Capitolo IX

Rumata accompagnò Budach in camera da letto perché si riposasse in previsione del lungo viaggio, poi andò nel suo studio. La Sporamina aveva esaurito il suo effetto e si sentiva esausto; le ferite ricominciavano a fargli male, e i polsi, che continuavano a bruciargli a causa delle corde, si stavano gonfiando. «Dovrei distendermi e dormire un po’«si disse. «Devo solo dormire un po’, e poi mettermi in contatto con Don Kondor. Dovrei anche comunicare con i Controlli e far loro riferire tutto al comando.

Dobbiamo decidere cosa fare, adesso, sempre che ci resti qualcosa da fare. E come comportarci nel caso non ci sia niente da fare».

Entrando nello studio vide un monaco nero seduto alla scrivania, con il cappuccio calato sugli occhi. Era chino in avanti e teneva le braccia nascoste nelle ampie maniche.

«Che ci fa qui?» chiese Rumata, stanchissimo. «Chi l’ha fatta entrare?»

«I miei rispetti, nobile Don Rumata» disse il monaco, tirando indietro il cappuccio.

Rumata scosse piano la testa.

«Che Dio mi fulmini!» disse. «Salute, mio buon Arata. Cosa l’ha spinta a venire qui? Cos’è successo?»

«Il solito» rispose Arata. «L’esercito si è ribellato, gli uomini si stanno dividendo le terre e nessuno vuole andare a sud. Il Duca sta radunando i superstiti e non ci vorrà molto perché cominci a impiccare i miei contadini per i piedi lungo il confine con Estor. Tutto come al solito» ripeté.

«Capisco» disse Rumata.

Si gettò sul divano appoggiando la testa sulle braccia incrociate e osservò l’ospite.

Vent’anni prima, quando Anton costruiva modellini con il suo montatore e giocava a Guglielmo Tell sulla Terra, l’uomo era conosciuto come Arata il Bello ed era una persona completamente diversa.

A quel tempo Arata il Bello non aveva ancora l’orribile cicatrice sulla fronte. Se l’era procurata nell’ammutinamento dei marinai di Soan: tremila lavoratori nudi e schiavizzati raccolti da tutto il regno per lavorare ai moli di Soan e così abbrutiti da aver perso ogni volontà di sopravvivenza. Una notte erano usciti dalla zona del porto e avevano attaccato la città, lasciandosi dietro solo cadaveri e incendi. Alla fine erano stati accerchiati dalla fanteria imperiale corazzata.

A quel tempo, naturalmente, Arata aveva ancora due occhi sani. Aveva perso il destro per la randellata di un barone, quando un esercito di ventimila contadini aveva deciso di invadere la capitale per stanare le bande di baroni e aveva incontrato invece la guardia imperiale, forte di cinquemila uomini, in campo aperto. Erano stati divisi in piccoli gruppi, circondati e massacrati dai ferri chiodati dei cammelli…

A quel tempo Arata il Bello era ancora dritto come un pioppo. Gli era venuta la gobba (e con essa aveva cambiato soprannome) dopo la battaglia nel ducato di Uban, oltre oceano, quando, dopo sette anni di peste e siccità, quattrocentomila scheletri viventi avevano preso forche e bastoni, cacciato i nobili e assediato il Duca di Uban nel suo palazzo. Il Duca, la cui debole mente si era immediatamente vivacizzata grazie al terrore, si era dichiarato disposto a perdonare i suoi sottoposti, ad abbassare il prezzo delle bevande alcoliche e a promettere la libertà ai servi della gleba. Arata, vedendo che tutto era perduto, aveva implorato i ribelli di non inghiottire quell’esca traditrice; ma era stato catturato dagli Atamani, che pensavano che da un uomo buono non ci si doveva aspettare niente di buono. Lo avevano picchiato con verghe di ferro e gettato in un pozzo per lasciarvelo morire di una morte atroce.

Quanto al pesante anello di ferro che ancora portava al polso destro, risaliva probabilmente al tempo in cui era chiamato il Bello. L’anello era stato forgiato in fondo a una catena attaccata al timone di una nave pirata, ma Arata aveva spezzato la catena, colpito alla tempia il capitano Ega il Grazioso, catturato prima la nave e poi l’intera flotta del pirata. Quindi aveva cercato di fondare una repubblica libera sull’oceano. L’impresa era finita in un bagno di sangue, perché a quel tempo Arata era un giovane che non aveva ancora imparato a odiare e che pensava che il dono della libertà bastasse a trasformare uno schiavo in una creatura divina.

Era un ribelle di professione, un vendicatore per grazia di Dio, una figura che non si incontra spesso nel medioevo. Tuttavia l’evoluzione storica di tanto in tanto crea simili lucci, e li immette nei gorghi profondi della società perché incalzino le grasse carpe che dormono sognando nel fango degli abissi. Arata era la sola persona lì che Rumata non odiasse o compiangesse. E il terrestre, che aveva trascorso quasi cinque anni tra il sangue e il sudiciume, nei suoi sogni inquieti si vedeva come una specie di Arata. Aveva attraversato i tormenti più infernali e ne aveva ricevuto in cambio il privilegio di massacrare gli assassini, torturare gli aguzzini, tradire i traditori.

«A volte mi sembra che siamo tutti impotenti» disse Arata. «Rimango sempre il capo degli ammutinati, e capisco che la mia forza si basa sulla mia straordinaria vitalità. Ma la forza non mi aiuta nella mia impotenza. Come per magia, le mie vittorie si tramutano in sconfitte. I miei alleati in battaglia diventano miei nemici, i più coraggiosi mi abbandonano, i più fedeli mi tradiscono o muoiono. E non mi resta nulla, solo le mani nude. Ma non si possono conquistare gli idoli d’oro dietro le mura delle fortezze, a mani nude…»

«Come è arrivato ad Arkanar?»

