20. Il suo appartamento

La cassetta della posta era piena. Fra le fatture e gli opuscoli pubblicitari trovò un biglietto giallo dove lo avvisavano che all’ufficio postale c’era altra corrispondenza indirizzata a lui. Sul frigorifero un orologio a forma di fragola che aveva comprato in un emporio, lampeggiava l’ora e la data: 13.38 15.4, 13.38 15.4, 13 39 15.4.

Era la metà di aprile. Cercò di ricordare quando Lara lo aveva lasciato, ma non ci riuscì. Il suo biglietto stava ancora sul tavolino, non aveva data ma era ricoperto da un sottile strato di polvere. Lo lesse di nuovo:


Caro,

ho cercato di dirti addio ieri notte, ma non mi hai sentito. Non sono una vigliacca, devi credermi.

Se non fosse per le porte, non ti direi nulla e forse sarebbe meglio. Ti può capitare di vederne una o più di una, magari per un solo istante. Sarà chiusa su tutti e quattro i lati (deve esserlo). Può essere una vera porta, oppure solo un cavo telefonico sostenuto da due pali, o un arco in un giardino. Qualunque cosa sia, avrà un aspetto significativo.

Ti prego di leggere con attenzione e di ricordare tutto quello che ti dico. Non devi attraversarla.

Se l’attraversi senza accorgertene, non voltarti. Se lo fai sarai perduto. Cammina immediatamente all’indietro.

Lara


La firma era come la ricordava, la prima A era collegata alla L maiuscola. Non lesse il postscriptum (che chiamava PS) sentendo che, se l’avesse fatto, sarebbe morto, letteralmente, che il suo cuore sarebbe scoppiato.

Sotto il tavolino c’era un giornale. 13 marzo, erano trentatré giorni che Lara era andata via. Una notte all’ospedale, o forse due. Diciamo due notti passate all’ospedale, una notte all’albergo con North, una notte all’albergo da solo. Quattro notti per trentatré giorni.

Accese il televisore e capitò su un programma che faceva vedere la ressa per la presentazione della denuncia dei redditi. Il 15 di aprile era l’ultimo giorno utile per presentarla. Come un automa andò all’ufficio postale a ritirare il resto della posta. Il modulo era lì, e il negozio in cui lavorava gli aveva già mandato la documentazione necessaria; era sul tavolo da notte accanto al letto. Il letto era ancora disfatto, ancora spiegazzato dopo la notte passata con Lara quando si era svegliato ormai solo.

Prese il modulo e lo riempì. Non doveva riportare altro che il suo stipendio; in venti minuti lo aveva completato, messo nella busta e affrancato. Quando era andato all’ufficio postale non si era messo il cappotto, ma ora si domandò se era il caso di indossarlo per andare a impostare la denuncia dei redditi. Il pacco di banconote da cinquanta era ancora nella sua tasca destra. Lo prese, domandandosi cosa avrebbe detto l’Ufficio Imposte se avesse saputo che aveva quei soldi. Qualsiasi entrata doveva essere denunciata, anche se si trattava di migliaia di dollari comprati per un centesimo. La carta marroncina che avvolgeva il pacco portava ancora la dicitura sicurpol-trasporto valori, un carattere cinese e il simbolo “dieci centesimi” scritto diligentemente dal signor Sheng con il pennello. Dov’era il signor Sheng ora? E suo nipote, il dottor Pillo-Lin? Su un canale diverso, in un altro programma.

Prese le banconote di Marcella dal portafoglio, le ripiegò e le fermò con un elastico, poi le mise in una tasca del cappotto. Prese le banconote da cinquanta del signor Sheng e le mise nel portafoglio, appallottolò la carta che le avvolgeva e la gettò nel cestino.

Si sentiva come un agente internazionale, una specie di James Bond con un’arma automatica mortale nascosta da qualche parte e diversi passaporti. Rise fra sé mentre appendeva il cappotto nell’armadio con la sciarpa drappeggiata intorno al collo e resistette, come sempre, all’impulso di prendere.Tina, esaminarla, baciarla e pettinarle i capelli come aveva fatto la donna nel negozio di abbigliamento.

— Troppo vecchio per giocare con le bambole. — Pronunciò le parole a voce alta, ma in tono indulgente.

Mentre tornava per la seconda volta dall’ufficio postale, sentì freddo, nonostante il gilet e si fermò a comprare un soprabito nuovo. Nei grandi magazzini dove lavorava, o piuttosto dove aveva lavorato, avrebbe potuto usufruire di uno sconto per i dipendenti. Ma i soprabiti erano in saldo, e lo sconto non c’era perché veniva applicato solo sul prezzo pieno, mai quando la merce era in saldo. Il nuovo soprabito era beige, come quello vecchio.

Di ritorno nel suo appartamento, disfece il letto, s’infilò sotto la doccia e si cambiò buttando via i pantaloni bruciacchiati. Sul fondo dell’armadio c’era una vecchia camicia sudicia. Fece un fagotto con le lenzuola, le federe, la camicia, i calzini e la biancheria che si era tolto. Poi si guardò intorno per vedere se Lara aveva lasciato qualcosa.

