse la persona che sperava di incontrare: Fredric, il maestro d'armi dei Varden.
Si avviò verso di lui, Blödhgarm al suo fianco. Non appena furono sotto il tetto di tela, tutti i presenti ammutolirono, gli occhi fissi sui due nuovi arrivati. Poi ripresero le loro attività, ma più svelti e a voce più bassa.
Alzando un braccio in segno di benvenuto, Fredric corse loro incontro. Come sempre indossava l'irsuta corazza di pelle di bue che puzzava quasi quanto l'animale vivo, e a tracolla sulla schiena aveva un'immensa spada a doppia impugnatura; l'elsa gli spuntava dalla spalla destra. «Ammazzaspettri!» ringhiò. «Come posso aiutarti in questo bel pomeriggio?»
«Mi serve una spada.»
Dalla folta barba di Fredric spuntò un sorriso. «Ah, mi chiedevo se saresti mai venuto a trovarmi per questo. Quando sei partito per l'Helgrind senza una lama, ho pensato che di certe cose potessi ormai fare a meno, e che per combattere ti bastasse la magia.»
«No, non ancora.»
«Be', non posso dire che mi dispiaccia. Una buona spada fa comodo a chiunque, per quanto abile con gli incantesimi. Alla fine si risolve tutto a colpi di acciaio. Aspetta e vedrai: questa lotta contro l'Impero si concluderà solo quando la punta di una spada trafiggerà il cuore maledetto di Galbatorix. Eh, scommetterei la paga di un mese che perfino lui ha una spada, e la usa eccome, anche se è capace di sventrarci tutti come pesci solo schioccando le dita. La sensazione di stringere nel pugno del buon acciaio è impareggiabile.»
Mentre parlava, Fredric li condusse verso una fila di spade separate dalle altre. «Che tipo di spada stai cercando?» gli chiese. «Se ben ricordo, quella che avevi prima, Zar'roc, era a una mano. Con una lama ampia circa due pollici - dei miei, si intende - e la forma adatta sia per il colpo di taglio sia per la stoccata, giusto?» Eragon annuì, e il maestro d'armi grugnì e prese a tirar fuori dalla rastrelliera una spada dopo l'altra; dopo averle fatte roteare in aria, le riponeva, insoddisfatto. «Le lame degli elfi di solito sono meno spesse e più leggere delle nostre o di quelle dei nani per gli incantesimi che impongono all'acciaio. Se le nostre fossero sottili come le loro, non durerebbero più di un minuto in battaglia prima di piegarsi, rompersi o scheggiarsi tanto da non servire più nemmeno per tagliare un formaggio morbido.» Scoccò una rapida occhiata a Blödhgarm. «Non è così, elfo?»
«È come dici tu, umano» rispose lui con voce perfettamente modulata.
Fredric annuì e osservò il bordo di un'altra spada, poi sbuffò e la rimise al suo posto. «È probabile che qualunque spada tu scelga sia più pesante di quella a cui eri abituato. Non dovrebbe essere un grosso problema per te, Ammazzaspettri, ma potrebbe diminuire la velocità degli affondi.»
«Grazie per l'avvertimento» disse Eragon.
«Figurati» rispose Fredric. «Sono qui apposta per evitare ai Varden di farsi sterminare e per aiutarli a far fuori il maggior numero possibile di maledetti soldati di Galbatorix. È un bel lavoro.» Poi passò a un'altra rastrelliera, nascosta dietro una pila di scudi rettangolari. «Trovare la spada giusta per ognuno è di per sé un'arte. Devi sentirla come un'estensione del tuo braccio, come se ti fosse spuntata dalla carne. Non devi pensare prima di usarla, ma farti guidare dall'istinto, come fa un'egretta con il becco o un drago con gli artigli. La spada perfetta è l'incarnazione del tuo intento: fa ciò che vuoi.»
«Sembri un poeta.»
Con espressione modesta, Fredric si strinse nelle spalle. «Sono ventisei anni che scelgo le armi per uomini pronti a marciare in combattimento. Dopo un po' è un lavoro che ti entra nelle ossa e ti induce a concentrarti su pensieri come il fato e il destino. "Chissà se quel ragazzo che ho congedato con un'alabarda sarebbe ancora vivo se invece gli avessi dato una mazza": cose del genere, insomma.» Fredric indugiò con la mano sulla spada al centro della rastrelliera e guardò Eragon. «Preferisci combattere con o senza scudo?»
«Con. Ma non ce la faccio a reggerlo tutto il tempo. E quando mi attaccano, sembra che non ce ne sia mai uno a portata di mano.»
Fredric tamburellò sull'elsa della spada e si mordicchiò la punta della barba. «Uff... Dunque ti serve una spada con cui difenderti anche senza avere altre armi, ma che non sia troppo lunga e vada bene per qualunque tipo di scudo, rotondo o rettangolare che sia. Ovvero una spada di medie dimensioni, facile da maneggiare con una mano sola. E poi dev'essere adatta per ogni occasione, abbastanza elegante per una cerimonia di incoronazione e tanto solida da respingere una banda di Kull.» Fece una smorfia. «Ciò che ha fatto Nasuada, allearsi con quei mostri, è contro natura. Non può funzionare. Noi e loro non siamo fatti per stare insieme...» Si riscosse. «È un peccato che ti serva una spada sola. O mi sbaglio?»
«No. Io e Saphira siamo sempre in viaggio e non ne possiamo portare con noi cinque o sei.»
«Suppongo che tu abbia ragione. E poi non ci si aspetta che un guerriero come te ne abbia più d'una. È la maledizione del nome, come la chiamo io.»
«Sarebbe?»
«Ogni grande guerriero brandisce una spada che ha un nome, e dico spada perché di solito è quella l'arma prediletta» gli spiegò. «O lo sceglie lui oppure, dopo aver dimostrato la propria abilità in qualche straordinaria impresa, lo scelgono i bardi. Da lì in poi è costretto a usare sempre quella, perché tutti si aspettano di vederlo con quella. Se si presenta in battaglia senza, i suoi compagni d'armi gli chiederanno dov'è e si domanderanno se per caso si vergogna del proprio successo o se li insulta rifiutando le lodi che gli hanno tributato. Perfino i suoi nemici possono rifiutarsi di combattere se non brandisce la sua blasonata lama. Aspetta e vedrai; non appena combatterai contro Murtagh o farai qualcos'altro di memorabile con la tua nuova spada, i Varden insisteranno per darle un nome. E da quel momento si aspetteranno di vedertela sempre alla cintura.» Mentre procedeva verso la terza rastrelliera, Fredric continuò: «Non avrei mai creduto di essere così fortunato da aiutare un Cavaliere a scegliere un'arma. Che occasione! È il momento più alto della mia carriera da quando sono con i Varden.»
Scelse una spada e la consegnò a Eragon, che la soppesò puntandola in alto e quindi in basso, e poi scosse la testa; la forma dell'elsa non si adattava alla sua mano. Il maestro d'armi non sembrava deluso; al contrario, quel rifiuto parve rianimarlo, poiché la sfida lo solleticava. Gliene mostrò un'altra, ma Eragon scosse di nuovo la testa; il baricentro era troppo spostato in avanti per i suoi gusti.
«Quello che mi preoccupa è che, qualsiasi spada io ti dia, dovrà sopportare impatti violenti, capaci di distruggere una lama normale» disse Fredric, tornando alla rastrelliera. «A te serve un'arma forgiata da un nano. Eccezion fatta per gli elfi, i loro fabbri sono i più abili; anzi, a volte sono anche meglio.» Lo guardò di sottecchi. «Ma sto facendo le domande sbagliate! Come ti hanno insegnato a parare le stoccate? Lama contro lama? Mi sembra di ricordare che tu abbia fatto qualcosa di simile quando hai sfidato Arya nel Farthen Dûr.»
Eragon si accigliò. «E allora?»
«E allora?» Fredric rise sguaiato. «Non per mancarti di rispetto, Ammazzaspettri, ma se colpisci una lama nemica di taglio, rovinerai sia la sua arma che la tua. Forse con una spada incantata come Zar'roc non era un problema, ma con quelle che ho io sì, a meno che tu non voglia cambiare arma dopo ogni battaglia.»
A Eragon balenò in mente l'immagine dei bordi scheggiati della spada di Murtagh e si arrabbiò con se stesso per aver dimenticato una cosa tanto ovvia. Si era abituato a Zar'roc, che non si spuntava mai, non mostrava mai segni di usura e, per quanto ne sapeva lui, era immune a gran parte degli incantesimi. Non era nemmeno sicuro che la spada di un Cavaliere si potesse distruggere. «Per quello non devi preoccuparti; la proteggerò con la magia. Allora, devo aspettare tutto il giorno per avere ciò che mi serve?»
«Un'altra domanda, Ammazzaspettri. La tua magia durerà per sempre?»
Eragon si accigliò ancora di più. «Dato che me lo chiedi, no. C'è solo un'elfa che conosce i segreti delle spade dei Cavalieri, ma non ha voluto condividerli con me. L'unica cosa che posso fare io è trasferire nella spada una certa quantità di energia per impedire che venga danneggiata, almeno finché non arriva il colpo di grazia; a quel punto la spada tornerà allo stato originario e con ogni probabilità mi si frantumerà tra le mani alla prima occasione.»
Fredric si grattò la barba. «Ti prendo in parola, Ammazzaspettri. Dunque, fammi capire: a furia di colpire soldati, l'incantesimo si consumerà, e più forte colpisci, prima accadrà, giusto?»
«Giusto.»
«Allora dovrai evitare di combattere lama contro lama, perché in quel caso l'incantesimo si consumerà più in fretta che con qualunque altro affondo.»
«Non ho tempo, Fredric» tagliò corto Eragon, che stava perdendo la pazienza. «Non ho tempo di imparare una diversa tecnica di combattimento. L'Impero potrebbe attaccare da un momento all'altro. Devo concentrarmi ed esercitarmi su quello che so già fare, non cercare di padroneggiare una nuova serie di mosse.»
Fredric batté le mani. «Allora so io che cosa fa per te!» Raggiunse una cassa piena di armi e cominciò a rovistare, parlottando tra sé. «Prima questa... sì... poi quella... e poi vediamo come siamo messi.» Dal fondo estrasse un'enorme mazza nera con l'impugnatura flangiata.
Fredric la sfregò con una nocca. «Con questa puoi rompere una spada, aprire in due armature e fracassare elmi. Niente potrà scalfirla.»
«Ma è un bastone» protestò Eragon. «Un bastone di ferro.»
«E allora? Con la tua forza, puoi farla roteare come se fosse leggera quanto una canna. Con quest'arma seminerai il terrore sui campi di battaglia, fidati.»
Eragon scosse la testa. «No. Non mi piace distruggere tutto ciò che incontro. E poi se avessi avuto una mazza invece di una spada non avrei mai potuto uccidere Durza trafiggendogli il cuore.»
«Allora mi resta un'ultima alternativa, a meno che tu non insista per avere una spada tradizionale.» Fredric prese un'arma da un'altra sezione del padiglione e la portò a Eragon. Era un falcione, una spada diversa da quelle a cui era abituato, benché ne avesse già viste di simili tra i Varden. Aveva un pomello lustro, tondo, lucente come una moneta d'argento; una corta impugnatura di legno ricoperta di pelle nera; una guardia crociata curva decorata con una fila di rune dei nani; una lama singola lunga quanto il suo braccio, con una sottile scanalatura su ciascun profilo, vicina al lato piatto. La lama del falcione da un lato correva dritto; dall'altro, a circa sei pollici dalla fine, disegnava una sorta di piccolo spuntone, per poi curvare dolcemente verso la punta, aguzza come uno spillo. Con quella forma, le probabilità che la punta si piegasse o si spezzasse penetrando in un'armatura erano ridotte al minimo; inoltre l'estremità del falcione ricordava una zanna. A differenza di una spada a doppio taglio, il falcione era fatto per essere impugnato con la lama e la guardia crociata perpendicolari al terreno. L'aspetto più curioso, però, erano gli ultimi sei pollici della lama, compreso il bordo, che era grigio perla, più scuro del resto dell'acciaio, e lucido come uno specchio. Il confine tra le due parti non era netto: somigliava a una sciarpa di seta che fluttua al vento.
Eragon indicò la banda grigia. «È la prima volta che mi capita di vederne una. Cos'è?»
«Il thriknzdal» rispose Fredric. «L'hanno inventato i nani. Temprano il profilo e la spina separatamente. Il filo è resistentissimo, più di tutte le nostre lame messe insieme. Il centro della spada e il dorso poi li ritemprano, così che il retro del falcione sia più morbido, abbastanza da piegarsi e flettersi e sopportare l'impatto dei colpi senza rompersi come una lima ghiacciata.»
«Tutte le spade dei nani sono così?»
Fredric scosse la testa. «Solo quelle a lama singola e le più belle a lama doppia.» Esitò, e il suo sguardo tradì incertezza. «Capisci perché ho scelto questa spada per te, vero, Ammazzaspettri?»
Sì, Eragon lo capiva. Con la lama alla giusta angolazione rispetto al terreno, a meno che non decidesse di proposito di inclinare il polso, ogni colpo dell'avversario avrebbe colpito il lato piatto, risparmiando così il profilo per il contrattacco. Per brandire il falcione nel giusto modo occorreva modificare appena la sua tecnica di combattimento.
Uscì dalla tenda e si mise in posizione. Fece roteare il falcione sopra la testa, lo abbatté sull'elmo di un nemico immaginario, si volse e fece un affondo, schivò una lancia invisibile, compì un balzo di sei iarde a sinistra, una mossa abile ma poco pratica, poi si passò l'arma dietro la schiena, spostandola da una mano all'altra. Con il respiro e il battito del cuore più regolari che mai, tornò da Fredric e Blödhgarm, che lo stavano aspettando. Era colpito dalla rapidità e dall'equilibrio del falcione. Niente a che vedere con Zar'roc, certo; ma comunque era una spada superba.
«Ottima scelta» dichiarò.
Fredric tuttavia colse in lui una certa reticenza e infatti rispose: «Però non sei del tutto soddisfatto, Ammazzaspettri.»
Eragon fece roteare il falcione, poi abbozzò una smorfia. «Vorrei solo non somigliasse tanto a un coltellaccio per scuoiare gli animali. Mi sento un po' ridicolo.»
«Ah, se i tuoi amici rideranno di te non badarci. Dopo che avrai mozzato loro la testa, non lo faranno più, vedrai.»
Divertito, Eragon annuì. «Lo prendo.»
«Un momento, allora» disse Fredric, e scomparve nel padiglione, poi tornò con un fodero decorato di ghirigori d'argento. Glielo consegnò e gli chiese: «Sei capace di affilare una spada, Ammazzaspettri? Con Zar'roc non ce n'era bisogno, vero?»
«No» ammise Eragon, «ma con la cote ci so fare. So affilare un coltello finché non è così aguzzo da spaccare un capello in due. E posso sempre usare la magia, se necessario.»
Fredric grugnì e si diede una pacca sulle cosce, facendo cadere dai gambali una dozzina di peli di bue. «No, no, una spada con il profilo affilato come un rasoio è da evitare. La smussatura deve essere spessa e resistente. Un guerriero si deve occupare al meglio del proprio equipaggiamento, compreso affilare la spada!»
Poi insisté per procurargli una nuova cote e, seduto per terra accanto al padiglione, gli mostrò come ottenere un filo adatto alla battaglia. Quando fu soddisfatto dei progressi di Eragon, disse: «Puoi combattere con un'armatura arrugginita e con l'elmo ammaccato, ma se vuoi veder sorgere il sole l'indomani, non combattere mai con una spada poco affilata. Se sei sopravvissuto a una battaglia e sei stanco come se avessi appena scalato i Monti Beor e la tua spada non è affilata quanto questa, non importa se ti senti male: appena ne hai la possibilità fermati, prendi la cote e affilala. La tua spada viene prima di ogni altra cosa; proprio come ti prenderesti cura del tuo cavallo o di Saphira prima di dedicarti a te stesso. Perché senza di essa per i tuoi nemici non sei altro che una facile preda.»
Quando il maestro d'armi ebbe finito di dare a Eragon tutte le istruzioni del caso, ormai erano seduti al sole del tardo pomeriggio da più di un'ora. Un'ombra fresca fluttuò sopra di loro, poi Saphira atterrò lì vicino.
Hai aspettato, le disse Eragon. Hai aspettato di proposito! Avresti potuto salvarmi secoli fa, invece mi hai lasciato qui ad ascoltare Fredric blaterare di pietre d'acqua e coti, e spiegarmi se l'olio di semi di lino è meglio del grasso fuso per proteggere il metallo dall'acqua.
Ed è davvero meglio?
Assolutamente no, solo puzza meno. Ma non ha importanza! Perché mi hai abbandonato a questo supplizio?
Saphira gli strizzò l'occhio con indolenza. Non esagerare. Supplizio? Se non ci prepariamo a dovere, io e te dovremo affrontare supplizi ben più gravi. Mi sembrava importante che ascoltassi ciò che aveva da dire quell'uomo dai vestiti maleodoranti.
Be', forse sì, ammise Eragon. La dragonessa inarcò il collo e si leccò gli artigli della zampa destra.
Dopo aver ringraziato Fredric ed essersi congedato da lui, Eragon si accordò con Blödhgarm per incontrarsi più tardi, legò il falcione alla cintura di Beloth il Savio e si arrampicò sul dorso di Saphira. Lanciò un grido e la dragonessa ruggì mentre batteva le ali e saliva in cielo.
A Eragon vennero le vertigini, così si aggrappò alla punta cervicale e osservò le persone e le tende sotto di loro rimpicciolire fino a ridursi a versioni piatte e minuscole di se stesse. Dall'alto l'accampamento era una griglia di piramidi grigie con la facciata rivolta a est in ombra: sembrava una scacchiera. Le fortificazioni che correvano lungo tutto il perimetro spuntavano dal terreno come gli aculei di un istrice e le punte bianche dei pali in lontananza splendevano alla luce obliqua del sole. La cavalleria di re Orrin era una brulicante massa di puntini nel quadrante a nord-ovest. A est, invece, c'erano le tende degli Urgali, basse e scure sul pianoro ondulato.
Salirono ancora più su.
L'aria pura e gelida gli pungeva le guance e gli bruciava nei polmoni. Eragon inspirava solo a piccole boccate. Accanto a loro fluttuava una densa colonna di nubi, che sembravano solide come panna montata. Saphira le girò tutt'intorno a spirale; la sua ombra frastagliata sfrecciò fino alla punta della colonna. Quando passarono vicino alla nuvola, la condensa accecò Eragon per qualche istante, riempiendogli il naso e la bocca di fredde goccioline. Lui trattenne il fiato e si asciugò il viso.
Oltrepassarono anche le nubi.
Un'aquila rossa li superò, gridando.
Saphira cominciò a sentirsi affaticata, e a Eragon girava la testa. La dragonessa cessò di battere le ali e sfruttò una corrente ascensionale dopo l'altra, mantenendo un'altitudine costante.
Eragon guardò giù. Erano così in alto che ormai un centinaio di piedi in più o in meno non avrebbero fatto differenza: le cose sulla terra non sembravano più nemmeno vere. L'accampamento dei Varden era una scacchiera dalla forma irregolare suddivisa in minuscoli rettangoli grigi e neri. Il fiume Jiet era una corda d'argento contornata di tasselli verdi. A sud, le nubi sulfuree che si levavano dalle Pianure Ardenti formavano una catena di scintillanti montagne arancio, dimora di oscuri mostri che apparivano e scomparivano. Eragon distolse lo sguardo in fretta.
Per forse mezz'ora si librarono sospinti dal vento, godendo in piena tranquillità del conforto silenzioso della reciproca compagnia. Eragon pronunciò a mente un incantesimo per isolarsi dal freddo. Finalmente erano da soli, loro due insieme, come nella Valle Palancar prima che l'Impero si intromettesse nelle loro vite.
Saphira fu la prima a parlare. Siamo i padroni del cielo.
Sì, siamo sul tetto del mondo. Eragon alzò un braccio, come se potesse sfiorare le stelle.
Virando a sinistra, Saphira intercettò una folata d'aria più calda che proveniva dal basso, poi si riportò in orizzontale. Domani unirai in matrimonio Roran e Katrina.
Che strano. È strano che Roran si sposi e ancora più strano che sia io a officiare la cerimonia... Roran sposato. Se ci penso, mi sento più vecchio. Nemmeno noi, che fino a poco tempo fa eravamo due ragazzi, possiamo sfuggire all'inesorabile avanzare del tempo. Le generazioni passano e presto toccherà a noi mandare i nostri figli a coltivare la terra.
Solo se riusciremo a sopravvivere ai prossimi mesi.
Già, hai ragione.
Investita da una turbolenza, Saphira ondeggiò. Poi si rivolse di nuovo a Eragon e gli chiese: Pronto?
Vai!
