Gene Wolfe Dimensioni proibite

1. Lara

— Tu credi nell’amore? — le chiese.

— Sì — rispose Lara. — Ma non vorrei.

Lui non seppe cosa dire. Tutto quello che aveva pensato nel pomeriggio tornando a casa a piedi dal lavoro gli si era fermato in gola.

— Io e le donne lo usiamo… — gli disse lei. — Dobbiamo farlo.

Lui annuì. — È vero, le donne usano l’amore, certo. Ma anche gli uomini, e normalmente gli uomini lo usano in modo peggiore. Non credi che questo sia la prova che è una cosa effettivamente reale? Se non lo fosse, nessuno potrebbe usarlo. — Il brandy gli aveva dato alla testa e quando finì il discorso, non sapeva nemmeno di cosa avessero parlato.

— È reale, hai ragione — gli disse Lara. — Ma io non sono una donna.

— Una ragazza… — Cominciò a stringerla.

Lei gli infilò una mano nel pigiama.

— Una signora. — Sentì il bicchiere vicino alle labbra.

Lo prese dalla mano di lei e ne bevve un sorso.

— …e poi gli uomini muoiono. Sempre. La donna trattiene il suo sperma, lo conserva, mette al mondo i suoi figli, uno dopo l’altro, per il resto della sua vita. Forse tre figli. O magari tre dozzine.

— Ti amo — farfugliò. — Morirei per te, Lara.

— Ma così è meglio… come fate voi è molto meglio. Ora devo tornare indietro. Ascolta, ci sono porte che…

Non se ne andò subito. Si abbracciarono ancora, distesi sul pavimento di fronte al caminetto a gas. Per la seconda volta quella sera si perse dentro di lei.

Poi la strinse forte a sé, con la sensazione di essere solo con lei su una barca in mezzo al mare, una barchetta cullata e sospinta dalle onde; solo tenendo i loro corpi premuti uno all’altro avrebbero potuto salvarsi dal gelo di quella schiuma gelida.

— Devi stare attento — gli disse mentre lui si stava addormentando. — Perché questa notte noi due siamo stati così vicini.


Si svegliò con un terribile mal di testa. Vide la luce del sole che filtrava dalla finestra e si rese conto di aver perso una giornata di lavoro. Si alzò dal letto e bevve tre bicchieri d’acqua.

Lara se n’era andata, ma c’era da aspettarselo: erano quasi le undici.

Probabilmente era uscita in cerca di un lavoro, o a comprare qualche vestito o qualcosa da mangiare.

Telefonò al negozio. — Ho l’influenza… mi è venuta stanotte. Mi scuso, mi scuso molto di non aver chiamato prima. — “Parlo proprio come un giapponese”, pensò. “A forza di vendere Sony”.

Ella, dell’ufficio personale, disse: — Ti segno assente.

Non preoccuparti… è il tuo primo giorno di malattia quest’anno.

“Un’aspirina”, pensò. “Faresti bene a prendere un’aspirina”. Ne ingoiò tre.

Sul tavolino c’era un biglietto. Un biglietto con la calligrafia angolosa di Lara.


Caro,

ho cercato di dirti addio ieri notte, ma non mi hai sentito. Non sono una vigliacca, devi credermi.

Se non fosse per le porte non ti direi nulla, e forse sarebbe meglio. Ti può capitare di vederne una o più di una, magari per un solo istante. Sarà chiusa su tutti e quattro i lati (deve esserlo). Può essere una vera porta, oppure solo un cavo telefonico sostenuto da due pali, o un arco in un giardino. Qualunque cosa sia, avrà un aspetto significativo.

Ti prego di leggere con attenzione e di ricordare tutto quello che ti dico. Non devi attraversarla.

Se l’attraversi senza accorgertene, non voltarti. Se lo fai, sarà finita. Cammina immediatamente all’indietro.

Lara

P.S. Lo aggiungete sempre, no? Alla fine.

Alla fine voglio dirti che ti ho amato. Ti ho amato davvero. (E ti amo ancora.)