Ora che ci pensava, Lara aveva con sé molto poco. Due vestiti, ma forse, dato che erano tutti e due verdi, era uno solo che poteva essere indossato in vari modi a seconda delle occasioni, mettendo accessori diversi e così via.

Cercò di ricordare cosa dicevano al Reparto Abbigliamento… accessoriati, ecco cosa dicevano. Gli venne in mente che Lara non avrebbe mai usato una parola del genere e non le sarebbe piaciuta; si rese conto che adesso non piaceva nemmeno a lui.

Era così poco quel che gli rimaneva di Lara. Non c’era niente, non un pezzo di stoffa, nemmeno un rossetto per labbra usato o un pettine. Lara fumava? No, era Fanny che fumava molto, fumava una sigaretta dietro l’altra, pensò. Nell’appartamento i portacenere erano vuoti, pieni solo di polvere.

Prese i panni sporchi, li portò nel seminterrato e li infilò in una delle lavatrici insieme al detersivo granulare che si era procurato da un distributore a gettone. Mentre la lavatrice era in funzione si mise a leggere un giornale che qualcuno aveva dimenticato. Gente innocente moriva in Africa. Nella pagina dei fumetti non c’era più Lolly, sostituita da un nuovo orribile personaggio.

La lavatrice si era fermata. Prese il mucchio di panni bagnati fradici e li mise nell’asciugatrice, la regolò sul programma delicati e inserì le monete.

Una giornalista di un’agenzia stampa, famosa per il suo spirito, pubblicava un’intervista immaginaria al presidente dopo un olocausto nucleare. Il cruciverba chiedeva una parola di sette lettere che significava orso. Nel suo reparto ai grandi magazzini era in corso una grande vendita scontata di registratori. “Comprate un registratore col dieci per cento di sconto, scegliete qualsiasi cassetta per un dollaro”. Immaginò che avessero avuto molto da fare e si domandò come se l’erano cavata senza di lui. Erano in vendita anche personal computer di vecchio tipo, ormai fuori produzione, col quaranta per cento di sconto sul prezzo di listino.

Infilò la biancheria asciutta in una federa e tornò nel suo appartamento. Scoprì che mancavano una camicia e i calzini. Tornò nel seminterrato e controllò tutte e due le macchine, nessuna traccia né della camicia né dei calzini. In qualche modo erano tornati nel loro mondo, pensò. North li aveva comprati all’albergo.

Il gilet era ancora appeso nell’armadio. E così il cappotto, pigiato fra gli altri indumenti nel vano dietro la porta dell’armadio. Non riuscì a trovare il cappello. Lo indossava mentre era in macchina con Fanny fino all’arrivo da Mamma Capini, poi ricordava di averlo appeso al gancio dell’attaccapanni. Ma non riusciva a ricordare se lo aveva ripreso quando erano venuti via. Lo indossava quando era corso dentro la pellicceria? Non lo sapeva, non riusciva a ricordarlo.

L’orologio gli disse che erano le cinque precise. Nell’appartamento c’era da mangiare, ma la roba che stava dentro il frigorifero era sicuramente andata a male, il latte era inacidito e le carote erano diventate molli. La margarina era ancora buona.

Concluse che non se la sentiva di pulire il frigorifero (e il portapane, ora che ci pensava), almeno per quel giorno. Sarebbe andato a mangiare da Mamma Capini e forse…

Forse sarebbe successo qualcosa.

La cravatta era drappeggiata sul paralume. Abbottonò il colletto e annodò con cura la cravatta. Si era imposto la regola di non uscire mai senza cravatta… c’era la possibilità di incontrare uno dei capireparto. Indossò la giacca e il soprabito nuovo.

Dopo aver percorso un isolato vide un calzino nero da uomo nella cunetta e si fermò a raccoglierlo. Non era il suo, ma si ricordò che gli era capitato spesso di vedere indumenti persi o abbandonati in una strada coperta di neve nella città di Lara, una città che era tanto simile eppure così diversa dalla sua. I due calzini erano separati, pensò, a chilometri di distanza l’uno dall’altro. Non sarebbero stati utili a nessuno, a meno che un ragazzino non ne avesse raccolto uno per farci un pupazzo e un vagabondo avesse preso l’altro, incurante del fatto che non si accordava con quello che indossava. La camicia era di buona qualità, una camicia di seta pura. Si augurò che qualcuno la trovasse prima che fosse troppo rovinata, prima che diventasse uno straccio come quelli che aveva visto per strada senza domandarsi da dove arrivavano.

Alla cassa c’era uno dei figli di Mamma Capini. Cercò di capire se era Guido, il figlio con cui aveva parlato nella toilette, ma non ne era sicuro. Tutti i fratelli gli erano sempre sembrati quasi uguali, uomini baffuti che guardavano in cagnesco e che andavano e venivano come fossero clienti; un momento stavano lì sporchi di sugo e un momento dopo erano scomparsi.