Sporgendosi in avanti, la dragonessa ripiegò le ali lungo i fianchi e si lanciò in picchiata verso terra, più veloce di una rapidissima freccia. Via via che la gravità svaniva, Eragon rideva sempre più forte. Si tenne saldo con le gambe per evitare di cadere, poi, in uno slancio sconsiderato, lasciò andare la punta cervicale e alzò le mani sopra la testa. La terra sotto di loro girava come una ruota mentre Saphira perforava l'aria. Poi la dragonessa rallentò, si volse sul fianco destro e si lanciò in picchiata a testa in giù.
«Saphira!» gridò Eragon, battendole sulla spalla.
Dalle narici le uscì un nastro di fumo, poi la dragonessa si raddrizzò e di nuovo puntò dritto verso la terra, che si avvicinava velocemente. A Eragon si tapparono le orecchie, e prese a deglutire via via che la pressione aumentava. A meno di mille piedi dall'accampamento dei Varden, pochi secondi prima di schiantarsi contro le tende e scavare un cratere ampio e sanguinolento, Saphira dispiegò le ali e lasciò che il vento le gonfiasse. Il sussulto scagliò Eragon in avanti, e la punta cervicale a cui si era aggrappato per poco non gli trafisse un occhio.
Dopo tre poderosi battiti d'ali, Saphira rimase immobile. Tenendo le ali dispiegate, cominciò poi a scendere con dolcezza, volando in circolo.
È stato fantastico! esclamò Eragon.
Non esiste un passatempo più eccitante del volo, perché se sbagli sei morto.
Ah, ma io ho piena fiducia nelle tue capacità; non ci faresti mai spiaccicare a terra. Al complimento, la dragonessa irradiò un immenso piacere.
Virando verso la tenda di Eragon, Saphira scosse la testa, facendolo tremare tutto, poi disse: Ormai dovrei essermi abituata a te, ma ogni volta che mi tuffo così, alla fine il petto e le ali mi fanno tanto male che il mattino dopo riesco a stento a muovermi.
Eragon la accarezzò. Be', domani non devi volare. Non abbiamo altri impegni oltre al matrimonio, e puoi venirci a piedi. Saphira grugnì e atterrò in mezzo a una nuvola di polvere, abbattendo una tenda vuota.
Eragon smontò e la lasciò a riassettarsi in compagnia di sei elfi, mentre lui corse con gli altri sei per l'accampamento finché non trovò Gertrude la guaritrice, che gli insegnò il rito che avrebbe dovuto pronunciare l'indomani alle nozze. Si esercitò insieme a lei, così da evitare errori imbarazzanti.
Poi tornò nella sua tenda, si sciacquò la faccia e si cambiò d'abito prima di andare a cena insieme a Saphira da re Orrin e dalla sua corte, come promesso.
A tarda sera, quando la festa fu terminata, tornarono alla tenda, ammirando le stelle e parlando di ciò che era successo e di ciò che sarebbe accaduto in futuro. Ed erano felici. Arrivati a destinazione, Eragon si fermò, alzò la testa e guardò Saphira: il suo cuore era così colmo d'amore che pensava che avrebbe smesso di battere.
Buonanotte, Saphira.
Buonanotte, piccolo mio.
OSPITI INATTESI
L'indomani mattina Eragon prese posto sul retro della sua tenda, si tolse gli strati di abiti più pesanti e cominciò a eseguire le pose del secondo livello della Rimgar, la serie di esercizi inventati dagli elfi. Ben presto non sentì più freddo. Anzi, cominciò ad ansimare per lo sforzo e si ritrovò con il corpo madido di sudore; quando si contorceva in una posizione, era così difficile tenersi in equilibrio su mani e piedi che aveva la sensazione che i muscoli gli si sarebbero strappati dalle ossa.
Un'ora dopo terminò la Rimgar. Si asciugò le mani nella stoffa della tenda, prese il falcione e si esercitò nella scherma per altri trenta minuti. Avrebbe preferito continuare a impratichirsi con l'arma per il resto della giornata, perché sapeva che la sua vita dipendeva dall'abilità con cui sapeva usarla, ma il matrimonio di Roran era imminente e agli abitanti del villaggio serviva tutto l'aiuto possibile per terminare in tempo i preparativi.
Dopo essersi riposato un po', fece un bagno nell'acqua fredda e si vestì, poi si incamminò insieme a Saphira verso le cucine, dove Elain vegliava sulla preparazione delle pietanze per il ricevimento. Blödhgarm e i suoi compagni li seguivano a una dozzina di iarde di distanza, scivolando agili tra le tende.
«Ah, bene, Eragon» gli disse Elain. «Speravo proprio che venissi.» Era in piedi, con le mani premute sulla parte bassa della schiena per alleviare il peso della gravidanza. Gli indicò con un cenno del capo una fila di spiedi e calderoni sospesi sopra un letto di braci, un gruppo di uomini che stavano macellando un maiale, dei forni di fortuna costruiti con pietra e fango e una pila di barilotti: al di là c'era una fila di assi appoggiate su ceppi di legno che sei donne stavano usando come piano di lavoro. Poi aggiunse: «Ci sono ancora venti pagnotte da impastare. Te ne puoi occupare tu, per favore?» Tuttavia si accigliò quando gli vide i calli sulle nocche. «Cerca di non far finire anche quelli nell'impasto, d'accordo?»
Quando Eragon prese posto tra loro, le sei donne, tra cui Felda e Birgit, ammutolirono. I suoi pochi tentativi di ravvivare la conversazione fallirono, ma dopo un po', quando ormai aveva rinunciato a farle sentire a loro agio e si stava concentrando sulla pasta, ripresero a parlare spontaneamente. Discussero di Roran e Katrina, di quanto erano fortunati, della vita all'accampamento e del viaggio che avevano intrapreso per arrivare fin lì; poi, senza tanti preamboli, Felda guardò Eragon e gli disse: «L'impasto mi sembra un po' troppo molle. Non è il caso di aggiungere un po' di farina?»
Eragon ne verificò la consistenza. «Sì, hai ragione. Grazie.» Felda sorrise, e da lì in poi le donne lo coinvolsero nelle loro chiacchiere.
Mentre Eragon impastava, Saphira si crogiolava al sole in un praticello vicino. I bambini di Carvahall giocavano addosso a lei e nelle vicinanze; risa acute punteggiavano il mormorio più profondo delle voci degli adulti. Quando un paio di cani rognosi cominciarono ad abbaiarle contro, la dragonessa alzò la testa e grugnì, e i due animali corsero via tra i guaiti.
Eragon si guardò intorno: conosceva tutti, era cresciuto insieme a quelle persone. Horst e Fisk erano dalla parte opposta degli spiedi a costruire tavoli per la festa. Kiselt si sciacquava gli avambracci sporchi di sangue. Albriech, Baldor, Mandel e molti altri ragazzi trasportavano pali decorati con nastri verso la collina dove Roran e Katrina si sarebbero sposati. Morn il taverniere preparava da bere e sua moglie Tara lo aiutava reggendo tre caraffe e un barile. A poche centinaia di piedi di distanza, Roran gridava qualcosa a un uomo che cercava in tutti i modi di far voltare il suo mulo carico. Loring, Delwin e il piccolo Nolfavrell erano radunati nei paraggi a guardare. Con una sonora imprecazione, Roran afferrò il mulo per i finimenti e si affannò a farlo girare su se stesso. Quella scena divertì Eragon; non immaginava che il cugino potesse scaldarsi tanto né perdere le staffe così in fretta.
«Il potente guerriero è nervoso prima della contesa» osservò Isolde, una delle sei donne insieme a Eragon. Il gruppo scoppiò a ridere.
«Forse teme che gli faccia cilecca la spada durante la battaglia» rispose Birgit, mescolando acqua e farina. Risate allegre travolsero le donne. Eragon arrossì, tenne lo sguardo fisso davanti a sé e prese a impastare più veloce. Doppi sensi come quello erano all'ordine del giorno durante i matrimoni, e anche lui aveva fatto la sua parte in altre occasioni, ma lo sconcertava che questa volta avessero come bersaglio suo cugino.
Il suo pensiero andava non solo ai presenti, ma anche a chi non avrebbe potuto partecipare alle nozze: Byrd, Quimby, Parr, Hida, il giovane Elmund, Kelby e tutti gli altri che erano morti per colpa dell'Impero. Ma soprattutto pensò a Garrow. Quanto avrebbe desiderato che lo zio fosse ancora vivo per vedere suo figlio, acclamato come un eroe sia dagli abitanti del villaggio sia dai Varden, prendere in sposa Katrina e diventare un uomo a tutti gli effetti...
Eragon chiuse gli occhi e rivolse il viso al sole di mezzogiorno, sorridendo al cielo, soddisfatto. Era una bella giornata. L'aroma di lievito, farina, carne arrosto, vino appena versato, zuppe calde, dolcetti e caramelle disciolte si diffuse per tutto lo spiazzo. I suoi amici e i suoi famigliari erano radunati lì intorno per un'occasione di festa, non di lutto. E per il momento lui e Saphira erano al sicuro. Ecco, la vita dovrebbe essere sempre così.
Un corno risuonò per l'accampamento, un suono acuto, innaturale, isolato.
Ancora.
E ancora.
Si bloccarono tutti, incerti sul significato di quelle tre note.
L'accampamento rimase in silenzio per un po', fatta eccezione per gli animali, poi cominciarono a rimbombare i tamburi di guerra dei Varden. Scoppiò il caos. Le madri correvano a cercare i loro figli e i cuochi spegnevano i falò con l'acqua, mentre tutti, uomini e donne, si precipitavano sulle armi.
Eragon schizzò verso Saphira proprio mentre la dragonessa si stava rialzando. Dilatò la mente, trovò Blödhgarm e non appena gli elfi abbassarono la guardia disse: Ci vediamo all'entrata nord.
Agli ordini, Ammazzaspettri.
Eragon si lanciò in groppa a Saphira. Non appena le ebbe gettato una gamba sul collo, la dragonessa superò con un balzo quattro file di tende, poi atterrò e saltò una seconda volta con le ali semichiuse. Non volava, ma procedeva a balzi, come un puma che attraversa un fiume impetuoso. Ogni volta che toccavano terra, Eragon digrignava i denti, gli tremava la schiena e gli sembrava di cadere. Tra un balzo e l'altro, in mezzo a guerrieri spaventati che si scansavano al loro passaggio, Eragon rintracciò Trianna e gli altri membri del Du Vrangr Gata, si mise in contatto con loro e li organizzò per la battaglia.
Qualcuno che non faceva parte del Tortuoso Cammino gli si insinuò nei pensieri. Eragon si ritrasse, barricando la propria coscienza dietro alte mura, poi capì che si trattava di Angela l'erborista e accettò il contatto. Sono con Nasuada ed Elva, gli disse. La regina vuole che tu e Saphira la raggiungiate all'entrata nord e...
Subito. Sì, sì, ci stiamo andando. Ed Elva? Riesce a sentire qualcosa?
Dolore. Molto dolore. Il tuo. Dei Varden. Di tutti. Mi dispiace, in questo momento non è in sé. È troppo per lei. La farò dormire finché la violenza non si sarà placata. Poi Angela troncò la comunicazione.
Come un falegname che dispone i propri attrezzi e li esamina prima di cominciare un nuovo progetto, Eragon passò in rassegna gli incantesimi di protezione che aveva evocato per sé, Saphira, Nasuada, Arya e Roran. Sembrava tutto a posto.
Saphira si fermò davanti alla tenda di Eragon, scavando solchi con gli artigli nella terra battuta. Eragon saltò giù e cadde rotolando non appena ebbe toccato il suolo, poi si rialzò con un balzo, si precipitò dentro e strada facendo cominciò a sfilarsi la cintura a cui era legato il falcione. Poi la tolse e, rovistando sotto la branda, recuperò l'armatura. Infilò la testa nel freddo e pesante usbergo di maglia e se lo sistemò sulle spalle, con un suono simile a un tintinnio di monete. Lo legò sotto il collo, infilò al di sopra la cuffia e poi si ficcò in testa l'elmo. Infine recuperò la cintura e se la riallacciò in vita. Con i gambali e i parabraccia nella mano sinistra, infilò il mignolo nello spallaccio dello scudo, afferrò la pesante sella di Saphira con la mano destra e schizzò fuori dalla tenda.
Gettata a terra l'armatura con un sonoro clangore, issò la sella sulle ampie spalle di Saphira e ci si arrampicò sopra. Per la fretta e l'eccitazione, oltre che per l'angoscia, non riusciva a stringere le cinghie.
Saphira si spostò. Muoviti. Ci stai mettendo troppo tempo.
Sì! Faccio più veloce che posso! Che tu sia così grossa non mi aiuta molto, accidenti!
Saphira grugnì.
Nell'accampamento ferveva una febbrile attività: uomini e nani sciamavano in fiumi tonanti verso nord, pronti a rispondere al richiamo dei tamburi di guerra.
Eragon raccolse l'armatura, montò su Saphira e si sistemò in sella. Con un improvviso battito d'ali, uno scatto d'accelerazione, una raffica d'aria vorticosa e lo stridulo lamento dei parabraccia contro lo scudo, la dragonessa spiccò il volo. Mentre procedevano rapidi verso l'estremità nord dell'accampamento, Eragon si legò i gambali agli stinchi, tenendosi stretto a Saphira con la sola forza delle gambe. Appese lo scudo a una delle punte cervicali della dragonessa, poi incastrò i parabraccia tra la pancia e il davanti della sella. Quando ebbe terminato di fissarli, fece scivolare le gambe negli appositi alloggiamenti di pelle posti su entrambi i lati della sella, poi strinse le fibbie una per una.
Passò una mano sulla cintura di Beloth il Savio. Ricordò che aveva esaurito tutta l'energia per curare Saphira sull'Helgrind e gemette. Avrei dovuto metterne da parte un po'!
Andrà tutto bene, disse Saphira.
Si stava sistemando i parabraccia quando la dragonessa curvò ad arco le ali, avvolgendo l'aria con le sue membrane translucide, e si impennò, posandosi sulla cresta di uno dei terrapieni che circondavano l'accampamento. Nasuada era già lì, seduta sul suo immenso destriero, Tempesta. Accanto a lei c'erano Jörmundur, anch'egli a cavallo, Arya, che invece era a piedi, e i Falchineri di guardia al momento, capitanati da Khagra, uno degli Urgali che Eragon aveva incontrato sulle Pianure Ardenti. Blödhgarm e gli altri elfi emersero dalla foresta di tende alle loro spalle e si disposero vicino a Eragon e a Saphira. Da un'altra parte dell'accampamento arrivarono al galoppo re Orrin e il suo seguito; a mano a mano che si avvicinavano a Nasuada, riportarono al passo i destrieri imbizzarriti. A ruota arrivarono anche Narheim, il capo dei nani, e tre dei suoi guerrieri, in groppa a pony equipaggiati con armature di maglia e pelle. Nar Garzhvog sopraggiunse di corsa dai campi a est, preceduto di parecchi secondi dal tonfo dei suoi passi pesanti. Nasuada gridò alle guardie all'entrata nord di aprire il cancello di legno grezzo e farlo entrare, anche se volendo avrebbe potuto abbatterlo.
«Chi ci sta attaccando?» grugnì, scalando il terrapieno con quattro lunghe falcate che di umano avevano ben poco. I cavalli si ritrassero davanti al gigantesco Urgali.
«Guarda» indicò Nasuada.
Eragon stava già studiando il nemico. Sulla vicina riva del fiume Jiet, a circa due miglia di distanza, erano approdate cinque navi affusolate, nere come la pece, e avevano scaricato uno sciame di uomini vestiti con i colori dell'esercito di Galbatorix. Catturando e riflettendo la luce con le spade, le lance, gli scudi, gli elmi e le cotte di maglia, il manipolo scintillava come acqua sferzata dal vento sotto il sole d'estate.
Arya si schermò gli occhi con una mano e guardò i soldati in tralice. «Stimo che siano tra le duecentosettanta e le trecento unità.»
«Perché così pochi?» si domandò Jörmundur.
Re Orrin si accigliò. «Galbatorix non può essere così folle da credere di poterci distruggere con un battaglione tanto esiguo!» Si sfilò l'elmo a forma di corona e si asciugò la fronte con un angolo della tunica. «Potremmo spazzarli via senza perdere nemmeno un uomo.»
«Forse» rispose Nasuada. «O forse no.»
Biascicando le parole, Garzhvog aggiunse: «Il Re Drago è un falso traditore, un ariete farabutto, ma non è un pazzo. Anzi, è astuto come una donnola assetata di sangue.»
I soldati si disposero in ranghi ordinati e poi cominciarono a marciare verso i Varden.
Un giovane messaggero corse da Nasuada, che si chinò ad ascoltare, poi lo congedò. «Nar Garzhvog, i tuoi sono al sicuro dentro l'accampamento. Si sono raccolti vicino all'entrata est, aspettano che tu vada da loro e prenda il comando.»
Garzhvog grugnì, ma rimase dov'era.
Guardando di nuovo i soldati che si stavano avvicinando, Nasuada aggiunse: «Non mi viene in mente nessun motivo valido per attaccarli allo scoperto. Possiamo abbatterli con gli arcieri non appena saranno a tiro. E una volta arrivati al terrapieno si disperderanno per via delle trincee e della palizzata. Non sopravviverà nessuno.» Concluse il discorso con evidente soddisfazione.
«Quando faranno la prima mossa, io e i miei cavalieri potremmo attaccarli alle spalle» suggerì Orrin. «Rimarranno così sorpresi che non avranno nemmeno il tempo di difendersi.»
«L'andamento della battaglia può...» stava replicando Nasuada quando il corno d'ottone che aveva annunciato l'arrivo dei soldati suonò ancora, così forte che Eragon, Arya e gli altri elfi si coprirono le orecchie. Eragon sussultò di dolore.
Da dove viene? chiese a Saphira.
Credo che sia più importante chiedersi perché i soldati ci vogliono avvisare prima di sferrare l'attacco, sempre che questo corno sia loro.
Forse è un diversivo, oppure...
Eragon dimenticò quello che stava per dire non appena scorse un certo movimento sulla riva opposta del fiume Jiet, dietro un velo di dolenti salici. Rosso come un rubino immerso nel sangue, rosso come il ferro incandescente pronto per essere forgiato, rosso come un tizzone ardente di odio e rabbia, sopra le languide chiome apparve Castigo. E sul dorso dello scintillante drago sedeva Murtagh con la lucente armatura d'acciaio, brandendo Zar'roc sopra la testa.
Sono qui per noi, disse Saphira. A Eragon si torsero le budella, e sentì il terrore della dragonessa scorrergli nella mente come una corrente d'acqua biliosa.
FUOCO NEL CIELO
Mentre osservava Castigo e Murtagh salire in alto nel cielo verso nord, Eragon sentì Narheim sussurrare «Barzûl» e poi maledire Murtagh perché aveva ucciso Rothgar, il re dei nani.
Arya distolse lo sguardo. «Nasuada, Maestà» disse poi, facendo guizzare gli occhi da lei a Orrin, «devi fermare quei soldati prima che raggiungano l'accampamento. Non puoi permettere che attacchino le nostre linee difensive, altrimenti spazzeranno via i bastioni come un'onda di burrasca e scateneranno un indicibile scompiglio tra le tende, dove non siamo in grado di rispondere con efficacia.»
«Come? "Un indicibile scompiglio"?» ripeté Orrin in tono di scherno. «Hai così scarsa fiducia nelle nostre capacità, ambasciatrice? Forse gli umani e i nani non sono abili come voi elfi, ma non avremo difficoltà a sbarazzarci di questi poveri disgraziati, te lo assicuro.»
I lineamenti di Arya si irrigidirono. «Le vostre capacità non hanno uguali, mio re, non ne dubito, ma ascoltami bene: questa è una trappola tesa per Eragon e Saphira. Loro...» - alzando un braccio di scatto indicò le due sagome in volo di Castigo e Murtagh - «... sono venuti per catturarli e portarli a Urû'baen. Galbatorix non avrebbe mandato così pochi uomini se non fosse stato sicuro che avrebbero tenuto i Varden occupati abbastanza a lungo da permettere a Murtagh di sconfiggere Eragon. Di sicuro sono protetti da incantesimi che lui stesso ha evocato. Di che cosa si tratti non so, ma di una cosa sono certa: quei soldati sono più forti di quanto sembra, dunque dobbiamo impedire loro di entrare nell'accampamento.»
Riavutosi dall'iniziale stupore, Eragon aggiunse: «Non dobbiamo permettere a Castigo di volare sopra le tende. Potrebbe incendiarne la metà in un colpo solo.»
Nasuada afferrò il pomolo della sella con entrambe le mani, in apparenza indifferente a Murtagh, a Castigo e ai soldati, che ormai erano a meno di un miglio di distanza. «Ma perché non coglierci di sorpresa, allora?» chiese. «Perché avvisarci della loro presenza?»
Fu Narheim a risponderle. «Perché non volevano che Eragon e Saphira fossero coinvolti nel combattimento. Forse mi sbaglio, ma il loro piano è che affrontino Murtagh e Castigo in cielo mentre i soldati ci attaccano a terra.»