Lo lesse tre volte, prima di rimetterlo giù, pensando che doveva esserci qualcosa di sbagliato, doveva essergli sfuggito qualcosa d’importante, come succede quando si osserva un’illusione ottica. Quella parola sottolineata era proprio significativo? E se sì, cosa voleva dire?

Tenne la testa sotto la doccia e lasciò che lo spruzzo d’acqua gelida gli sferzasse i capelli e la nuca. Rimase lì sotto (piegato, con una mano poggiata alle piastrelle) fino a che il lento flusso dell’acqua riempì la vasca, poi si sciacquò il viso sette volte, si rase, e si sentì meglio.

Se fosse uscito, avrebbe corso il rischio che qualcuno del negozio lo vedesse; ma era un rischio che doveva correre. Mentre faceva il nodo alla cravatta marrone, esaminò la porta dell’appartamento. Non aveva un aspetto significativo, o forse sì.

Capini era solo a un isolato e mezzo da lì. Ordinò un bicchiere di vino rosso con un piatto di linguine e, grazie al vino e alle linguine, si sentì quasi normale.

Mamma Capini non c’era o stava in cucina, ed era con Mamma Capini che lui avrebbe voluto parlare. C’erano tre o quattro dei suoi figli — non aveva mai imparato i loro nomi — ma era probabile che loro non gli avrebbero detto niente.

Mamma Capini sì, perciò decise di ritornare per l’ora di cena. Nel frattempo la polizia, l’obitorio…


— Sono alla ricerca di una donna — disse alla donna dai capelli grigi e dai denti di coniglio che finalmente lo ricevette al Centro di Igiene Mentale. E poi, dal momento che l’espressione suonava un po’ ambigua, aggiunse: — Non una donna qualsiasi.

— E pensa che noi potremmo sapere dove si trova?

Lui annuì.

— Come si chiama?

— Lara Morgan — scandì lettera per lettera. — Non sono certo che questo sia il suo vero nome. Non ho visto la sua carta d’identità.

— Allora aspettiamo un momento prima di consultare il computer. Me la può descrivere?

— Alta circa un metro e settantacinque. Capelli rossi lunghi fino alle spalle. Rosso scuro. Ramati, si dice così?

La donna dai denti di coniglio annuì.

— Molto carina… anzi, bella. Occhi color smeraldo. Un nugolo di lentiggini. Carnagione latte e miele, capisce cosa intendo dire? Non so se sono in grado di valutare il peso di una donna, ma potrebbe essere sui cinquantacinque chili.

— Color smeraldo, signor…?

— Green… lo smeraldo è un verde che tende al blu. Mi deve scusare. Adesso mi occupo della vendita di registratori e roba del genere, ma prima mi occupavo di accessori. Il verde smeraldo è più azzurro del colore dell’avocado.

— Capisco. E cosa indossava questa donna l’ultima volta che l’ha vista?

Resistette all’impulso di risponderle “niente!”. — Un abito verde. Di seta, credo, ma forse era nailon. Stivali con i tacchi alti, penso di lucertola, ma potevano anche essere di serpente. Una collana d’oro e un paio di braccialetti d’oro… portava molti gioielli d’oro. Una pelliccia nera con il cappuccio. Forse era finta, ma a guardarla e a toccarla a me è parsa vera.

La donna dai denti di coniglio disse: — Noi non l’abbiamo vista, signor Green. Se fosse entrata qui una persona simile a quella che mi ha appena descritta, l’avrei saputo.

Se fosse venuta per vedere un medico, cosa di cui dubito, sarebbe stato uno psichiatra privato. Cosa le fa credere che soffra di disturbi mentali?

— Il suo comportamento. Certe cose che ha detto.

— E qual era il suo comportamento, signor Green?

Rifletté un momento. — Per esempio, non conosceva le macchinette del ghiaccio. Una volta è andata ad aprire il frigorifero per prendere del ghiaccio — voleva fare una limonata — ma è ritornata dicendo che non ce n’era. Così l’ho accompagnata per mostrarle come funzionava, e lei ha detto: “Che carini questi cubetti”.