— Si sieda dove vuole — gli disse il figlio. — È ancora presto.

Si mise a sedere al tavolo vicino alla vetrata dove aveva pranzato con Fanny. Il suo cappello, se veramente l’aveva lasciato sull’attaccapanni di Mamma Capini, adesso non c’era più. Rivolto alla cameriera, disse: — Verso mezzogiorno ero qui a mangiare con una signora. Lei ha preso una pasta fredda. Non so cosa fosse di preciso, ma sembrava molto buona. Si ricorda di noi?

La cameriera scosse la testa. — Non credo di essere stata io a servirvi, signore.

— Aveva… — cercò di ricordare quanti anni aveva detto di avere Fanny — …circa ventitré anni. Piccola, capelli neri e ricci.

— Forse vi ha serviti Gina, signore. Gina mi somiglia molto.

— Vuole dirle di venire qui, per favore?

— Abbiamo tre tipi di pasta fredda, signore. — La cameriera glieli descrisse. — Sono tutte molto buone.

— Mi trovi Gina — le disse lui.

Se ne andò imbronciata e lui si mise a osservare le targhe delle automobili che passavano. Si stava facendo buio, ma riuscì a decifrarne qualcuna e gli sembrarono perfettamente normali.

Si frugò nelle tasche della giacca con la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Tutte e due le tasche erano vuote e nel taschino c’era solo il fazzoletto, quello rosso che aveva lì da mesi. Il libretto degli assegni stava nella tasca interna. Lo tirò fuori per esaminarlo. L’ultimo assegno portava la data dell’11 marzo. Gli venne in mente che aveva pagato la bambola con un assegno e che la somma era piuttosto alta, ma non riusciva a ricordare quanto e non era sicuro che il suo assegno potesse essere presentato all’incasso da un negozio di un altro mondo, un negozio dei sogni.

— …non c’è — annunciò la cameriera al suo fianco.

Lui alzò gli occhi. — Prego?

— Ho detto che Gina non c’è. Ho guardato dappertutto. — La cameriera si scostò una ciocca di capelli dalla fronte nel tentativo di sembrare stanca e accaldata senza essere né l’uno né l’altro. — Ed è pure ora di cena.

— Ma può farlo? Voglio dire, andarsene così?

La cameriera si chinò verso di lui. — Gina scopa Guido, e può fare il cavolo che vuole.

— E Guido c’è? — Lanciò un’occhiata verso la cassa, ma non vide nessuno.

— No, Guido se n’è andato. Non c’è quasi mai all’ora di cena. Cosa vuole ordinare?

Ordinò una delle paste fredde e la cameriera si allontanò. Dopo un minuto o due, riprese il libretto degli assegni dalla tasca interna della giacca, chiedendosi cosa poteva fare mentre aspettava che gli portassero da mangiare. Era venuto qui per anni, quasi sempre da solo come adesso e sicuramente aveva sempre fatto qualcosa. Quando Lara viveva con lui aveva sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui parlare.

Mamma Capini spostò la sedia vuota e si mise a sedere. — Ehi, che succede? Non ha mangiato abbastanza a pranzo? Se me lo diceva, le preparavo il pane all’aglio.

Lui domandò: — Si ricorda la ragazza che era con me a pranzo, Mamma?

Mamma Capini si baciò la punta delle dita. — Certo. State per sposarvi?

— Se viene, mi avverte?

— Certo!

— E si ricorda di Lara? Mi avverta se viene Lara. Specialmente se viene lei.

— Certo. Ma è in cerca di una ragazza?

— Sto solo cercando queste persone. E mi avverta anche se vede quell’uomo grande e grosso e sua moglie, la signora col vestito rosso.

Si gingillò con la sua pasta fredda per un’ora e mezzo, bevve un espresso e due amari. Non vide nessuno che conosceva e non accadde nulla.

Alla fine pagò il conto. Controllò il resto, erano soldi reali e non aveva visto nessuna banconota con strane immagini neppure nella cassa. L’uomo a cui pagò il conto era quello che gli aveva detto che Guido era pazzo, quello più grosso e più vecchio di Guido. Mentre si trascinava verso il suo appartamento si domandò distrattamente dove fosse andato Guido. Era stato attirato nell’altro mondo? E se era così, c’era già stato? Forse anche Gina veniva da lì; se i clienti potevano attraversare la porta provenendo da un altro mondo, come avevano fatto Joe e Jennifer, era abbastanza probabile che una cameriera in cerca di lavoro potesse fare la stessa cosa.

Di ritorno al suo appartamento, mise uno dei suoi pezzi preferiti sul giradischi, ma scoprì che la musica che una volta lo aveva affascinato, ora gli sembrava brutta e sgradevole. Accese il televisore. Dopo circa un’ora, si rese conto che non aveva idea di che spettacolo si trattasse e perché lo stesse guardando.

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