«Allora vi pare saggio esaudire il loro desiderio e far cadere di proposito
Eragon e Saphira nella loro trappola?» Nasuada sollevò un sopracciglio. «Sì» insisté Arya, «perché abbiamo un vantaggio che loro non sospetta
no nemmeno.» Indicò Blödhgarm. «Stavolta Eragon non affronterà Murtagh da solo, ma si potrà avvalere della forza congiunta di tredici elfi. Murtagh non se lo aspetta. Se blocchi i soldati prima che ci raggiungano, avrai mandato all'aria metà del piano di Galbatorix. Se poi mandi Eragon e Saphira a combattere, forti dell'appoggio dei più potenti tra gli stregoni della
mia razza, il gioco è fatto.»
«Mi hai convinto» rispose Nasuada. «Ma i soldati sono troppo vicini
perché possiamo intercettarli con la fanteria fuori dall'accampamento. Orrin...»
Ancora prima che finisse la frase, il re si era lanciato al galoppo verso i
cancelli a nord. Qualcuno del suo seguito suonò la tromba e diede al resto
della cavalleria il segnale di prepararsi all'attacco.
«Re Orrin avrà bisogno di aiuto. Mandagli i tuoi arieti» ordinò Nasuada
a Garzhvog.
«Come vuoi, Lady Furianera.» Gettando all'indietro l'immensa testa cornuta, Garzhvog lanciò un feroce muggito lamentoso. Sentendo l'ululato
selvaggio dell'Urgali, a Eragon si rizzarono i peli sulle braccia e sul collo.
Poi Garzhvog serrò la mandibola di colpo e grugnì: «Ecco fatto.» Infine il
Kull partì al trotto e corse verso l'ingresso dove erano radunati il re e i suoi
cavalieri.
Quattro Varden aprirono i cancelli. Orrin levò la spada, lanciò un grido e
uscì al galoppo, guidando i suoi uomini con le tuniche impunturate d'oro
contro i soldati nemici. Un pennacchio di polvere color crema si levò da
sotto gli zoccoli dei cavalli, avvolgendo la formazione a punta di freccia. «Jörmundur» chiamò Nasuada.
«Sì, mia signora?»
«Manda duecento spadaccini e un centinaio di lancieri a dar loro man
forte. E fa' in modo che cinquanta arcieri si dispongano a una settantina di
iarde dal combattimento. Voglio che quei soldati vengano schiacciati, annientati, cancellati dall'esistenza. Agli uomini va detto chiaro e tondo che
non devono avere pietà.»
Jörmundur si inchinò.
«E di' loro che, nonostante mi sia impossibile scendere in battaglia a
causa delle mie braccia ferite, il mio spirito marcia con loro.» «Sì, mia signora.»
Mentre Jörmundur si allontanava di corsa, Narheim avvicinò il suo pony
a Nasuada. «E il mio popolo? Che ruolo abbiamo noi?»
Nasuada guardò accigliata la densa polvere soffocante che fluttuava sull'ondulata distesa erbosa. «Potete aiutarci a proteggere il perimetro dell'accampamento. Se i soldati dovessero sfuggirci...» Fu costretta a interrompersi perché quattrocento Urgali - ne erano arrivati altri dopo la battaglia delle Pianure Ardenti - emersero con gran fragore dal centro dell'accampamento, uscirono dal cancello e si avviarono verso il campo, ruggendo incomprensibili grida di guerra. Quando furono svaniti tra la polvere, Nasuada riprese a parlare: «Come dicevo, se quei soldati dovessero sfuggirci,
le vostre asce saranno bene accette.»
Poi furono investiti da una raffica di vento, che portò con sé le grida di
uomini e cavalli morenti, lo spaventoso stridio del metallo contro il metallo, il clangore delle spade sugli elmi, l'impatto sordo delle lance sugli scudi
e, in sottofondo, un'orribile risata triste che usciva da una moltitudine di
gole e continuava incessante in quel delirio. Era la risata dei folli, pensò
Eragon.
Narheim si diede un pugno nel fianco. «Per Morgothal, non è da noi
starcene qui impalati mentre c'è un combattimento in corso! Consentici di
tagliare qualche testa per te, Nasuada!»
«No!» esclamò lei. «No, no e poi no! Vi ho già dato un ordine e mi aspetto che obbediate. È in corso una battaglia tra uomini, cavalli, Urgali e
forse anche draghi. Non è posto per nani, quello. Verreste calpestati come
bambini.» All'imprecazione furiosa di Narheim, alzò una mano. «So bene
che siete guerrieri impavidi. Nessuno lo sa meglio di me, dato che ho
combattuto accanto a voi nel Farthen Dûr. Tuttavia, non per insistere, ma
siete piccoli per i nostri canoni, e preferisco non rischiare di perdere dei
guerrieri come voi in una contesa in cui la vostra statura potrebbe esservi
fatale. È meglio se aspettate qui, su questa collinetta, dove sovrasterete
chiunque cerchi di arrampicarsi; aspettate che siano i soldati a venire da
voi. Se qualcuno di loro dovesse raggiungerci, saranno guerrieri così abili
e tremendi che vi voglio con me, tu e il tuo popolo, perché li respingiate.
Si sa, è più facile sradicare una montagna che sconfiggere un nano.» Scontento, Narheim bofonchiò qualcosa, ma nessuno riuscì a sentire le
sue parole perché in quel momento i Varden che Nasuada aveva schierato
varcarono l'apertura nel terrapieno dove prima c'era il cancello. Lo scalpiccio di piedi e lo sferragliare di armi e armature si affievolì a mano a mano
che gli uomini si allontanavano dall'accampamento. Poi il vento si placò,
trasformandosi in una brezza costante; dal luogo dov'era in atto lo scontro
giunse ancora quella lugubre risata.
Un istante dopo, un grido di incredibile intensità sbaragliò le difese mentali di Eragon e penetrò nella sua coscienza, colmandolo di angoscia. Sentì
un uomo dire: Ah, no! Aiutatemi! Non muoiono! Angvard, pensaci tu! Non
muoiono! Poi il contatto tra le loro menti svanì ed Eragon deglutì non appena comprese che quell'uomo era stato ucciso.
Nasuada si agitò in sella al suo destriero, con espressione tesa. «Chi era?»
«L'hai sentito anche tu?»
«A quanto pare l'abbiamo sentito tutti» rispose Arya.
«Credo che fosse Barden, uno degli stregoni che cavalcavano con Orrin,
ma...»
«Eragon!»
Mentre il re e i suoi uomini tenevano a bada i soldati nemici, Castigo volava in circolo sempre più in alto, ma adesso era sospeso a mezz'aria, immobile, a metà strada tra i soldati e l'accampamento, e la voce di Murtagh,
resa più profonda dalla magia, echeggiò per tutta la pianura: «Eragon! Ti
vedo, nascosto dietro le sottane di Nasuada. Vieni a combattere con me! È
il tuo destino. O sei un codardo, Ammazzaspettri?»
Saphira alzò la testa e rispose al posto suo, con un ruggito perfino più
forte dello stentoreo discorso di Murtagh, poi scaricò uno scoppiettante
getto di fuoco blu lungo venti piedi. I cavalli vicini a lei, compreso quello
di Nasuada, si diedero alla fuga, lasciando la dragonessa ed Eragon soli sul
terrapieno insieme agli elfi.
Arya si avvicinò e posò una mano sulla gamba sinistra di Eragon, poi lo
fissò con gli occhi verdi a mandorla. «Accettala da parte mia, Shur'tugal»
gli disse. Ed Eragon sentì un fiotto di energia scorrergli dentro. «Eka elrun ono» le sussurrò.
«Fa' attenzione» gli rispose Arya nell'antica lingua. «Non voglio vederti
sconfitto da Murtagh. Io...» Sembrava che volesse aggiungere dell'altro,
ma esitò, poi ritrasse la mano e tornò accanto a Blödhgarm.
«Buon volo, Bjartskular!» intonarono gli elfi, e Saphira si lanciò all'attacco.
Mentre la dragonessa puntava verso Castigo con un gran battito d'ali,
Eragon unì la sua mente prima con quella di lei poi con quella di Arya e,
attraverso di lei, con quelle di Blödhgarm e degli altri undici elfi. Poiché
Arya fungeva da punto di riferimento per gli elfi, Eragon poteva concentrarsi sui pensieri suoi e di Saphira; le conosceva entrambe così bene che le
loro reazioni non l'avrebbero distratto nel bel mezzo del combattimento. Afferrò lo scudo con la mano sinistra e sguainò il falcione, tenendolo
sollevato in modo da non ferire accidentalmente le ali, le spalle o il collo
di Saphira, che erano sempre in movimento. Sono contento di aver trovato
il tempo per rafforzare il falcione con la magia ieri sera, comunicò a Saphira e ad Arya.
Speriamo che i tuoi incantesimi reggano, replicò la dragonessa. Ricordati, intervenne Arya, di restare il più possibile vicino a noi. Più
lontani sarete, più difficoltà avremo a mantenere il contatto.
Saphira si avvicinava a Castigo, ma il drago rosso non le si scagliò contro e nemmeno la attaccò: fluttuava nel cielo con le ali dispiegate, consentendole di raggiungerlo indisturbata. Sfruttando le correnti ascensionali, i
due draghi si ritrovarono l'uno di fronte all'altra a una cinquantina di iarde
di distanza, la punta delle code nervosa, il muso deformato in un ringhio
feroce.
È più grande, osservò Saphira. Non sono passate nemmeno due settimane dall'ultima volta che abbiamo combattuto ed è cresciuto di altri quattro
piedi, se non di più.
Aveva ragione. Castigo era più lungo e aveva il petto più largo rispetto
alla battaglia delle Pianure Ardenti. Benché fosse ancora un cucciolo, era
già grande quasi quanto Saphira.
Seppur con riluttanza, Eragon distolse lo sguardo dal drago e lo posò sul
Cavaliere.
Murtagh aveva il capo scoperto e i suoi lunghi capelli neri ondeggiavano
come una morbida, lucente criniera. Sul volto aveva un'espressione arcigna: Eragon non l'aveva mai visto così, e sapeva che stavolta non avrebbe
avuto nessuna pietà; non poteva. Ridotto di molto il volume della voce,
benché fosse ancora più sonora del normale, Murtagh disse: «Tu e Saphira
ci avete provocato molto dolore, Eragon. Galbatorix era furioso con noi
perché vi abbiamo lasciato andare. E dopo che avete ucciso i Ra'zac era
così arrabbiato che ha fatto a pezzi cinque dei suoi servitori e poi ha rivolto
la sua ira contro me e Castigo. Abbiamo sofferto orribilmente per causa
vostra. Non accadrà più.» Portò indietro il braccio, come se Castigo fosse
sul punto di scattare in avanti e lui si stesse preparando a colpire. «Aspetta!» gridò Eragon. «Conosco un modo per liberarvi entrambi dal
giuramento prestato a Galbatorix.»
Un'espressione di disperato desiderio trasformò i lineamenti di Murtagh,
che abbassò appena Zar'roc di qualche pollice. Poi si accigliò, sputò verso
terra e gridò: «Non ti credo! È impossibile!»
«Invece sì! Lascia almeno che ti spieghi.»
Murtagh sembrava in lotta con se stesso, e per un istante Eragon pensò
che si sarebbe rifiutato di ascoltarlo. Castigo volse la testa e guardò il suo
Cavaliere, e un flusso di pensieri si trasmise dall'uno all'altro. «Accidenti a te, Eragon, ti sei servito di questa proposta come esca» esclamò Murtagh, e posò Zar'roc sul davanti della sella. «Ci eravamo già rassegnati al nostro destino; invece tu ci vuoi tormentare con lo spettro di una speranza che ormai avevamo abbandonato da tempo. Se questa speranza si dimostrerà vana, fratello, giuro che prima di portarti da Galbatorix ti taglierò la mano
destra... Tanto, per ciò che dovrai fare a Urû'baen non ti servirà.» A Eragon venne subito in mente una risposta adeguata, ma la tenne per
sé. «Galbatorix non avrebbe voluto che te lo dicessi, ma quando ero dagli
elfi...»
Eragon, non rivelare altro su di noi! esclamò Arya.
«... ho appreso che se si modifica il carattere, cambia anche il proprio
nome nell'antica lingua. La tua identità non è scolpita nella pietra, Murtagh! Se tu e Castigo riuscirete a cambiare qualcosa in voi, il vostro giuramento non sarà più vincolante e Galbatorix vi lascerà andare.» Castigo virò di parecchi iarde verso Saphira. «Perché non l'hai detto
prima?» domandò Murtagh.
«Allora ero troppo confuso.»
Una cinquantina di piedi separavano Castigo e Saphira. Abbandonata la
truce espressione di prima, il drago rosso arricciò appena il labbro di sopra,
tanto per mettere in guardia Saphira, e nei suoi scintillanti occhi cremisi
brillò un'immensa tristezza confusa, quasi sperasse che Saphira o Eragon
potessero spiegargli come mai era venuto al mondo solo perché Galbatorix
potesse renderlo suo schiavo, abusare di lui e costringerlo a distruggere la
vita di altri esseri viventi. Annusò Saphira, facendo vibrare la punta del naso. Anche lei lo annusò, la lingua che le guizzava fuori dalla bocca per
sentirne l'odore. E all'improvviso Eragon e Saphira provarono una profonda compassione per Castigo; tuttavia, pur desiderando parlare con lui, non
osarono aprirgli la loro mente.
Così da vicino, Eragon notò i tendini tesi sul collo di Murtagh e la vena
forcuta che gli pulsava in mezzo alla fronte.
«Io non sono malvagio!» gridò Murtagh. «Considerate le circostanze, ho
fatto meglio che potevo. Se nostra madre avesse ritenuto opportuno lasciare te a Urû'baen e nascondere me a Carvahall, invece, dubito che saresti
sopravvissuto.»
«Forse no.»
Murtagh si colpì il pettorale con un pugno. «Aha! Allora come faccio a
seguire il tuo consiglio? Se sono già buono, se meglio di così non avrei potuto essere, come faccio a cambiare? Devo forse diventare peggiore? Devo prima abbracciare le tenebre di Galbatorix per poi liberarmene? Non mi sembra una soluzione ragionevole. Se riuscissi a modificare la mia identità, il nuovo Murtagh non ti piacerebbe, e mi malediresti con la stessa forza
con cui ora maledici Galbatorix.»
Frustrato, Eragon rispose: «Sì, ma il punto è che non devi diventare migliore o peggiore, solo diverso. Al mondo ci sono tanti tipi di persone e
tanti modi di comportarsi con onore. Pensa a qualcuno che ammiri ma che
ha scelto una strada diversa dalla tua, e modella le tue azioni sulle sue.
Forse ti ci vorrà un po', ma se riesci a trasformare la tua personalità a sufficienza, tu e Castigo potrete lasciare Galbatorix e l'Impero, e unirvi a noi e
ai Varden, dove sarete liberi di fare ciò che volete.»
Che ne è stato del tuo giuramento di vendicare la morte di Rothgar? gli
chiese Saphira, ma Eragon la ignorò.
Murtagh lo derise. «E così mi stai chiedendo di essere chi non sono.
Fammi capire: se io e Castigo vogliamo salvarci, dobbiamo distruggere la
nostra identità, vero? La tua cura è peggiore della nostra pena.» «Ti sto chiedendo di dare la possibilità a te stesso di crescere e diventare
diverso da ciò che sei ora. È difficile, lo so, ma le persone non fanno che
reinventarsi. Liberati della tua rabbia, e potrai voltare le spalle a Galbatorix
una volta per tutte.»
«Liberarmi della mia rabbia?» Murtagh rise. «Solo quando tu ti libererai
della tua per ciò che ha fatto l'Impero a tuo zio e alla tua fattoria. È la rabbia a definirci, Eragon. Senza di essa io e te saremmo cibo per i vermi.
Tuttavia...» Con gli occhi socchiusi, Murtagh tamburellò sulla guardia a
crociera di Zar'roc e intanto i tendini del collo gli si distesero, benché la
vena che gli scorreva in mezzo alla fronte fosse ancora gonfia. «Devo ammetterlo, l'idea mi intriga. Forse ci potremo lavorare insieme quando saremo a Urû'baen. Sempre che il re ci consenta di restare uniti. Naturalmente
potrebbe anche decidere di tenerci separati per sempre. Fossi in lui, non
avrei dubbi a scegliere questa seconda possibilità.»
Eragon serrò le dita attorno all'elsa del falcione. «A quanto pare sei convinto che verremo con te nella capitale.»
«Oh, certo, fratello.» Le labbra di Murtagh si tirarono in una specie di
sorriso. «Pur volendo, io e Castigo non riusciremmo mai a cambiare in un
baleno ciò che siamo. Fino a quando non avremo l'opportunità di farlo, rimarremo fedeli a Galbatorix, e lui ci ha ordinato senza mezzi termini di
catturarvi. Non vogliamo affrontare la delusione del re. Vi abbiamo già
sconfitti una volta: sarà un gioco da ragazzi ripetere l'impresa.» Dalle fauci di Saphira divampò una fiammata; Eragon aveva pronta una
risposta sullo stesso tono, ma la ricacciò in gola. Se avesse perso le staffe,
ci sarebbe stato un inevitabile spargimento di sangue. «Murtagh, Castigo,
vi prego, non volete almeno tentare di fare come vi ho suggerito? Non desiderate opporvi a Galbatorix? Se non siete disposti ad affrontarlo, non vi
libererete mai delle vostre catene.»
«Tu lo sottovaluti, Eragon» grugnì Murtagh. «Sono secoli che rende
schiave le persone sfruttandone il nome, fin da quando reclutò nostro padre. Pensi che non sappia che il vero nome di ognuno cambia nel corso
della vita? Di sicuro ha preso precauzioni contro quest'eventualità. Se il
mio vero nome o quello di Castigo dovessero cambiare in questo preciso
istante, con ogni probabilità ciò evocherebbe un incantesimo che allerterebbe Galbatorix, costringendoci a tornare subito a Urû'baen in modo che
lui possa legarci di nuovo a sé.»
«Solo se indovina quali sono i vostri nuovi nomi, però...»
«In questo è un maestro.» Murtagh prese Zar'roc dalla sella. «Potremmo
seguire il tuo suggerimento in futuro, ma solo dopo un attento studio e una
ponderata preparazione. Non voglio rischiare che io e Castigo riconquistiamo la libertà solo perché un attimo dopo Galbatorix ce la rubi di nuovo.» Levò la spada; la lama iridescente vibrò. «Dunque non abbiamo altra
scelta se non portarvi con noi a Urû'baen. Ci seguirete di vostra spontanea
volontà?»
Incapace di trattenersi ancora, Eragon esclamò: «Piuttosto mi strappo il
cuore con le mie stesse mani!»
«Meglio se strappi i miei, di cuori!» replicò Murtagh, poi brandì la spada
sopra la testa e lanciò un selvaggio grido di guerra.
Ruggendo insieme al suo cavaliere, Castigo diede due rapidi battiti d'ali
per superare Saphira. Mentre saliva, fece un mezzo giro su se stesso in
modo da portare la testa proprio sopra il collo della dragonessa e così immobilizzarla con un solo morso alla base del cranio.
La reazione di Saphira non si fece attendere. Piegò il collo verso il basso
e portò le ali in avanti, e un attimo dopo si era già lanciata in picchiata, le
ali parallele al terreno polveroso a sostenere il suo peso instabile. Poi chiuse l'ala destra, e volse la testa a sinistra e la coda a destra, ruotando in senso orario. Colpì Castigo sul fianco sinistro con la coda muscolosa, spezzandogli l'ala in cinque punti diversi. Le estremità fratturate degli ossi cavi
gli trafissero le squame lucenti. Globuli di sangue bollente di drago piovvero su Eragon e Saphira. Una goccia schizzò sul retro della cuffia di Eragon e gli filtrò sotto la cotta di maglia fino alla pelle. Bruciava come olio
caldo. Eragon si strofinò il collo, cercando di ripulirsi.
Il ruggito di Castigo si trasformò in un lamento di dolore, e il giovane
drago passò accanto a Saphira ondeggiando, incapace di galleggiare nell'aria.
«Ben fatto!» le gridò Eragon mentre la dragonessa si raddrizzava. Poi dall'alto vide Murtagh prendere dalla cintura un piccolo oggetto rotondo e premerlo contro la spalla di Castigo. Non avvertì nessun flusso di
magia, ma quell'oggetto luccicava e, a mano a mano che gli ossi tornavano
a posto, l'ala spezzata del drago ebbe un sussulto, i muscoli e i tendini ondeggiarono e gli squarci si richiusero. Infine anche le ferite nel fianco del
drago si rimarginarono.
Come ha fatto? esclamò Eragon. Quell'affare deve aver liberato un incantesimo di guarigione, rispose Arya.
Avremmo dovuto pensarci anche noi.
Del tutto ristabilito, Castigo pose fine alla sua caduta e risalì verso Saphira a velocità prodigiosa, incendiando l'aria davanti a sé con una lancia
bollente di fuoco rosso scuro. Saphira si tuffò contro di lui, volando tutto
intorno a quella torre fiammeggiante, poi gli morse il collo, facendolo indietreggiare, gli graffiò le spalle e il petto con gli artigli anteriori e lo colpì
con le immense ali. Il bordo di quella destra agganciò Murtagh, scaraventandolo di lato sulla sella, ma il Cavaliere si riebbe subito e la colpì, aprendo uno squarcio di tre piedi nella membrana.