La donna dai denti di coniglio aggrottò la fronte e unì le mani solo per la punta delle dita, come fanno gli uomini. — Dev’esserci stato certamente qualcosa di più.

— Be’, aveva paura che qualcuno stesse per riportarla indietro. Così mi ha detto.

L’espressione della donna dai denti di coniglio diceva “Ora sì che stiamo arrivando al punto”. Si protese verso di lui dicendo: — Riportarla dove, signor Green?

Stava per chiederle come facesse a conoscere il suo nome (si era rifiutato di dirlo alla sostituta della segretaria) ma pensò che fosse meglio di no. — Questo non lo ha detto, dottoressa. Attraverso le porte, credo.

— Le porte?

— Ha parlato di porte. Poco prima di andarsene… le porte, o una sola porta, ecco come è arrivata fin qui. Se loro fossero venuti per riportarla indietro, l’avrebbero trascinata attraverso una porta, perciò ha preferito andarsene via da sola. — Quando vide che la donna dai denti di coniglio non faceva commenti, aggiunse: — Almeno questo è quello che mi è parso di capire.

— Allora queste porte potrebbero essere quelle di un istituto — disse la donna dai denti di coniglio.

— È quello che ho pensato anch’io.

— Non le è venuto in mente che quell’istituto potrebbe essere una prigione, signor Green?

Lui scosse la testa. — Lei non dava affatto quell’impressione. Sembrava come dire, in gran forma. Solo un po’ confusa.

— Le persone intelligenti che sono passate attraverso l’esperienza di un istituto danno spesso quell’idea. Mi è parso di capire che avesse più o meno la sua stessa età, giusto?

Lui annuì.

— E lei ha…?

— Trent’anni.

— Allora diciamo che anche questa bella donna che si fa chiamare Lara Morgan ha trent’anni. E se avesse commesso un grave crimine nell’adolescenza — magari un omicidio, o complicità in un omicidio — sarebbe stata mandata in un riformatorio femminile fino alla maggiore età, per poi essere trasferita in un carcere femminile a ultimare la condanna. Così potrebbe aver trascorso gli ultimi dieci o dodici anni in una prigione o in un’altra, signor Green.

Lui cominciò a dire: — Non credo…

— Capisce, signor Green, quelli che evadono dai nostri ospedali psichiatrici non sono puniti. Sono malati, e non si può punire la malattia. Ma i criminali che evadono dal carcere sono puniti. Sono felice che sia ritornato, signor Green. Cominciavo a preoccuparmi per lei.


Quando uscì dal Centro si accorse che stava tremando; prima non si era reso conto di quanto tenesse a Lara.

Il Centro di Igiene Mentale era situato sull’angolo di un incrocio pentadirezionale. Tutte e cinque le strade erano congestionate dal traffico e quando si soffermò a guardarle ebbe l’impressione che dipartissero da lui come i raggi di una ruota, tutte affollate, rumorose, diritte e dirette all’infinito. Nessuna uguale alle altre; e nessuna — quando guardò di nuovo — era identica a come era quando era arrivato. Quel teatro non era forse un campo di bowling? E le autopompe non avrebbero dovuto essere rosse, gli autobus gialli, o magari arancione?

Dov’erano le porte? “Potrebbe essere un cavo telefonico sostenuto da due pali”. Così aveva scritto Lara. Alzando lo sguardo vide che si trovava sotto a un reticolo di cavi metallici. C’erano cavi per sostenere la segnaletica stradale, sottili cavi neri tesi fra un edificio e un altro, cavi per i tram sferraglianti. Ai lati c’erano gli edifici, in basso le strade e i marciapiedi, e in alto i cavi. Una dozzina — no, almeno due dozzine — due dozzine di porte, e tutte avevano un aspetto significativo.

Quell’ospedale per le bambole c’era anche prima? C’era mai stato al mondo un posto simile? Con la sensazione di essere lui stesso una bambola rotta, s’incamminò in quella direzione.

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