Sibilando, Saphira allontanò da sé Castigo scalciandolo con le zampe di
dietro ed eruttò un getto di fuoco, che si biforcò, passandogli ai lati senza
fare alcun danno.
Eragon sentì pulsare la ferita attraverso di lei. Fissò il taglio insanguinato, e i suoi pensieri iniziarono a correre. Se a combattere contro di lui non
ci fosse stato Murtagh, ma un qualsiasi mago, il giovane Cavaliere non avrebbe mai osato scagliare un incantesimo nel bel mezzo della battaglia,
perché in quel caso lo stregone si sarebbe convinto che ormai era una questione di vita o di morte, e, tentando il tutto per tutto, avrebbe risposto con
un disperato attacco magico.
Con Murtagh, invece, era diverso. Eragon sapeva che Galbatorix gli aveva ordinato di catturare lui e Saphira, non di ucciderli. Qualunque cosa
faccia, pensò, non proverà a uccidermi. Allora decise che avrebbe potuto
curare la dragonessa senza correre rischi. E comprese in ritardo che poteva
attaccare Murtagh con qualsiasi tipo di incantesimo: suo fratello non avrebbe saputo rispondere in maniera letale. Si chiese perché Murtagh aveva usato un oggetto magico per curare le ferite di Castigo invece di pronunciare lui stesso un incantesimo.
Forse vuole risparmiare le forze, azzardò Saphira. O forse non vuole
spaventarti. Galbatorix non sarebbe felice se Murtagh si servisse della
magia e tu, in preda al panico, ti suicidassi o uccidessi lui o Castigo. Ricorda, la più grande ambizione del re è averci tutti e quattro sotto il suo
comando, non morti, perché a quel punto saremmo liberi.
Dev'essere come dici tu, convenne Eragon.
Mentre si preparava a medicarle l'ala, Arya gli disse: Aspetta. Non farlo. Cosa? Perché? Non senti anche tu il dolore di Saphira?
Lascia che ce ne occupiamo io e i miei fratelli. Questa mossa confonderà Murtagh, e tu non verrai indebolito dallo sforzo.
Non siete un po' troppo lontani?
No, se uniamo le forze. E poi, Eragon, ti raccomandiamo di trattenerti
dal colpire Murtagh con la magia finché non lo farà lui per primo, con la
mente o con qualche incantesimo. Potrebbe essere più forte di te, anche se
ci siamo noi tredici elfi a prestarti la nostra forza. Non ne siamo sicuri. A
meno che non ci siano alternative, è meglio non esporsi troppo. E se non riesco a vincere?
Tutta Alagaësia cadrà nelle mani di Galbatorix.
Eragon avvertì che Arya si stava concentrando, poi il taglio nell'ala di
Saphira smise di lacrimare sangue e i contorni infiammati della delicata
membrana cerulea si fusero senza lasciare cicatrici né croste. Il sollievo
della dragonessa fu palpabile. Con voce appena affaticata, Arya disse:
Cerca di stare più attento. Non è stato facile.
Dopo che Saphira l'aveva colpito con un calcio, il drago rosso si era dimenato e aveva perso quota. D'un tratto virò di un quarto di miglio verso
ovest, probabilmente convinto che la dragonessa si fosse precipitata a inseguirlo, dato che cadendo aveva meno possibilità di proteggersi dai suoi
attacchi. Quando si accorse che Saphira non gli stava alle calcagna, Castigo risalì volando in circolo finché non si ritrovò un migliaio di piedi più su
rispetto a lei.
Allora richiuse le ali e si scagliò contro l'avversaria; aveva le fauci spalancate, che dardeggiavano fiamme, e gli artigli d'avorio sfoderati. Sul suo
dorso, Murtagh brandiva Zar'roc.
Quando Saphira chiuse un'ala e si lanciò in picchiata con una brusca virata vertiginosa, per poco Eragon non perse il falcione, ma poi la dragonessa la dispiegò di nuovo per rallentare la discesa. Se avesse chinato la testa all'indietro, Eragon avrebbe potuto vedere la terra sotto di loro. O forse
era sopra? Strinse i denti e si concentrò per mantenersi ben saldo in sella. Castigo e Saphira si scontrarono e a Eragon parve che la dragonessa si
fosse schiantata contro il dorso di una montagna. La forza dell'impatto lo
sbalzò in avanti e gli fece battere l'elmo contro una delle punte cervicali,
che scalfì lo spesso acciaio. Stordito, rimase in sella a guardare il cielo e la
terra scambiarsi di posto e vorticare senza uno schema preciso. Quando
Castigo le colpì il ventre scoperto, sentì Saphira rabbrividire. Se solo avesse avuto il tempo di infilarle la corazza che le avevano dato i nani... Una scintillante zampa color rubino le apparve attorno alla spalla e la dilaniò con gli artigli insanguinati. Senza pensarci, Eragon la colpì, frantumando una fila di squame e tagliando un ammasso di tendini. Tre dita si
afflosciarono. Eragon si accanì.
Ringhiando, Castigo si divincolò da Saphira. Mentre il corpulento drago
inarcava il collo e si riempiva i polmoni, Eragon si chinò, coprendosi il viso con il gomito. Un vorace inferno inghiottì Saphira. Grazie alle difese di
Eragon, il calore del fuoco non poteva far loro del male, ma la torrenziale
pioggia di fiamme incandescenti era comunque accecante.
Per uscire dal turbine di fuoco, Saphira virò a sinistra. Intanto Murtagh
aveva richiuso la ferita alla zampa di Castigo, che si scagliò di nuovo contro la dragonessa. Mentre scendevano in picchiata verso le grigie tende dei
Varden scartando a destra e a sinistra così in fretta da dare la nausea ai loro
Cavalieri, i due draghi ingaggiarono un serrato corpo a corpo. Saphira riuscì a conficcare le zanne nella cresta cornuta che spuntava dietro la testa di
Castigo, nonostante gli ossi appuntiti le pungessero la lingua. Castigo lanciò un grido e si dimenò come un pesce preso all'amo, cercando di liberarsi
dalla morsa, ma nulla poté contro la stretta di ferro delle mandibole di Saphira. I due draghi continuarono a precipitare l'uno accanto all'altro, come
foglie intrecciate.
Eragon si sporse e assestò un fendente alla spalla destra di Murtagh, non
tanto con l'intenzione di ucciderlo quanto di ferirlo abbastanza gravemente
da porre fine al combattimento. A differenza di quando combatté sulle
Pianure Ardenti, adesso Eragon era riposato e, col braccio veloce come
quello di un elfo, era fiducioso che Murtagh non avrebbe avuto scampo. Invece l'avversario levò lo scudo e bloccò il falcione.
La sua reazione fu così inaspettata che Eragon vacillò ed ebbe appena il
tempo di indietreggiare e respingere Zar'roc, la cui lama vibrò nell'aria a una velocità esorbitante e lo ferì a una spalla. Murtagh non perse tempo: lo colpì al polso e poi, quando Eragon si scagliò di lato, gli fece passare la lama sotto lo scudo. Riuscì a infilarla tra l'orlo dell'usbergo di maglia e la vita dei pantaloni, trafiggendogli il fianco sinistro. La punta di Zar'roc gli
si conficcò nell'osso.
Il dolore travolse Eragon come un getto d'acqua gelida, ma gli diede anche una soprannaturale lucidità di pensiero e gli trasmise una scarica di energia straordinaria in tutto il corpo.
Mentre Murtagh sfilava la spada, Eragon gridò e gli si scagliò contro.
Con una veloce torsione del polso, Murtagh intrappolò il falcione sotto Zar'roc e digrignò i denti in un ghigno sinistro. Senza un attimo di esitazione,
Eragon liberò la sua arma, poi finse di voler colpire l'avversario al ginocchio destro, ma all'ultimo momento abbatté il falcione in direzione opposta, ferendo Murtagh alla guancia.
«Avresti dovuto metterti l'elmo» gli disse.
Erano così vicini a schiantarsi al suolo - mancava solo qualche centinaio
di piedi - che Saphira dovette lasciar andare Castigo. I due draghi si separarono prima che Eragon e Murtagh potessero ferirsi di nuovo. Mentre Saphira e Castigo risalivano a spirale, lanciandosi entrambi verso una nube bianco perla che si stava addensando sopra le tende dei Varden, Eragon sollevò l'usbergo e la tunica e si esaminò il fianco. Nel punto
in cui Zar'roc l'aveva colpito, spingendo la cotta di maglia contro il corpo,
c'era un esangue lembo di pelle grande quanto un pugno. In mezzo, dove
era penetrata la lama, una sottile linea rossa lunga due pollici. La ferita
sanguinava, inzuppandogli la parte alta dei pantaloni.
Il fatto di essere stato ferito da Zar'roc, una spada che non l'aveva mai
abbandonato nei momenti di pericolo e che ancora considerava sua a buon
diritto, lo turbò. Che la sua arma gli si fosse ritorta contro era sbagliato. Il
mondo girava alla rovescia, e il suo istinto gli imponeva di ribellarsi a
quello stato di cose.
Mentre attraversava un vortice d'aria, Saphira tremò tutta ed Eragon sussultò avvertendo una nuova fitta di dolore al fianco. Per fortuna non stavano combattendo a terra, concluse, altrimenti non credeva che sarebbe riuscito a reggersi in piedi.
Arya, disse, vuoi curarmi tu o devo farlo da solo e lasciare che Murtagh
riesca a fermarmi?
Ci pensiamo noi, rispose l'elfa. Se ti crede ancora ferito, forse riuscirai
a coglierlo di sorpresa.
Oh, aspetta.
Perché?
Prima devo darvi il permesso di intervenire, o le mie difese vi fermeranno. Sulle prime non gli venne in mente la frase esatta, ma alla fine si ricordò la formula e sussurrò nell'antica lingua: «Acconsento a che Arya, figlia
di Islanzadi, mi guarisca con un incantesimo.»
Quando sarai meno turbato, dobbiamo parlare di queste tue difese. E se
avessi perso conoscenza? Come avremmo fatto ad assisterti? Dopo le Pianure Ardenti mi era sembrata una buona idea. Murtagh ci
aveva immobilizzati entrambi con la magia, ricordi? Non voglio che né lui
né nessun altro possano imporci incantesimi senza il nostro consenso. È giusto, ma ci sono soluzioni più eleganti della tua.
Eragon si contorse sulla sella mentre la magia degli elfi faceva effetto, e
il fianco cominciò a formicolargli e a prudergli come se fosse ricoperto di
pulci che lo mordevano. Quando il prurito diminuì, si infilò una mano sotto la tunica e, con grande gioia, sentì solo pelle liscia.
D'accordo, disse, raddrizzando bene le spalle. Adesso quei due impareranno a temere i nostri nomi!
Saphira virò a sinistra e, mentre Castigo si affannava a voltarsi, si tuffò
nel cuore dell'immensa nube perlata di fronte a loro. Tutto divenne freddo,
umido e bianco, poi Saphira sbucò dalla parte opposta, alle spalle di Castigo, pochi piedi sopra di lui.
Con un ruggito trionfante, Saphira si abbatté sul drago rosso e lo afferrò
per i fianchi, conficcandogli gli artigli in profondità nei garretti e lungo la
spina dorsale. Protese la testa, gli addentò l'ala sinistra e serrò la presa, tagliando la carne di netto con uno schiocco delle zanne affilate come un rasoio.
Castigo si dibatté e lanciò un grido: Eragon non sospettava che i draghi
potessero emettere versi tanto orribili.
Ce l'ho in pugno, disse Saphira. Gli posso strappare l'ala, ma preferirei
di no. Qualunque cosa tu abbia intenzione di fare, falla, prima che sia
troppo tardi.
Pallido in viso benché insanguinato, Murtagh puntò Zar'roc contro Eragon - la spada vibrò nell'aria - e un fascio di energia mentale immenso travolse la coscienza di Eragon. Quella misteriosa presenza rovistò nei suoi
pensieri, cercando di carpirli e di sottometterli al suo volere. Come sulle
Pianure Ardenti, Eragon si accorse che la mente del fratello sembrava contenere una vera folla, come se un confuso coro di voci stesse mormorando
in sottofondo al tumulto dei suoi pensieri.
Forse c'era un gruppo di maghi ad assisterlo, come lui aveva gli elfi. Per quanto difficile, Eragon svuotò la mente da ogni cosa, eccetto l'immagine di Zar'roc. Si concentrò sulla spada con tutte le sue forze, rasserenando la coscienza nella calma della meditazione, così che Murtagh non
trovasse alcun appiglio a cui aggrapparsi. E quando Castigo si dimenò sotto di loro e l'attenzione di Murtagh vacillò per un istante, lanciò un furioso
contrattacco, afferrando a sua volta la coscienza dell'altro Cavaliere. I due lottarono uno contro l'altro in caduta libera, in un cupo silenzio, respingendosi a vicenda entro i confini delle rispettive menti. A volte sembrava che avesse la meglio Murtagh, a volte il fratello, ma nessuno riusciva a prevalere. Eragon scoccò un'occhiata in basso e si accorse che non
mancava molto al momento in cui si sarebbero schiantati al suolo; così capì che la contesa andava decisa con altri mezzi.
Abbassando il falcione al livello di Murtagh, gridò «Letta!», lo stesso
incantesimo che il fratello aveva usato contro di lui nel precedente confronto. Era una magia semplice, che gli avrebbe bloccato le braccia e il torso, ma così avrebbero potuto affrontarsi direttamente e stabilire chi aveva
più energia a disposizione.
Murtagh pronunciò un controincantesimo, ma le parole si persero nel
ringhio di Castigo e nell'ululato del vento.
Via via che la forza lo abbandonava, il polso di Eragon accelerava.
Quando ormai aveva quasi esaurito le forze e si sentiva debole, Saphira e
gli elfi riversarono l'energia dei propri corpi nel suo, evitando così che l'incantesimo di Eragon si spezzasse. Sulle prime Murtagh, che gli stava di
fronte, apparve compiaciuto e sicuro di sé, ma più Eragon lo teneva a bada,
più si accigliava e digrignava i denti, ritraendo le labbra. Per tutto il tempo,
le rispettive menti rimasero sotto assedio.
Un paio di volte Eragon senti diminuire l'energia che Arya gli stava inviando e intuì che due degli stregoni al comando di Blödhgarm dovevano
essere svenuti. Murtagh non può resistere ancora per molto, pensò, poi
dovette sforzarsi di riprendere il controllo della propria mente, perché
quella perdita di concentrazione aveva permesso all'avversario di far breccia nelle sue difese mentali.
La forza di Arya e degli altri elfi si dimezzò e perfino Saphira cominciò
a tremare di stanchezza. Proprio quando Eragon era convinto che avrebbe
perso, Murtagh lanciò un grido di dolore. Via via che la resistenza del fratello calava, a Eragon parve di liberarsi di un grosso peso. Murtagh era esterrefatto davanti al successo dell'avversario.
E adesso? chiese Eragon ad Arya e a Saphira. Li prendiamo in ostaggio? Possiamo?
Adesso devo volare, rispose la dragonessa, poi lasciò andare Castigo e si
allontanò da lui, battendo le ali a fatica, come se persino tenerle dispiegate
le costasse molte energie. Eragon si voltò, e per un fugace istante ebbe
l'impressione che un prato invaso dal sole e punteggiato di cavalli stesse
per scagliarsi contro di loro; poi fu come se un gigante lo travolgesse dal
basso e tutto divenne nero.
La prima cosa che vide fu il collo puntuto di Saphira a un paio di pollici dal suo naso. Le squame brillavano come ghiaccio blu cobalto. C'era qualcuno che stava tentando di penetrargli nella mente, qualcuno la cui coscienza trasmetteva un'intensa sensazione di fretta. A mano a mano che rientrava in possesso delle sue piene facoltà, si accorse che si trattava di Arya. Ferma l'incantesimo, Eragon, altrimenti ci ucciderai tutti! gli disse. Fermalo; Murtagh ormai è troppo lontano! Svegliati, o entrerai nel vuoto.
Di scatto, Eragon balzò a sedere in sella, accorgendosi a stento che Saphira era accucciata in un cerchio di cavalieri del re. Arya non c'era. Ora che aveva recuperato i sensi, sentì che l'incantesimo lanciato contro Murtagh gli stava ancora prosciugando l'energia, e in quantità sempre maggiori. Se non fosse stato per l'aiuto degli elfi e della sua dragonessa, sarebbe già morto.
Eragon pose fine alla magia, poi cercò Castigo e Murtagh. Laggiù, disse Saphira, indicandogli il punto esatto con il muso. Eragon vide la sagoma scintillante di Castigo allontanarsi verso il fiume Jiet, bassa nel cielo a nord-ovest, e tornare rapida in seno all'esercito di Galbatorix, distante alcune miglia.
Che cos'è successo?
Murtagh ha guarito di nuovo Castigo, che ha avuto la fortuna di atterrare sul dorso di una collina. È sceso di corsa, poi ha spiccato il volo prima che tu ti risvegliassi.
Nel paesaggio ondulato rimbombò la voce amplificata di Murtagh: «Eragon, Saphira! Non crediate di avere vinto. Ci incontreremo di nuovo, ve lo prometto, e allora io e Castigo vi sconfiggeremo, perché saremo ancora più forti!»
Eragon strinse lo scudo e il falcione con tanta forza che gli uscì il sangue da sotto le unghie. Pensi di poterlo raggiungere?
Sì, ma gli elfi non riuscirebbero ad aiutarti così a distanza, e senza il loro sostegno dubito che riusciremmo a vincere.
Forse potremmo... Eragon si bloccò e si diede una manata sulla gamba per la frustrazione. Accidenti, sono un idiota! Mi sono dimenticato di Aren. Per sconfiggerli avremmo potuto usare l'energia contenuta nell'anello di Brom.
Avevi altre cose per la testa. Chiunque avrebbe potuto commettere lo stesso errore.
Forse, ma vorrei che mi fosse venuto in mente prima. Potremmo farlo adesso.
E poi? gli chiese Saphira. Come facciamo a tenerli prigionieri? Li vuoi drogare come ha fatto Durza con te a Gil'ead? O preferisci ucciderli?
Non lo so! Potremmo aiutarli a cambiare i loro veri nomi e a infrangere il giuramento a Galbatorix. Lasciarli andare così è troppo pericoloso.
In teoria hai ragione, rispose Arya, ma tu sei stanco, Saphira è stanca e io preferisco che quei due ci sfuggano piuttosto che rischiare di perdervi perché non siete nel pieno delle forze.
Ma...
Non siamo in grado di trattenere a lungo un drago e il suo Cavaliere, e non credo che uccidere Murtagh e Castigo sarebbe facile come pensi, Eragon. Sii grato che siamo riusciti a scacciarli e riposa tranquillo: la prossima volta che oseranno affrontarci, li fermeremo di nuovo. Detto ciò, si allontanò dalla sua mente.
Eragon osservò Castigo e Murtagh finché non scomparvero dalla sua vista, poi sospirò e accarezzò Saphira sul collo. Dormirei per due settimane.
Anch'io.
Dovresti essere fiera di te; in volo hai avuto quasi sempre la meglio su Castigo.
Sì, vero? si pavoneggiò la dragonessa. Abbiamo combattuto ad armi impari, però. Castigo non è esperto come me.
E non ha nemmeno il tuo talento, mi verrebbe da pensare.
Saphira piegò il collo e gli leccò la parte alta del braccio destro, facendogli tintinnare l'usbergo di maglia, poi lo guardò con occhi scintillanti.
Eragon riuscì ad abbozzare solo l'ombra di un sorriso. C'era da aspettarselo, suppongo, ma è stata una sorpresa scoprire che Murtagh e veloce quanto me. Un altro incantesimo di Galbatorix, non c'è dubbio.
Perché le tue difese non sono riuscite a deviare i colpi di Zar'roc? Altre volte ti hanno salvato da assalti peggiori, per esempio contro i Ra'zac.
Non so. Forse Murtagh e Galbatorix si sono inventati un incantesimo contro cui non avevo pensato di proteggermi. O forse è solo che Zar'roc è la spada di un Cavaliere, e come diceva Glaedr...
... le spade forgiate da Rhunön sono eccellenti perché...
... non temono incantesimi di sorta e...
... solo di rado vengono...
... fermate dalla magia. Già, proprio così. Esausto, Eragon fissò il sangue di drago sul lato piatto del falcione. Quando riusciremo a sconfiggere i nostri nemici da soli? Non avrei mai ucciso Durza se Arya non avesse rotto lo Zaffiro Stellato. E siamo riusciti a battere Murtagh e Castigo solo grazie al suo aiuto e a quello di altri dodici elfi.
Dobbiamo diventare più potenti.
Sì, ma come? Come ha fatto Galbatorix ad accumulare tanta forza? Avrà trovato un modo per cibarsi del corpo dei suoi schiavi anche a centinaia di miglia di distanza? Accidenti! Non lo so.
Un rivolo di sudore gli gocciolò dalla fronte e si infilò nell'angolo dell'occhio destro. Lo asciugò con il palmo della mano, poi batté le palpebre e notò i cavalieri raccolti intorno a loro. Che cosa ci fanno qui? Si voltò e si rese conto che Saphira era atterrata vicino al punto in cui re Orrin aveva intercettato i soldati sbarcati dalle navi nemiche. Alla sua sinistra, poco lontano da lì, centinaia di uomini, di Urgali e di cavalli correvano in preda al panico; ovunque regnavano disordine e confusione. Di tanto in tanto il clangore delle spade o il grido di un uomo ferito si levava da quel tumulto, accompagnato da scoppi di risa folli.
Credo che siano qui per proteggerci, disse Saphira.
Chi, noi? E da che cosa? Perché non hanno ancora ucciso i soldati? Dove...? Eragon lasciò la frase a metà non appena vide Arya, Blödhgarm e quattro altri elfi dall'aria sfinita sopraggiungere di corsa dall'accampamento. Alzando una mano in segno di saluto, gridò: «Arya! Cos'è successo? Sembra che non ci sia nessuno al comando.»
L'elfa respirava con tanto affanno che per qualche istante non riuscì nemmeno a parlare. Eragon rimase a guardarla allarmato, poi disse: «I soldati si sono dimostrati più pericolosi del previsto. Non sappiamo perché. Il Du Vrangr Gata non ha sentito che un confuso borbottio provenire dagli stregoni di Orrin.» Poi, non appena riprese fiato, cominciò a esaminare i tagli e le ferite di Saphira.
Prima che Eragon potesse chiederle altro, un'accozzaglia di grida eccitate provenienti dal vortice di guerrieri soffocò ogni altro rumore. «Indietro, indietro! Arcieri, mantenete i ranghi! Accidenti, che nessuno si muova, l'abbiamo preso!» gridò re Orrin.
Eragon e Saphira ebbero la stessa idea. La dragonessa piegò le gambe, superò con un balzo i soldati disposti in circolo spaventando gli animali, che - disarcionati i loro cavalieri - corsero via, e si fece strada lungo il campo di battaglia disseminato di cadaveri verso il punto da cui proveniva la voce del re, ignorando uomini e Urgali come se fossero tanti steli d'erba. Gli altri elfi si affrettarono a tenerle dietro, armati di spade e archi.
Saphira trovò Orrin in sella al suo destriero, in testa al fitto manipolo di guerrieri, mentre fissava un uomo a una quarantina di piedi di distanza. Il re era paonazzo e aveva gli occhi spiritati; l'armatura era sudicia dopo il combattimento. Era stato ferito sotto il braccio sinistro e l'asta di una lancia gli spuntava di parecchi pollici dalla coscia destra. Quando si accorse della presenza della dragonessa, fu invaso da un improvviso sollievo.
«Bene, bene, siete qui» bofonchiò, mentre Saphira raggiungeva il suo cavallo. «Avevamo giusto bisogno di te, Saphira, e anche di te, Ammazzaspettri.» Uno degli arcieri avanzò di qualche pollice. Orrin brandì la spada contro di lui e strillò: «Indietro! Se non restate dove siete vi mozzerò la testa, lo giuro sulla corona di Angvard!» Poi riprese a fissare l'uomo.
Eragon seguì il suo sguardo, e vide un soldato di media statura, con una voglia viola sul collo e i capelli castani appiattiti per via dell'elmo. Lo scudo era ridotto in frantumi; la spada era scalfita, piegata e aveva perso gli ultimi sei pollici della lama. La calzabraca era inzaccherata di fango del fiume. Aveva uno squarcio nel costato ricoperto di sangue. Una freccia con un pennacchio bianco di piume di cigno gli si era conficcata nel piede destro e lo teneva inchiodato al terreno. Dalla gola gli usciva un orribile gorgoglio, una sorta di risata che aumentava di intensità e poi calava, come se fosse stato ubriaco, raggiungendo note sempre più acute: pareva sul punto di mettersi a gridare dall'orrore.
«Che cosa sei?» urlò Orrin. Poiché il soldato non rispose subito, il re imprecò e gli disse: «Rispondimi, o ti darò in pasto ai miei stregoni. Sei un uomo, una bestia o il seme del demonio? In quale orrido pozzo Galbatorix ha trovato te e i tuoi simili? Sei un Ra'zac?»
L'ultima domanda ebbe un effetto immediato su Eragon, come se gli avessero infilato un ago nella carne; si raddrizzò di colpo, i cinque sensi vigili.
La risata cessò per un istante. «Un uomo. Sono un uomo come voi.»
«Non mi sembra affatto.»
«Volevo assicurarmi che la mia famiglia avesse un futuro. Ti sembra una cosa tanto strana, Surdan?»
«Non incantarmi con le parole, miserabile dalla lingua biforcuta! Dimmi come hai fatto a diventare quello che sei e sii sincero, altrimenti ti verserò del piombo fuso nella gola, e voglio proprio vedere se nemmeno quello ti farà male.»
La risatina instabile crebbe d'intensità, poi il soldato disse: «Niente e nessuno può farmi del male, Surdan. Il re ci ha resi immuni al dolore. In cambio le nostre famiglie vivranno nell'agio per il resto della loro vita. Potete nascondervi, ma noi continueremo a inseguirvi, anche dopo che un uomo normale sarebbe crollato a terra esausto. Potete combatterci, ma noi continueremo a uccidervi finché avremo un braccio con cui brandire la spada. Non potete arrendervi, perché non ci interessa di farvi prigionieri. Non potete fare altro che morire e riportare la pace in questa landa.»
Con una smorfia raccapricciante, il soldato afferrò la freccia con la mano straziata e la sfilò dal piede con un rumore di carne lacerata. Dalla punta pendevano brandelli di pelle rosso vivo. Il soldato la sventolò davanti a loro, poi la scagliò contro uno degli arcieri, ferendolo a una mano. Con una risata più fragorosa che mai, avanzò barcollando e trascinando il piede ferito. Infine alzò la spada, come se volesse attaccare.
«Colpitelo!» gridò Orrin.
Le corde degli archi vibrarono come liuti stonati, poi una ventina di frecce saettarono contro il soldato e un istante dopo lo raggiunsero al petto. Due gli rimbalzarono sulla corazza, ma le altre gli penetrarono nel costato. Con la risata ridotta a un sibilo mentre il sangue gli filtrava nei polmoni, l'uomo continuò ad avanzare, tingendo l'erba di un vivo scarlatto. Gli arcieri gli rovesciarono addosso un'altra pioggia di frecce, ma, benché avesse braccia e spalle trafitte, il soldato di Galbatorix non si fermò. Seguì un'altra raffica di frecce. Quando una di queste gli spaccò in due una rotula, altre gli si conficcarono nella parte alta delle gambe e una gli perforò il collo, scavando un buco nella voglia, il soldato inciampò e cadde, ma proseguì sibilando, lasciando alle proprie spalle una scia di sangue. Si rifiutava di morire. Cominciò a strisciare in avanti aiutandosi con le braccia; intanto sorrideva e ridacchiava come per una battuta oscena di cui solo lui comprendeva il significato.
Nel guardarlo, Eragon sentì un brivido gelido lungo la schiena.
Orrin imprecò con violenza ed Eragon colse una nota isterica nella sua voce. Balzato giù dal destriero, il re scagliò spada e scudo per terra e indicò l'Urgali più vicino. «Dammi l'ascia.» Sbalordito, l'ariete dalla pelle grigia esitò, poi obbedì.
Re Orrin raggiunse zoppicando il soldato, alzò la pesante ascia con tutte e due le mani e con un solo colpo gli mozzò la testa.
La risatina cessò all'istante.
L'uomo strabuzzò gli occhi e mosse le labbra ancora per qualche secondo, poi rimase immobile.
Orrin afferrò la testa per i capelli e la sollevò, così che tutti la potessero vedere. «Dunque è possibile ucciderli» dichiarò. «Diffondete la voce che l'unico modo per fermare questi mostri è decapitarli. Oppure fracassare loro il cranio con una mazza, o colpirli con una freccia tra gli occhi da una distanza di sicurezza... Dentegrigio, dove sei?» Un cavaliere tarchiato di mezza età si fece avanti e prese al volo la testa che gli aveva lanciato Orrin. «Issala su un palo all'entrata nord dell'accampamento. Fa' lo stesso con quelle degli altri. Che serva da monito a Galbatorix: le sue scorrettezze non ci fanno paura, vinceremo comunque.» Tornando al suo destriero, il re restituì l'ascia all'Urgali, poi raccolse le armi.
A poche iarde di distanza, Eragon notò Nar Garzhvog in un crocchio di Kull. Rivolse due parole a Saphira, che si avviò furtiva verso di loro. I due si scambiarono un cenno di saluto, poi Eragon gli chiese: «Anche gli altri soldati nemici erano come quello?» E indicò il cadavere pieno di frecce.
«Nessuno di loro prova dolore. Li colpisci e credi di averli uccisi, ma appena volti le spalle, ti disarmano.» Garzhvog si accigliò. «Ho perso molti arieti, oggi. Abbiamo combattuto contro moltitudini di umani, Spadarossa, però mai contro questi demoni che ridono. Sono contro natura. C'è quasi da pensare che siano posseduti da spiriti senza corna e che forse le nostre divinità si siano rivoltate contro di noi.»
«Sciocchezze» sbuffò Eragon. «È solo uno dei tanti incantesimi di Galbatorix, e ben presto troveremo il modo di proteggerci anche da quello.» Ostentava sicurezza, ma l'idea di combattere contro nemici che non provavano dolore turbava non poco anche lui. E poi, stando a ciò che aveva detto Garzhvog, non appena la notizia fosse circolata tra i Varden, per Nasuada sarebbe stato ancora più difficile mantenere alto il morale della sua gente.
Mentre i Varden e gli Urgali cominciavano a raccogliere i compagni caduti, spogliando i morti di tutto ciò che poteva tornare utile, e a decapitare i soldati trascinandone i corpi mutilati in pile da dare alle fiamme, Eragon, Saphira e re Orrin tornarono all'accampamento, accompagnati da Arya e dagli altri elfi.
Lungo il tragitto, Eragon si offrì di guarire la gamba del re, ma lui rifiutò: «Ho i miei medici, Ammazzaspettri.»
Nasuada e Jörmundur li stavano aspettando al cancello nord. Avvicinandosi a Orrin, la regina disse: «Che cosa è andato storto?»
Eragon chiuse gli occhi mentre Orrin le spiegava che sulle prime l'assalto era parso dare buoni frutti. I cavalieri si erano infiltrati nei ranghi nemici, assestando a destra e a manca quelli che pensavano fossero colpi mortali e riportando solo una vittima durante la carica. Quando avevano attaccato il resto dei soldati, tuttavia, molti di quelli che avevano già abbattuto si erano rialzati e avevano ripreso a combattere. Orrin fu scosso da un brivido. «A quel punto abbiamo perso il controllo. Sarebbe successo a chiunque. Non sapevamo se i soldati erano invincibili e nemmeno se erano umani come noi. Quando un nemico ti viene incontro con le ossa che spuntano dal polpaccio, un giavellotto nella pancia e mezza faccia dilaniata, e tuttavia ride, è difficile tenere duro. I miei guerrieri si sono lasciati prendere dal panico. Hanno rotto le righe. Regnava la confusione più totale. Una carneficina. Quando gli Urgali e i tuoi guerrieri ci hanno raggiunto, Nasuada, sono stati inghiottiti da quella follia collettiva.» Scosse il capo. «Non ho mai visto niente di simile, nemmeno sulle Pianure Ardenti.»
Nasuada era turbata. Guardò Eragon e poi Arya. «Che cos'ha fatto Galbatorix?»
Fu Arya a rispondere: «Ha sradicato in loro il senso del dolore, anche se non del tutto. Quegli uomini capiscono dove si trovano e che cosa stanno facendo, ma poiché non provano dolore fisico, non si fermano. È un incantesimo che richiede una quantità minima di energia.»
Nasuada si inumidì le labbra, poi si rivolse di nuovo a Orrin: «Sai quanti uomini abbiamo perso?»
Orrin era tormentato dai brividi. Si piegò in due, premendosi una mano sulla gamba, poi digrignò i denti e grugnì: «Trecento soldati contro... Com'era composto il contingente che hai mandato tu?»
«Duecento spadaccini. Un centinaio di lancieri. Cinquanta arcieri.»
«Quelli, più gli Urgali, più la mia cavalleria... Diciamo un migliaio di unità nostre contro trecento fanti loro in campo aperto. Li abbiamo massacrati fino all'ultimo, ma quanto ci è costato...» Il re scosse la testa. «Finché non contiamo i morti non lo sapremo con certezza, ma a occhio e croce mi pare che tre quarti dei tuoi spadaccini siano andati. Anche la maggior parte dei lancieri e qualche arciere. Dei miei cavalieri ne rimangono ben pochi: cinquanta, settanta, non di più. Molti di loro erano miei amici. Gli Urgali morti saranno un centinaio, forse centocinquanta. In totale? Cinque o seicento cadaveri da seppellire, e i sopravvissuti sono quasi tutti feriti. Non lo so... non lo so. Non...» Orrin aprì la bocca, poi si accasciò su un lato e, se Arya non fosse corsa a sorreggerlo, sarebbe caduto.
Nasuada schioccò le dita e richiamò due dei Varden fra le tende, poi ordinò loro di portare Orrin nel suo padiglione e di far venire i guaritori.
«Pur avendo sterminato il nemico, abbiamo subito una dolorosa sconfitta» mormorò Nasuada, e serrò le labbra in un espressione di dolore e disperazione. Aveva gli occhi lucidi. Raddrizzando la schiena, scoccò a Eragon e Saphira uno sguardo d'acciaio. «Com'è andata a voi due?» Ascoltò impassibile mentre Eragon descriveva l'incontro con Murtagh e Castigo. Poi annuì. «Siete riusciti a sfuggire al loro attacco: prima della battaglia non avremmo osato sperare di più. E invece avete fatto ben altro. Avete dimostrato che Galbatorix non è riuscito a rendere Murtagh così invincibile e potente come credeva. Con l'aiuto di qualche altro incantesimo, avresti potuto fare di lui ciò che volevi, dunque credo che non oserà affrontare l'esercito della regina Islanzadi da solo. Se riusciamo a radunare un buon numero di stregoni, la prossima volta che verranno per rapirvi riusciremo a ucciderli, ne sono sicura.»
«Non li vuoi catturare?» chiese Eragon.
«Se è per questo voglio molte cose, ma dubito che riuscirò a ottenerle tutte. Forse quei due non cercheranno di uccidervi, ma se si dovesse presentare l'opportunità dobbiamo eliminarli senza indugi. Forse tu hai altre idee...»
«... No.»
Poi Nasuada si rivolse ad Arya: «Qualcuno dei vostri stregoni è morto?»
«Un paio sono svenuti, ma si sono tutti ripresi, grazie.»
Nasuada trasse un profondo respiro e si volse verso nord, lo sguardo perso nel vuoto. «Eragon, per favore, informa Trianna che voglio che il Du Vrangr Gata escogiti un modo per rispondere all'incantesimo di Galbatorix. Per quanto sia spregevole, dobbiamo rispondere con la stessa moneta. Non possiamo permetterci di fare altrimenti. Adottare la stessa soluzione sarebbe poco pratico, rischieremmo di ferirci con troppa facilità, ma almeno dovremmo trovare qualche centinaio di spadaccini volontari che accettino di diventare immuni alla sofferenza fisica.»
«Sì, mia signora.»
«Quanti morti» commentò Nasuada. Si avvolse le redini intorno alle mani. «Siamo rimasti nello stesso luogo troppo a lungo. È tempo di costringere l'Impero a rimettersi sulla difensiva.» Fece allontanare il cavallo dalla carneficina davanti all'accampamento, e lo stallone agitò il muso e morse il freno. «Eragon, oggi tuo cugino mi ha pregato di prendere parte alla battaglia. Che io glielo abbia negato, considerato l'imminente matrimonio, non è stato di suo gradimento, anche se sospetto che la sua promessa sposa la pensi diversamente. Vuoi farmi il favore di informarmi se intendono comunque procedere con la cerimonia? Dopo tanto spargimento di sangue, una festa rincuorerebbe i Varden.»
«Te lo farò sapere appena possibile.»
«Grazie. Adesso va' pure.»
La prima cosa che fecero Eragon e Saphira dopo essersi congedati da Nasuada fu andare a far visita agli elfi che erano svenuti durante lo scontro contro Murtagh e Castigo e ringraziare loro e gli altri compagni per l'aiuto. Poi Eragon, Arya e Blödhgarm si occuparono delle ferite riportate dalla dragonessa, le curarono i tagli, i graffi e altre contusioni. Quando ebbero finito, Eragon cercò Trianna con la mente e le trasmise le istruzioni di Nasuada.
Alla fine, lui e Saphira andarono a cercare Roran, accompagnati da Blödhgarm e dai suoi elfi; Arya invece aveva delle faccende personali da sbrigare.
Quando Eragon li scorse accanto a un angolo della tenda di Horst, Roran e Katrina erano assorti in una pacata ma accesa discussione; tuttavia ammutolirono non appena li videro avvicinarsi. Katrina incrociò le braccia e si voltò; Roran afferrò la punta del martello infilato nella cintura e sfregò il tacco dello stivale contro un sasso.
Eragon si fermò davanti a loro e attese qualche istante, sperando che gli avrebbero spiegato la ragione del litigio. Invece Katrina domandò: «Siete feriti?» I suoi occhi continuavano a guizzare tra lui e Saphira.
«Ormai è tutto passato.»
«Che... che strano. A Carvahall giravano voci sulla magia, ma non ci avevo mai creduto. Sembrava impossibile. Qui invece ci sono maghi ovunque... Li avete battuti, Murtagh e Castigo? È per quello che sono volati via?»
«Abbiamo avuto la meglio, sì, ma non abbiamo causato loro danni permanenti.» Eragon fece una pausa; quando però si rese conto che nessuno dei due avrebbe parlato, chiese loro se volevano ancora sposarsi quel giorno. «Nasuada ha suggerito di procedere, ma forse è meglio aspettare. Ci sono ancora un sacco di cose da fare, tra cui seppellire i morti. Domani sarebbe meglio, e anche più decoroso.»
«No» rispose Roran e stavolta strofinò la punta dello stivale contro il sasso. «L'Impero potrebbe attaccare da un momento all'altro. Domani potrebbe essere troppo tardi. Se... se dovessi morire prima che ci siamo sposati, che cosa ne sarà di Katrina e di nostro...» Esitò e arrossì.
L'espressione di Katrina si addolcì, poi la fanciulla si volse verso Roran e gli prese la mano. «E poi il cibo è già pronto, le decorazioni appese e i nostri amici si sono tutti radunati per le nozze. Sarebbe un peccato se i preparativi andassero in fumo.» Poi alzò una mano e gli accarezzò la barba; allora lui le sorrise e la cinse con un braccio.
Non riesco a capire nemmeno la metà delle cose che corrono tra loro, si lamentò Eragon con Saphira. «Allora, quando avrà luogo la cerimonia?»
«Fra un'ora» disse Roran.
MARITO E MOGLIE
Quattro ore dopo, Eragon era sulla cresta di una bassa collina punteggiata di fiori di campo gialli. Tutto intorno, un prato rigoglioso costeggiava le rive del fiume Jiet, che scorreva rapido a un centinaio di piedi alla sua destra. Il cielo era terso e limpido; la luce del sole bagnava la terra con il suo delicato bagliore. L'aria era fresca e immota e sapeva di fresco, come se fosse appena piovuto.
Davanti alla collina si erano radunati tutti gli abitanti di Carvahall, nessuno dei quali era stato ferito in battaglia, e la metà dei Varden, o almeno così sembrava. Molti guerrieri reggevano lunghe lance con appesi stendardi multicolori ricamati. In fondo al prato erano schierati diversi cavalli, tra cui Fiammabianca. Nonostante gli sforzi di Nasuada, organizzare il grande evento aveva richiesto più tempo del previsto.
Quando Saphira fluttuò sopra l'adunata e, battendo le ali, si posò accanto a Eragon, un'ondata di vento gli arruffò i capelli, ancora umidi dopo il bagno. Il giovane le sorrise e le sfiorò la spalla.
Piccolo mio.
In condizioni normali, all'idea di parlare davanti a tante persone e officiare una cerimonia così importante e solenne, Eragon sarebbe stato nervoso, ma dopo l'ultimo combattimento ogni cosa aveva assunto una parvenza di irrealtà, come se non fosse altro che un sogno particolarmente vivido. Ai piedi della collina c'erano Nasuada, Arya, Narheim, Jörmundur, Angela, Elva e altri invitati di riguardo. Mancava re Orrin, poiché aveva riportato ferite più gravi del previsto e i guaritori si stavano ancora occupando di lui nel suo padiglione. A fare le sue veci c'era Irwin, il primo ministro.
Gli unici Urgali presenti erano le due guardie private di Nasuada. Eragon era lì quando la regina aveva invitato Nar Garzhvog al matrimonio, e aveva tratto un sospiro di sollievo quando l'ariete aveva avuto il buonsenso di declinare l'offerta. Gli abitanti del villaggio non avrebbero mai tollerato un folto gruppo di Urgali alle nozze. Già Nasuada aveva faticato parecchio a convincerli ad accettare le guardie.
In un fruscio di vesti, gli abitanti di Carvahall e i Varden si disposero su due file, formando un lungo corteo che si distendeva per tutta la collina, fino al capannello di invitati. Poi gli abitanti del villaggio cominciarono a intonare in coro gli antichi canti nuziali in uso nella Valle Palancar. Erano versi famosi, che parlavano del ciclo delle stagioni, della calda terra che ogni anno dà vita a un nuovo raccolto, della nascita dei vitelli a primavera, delle nidiate di pettirossi e delle uova deposte dai pesci, dei giovani destinati a prendere il posto dei più anziani. Uno degli stregoni di Blödhgarm, un'elfa con i capelli argentei, trasse una piccola arpa d'oro da una custodia di velluto e accompagnò i canti con note improvvisate, infiorettando il tema semplice delle melodie e infondendo una vena malinconica in quella musica familiare.
A passi lenti ma decisi, Roran e Katrina spuntarono ciascuno da un lato del corteo, si volsero verso la collina e, senza toccarsi, cominciarono ad avanzare verso Eragon. Roran indossava una tunica nuova, presa in prestito da uno dei Varden. Si era pettinato per bene, regolato la barba e ripulito gli stivali. Era raggiante; dal suo viso emanava una gioia indescrivibile. Tutto sommato, a Eragon parve bellissimo e molto elegante. Fu Katrina tuttavia a catturare la sua attenzione. Aveva un abito azzurro, come si confà a una sposa al primo matrimonio, di taglio semplice ma con uno strascico di pizzo lungo venti piedi sorretto da due bambine. In contrasto con la stoffa color pastello, la sua ricciuta chioma sciolta brillava come rame lucido. Tra le mani aveva un bouquet di fiori di campo. Era orgogliosa, serena e splendida.
Eragon sentì le donne trattenere il fiato mentre ne ammiravano lo strascico. Dando per scontato che fosse un regalo di Nasuada, decise che più tardi l'avrebbe ringraziata per avere chiesto al Du Vrangr Gata di confezionare l'abito da sposa per Katrina.
Tre passi dietro Roran veniva Horst. E alla stessa distanza dietro Katrina c'era Birgit, attenta a non calpestarle lo strascico.
Quando i due promessi giunsero a metà strada, dai salici che fiancheggiavano il fiume Jiet si levò in volo una coppia di colombe bianche con una ghirlanda di giunchiglie gialle tra le zampe. Via via che si avvicinavano, Katrina rallentò e poi si fermò. Gli uccelli disegnarono in volo tre cerchi sopra di lei, da nord a est, poi si abbassarono e prima di tornare al fiume le posarono la ghirlanda sulla testa.
«È stata una tua idea?» mormorò Eragon ad Arya.
L'elfa sorrise.
In cima alla collina, Roran e Katrina attesero immobili di fronte a Eragon che gli abitanti del villaggio terminassero di cantare. Mentre il ritornello finale sfumava, Eragon alzò le mani e disse: «Benvenuti a tutti voi. Siamo qui riuniti oggi per celebrare l'unione tra le famiglie di Roran Garrowsson e di Katrina Ismirasdaughter. Godono entrambi di ottima reputazione e a quanto mi risulta non hanno ricevuto altre proposte di matrimonio. Se così non fosse, tuttavia, o se esistesse qualsiasi altro motivo per cui non devono diventare marito e moglie, esprimete le vostre obiezioni davanti a questi testimoni, così che si possa giudicare la bontà di ciò che sostenete.» Eragon tacque per il tempo che ritenne necessario, poi continuò: «Chi parla a nome di Roran Garrowsson?»
Horst fece un passo avanti. «Roran non ha più un padre né uno zio, dunque sarò io, Horst Ostrecsson, a parlare per lui come se fosse sangue del mio sangue.»
«E chi parla a nome di Katrina Ismirasdaughter?»
Birgit fece un passo in avanti. «Katrina non ha più una madre né una zia, dunque sarò io, Birgit Mardrasdaughter, a parlare per lei come se fosse sangue del mio sangue.» Nonostante la vendetta contro Roran, per tradizione era suo diritto e anche sua responsabilità parlare per Katrina, poiché la madre della ragazza era stata una sua cara amica.
«Mi sembra giusto e appropriato. Che cosa porta Roran Garrowsson in questo matrimonio, così che lui e la moglie possano prosperare?»
«Porta il suo nome» rispose Horst. «Porta il suo martello. Porta la forza delle sue mani. E porta la promessa di una fattoria a Carvahall, dove potranno vivere entrambi in pace.»
Non appena i convenuti compresero le implicazioni di quelle parole, tra loro si diffuse lo sgomento: Horst aveva appena dichiarato in pubblico e nel modo più vincolante possibile che Roran non avrebbe mai consentito all'Impero di impedirgli di tornare a casa sua con Katrina e di darle la vita che avrebbe avuto se non fosse stato per Galbatorix e la sua sanguinosa intromissione. Aveva appena scommesso il proprio onore di uomo e di marito sulla caduta dell'Impero.
«Accetti questa offerta, Birgit Mardrasdaughter?» le chiese Eragon.
La fanciulla annuì. «Sì.»
«E che cosa porta Katrina Ismirasdaughter in questo matrimonio, così che lei e il marito possano prosperare?»
«Porta l'amore e la devozione con cui servirà Roran Garrowsson. Porta la sua abilità di massaia. E porta una dote.» Sorpreso, Eragon osservò Birgit fare un cenno a due uomini accanto a Nasuada, che avanzarono con un baule di metallo. Birgit girò la chiave nella chiusura, poi sollevò il coperchio e mostrò il contenuto a Eragon, che ammirò senza fiato il mucchio di gioielli. «Porta una collana d'oro tempestata di diamanti. Porta una spilla di corallo rosso del Mare del Sud e una retina per capelli di perle. Porta cinque anelli d'oro ed elettro. Il primo...» Via via che Birgit descriveva ogni pezzo, lo alzava a mezz'aria, così che tutti potessero vedere che stava dicendo la verità.
Strabiliato, Eragon scoccò un'occhiata a Nasuada e colse il suo sorriso compiaciuto.
Dopo che Birgit ebbe terminato la litania e richiuso a chiave il baule, Eragon chiese: «Accetti questa offerta, Horst Ostrecsson?»
«Sì.»
«E così, secondo le leggi della nostra terra, le vostre famiglie diventano una sola.» Poi si rivolse direttamente a Roran e a Katrina per la prima volta: «Coloro che parlano per voi si sono accordati sui termini del vostro matrimonio. Roran, sei soddisfatto del modo in cui Horst Ostrecsson ha condotto i negoziati a tuo nome?»
«Sì.»
«E tu, Katrina, sei soddisfatta del modo in cui Birgit Mardrasdaughter ha condotto i negoziati a tuo nome?»
«Sì.»
«Roran Fortemartello, figlio di Garrow, giuri dunque sul tuo nome e sulla tua stirpe di proteggere Katrina Ismirasdaughter e di provvedere a lei finché entrambi avrete vita?»
«Io, Roran Fortemartello, figlio di Garrow, giuro sul mio nome e sulla mia stirpe di proteggere Katrina Ismirasdaughter e provvedere a lei finché entrambi avremo vita.»
«Giuri di difendere il suo onore, di rimanerle fedele negli anni a venire e di trattarla con rispetto, dignità e gentilezza, come si conviene?»
«Giuro di difendere il suo onore, di restarle fedele negli anni a venire e di trattarla con rispetto, dignità e gentilezza, come si conviene.»
«E giuri di darle accesso ai tuoi beni, qualunque essi siano, e al forziere dove tieni il tuo denaro entro il tramonto di domani, così che possa cominciare a occuparsi dei tuoi affari come si conviene a una moglie?»
Roran giurò.
«Katrina, figlia di Ismira, giuri sul tuo nome e sulla tua stirpe di servire Roran Garrowsson e provvedere a lui finché entrambi avrete vita?»
«Io, Katrina, figlia di Ismira, giuro sul mio nome e sulla mia stirpe di servire Roran Garrowsson e provvedere a lui finché entrambi avremo vita.»
«Giuri di difendere il suo onore, di restargli fedele negli anni a venire, di portare in grembo i suoi figli finché potrai e di essere una madre premurosa?»
«Giuro di difendere il suo onore, di restargli fedele negli anni a venire, di portare in grembo i suoi figli finché potrò e di essere una madre premurosa.»
«E giuri di farti carico della sua ricchezza e dei suoi possedimenti e di amministrarli in maniera responsabile, così che lui possa concentrarsi su quegli incarichi che spettano a un marito?»
Katrina giurò.
Sorridendo, Eragon si sfilò un nastro dalla manica e disse: «Incrociate i polsi.» Roran e Katrina tesero rispettivamente il braccio sinistro e il destro e obbedirono. Eragon posò il nastro sui polsi, li avvolse nella banda di seta per tre volte, e poi ne legò le estremità con un fiocco. «Com'è mio diritto in qualità di Cavaliere dei Draghi, vi dichiaro marito e moglie!»
La folla esplose in acclamazioni. Quando Roran e Katrina si avvicinarono per baciarsi, l'entusiasmo raddoppiò.
Saphira protese la testa verso la coppia raggiante e non appena i due si separarono li toccò entrambi sulla fronte con la punta del muso. Possiate vivere a lungo e rafforzare il vostro amore di anno in anno, augurò loro.
Roran e Katrina si volsero verso la folla e alzarono al cielo le braccia unite. «Che il banchetto abbia inizio!» dichiarò lo sposo.
Eragon seguì la coppia, che discese il fianco della collina e si fece strada tra la calca urlante verso due sedie poste all'inizio di una fila di tavoli. Lì sedettero Roran e Katrina, re e regina del loro matrimonio.
Poi gli invitati si misero in coda per le congratulazioni e i regali. Eragon fu il primo. Con un sorriso ampio quanto il loro, strinse la mano libera di Roran e chinò la testa al cospetto di Katrina.
«Grazie» gli disse lei.
«Sì, grazie» convenne Roran.
«È stato un onore.» Li guardò entrambi, poi scoppiò a ridere.
«Che c'è?» gli chiese il cugino.
«Voi due! Siete felici come due sciocchi!»
Con uno sguardo scintillante, Katrina rise e abbracciò il marito. «È vero!»
Tornando serio, Eragon aggiunse: «Dovete sapere quanto siete fortunati a essere qui insieme oggi. Se Roran non fosse riuscito a radunare tutti e a convincerli a raggiungere le Pianure Ardenti, e se i Ra'zac avessero portato Katrina a Urû'baen, non avreste potuto...»
«È vero, ma per fortuna non è andata così» lo interruppe Roran. «Non rattristiamo questo giorno con pensieri spiacevoli su ciò che sarebbe potuto accadere.»
«Non era questo il mio intento.» Eragon osservò la fila di persone in attesa dietro di lui, assicurandosi che non fossero così vicine da sentire. «Noi tre siamo nemici dell'Impero. E oggi abbiamo avuto la riprova che non siamo al sicuro nemmeno tra i Varden. Appena possibile, Galbatorix colpirà ciascuno di noi, compresa te, Katrina, per ferire gli altri due. Ecco perché vi ho preparato questi.» Dalla sacca appesa alla cintura estrasse due semplici anelli d'oro, così lucidi che brillavano. La sera prima aveva fuso l'ultima delle tre sfere d'oro estratte dalla terra e li aveva modellati. Consegnò quello più grande a Roran e l'altro a Katrina.
Roran se lo rigirò tra le dita per esaminarlo, poi lo alzò al cielo, studiando con gli occhi socchiusi i segni nell'antica lingua incisi all'interno. «È bellissimo, ma in che modo ci proteggerà?»
«Ho evocato tre incantesimi» rispose Eragon. «Per prima cosa, se mai avrete bisogno del mio aiuto o di quello di Saphira, fate girare l'anello intorno al dito una volta e pronunciate queste parole: "Aiutami, Ammazzaspettri; aiutami, Squamediluce", e noi vi sentiremo e accorreremo più veloci possibile. Poi, se uno di voi due è in pericolo di vita, il vostro anello avviserà noi e l'altro, quello che non è in pericolo. Infine, finché porterete gli anelli al dito, saprete sempre dove trovare l'altro, per quanto lontani possiate essere...» Eragon esitò, poi aggiunse: «Spero che accetterete di portarli.»
«Ma certo» rispose Katrina.
Roran gonfiò il petto e gli si strozzò la voce. «Grazie» disse. «Grazie. Magari li avessimo avuti prima di essere separati a Carvahall...»
Poiché avevano solo una mano libera ciascuno, Katrina aiutò Roran e gli infilò l'anello sul dito medio della mano destra, e lui fece altrettanto con la mano sinistra della fanciulla.
«Ho anche un altro regalo per voi» proseguì Eragon. Si volse, fischiò e agitò la mano. Facendosi strada tra la folla, arrivò di corsa un palafreniere che teneva Fiammabianca per le briglia. Consegnò le redini dello stallone al Cavaliere, poi fece un inchino e si congedò. «Roran, ti servirà un buon cavallo» iniziò Eragon. «Ti presento Fiammabianca. È stato prima di Brom, poi mio, e adesso lo voglio dare a te.»
Roran lo guardò con molta attenzione. «È una bestia magnifica.»
«La più bella che ci sia. Lo accetterai?»
«Con piacere.»
Eragon richiamò il palafreniere e riaffidò Fiammabianca alle sue cure, spiegandogli che adesso il nuovo proprietario era Roran. Non appena l'uomo e il cavallo si furono allontanati, Eragon guardò le persone in fila con i regali per i due sposi. Ridendo, disse: «Se stamattina eravate poveri, prima di stasera sarete ricchi sfondati. Se io e Saphira riusciremo mai a sistemarci, verremo a vivere con voi nel gigantesco palazzo che costruirete per tutti i vostri figli.»
«Per quanto grande lo possiamo fare, dubito che basterà a contenere un drago» rispose Roran.
«Ma sarete sempre i benvenuti» aggiunse Katrina. «Tutti e due.»
Dopo essersi congratulato con loro ancora una volta, Eragon si nascose in fondo a un tavolo e si divertì a lanciare pezzetti di pollo arrosto a Saphira e a guardarla addentarli al volo. Rimase al banchetto finché Nasuada non ebbe parlato con i due sposi e consegnato loro qualcosa di piccolo, che però non riuscì a vedere. Incrociò la regina mentre se ne stava andando.
«Che c'è, Eragon?» gli chiese. «Non posso restare.»
«Sei stata tu a dare a Katrina l'abito e la dote?»
«Sì. Disapprovi?»
«Ti sono grato perché sei stata così gentile con la mia famiglia, ma mi chiedo...»
«Sì?»
«I Varden non sono a corto di fondi?»
«Sì» rispose Nasuada, «ma non come prima. Da quando ho avuto l'idea di vendere il merletto a poco prezzo e ho trionfato nella Prova dei Lunghi Coltelli, ottenendo l'assoluta fedeltà delle tribù nomadi, che mi hanno anche consentito l'accesso alle loro ricchezze, abbiamo più probabilità di morire in guerra perché ci manca uno scudo o una lancia che non di fame.» Arricciò le labbra in un sorriso. «Ciò che ho dato a Katrina non è nulla in confronto alle enormi somme di denaro di cui ha bisogno questo esercito per funzionare. E non penso di avere scialacquato il mio oro. Anzi, credo di aver concluso un ottimo affare. Ho acquistato prestigio e rispetto presso Katrina e di conseguenza anche la benevolenza di Roran. Forse sono troppo ottimista, ma ho il sospetto che la sua fedeltà si dimostrerà più preziosa di un centinaio di scudi o di lance.»
«Cerchi sempre di migliorare le prospettive dei Varden, vero?»
«Sempre. E dovresti farlo anche tu.» Nasuada si allontanò, poi tornò sui suoi passi e aggiunse: «Prima del tramonto vieni nel mio padiglione: andremo a trovare gli uomini che sono rimasti feriti oggi. Lo sai, molti non possiamo guarirli. Farà loro bene vedere che abbiamo a cuore la loro salute e che ne apprezziamo il sacrificio.»
Eragon annuì. «Ci sarò.»
«Bene.»
Eragon trascorse ore a ridere, mangiare e scambiare storie con i vecchi amici. L'idromele scorreva a fiumi e il ricevimento di nozze si fece ancora più chiassoso. Facendo spazio tra i tavoli, gli uomini dimostrarono il loro valore sfidandosi a incontri di lotta, gare di tiro con l'arco e di bastoni con la punta ferrata. Due elfi, un uomo e una donna, si dimostrarono abili spadaccini e strabiliarono il pubblico con la velocità e la grazia della loro danza a colpi di lama. Quando perfino Arya acconsentì a eseguire una canzone, Eragon sentì un brivido correre lungo la schiena.
Roran e Katrina parlavano poco; preferivano stare seduti e contemplarsi a vicenda, dimentichi di ciò che li circondava.
Quando il bordo del sole arancio toccò il remoto orizzonte, tuttavia, Eragon si congedò, seppur con riluttanza. Con Saphira al fianco, abbandonò la rumorosa baldoria e si incamminò verso il padiglione di Nasuada, respirando a pieni polmoni la fresca aria della sera per schiarirsi le idee. Nasuada lo aspettava davanti alla tenda rossa; i Falchineri erano radunati lì vicino. Senza una parola, lei, Eragon e la dragonessa attraversarono l'accampamento fino alle tende dei guaritori, dove giacevano i guerrieri feriti.
Per più di un'ora Nasuada ed Eragon si intrattennero con chi aveva perso un arto o la vista o aveva contratto un'infezione incurabile combattendo contro l'Impero. Qualcuno era stato ferito al mattino. Altri, come scoprì Eragon, nonostante le erbe e gli incantesimi distribuiti a profusione, ancora non si erano ripresi dalla battaglia delle Pianure Ardenti. Benché prima di avviarsi insieme a lui tra le file di uomini avvolti nelle coperte Nasuada lo avesse messo in guardia, chiedendogli di non dissipare le sue energie nel tentativo di guarire tutti, Eragon non riuscì a trattenersi dal borbottare qualche incantesimo qua e là, almeno per alleviare il dolore, curare un ascesso, saldare un osso fratturato o cancellare un'orrenda cicatrice.
Incontrò un uomo che aveva perso la gamba sinistra dal ginocchio in giù e due dita della mano destra. Aveva il pizzetto grigio e gli occhi coperti da una benda nera. Quando Eragon lo salutò e gli chiese come stava, lui lo afferrò per il gomito con le tre dita rimaste e gli disse con voce roca: «Ah, Ammazzaspettri. Sapevo che saresti venuto. È da quando ho visto la luce che ti aspetto.»
«Che vuoi dire?»
«La luce che ha illuminato il mondo. In un solo istante ho visto ogni cosa vivente intorno a me, dalla più grande alla più piccola. Ho visto le ossa risplendere dentro le mie braccia. Ho visto i vermi nella terra, le cornacchie nel cielo e gli acari in mezzo alle loro ali. Sono stato scelto dagli dei, Ammazzaspettri. Se mi hanno concesso questa visione, un motivo c'è. Vi ho visti sul campo di battaglia, tu e il tuo drago; parevi un sole abbagliante in una moltitudine di fioche candele. E poi ho visto tuo fratello, sì, tuo fratello e il suo drago, e anche loro due parevano un sole.»
Mentre ascoltava, a Eragon si drizzarono i peli sul collo. «Non ho fratelli, io» rispose.
Lo spadaccino menomato ridacchiò. «Non pensare di Prenderti gioco di me, Ammazzaspettri. Io la so lunga. Il mondo brucia intorno a me; dal fuoco sento i sussurri dei pensieri altrui, ed è da quei sussurri che apprendo tante cose. Adesso ti nascondi da me, ma ti vedo comunque: sei un uomo dalla fiamma gialla, con dodici stelle che ti fluttuano attorno alla vita e un'altra, più luminosa delle altre, sulla mano destra.»
Eragon premette il palmo contro la cintura di Beloth il Savio per verificare che i dodici diamanti cuciti all'interno fossero ancora nascosti. Sì, c'erano.
«Ascoltami, Ammazzaspettri» sussurrò l'uomo, attirandolo verso il suo viso rugoso. «Ho visto tuo fratello, e lui bruciava. Ma non come te. Oh, no. La luce dalla sua anima non gli brillava da dentro, ma attraverso, come se provenisse da fuori. Dentro era vuoto, era solo il guscio di un uomo, nient'altro. E quel fulgore lo trapassava. Capisci? Altri lo illuminavano.»
«E dov'erano questi altri? Li hai visti?»
Il guerriero esitò. «Li sentivo vicini, infuriati contro il mondo intero, come se odiassero ogni cosa, ma non riuscivo a vedere i loro corpi. C'erano e non c'erano, insomma. Non te lo so spiegare meglio... Non volevo avvicinarmi più di così a quelle creature, Ammazzaspettri. Non erano umane, di questo sono sicuro, e il loro odio somigliava alla più violenta tempesta mai vista racchiusa in una minuscola bottiglia.»
«E quando il vetro si romperà...» sussurrò Eragon.
«Già, Ammazzaspettri. A volte mi chiedo se Galbatorix non sia riuscito a catturare addirittura le divinità in persona e a ridurle in schiavitù, ma poi scoppio a ridere e mi dico che sono pazzo.»
«Quali divinità? Quelle dei nani? Quelle delle tribù nomadi?»
«Che differenza fa, Ammazzaspettri? Una divinità è pur sempre una divinità, poco importa da dove viene.»
Eragon borbottò: «Forse hai ragione.»
Quando si allontanò dal giaciglio dell'uomo, una delle guaritrici lo prese da parte e gli disse: «Perdonalo, mio signore. A causa delle gravi ferite è quasi uscito di senno. Non fa che delirare, sostiene di vedere soli, stelle e luci scintillanti. A volte sembra che sappia cose che non dovrebbe, ma non farti ingannare, è solo che le sente dagli altri pazienti. Chiacchierano tutto il tempo, sai? Non hanno altro da fare, poveretti.»
«Prima di tutto io non sono il tuo signore, e poi quell'uomo non è pazzo» rispose Eragon. «Che cosa sia non lo so per certo, ma possiede un dono straordinario. Se migliora o peggiora, ti prego di informare il Du Vrangr Gata.»
La guaritrice fece un inchino. «Come desideri, Ammazzaspettri. Ti chiedo perdono per il mio errore.»
«Com'è stato ferito?»
«Si è mozzato le dita cercando di fermare la spada di un soldato con la mano. Poi uno dei proiettili delle catapulte dell'Impero gli è finito sulla gamba, frantumandogliela. Siamo stati costretti ad amputargliela. Chi era accanto a lui ha detto che non appena è stato colpito, ha cominciato a gridare qualcosa a proposito di una certa luce e quando l'hanno soccorso hanno notato che aveva gli occhi bianchi. Non aveva più nemmeno le pupille.»
«Ah. Mi sei stata di grande aiuto. Grazie.»
Quando Eragon e Nasuada lasciarono le tende dei guaritori, era buio. La regina sospirò e disse: «Adesso mi andrebbe proprio una tazza di idromele.» Eragon annuì, lo sguardo fisso a terra. Tornarono al padiglione rosso e dopo un po' Nasuada gli chiese: «A cosa stai pensando?»
«Viviamo in un mondo strano, e se riuscirò a comprenderne anche solo una minima parte potrò ritenermi fortunato.» Poi le raccontò della conversazione con l'uomo ferito, e anche Nasuada la trovò interessante.
«Dovresti parlarne con Arya» gli suggerì. «Forse lei sa chi potrebbero essere questi "altri" di cui parlava.»
Arrivati al padiglione, si separarono. Nasuada andò a finire di leggere un rapporto, mentre Eragon proseguì verso la sua tenda, seguito da Saphira. La dragonessa si accucciò e si preparò a dormire. Lui le si sedette accanto e si mise a fissare le stelle, mentre davanti agli occhi gli sfilava una parata di uomini feriti in marcia.
Ciò che molti di loro gli avevano detto continuava a echeggiargli nella mente: Abbiamo combattuto per te, Ammazzaspettri.
♦ ♦ ♦
SUSSURRI NELLA NOTTE
Roran aprì gli occhi e fissò la tela che gli pendeva sopra la testa. La tenda era pervasa da una sottile luce grigia, che privava gli oggetti del loro colore e tramutava ogni cosa in una pallida ombra della propria versione diurna. Rabbrividì. Le coperte gli erano scivolate fino alla vita e aveva il busto esposto all'aria gelida della notte. Nel risistemarle si accorse che Katrina non era più al suo fianco.
La vide seduta vicino all'ingresso della tenda, a fissare il cielo, avvolta in un mantello. I capelli le ricadevano fino alla base della schiena come un intricato, scuro ammasso di rovi.
Nel guardarla, Roran si sentì un nodo in gola.
Portando con sé le coperte, andò a sedersi accanto a lei. Le cinse le spalle con un braccio, e Katrina gli posò la testa e il collo contro il petto. Roran ne avvertì il calore. La baciò sulla fronte. Contemplò a lungo le stelle lucenti insieme a lei e ne ascoltò il ritmo regolare del respiro: insieme al suo, era l'unico suono percepibile in quel mondo addormentato.
Poi Katrina sussurrò: «Le costellazioni hanno una forma diversa qui. L'avevi notato?»
«Sì.» Roran spostò il braccio e seguì la curva della sua vita, avvertendo il lieve gonfiore della pancia che cresceva. «Perché ti sei svegliata?»
Lei rabbrividì. «Stavo pensando.»
«Oh.»
Katrina, senza sciogliersi dall'abbraccio, si voltò a guardarlo; negli occhi le brillava la luce delle stelle. «Stavo pensando a te e a noi... e al nostro futuro insieme.»
«Sono pensieri impegnativi, vista l'ora tarda.»
«Adesso che siamo sposati, come pensi di provvedere a me e al bambino?»
«È questo che ti preoccupa?» Le sorrise. «Non morirai di fame; abbiamo oro a sufficienza. E i Varden si preoccuperanno che i cugini di Eragon abbiano sempre vitto e alloggio garantiti. Anche se dovesse succedermi qualcosa, continueranno a prendersi cura di te e di nostro figlio.»
«Sì, ma tu cos'hai intenzione di fare?»
Confuso, Roran la scrutò alla ricerca del motivo di tanta agitazione. «Aiuterò Eragon a porre fine a questa guerra, così potremo tornare nella Valle Palancar e sistemarci laggiù senza dover temere che i soldati ci portino a Urû'baen. Che altro dovrei fare?»
«Allora combatterai con i Varden?»
«Sì, lo sai.»
«Se Nasuada ti avesse dato il permesso, lo avresti fatto anche oggi?»
«Sì.»
«Ma che ne sarà del nostro bambino? Un esercito in marcia non è un ambiente adatto per crescere un figlio.»
«Non possiamo fuggire e nasconderci dall'Impero, Katrina. A meno che i Varden non vincano, Galbatorix ci scoverà e ci ucciderà, noi e i nostri figli e i figli dei nostri figli. E credo che i Varden potranno vincere solo se tutti faranno il possibile per aiutarli.»
Katrina gli posò un dito sulle labbra. «Sei il mio unico amore. Nessun altro uomo avrà mai il mio cuore. Farò tutto quanto è in mio potere per renderti la vita meno gravosa. Cucinerò per te, ti rammenderò i vestiti e ti pulirò l'armatura... Ma quando avrò partorito, me ne andrò da questo esercito.»
«Te ne andrai?» Roran si irrigidì. «Sciocchezze! E dove, sentiamo?»
«A Dauth, forse. Ricorda, Lady Alarice ci ha offerto ospitalità, e poi qualcuno di noi è rimasto là. Non sarei da sola.»
«Se pensi che permetterò a te e alla nostra creatura appena nata di attraversare Alagaësia da soli, allora...»
«Non c'è bisogno di gridare.»
«Non sto...»
«Invece sì.» Stringendogli le mani e premendosele sul cuore, gli disse: «Qui non è sicuro. Se fossimo solo noi due, accetterei il pericolo, ma è in gioco la vita del nostro bambino. Ti amo, Roran, ti amo tanto, ma nostro figlio deve venire prima di qualunque cosa vogliamo per noi stessi. Altrimenti non meritiamo di essere genitori.» Aveva gli occhi lucidi, e anche lui sentì i suoi inumidirsi. «Dopotutto, quando i soldati ci hanno attaccato, sei stato tu a convincermi a lasciare Carvahall per nasconderci nella Grande Dorsale. Adesso è lo stesso.»
Roran, con gli occhi appannati, vide le stelle tremolare. «Preferirei perdere un braccio che separarmi un'altra volta da te.»
A quel punto Katrina cominciò a piangere, il corpo scosso da silenziosi singhiozzi. «Nemmeno io voglio lasciarti.»
Roran la strinse più forte a sé e la cullò. Quando Katrina cessò di piangere, le sussurrò all'orecchio: «Preferirei perdere un braccio che separarmi da te, ma preferirei morire piuttosto che permettere che facciano del male a te... o al nostro bambino. Se te ne vuoi andare, fallo ora, finché ancora riesci a viaggiare senza difficoltà.»
Katrina scosse la testa. «No. Voglio che sia Gertrude a farmi da levatrice. Mi fido solo di lei. E se dovessi avere qualche problema preferisco che sia qui, dove ci sono maghi esperti nella cura delle persone.»
«Vedrai, andrà tutto bene» disse Roran. «Appena nostro figlio sarà nato, ti trasferirai ad Aberon, non a Dauth: ci sono meno probabilità che venga attaccata. E se anche lì dovesse diventare troppo pericoloso, allora andrai sui Monti Beor e vivrai con i nani. E se Galbatorix colpirà anche loro, andrai dagli elfi nella Du Weldenwarden.»
«E se Galbatorix attaccherà anche la foresta, volerò sulla luna e crescerò nostro figlio tra gli spiriti celesti.»
«Che si inchineranno al tuo cospetto e ti nomineranno loro regina, come meriti.»
Gli si accoccolò più vicina.
Rimasero seduti a osservare le stelle svanire dal cielo, una dopo l'altra, oscurate dal bagliore che si diffondeva a oriente. Quando fu rimasta solo la stella del mattino, Roran disse: «Lo sai cosa significa questo, vero?» «Cosa?»
«Che dovrò fare in modo di uccidere i soldati di Galbatorix fino all'ultimo, di occupare tutte le città dell'Impero, di sconfiggere Murtagh e Castigo e decapitare il re e il suo drago traditore prima che comincino le doglie. Così non dovrai più partire.»
Katrina rimase in silenzio per un momento, poi rispose: «Se ci riuscissi, ne sarei molto felice.»
Stavano per tornare a letto quando nel cielo scintillante videro veleggiare una nave in miniatura, fatta di fili d'erba secchi. Fluttuò davanti alla loro tenda, rollando su invisibili onde d'aria: sembrava quasi che la prua a forma di testa di drago li stesse guardando.
Roran rimase pietrificato, e anche Katrina.
Come una creatura vivente, la nave si lanciò lungo il sentiero che conduceva alla loro tenda, poi prese a girarle tutto intorno a caccia di una falena vagante. Quando la falena le sfuggì, la nave tornò indietro e si fermò a pochi pollici dal viso di Katrina.
Prima che Roran decidesse se afferrarla o meno, la piccola nave si voltò e volò via verso la stella del mattino: svanì di nuovo nell'infinito oceano celeste, lasciandoli lì a fissarla stupefatti.
♦ ♦ ♦
ORDINI
Quella sera tardi, visioni di morte e violenza si radunarono ai margini dei sogni di Eragon e il panico minacciò di sopraffarlo. Si agitava insofferente, voleva svegliarsi ma non ci riusciva. Immagini fugaci e sconnesse gli balenarono davanti agli occhi: spade che trafiggono, uomini che urlano, e il volto arrabbiato di Murtagh.
Poi sentì Saphira entrargli nella mente e passare nei suoi sogni come un forte vento, spazzando via quell'incubo minaccioso. Nel silenzio che calò, gli sussurrò: Va tutto bene, piccolo. Riposa tranquillo; sei al sicuro, ci sono io con te... Riposa tranquillo.
Un senso di profonda pace si insinuò in Eragon, che si rigirò e si perse in ricordi più felici. Era bello sapere che Saphira era con lui.
Quando aprì gli occhi, un'ora prima del sorgere del sole, si ritrovò disteso sotto una delle ali venate di Saphira. La dragonessa l'aveva avvolto con la coda; ne sentiva il fianco caldo contro la testa. Mentre lei alzava il capo e sbadigliava, Eragon sorrise e sgattaiolò fuori.
Buongiorno, le disse.
Saphira sbadigliò di nuovo e si stirò come un gatto.
Eragon fece il bagno, si rase con l'aiuto della magia, ripulì il fodero del
falcione dal sangue rappreso del giorno prima e poi infilò una delle sue tuniche elfiche.
Soddisfatto del risultato, dopo che Saphira ebbe finito le abluzioni mattutine si incamminò insieme a lei verso il padiglione di Nasuada. Tutti e sei i Falchineri di turno erano schierati fuori, la solita espressione truce sui visi rugosi. Eragon attese che un nano robusto li annunciasse, poi entrò; Saphira invece strisciò fino al lembo di stoffa aperto all'ingresso e vi infilò la testa, pronta a prendere parte alla discussione.
Eragon si inchinò al cospetto di Nasuada, seduta sull'alto scranno decorato con motivi di cardi in fiore. «Mia signora, mi hai chiesto di venire qui per parlare del mio futuro; hai detto che avevi un'importante missione da affidarmi.»
«Sì, è vero» rispose lei. «Prego, siedi.» Gli indicò uno sgabello pieghevole lì vicino. Inclinando la spada che aveva in vita così che non lo intralciasse, Eragon prese posto. «Come sai, Galbatorix ha inviato dei battaglioni nelle città di Aroughs, Feinster e Belatona nel tentativo di impedirci di prenderle d'assedio o perlomeno di rallentare la nostra avanzata e costringerci a dividere le truppe così che fossimo più vulnerabili ai soldati accampati a nord. Dopo la battaglia di ieri, i nostri esploratori ci hanno informato che gli ultimi uomini di Galbatorix si sono ritirati verso destinazioni sconosciute. Era mia intenzione attaccarli giorni fa, ma non l'ho fatto perché tu non c'eri. Senza di te, Murtagh e Castigo avrebbero massacrato i nostri guerrieri impunemente; non avevamo nemmeno modo di scoprire se drago e Cavaliere erano tra i soldati. Ora che sei di nuovo con noi, per certi versi la nostra posizione è migliorata, benché non quanto avessi sperato, dato che adesso dobbiamo anche affrontare l'ultima trovata di Galbatorix: gli uomini che non provano dolore. L'unica cosa incoraggiante è che voi due, insieme agli stregoni di Islanzadi, avete dimostrato di essere in grado di respingere Murtagh e Castigo. È su questa speranza che si regge il nostro piano in vista della vittoria finale.»
Quel piccoletto rosso non è alla mia altezza, commentò Saphira. Se non ci fosse Murtagh a proteggerlo, lo bloccherei a terra e lo scuoterei per la collottola finché non si arrende e non accetta la mia vittoria.
«Ne sono sicura» disse Nasuada.
«Che cosa intendi fare, allora?» le chiese Eragon.
«Ci sono diverse alternative, e se vogliamo che qualcuna si riveli efficace dobbiamo intraprenderle tutte ad un tempo. Per prima cosa, non possiamo spingerci oltre all'interno del territorio nemico lasciando dietro di noi città di cui Galbatorix ha ancora il controllo. Significherebbe esporci ad attacchi da più parti e invitare il tiranno a invadere il Surda in nostra assenza. Dunque ho già ordinato ai Varden di marciare verso nord fino al guado più vicino e sicuro del fiume Jiet. Una volta attraversato il fiume, manderò dei guerrieri a espugnare la città di Aroughs a sud, mentre re Orrin e io avanzeremo con il resto delle forze fino a Feinster che, con l'aiuto tuo e di Saphira, soccomberà senza troppi sforzi.
«Mentre noi saremo impegnati nel noioso compito di attraversare la campagna, ho altre responsabilità da affidarti, Eragon.» Si sporse verso di lui dallo scranno. «Abbiamo bisogno del pieno appoggio dei nani. Gli elfi stanno combattendo nel nord di Alagaësia, i surdani si sono uniti a noi nel corpo e nella mente e perfino gli Urgali sono nostri alleati. Ma abbiamo bisogno dei nani. Senza di loro non ce la faremo mai. Soprattutto adesso che dobbiamo vedercela con soldati che non temono il dolore.»
«I nani hanno già scelto un nuovo re o una nuova regina?»
Nasuada fece una smorfia. «Narheim mi assicura che stanno procedendo spediti, ma come gli elfi, anche i nani hanno una concezione del tempo più dilatata della nostra. Procedere spediti per loro potrebbe significare mesi di consultazioni.»
«Non comprendono l'urgenza della situazione?»
«Alcuni sì, ma molti sono contrari ad aiutarci in questa guerra e cercano di ritardare le operazioni il più possibile nella speranza di insediare uno di loro sul trono di marmo di Tronjheim. I nani sono vissuti in clandestinità così a lungo che sono diventati pericolosamente sospettosi verso gli altri popoli. Se dovesse salire al trono un sovrano ostile ai nostri progetti, addio alleanza. Non possiamo permettere che ciò accada. E non possiamo nemmeno aspettare che risolvano le loro contese nei tempi consueti. Ma...» - e alzò un dito - «... da qui non posso intervenire in modo efficace nelle loro scelte politiche: sono troppo lontana. E anche se fossi a Tronjheim, non potrei garantire un risultato a noi favorevole; i nani non vedono di buon occhio che un estraneo si immischi nelle loro faccende di governo. Dunque voglio che tu vada a Tronjheim a nome mio e faccia il possibile per assicurare che scelgano un nuovo monarca in fretta, uno che sia solidale alla nostra causa.»
«Io? Ma...»
«Re Rothgar ti ha adottato nel Dûrgrimst Ingeitum. Secondo le loro leggi e tradizioni, sei un nano a tutti gli effetti, Eragon. Hai il diritto di partecipare agli incontri del clan, e poiché Orik è stato nominato loro capo ed è il tuo fratello adottivo oltre che un amico dei Varden, sono certa che ti consentirà di accompagnarlo ai concili segreti durante i quali verrà eletto il nuovo reggente.»
A Eragon parve una proposta assurda. «E Murtagh e Castigo? Torneranno, ne sono sicuro, e io e Saphira siamo gli unici in grado di tenere loro testa, seppure con qualche aiuto. Se non saremo qui, nessuno potrà impedire loro di uccidere te, Orrin o Arya e il resto dei Varden.»
Nasuada si accigliò. «Hai inflitto a Murtagh una cocente sconfitta. Con ogni probabilità, mentre stiamo parlando, lui e Castigo volano verso Urû'baen: Galbatorix vorrà interrogarli sulla battaglia e li punirà per avere fallito. Non li rimanderà qui ad attaccarci finché non sarà sicuro che sono in grado di battervi. Di certo ora Murtagh non è più tanto convinto dei veri limiti della tua forza, dunque quell'infausto evento potrebbe essere ancora lontano. Prima di allora, credo che avrai abbastanza tempo per andare e tornare dal Farthen Dûr.»
«Potresti sbagliarti» azzardò Eragon. «E poi come farai a impedire che Galbatorix venga a sapere della nostra assenza e che vi attacchi mentre noi siamo lontani? Dubito che tu abbia snidato tutte le spie che ha disseminato tra noi.»
Nasuada tamburellò con le dita sui braccioli dello scranno. «Ho ordinato a te di andare nel Farthen Dûr, Eragon. Non ho detto che voglio che venga anche Saphira.» La dragonessa volse la testa ed emise una nuvoletta di fumo che si levò verso il punto più alto della tenda.
«Non ho alcuna inten...»
«Lasciami finire.»
Eragon allora serrò la mascella e fissò Nasuada, stringendo la mano sul pomolo del falcione.
«Benché non abbia giurato fedeltà a me, Saphira, la mia speranza è che tu possa accettare di restare qui mentre Eragon andrà dai nani, così da ingannare l'Impero e gli stessi Varden sui suoi spostamenti. Se riusciremo a nascondere la tua partenza ai più» disse, stavolta rivolta a Eragon, «nessuno avrà motivo di sospettare che non sei qui. Dovremo solo escogitare una scusa plausibile per giustificare il tuo improvviso desiderio di restare chiuso nella tua tenda di giorno. Potremmo dire che tu e Saphira state facendo delle sortite notturne in territorio nemico e che quindi dovete riposare quando il sole è alto. Cosa ve ne pare?
«Perché lo stratagemma funzioni, tuttavia, anche Blödhgarm e i suoi compagni dovranno restare qui, sia per evitare di destare sospetti sia per motivi di sicurezza. Se Murtagh e Castigo dovessero ricomparire mentre tu non ci sei, Arya potrà prendere il tuo posto in sella a Saphira. Tra lei, gli stregoni di Blödhgarm e i maghi del Du Vrangr Gata, dovremmo avere ottime probabilità di successo.»
«Se Saphira non mi accompagna nel Farthen Dûr, come farò ad arrivare laggiù in un tempo ragionevole?» rispose Eragon, acido.
«Correndo. Mi hai detto tu stesso che hai coperto gran parte della strada dall'Helgrind a qui di corsa. Mi aspetto che, non dovendoti nascondere da soldati o contadini, tu possa coprire molte più leghe ogni giorno.» Nasuada tamburellò di nuovo con le dita sul legno lustro dello scranno. «Certo, andare da solo sarebbe una follia. Se non c'è nessuno ad aiutarlo, perfino un potente mago può morire per un banale contrattempo nei remoti recessi delle terre selvagge. Ma sarebbe uno spreco se ti facessi accompagnare da Arya: le sue qualità mi servono qui. Se invece a sparire senza ragione fosse uno degli elfi di Blödhgarm, se ne accorgerebbero subito tutti. Quindi ho deciso che ti assisterà un Kull, poiché sono le uniche creature in grado di tenere il tuo passo.»
«Un Kull!» esclamò Eragon, incapace di trattenersi. «Mi vorresti mandare dai nani insieme a un ariete? Non so dire quale razza detestino di più. Strappano loro le corna per farne archi! Se entrassi nel Farthen Dûr con un Urgali, i nani non ascolterebbero una sola parola di ciò che ho da dire.»
«Lo so bene» rispose Nasuada. «Ecco perché non andrai subito a Tronjheim. Prima ti fermerai alla Rocca di Bregan, sul monte Thardûr, l'ancestrale dimora dell'Ingemmi. Lì tu e il Kull vi separerete e tu proseguirai verso il Farthen Dûr con Orik.»
Fissando un punto oltre Nasuada, Eragon disse: «E se non sono d'accordo con il cammino che hai scelto per me? E se sono convinto che ci siano modi più sicuri per esaudire ciò che mi chiedi?»
«E quali sarebbero, di grazia?» domandò Nasuada, con la mano a mezz'aria.
«Ci devo pensare, ma sono certo che ci sono.»
«Ci ho già pensato io, Eragon, e a lungo, anche. Che tu mi faccia da emissario è la nostra unica speranza di influenzare la scelta dei nani. Sono cresciuta tra loro, ricordatelo, e li capisco meglio della maggior parte degli esseri umani.»
«Sono sempre dell'idea che sia un errore» borbottò Eragon. «Manda Jörmundur, piuttosto, o un altro dei tuoi comandanti. Io non ci andrò, almeno non finché...»
«Non ci andrai?» ripeté Nasuada, alzando la voce. «Un vassallo che disobbedisce al proprio signore non è certo meglio di un guerriero che ignora il suo capitano sul campo di battaglia, e può essere punito allo stesso modo. In qualità di tua signora, dunque, ti ordino di correre fino al Farthen Dûr, che tu lo voglia oppure no, e assistere alla scelta del prossimo reggente dei nani.»
Furioso, Eragon respirava pesantemente dal naso e continuava a stringere e lasciare il pomolo del falcione.
In tono più pacato ma comunque circospetto, Nasuada aggiunse: «Che cosa farai, Eragon? Eseguirai i miei ordini o vuoi spodestarmi e assumere il comando dei Varden? Non hai altre possibilità.»
Turbato, Eragon rispose: «No, con te si può ragionare. Ti posso convincere in altri modi.»
«Invece no, perché non esiste un'alternativa che abbia le stesse probabilità di successo.»
Eragon incrociò il suo sguardo. «Potrei rifiutarmi di eseguire gli ordini e accettare la punizione che riterrai più opportuna.»
Quel suggerimento la lasciò sbalordita. Poi rispose: «Vederti legato a un palo e frustato sarebbe un danno irreparabile per i Varden. E distruggerebbe la mia autorità, perché tutti capirebbero che mi puoi sfidare come e quando vuoi, rimendiando soltanto una manciata di tagli che potresti guarire un istante dopo, dal momento che non possiamo condannarti a morte come faremmo con un qualunque guerriero che disobbedisce a un superiore. Preferirei abdicare e consegnarti il comando dei Varden che permettere una cosa simile. Se credi di poter ricoprire questo ruolo meglio di me, allora prendilo; prendi il mio trono e proclamati generale in capo dell'esercito! Ma finché parlerò a nome dei Varden, ho il diritto di prendere certe decisioni. Se si riveleranno un errore, la responsabilità è comunque mia.»
«Non vuoi proprio ascoltare nessun consiglio?» le chiese Eragon, preoccupato. «Vuoi imporre il tuo volere sui Varden noncurante di ciò che ti suggerisce chi ti sta intorno?»
Nasuada batté l'unghia del dito medio sul legno lustro dello scranno. «Certo che li ascolto, i consigli. Ne ascolto un fiume continuo ogni ora, se è per quello, ma talvolta le conclusioni a cui arrivo non corrispondono a quelle dei miei sottoposti. Ora devi decidere se vuoi mantenere il tuo giuramento di fedeltà verso di me e rispettare la mia decisione, benché tu non sia d'accordo, o se vuoi comportarti a immagine e somiglianza di Galbatorix.»
«Voglio solo ciò che è meglio per i Varden» insisté Eragon.
«Anch'io.»
«Non mi lasci altra scelta se non quella che non condivido.»
«A volte è più difficile eseguire un ordine che comandare.»
«Posso pensarci un momento?»
«Certo.»
Saphira, chiamò.
Quando la dragonessa curvò il collo e fissò Eragon negli occhi, mille macchioline di luce viola presero a danzare dentro il padiglione. Sì, piccolo mio?
Devo andare?
Secondo me sì.
Eragon strinse le labbra in una rigida linea. E tu?
Sai che detesto separarmi da te, ma le argomentazioni di Nasuada sono ben ponderate. Se restando con i Varden posso contribuire a tenere lontani Murtagh e Castigo, allora forse è giusto che tu parta.
Le emozioni di entrambi scorrevano da una mente all'altra a ondate, in un flusso condiviso di rabbia, attesa, riluttanza e tenerezza. La rabbia e la riluttanza fluivano da Eragon; da Saphira, invece, provenivano sentimenti più dolci ma altrettanto complessi, che placarono la collera di Eragon e gli aprirono prospettive che altrimenti non avrebbe mai colto. Tuttavia Eragon ribadì con cocciuta insistenza la propria ostilità al piano di Nasuada. Se mi accompagni nel Farthen Dûr non starò via tanto a lungo, e Galbatorix avrà meno opportunità di sferrare un nuovo assalto.
Ma le sue spie gli riveleranno che i Varden sono vulnerabili non appena saremo partiti.
Non voglio separarmi ancora da te dopo l'Helgrind; è passato troppo poco tempo.
Nemmeno io voglio separarmi da te, ma i nostri desideri non possono avere la precedenza sui bisogni dei Varden. Ricordati di ciò che ha detto Oromis: la prodezza di un drago e del suo Cavaliere si misura non solo dall'intesa che hanno quando sono insieme, ma anche da ciò che riescono a fare separati. Siamo entrambi abbastanza maturi da agire indipendentemente l'uno dall'altra, Eragon, per quanto l'idea non ci piaccia. L'hai dimostrato tu stesso in occasione del tuo viaggio di ritorno dall'Helgrind.
Ti dispiacerebbe combattere con Arya in sella, come ha proposto Nasuada?
Tra tutti, lei è quella che mi darebbe meno problemi. Abbiamo già combattuto insieme, è stata lei a portarmi per tutta Alagaësia per vent'anni quando ero ancora nell'uovo. Lo sai, piccolo mio. Perché mi fai questa domanda? Sei geloso?
E se anche fosse?
Una scintilla divertita brillò negli occhi color zaffiro di Saphira. La dragonessa gli diede una leccatina. Come sei dolce... Tu vorresti che mi fermassi qui o che venissi con te?
Spetta a te decidere, non a me.
Ma è una scelta che riguarda entrambi.
Eragon scavò nel terreno con la punta dello stivale, poi disse: Se scegliamo di far parte di questo folle piano, è nostro dovere fare tutto il possibile perché abbia successo. Resta qui e fai in modo che Nasuada non perda la testa per questo piano tre volte maledetto.
Su col morale, piccolo. Corri veloce e tra pochissimo saremo di nuovo insieme.
Eragon guardò Nasuada. «Benissimo» disse, «accetto.»
La regina si rilassò. «Grazie. E tu, Saphira? Resti o vai?»
Proiettando i suoi pensieri in modo da includere sia lei sia Eragon, rispose: Resto, Furianera.
Nasuada inclinò la testa. «Grazie. Ti sono molto grata per il tuo sostegno.»
«Ne hai parlato con Blödhgarm?» chiese Eragon. «Lui è d'accordo?»
«No, ho pensato che gli avresti spiegato tu tutti i dettagli.»
Eragon dubitava che gli elfi sarebbero stati felici all'idea che viaggiasse fino al Farthen Dûr in compagnia di un Urgali. «Posso darti un suggerimento?»
«Lo sai che sono sempre bene accetti.»
Questo commento lo spiazzò. «Un suggerimento e una richiesta, allora.» Nasuada alzò un dito, facendogli segno di continuare. «Quando i nani avranno scelto il nuovo re o la nuova regina, Saphira deve raggiungermi nel Farthen Dûr sia per rendere omaggio al nuovo sovrano sia per mantenere la promessa fatta a re Rothgar dopo la battaglia di Tronjheim.»
L'espressione di Nasuada si inasprì: sembrava un gatto selvatico a caccia. «Di che promessa si tratta?» chiese. «Non me ne avevi mai parlato.»
«Saphira ha promesso di riparare Isidar Mithrim, lo Zaffiro Stellato, per rimediare al danno di Arya, che lo ruppe in quell'occasione.»
Con gli occhi sgranati per lo stupore, Nasuada guardò Saphira e disse: «Sei capace di una simile impresa?»
Sì, ma non so se riuscirò a evocare tutta la magia di cui avrò bisogno quando mi troverò davanti a Isidar Mithrim. La mia abilità nel pronunciare incantesimi non è soggetta ai miei desideri. A volte è come se avessi acquisito un nuovo senso: l'energia mi pulsa nella carne e, indirizzandola con la mia volontà, posso riplasmare il mondo a mio piacimento. Ma a volte non ci riesco: è come chiedere a un pesce di volare. Se riuscissi a riparare Isidar Mithrim, però, sarebbe un bel passo avanti per garantirci la benevolenza dei nani, non solo di quei pochi che hanno una cultura tale da apprezzare l'importanza di un'intesa tra i due popoli.
«Sarebbe più importante di quanto immagini» rispose Nasuada. «Lo Zaffiro Stellato occupa un posto speciale nel cuore di ogni nano. Vanno pazzi per le gemme in generale, ma amano e venerano Isidar Mithrim più di ogni altra perché è stupenda, e soprattutto perché è immensa. Riportala ai fasti di un tempo e restituirai l'orgoglio a un'intera razza.»
Eragon disse: «Anche se Saphira dovesse fallire, è opportuno che sia presente all'incoronazione del nuovo sovrano. Puoi nascondere la sua assenza per qualche giorno diffondendo tra i Varden la notizia che siamo partiti per un breve viaggio ad Aberon o qualcosa del genere. Quando le spie di Galbatorix si accorgeranno dell'inganno, l'Impero non farà in tempo ad attaccare prima del nostro ritorno.»
Nasuada annuì. «È una buona idea. Non appena i nani stabiliranno una data per l'incoronazione, fammelo sapere.»
«D'accordo.»
«Questo era il suggerimento. Ora veniamo alla richiesta. Che cosa volevi domandarmi?»
«Poiché insisti a farmi partire, con il tuo permesso dopo l'incoronazione vorrei volare con Saphira da Tronjheim a Ellesméra.»
«A che scopo?»
«Per consultarci con i maestri che abbiamo incontrato durante la nostra ultima visita nella Du Weldenvarden. Avevamo promesso loro che non appena gli eventi l'avessero consentito saremmo tornati per completare il nostro addestramento.»
Nasuada aggrottò le sopracciglia. «Non c'è tempo: non potete trascorrere settimane o mesi a Ellesméra per riprendere il vostro addestramento.»
«Lo so, ma forse riusciremo a trovare il tempo almeno per una breve visita.»
Nasuada appoggiò la testa allo schienale dello scranno intarsiato e guardò Eragon attraverso le palpebre socchiuse. «E chi sono i tuoi maestri? Ho notato che eludi sempre ogni domanda su di loro. Chi è stato a istruirvi a Ellesméra?»
Toccando Aren, l'anello di Brom, Eragon rispose: «Abbiamo giurato a Islanzadi che non avremmo rivelato la loro identità senza il permesso suo, di Arya o di chiunque le fosse succeduto sul trono.»
«Per tutti i demoni del cielo e della terra, quanti giuramenti avete fatto tu e Saphira?» domandò Nasuada. «A quanto pare vi impegnate con chiunque incontriate.»
Un po' imbarazzato, Eragon si strinse nelle spalle e aprì bocca per parlare, ma poi intervenne Saphira: Non siamo stati noi a cercarcele, ma come possiamo evitare di dare la nostra parola a tutte le razze di Alagaësia visto che per rovesciare Galbatorix e l'Impero ci serve il sostegno di tutti? È il prezzo da pagare per conquistarci l'aiuto di chi detiene il potere.
«Mmm. Dunque, se voglio sapere la verità, devo chiedere ad Arya?» domandò Nasuada.
«Sì, ma dubito che te la dirà; gli elfi considerano l'identità dei nostri maestri uno dei loro segreti più preziosi. Non correranno mai il rischio di condividerlo con qualcuno a meno che non sia strettamente necessario, per evitare che ne giunga voce a Galbatorix.» Eragon fissò la gemma azzurra incastonata nell'anello, chiedendosi quante altre informazioni il giuramento prestato e il suo onore gli avrebbero consentito di rivelare, poi aggiunse: «Sappi una cosa, però: non siamo così soli come pensavamo.»
L'espressione di Nasuada si indurì. «Capisco. Buono a sapersi, Eragon... Vorrei solo che gli elfi fossero più disponibili nei miei confronti.» Dopo aver arricciato le labbra un istante, continuò: «Perché dovete andare fino a Ellesméra? Non avete un modo per comunicare direttamente con i vostri tutori?»
Eragon allargò le braccia in un gesto di impotenza. «Magari. Ahimè, ancora non è stato inventato un incantesimo che riesca a far breccia nelle difese che circondano la Du Weldenvarden.»
«Gli elfi non hanno nemmeno lasciato un varco che essi stessi possano sfruttare?»
«Se così fosse, Arya avrebbe chiamato la regina Islanzadi non appena aveva ripreso i sensi nel Farthen Dûr invece di andare di persona nella Du Weldenvarden.»
«Suppongo che tu abbia ragione. Ma allora come hai fatto a consultare la regina sul destino di Sloan? Hai lasciato intendere che quando vi siete parlati l'esercito elfico era ancora di stanza nella Foresta.»
«Sì» rispose, «ma sul limitare, al di là delle barriere di protezione.»
Mentre Nasuada valutava la richiesta di Eragon, tra i due calò un silenzio palpabile. Fuori dalla tenda, il Cavaliere sentì i Falchineri discutere se fosse meglio usare un'alabarda o una roncola per combattere contro un grande numero di fanti e, più oltre, il cigolio di un carretto trascinato da buoi, il clangore delle armature di uomini che si allontanavano trottando e centinaia di altri suoni indistinti in tutto l'accampamento.
Poi Nasuada chiese: «Che cosa speri di ottenere da quella visita?»
«Non lo so!» borbottò Eragon. Colpì il pomolo del falcione con un pugno. «Ed è proprio questo il nocciolo del problema: ignoriamo troppe cose. Forse non otterremo niente, ma potremmo anche scoprire qualcosa che ci aiuti a sbaragliare Murtagh e Galbatorix una volta per tutte. Non pensare che ieri abbiamo vinto, Nasuada. Niente affatto! E temo che quando ci ritroveremo di fronte a Castigo e a Murtagh, lui sarà perfino più forte, e visto che le capacità di Galbatorix sono di gran lunga superiori a quelle di Murtagh, nonostante la gran quantità di potere che ha già riversato su mio fratello, mi si raggelano le ossa. L'elfo che fu mio maestro...» Eragon esitò, valutando se era saggio rivelare ciò che stava per dire, poi procedette deciso: «L'elfo che fu mio maestro, dicevo, sosteneva di sapere perché Galbatorix diventa più forte di anno in anno, ma allora si rifiutò di rivelarmi altro perché eravamo solo all'inizio del mio addestramento. Ora, dopo gli scontri con Murtagh e Castigo, credo che sarà disposto a condividere con me le informazioni che possiede. E ci sono interi rami della magia che dobbiamo ancora esplorare, e ciascuno di essi potrebbe fornirci i mezzi per sconfiggere Galbatorix. Se vogliamo affrontare questo viaggio, allora non restiamo qui in ozio; corriamo dei rischi per migliorare la nostra posizione e vincere questa partita dall'esito incerto.»
Nasuada rimase seduta immobile per più di un minuto. «Non posso prendere questa decisione prima che i nani abbiano incoronato il nuovo sovrano. Se andrai nella Du Weldenvarden o meno dipenderà dai movimenti dell'Impero e da ciò che le nostre spie riporteranno sulle attività di Murtagh e Castigo.»
Nelle due ore seguenti Nasuada istruì Eragon sui tredici clan dei nani. Gli impartì una lezione sulla storia e sulla politica del loro popolo, sui prodotti di punta che commerciavano, sui nomi, le famiglie e le diverse personalità dei capiclan, sull'elenco dei tunnel più importanti scavati e controllati da ciascun clan e su quello che, secondo lei, era il modo migliore di convincerli a eleggere un re o una regina solidali alla causa dei Varden.
«L'ideale sarebbe che salisse al trono Orik» disse. «Re Rothgar era tenuto in grande considerazione dalla maggior parte dei sudditi e il Dûrgrimst Ingeitum rimane uno dei clan più ricchi e influenti, il che va a suo vantaggio. Lui è devoto alla nostra causa. Ha prestato servizio tra i Varden, possiamo entrambi contare su di lui come amico, e poi è tuo fratello adottivo. Credo abbia le qualità per diventare un re eccellente.» Un'espressione divertita le illuminò il viso. «Be', c'è un piccolo problema. Secondo i criteri dei nani, è troppo giovane, e il fatto che si sia schierato in nostro favore potrebbe rivelarsi una barriera insormontabile per gli altri capiclan. Un altro ostacolo è che, dopo più di duecento anni di governo dell'Ingeitum, gli altri grandi clan, il Dûrgrimst Feldûnost e il Dûrgrimst Knurlcarathn tanto per citarne un paio, sono ansiosi di veder passare la corona a qualcun altro. Sostieni Orik con ogni mezzo possibile se ciò può aiutare a ottenere il trono, ma se diventasse evidente che il suo tentativo è destinato a fallire e il tuo supporto potrebbe garantire il successo a un altro capoclan che appoggia i Varden, allora schierati dalla parte di quest'ultimo, anche se così facendo offenderai Orik. Non puoi lasciare che l'amicizia interferisca con la politica, non adesso.»
Quando Nasuada ebbe finito la sua lezione, lei, Eragon e Saphira escogitarono un modo perché lui potesse sgattaiolare fuori dall'accampamento senza essere visto. Dopo aver definito i dettagli del piano, Eragon e la dragonessa tornarono alla tenda e informarono Blödhgarm della decisione presa.
Con sua grande sorpresa, l'elfo con la pelliccia non ebbe nulla da obiettare. Incuriosito, Eragon gli chiese: «Dunque approvi?»
«Non spetta a me dirlo» rispose, la voce ridotta a un sommesso ronzio. «Ma poiché non mi pare che gli stratagemmi di Nasuada ti mettano in una condizione di irragionevole pericolo, e anzi, potresti avere l'opportunità di continuare il tuo addestramento a Ellesméra, né io né i miei fratelli ci opporremo.» Inclinò la testa. «E adesso, Bjartskular e Argetlam, se volete scusarmi...» L'elfo aggirò Saphira e uscì dalla tenda; quando scostò il telo posto all'ingresso, un luminoso raggio di luce trafisse l'interno buio.
Per una manciata di minuti, Eragon e Saphira rimasero seduti in silenzio, poi lui le posò una mano sopra la testa. Puoi dire quello che vuoi, ma sentirò la tua mancanza.
Anch'io, piccolo.
Sta' attenta. Se ti dovesse capitare qualcosa, io...
Sta' attento anche tu.
Eragon sospirò. Siamo stati insieme solo pochi giorni e ci dobbiamo già separare. Fatico a perdonare Nasuada per questo.
Non biasimarla: non poteva fare altrimenti.
Lo so, ma mi resta comunque l'amaro in bocca.
Corri veloce, allora, così che ti possa raggiungere presto nel Farthen Dûr.
Se almeno potessi toccare la tua mente, non sarebbe un problema stare così lontano da te. La cosa peggiore è proprio questa orribile sensazione di vuoto. Non possiamo nemmeno parlarci attraverso lo specchio nel padiglione di Nasuada, altrimenti la gente si chiederebbe perché continui ad andare da lei senza di me.
Saphira batté le palpebre e fece dardeggiare la lingua, ed Eragon avvertì uno strano mutamento nelle sue emozioni.
Che c'è? le chiese.
Io... La dragonessa batté di nuovo le palpebre. Hai ragione. Magari potessimo restare in contatto mentale anche quando saremo lontani. Saremmo meno in ansia e potremmo confondere l'Impero con più facilità. Quando Eragon le si sedette accanto e le grattò le piccole squame dietro l'angolo della mascella, la dragonessa emise un sommesso borbottio di soddisfazione.
LABILI TRACCE
Con una serie di balzi vertiginosi, Saphira attraversò l'accampamento e accompagnò Eragon alla tenda di Roran e Katrina. La ragazza era fuori a lavare una sottoveste in un secchio d'acqua insaponata e strofinava la stoffa bianca su un'asse di legno. Quando la dragonessa atterrò, sollevando un nugolo di polvere, Katrina si portò una mano agli occhi per proteggerli.