«Con i monaci».

«Pazzo! È così facile riconoscerla».

«Non ho detto in mezzo ai monaci. Della folla di ufficiali del Sacro Ordine, quasi la metà è fatta di giullari di Dio e di storpi come me. I deformi sono una vista piacevole per gli occhi di Dio». Guardò fisso Rumata e scoppiò a ridere.

«Cosa intende fare, adesso?» chiese Rumata abbassando gli occhi.

«Il solito. Conosco il Sacro Ordine. Prima della fine dell’anno il popolo di Arkanar si armerà e uscirà dalle sue tane, facendosi a pezzi con le asce. Lo guiderò, in modo che gli uomini non si scannino a vicenda, ma scannino solo quelli che lo meritano».

«Le serve denaro?»

«Sì, come al solito. E armi…» Tacque. Poi socchiuse gli occhi, dicendo: «Don Rumata, ricorda come sono rimasto deluso quando ho scoperto chi era lei in realtà?

Odio i frati, e mi dà fastidio quando la loro rete di bugie risulta essere la verità. Ma sfortunatamente un povero ribelle è costretto ad approfittare di tutte le circostanze. I preti dicono che gli dèi hanno a loro disposizione i fulmini… Don Rumata, ho bisogno urgente di questi fulmini, per abbattere le mura delle fortezze».

Rumata sospirò profondamente. Dopo il suo salvataggio miracoloso, Arata non aveva mai smesso di chiedere spiegazioni. Rumata una volta aveva anche cercato di parlargli di sé, gli aveva anche mostrato il Sole del suo pianeta nel cielo notturno: una stella minuscola, difficilmente individuabile. Ma il ribelle capiva una cosa sola: quei preti maledetti avevano ragione, oltre le mura del firmamento vivevano davvero gli dèi, dèi onniscienti e onnipotenti. E da quel momento in poi ogni conversazione con Rumata arrivava sempre alla stessa conclusione: Dio, poiché esisti, dammi la tua forza, perché è la cosa migliore che puoi fare per me. E ogni volta Rumata non rispondeva o cambiava discorso.

«Don Rumata, perché non vuole aiutarci?»

«Un momento solo, scusi: come ha fatto a entrare in casa mia?»

«Questo non è molto importante. Solo io lo so. Ma non cerchi di sviarmi, Don Rumata. Perché non vuole darci i suoi poteri?»

«Non parliamo di questo».

«Sì, invece. Io non ho mai chiesto favori a nessuno. Lei è venuto da me spontaneamente. Oppure voleva solo divertirsi un po’?»

«È difficile essere un dio» pensò Rumata.

Pazientemente, gli rispose: «Non capisce la situazione. Ho cercato almeno venti volte di spiegarle che non sono un dio, e lei non vuole credermi. Perciò non capisce neppure perché non posso aiutarla con le mie armi».

«Possiede davvero i fulmini?»

«Non glieli posso dare».

«Me lo sono sentito ripetere venti volte. Adesso voglio sapere: perché no?»

«Lo ripeto: non può capire».

«Allora cerchi di spiegarmelo un’altra volta».

«Cosa intenderebbe fare con il fulmine?»

«Voglio bruciare la razza dorata come un mucchio di cimici, fino all’ultimo, e i suoi maledetti discendenti fino alla dodicesima generazione. Cancellerò le sue fortezze dalla faccia della Terra. Brucerò gli eserciti e tutti quelli che difende e sostiene. Potete stare sicuro che il fulmine servirà per una causa, e quando solo gli schiavi liberati resteranno sulla Terra, e dappertutto regnerà la pace, vi restituirò il fulmine e non ve lo chiederò mai più».

Arata tacque. Ansimava. Il suo viso era quasi violaceo per l’eccitazione. Sembrava quasi vedere di fronte a sé ducati e regni in preda alle fiamme, corpi bruciati tra le rovine fumanti, e gli enormi eserciti dei vincitori che ruggivano: Libertà! Libertà!

«No» disse Rumata. «Non le darò il fulmine. Sarebbe un errore. Cerchi di capirmi, io vedo più lontano di lei».

Arata chinò la testa. Rumata cominciò a far schioccare le falangi. «Le dirò solo uno dei motivi. Anche se a paragone del motivo principale questo è il più insignificante, lo capirà. Arata, lei trabocca di vitalità ma è destinato a morire come tutti. E se morisse, e il fulmine cadesse nelle mani sbagliate, meno pure delle vostre, il solo pensiero di quello che potrebbe succedere…»

Per un po’ nessuno dei due parlò. Poi Rumata prese una bottiglia di vino estoriano e qualcosa da mangiare, mettendoli davanti all’ospite. Senza alzare la testa. Arata cominciò a mangiare silenziosamente dei pezzi di pane e a bere un po’ di vino.

Rumata si sentiva spaccato in due. Sapeva di aver ragione, eppure quella consapevolezza lo umiliava davanti ad Arata. In qualche modo Arata lo superava, e non solo lui. Arata superava tutti quelli che erano venuti su quel pianeta senza essere stati chiamati, e osservavano impotenti la sua vita brulicante dalla cima di ipotesi distaccate e di valutazioni etiche aliene. Per la prima volta Rumata pensò: «Non si conquista niente senza perdere qualcosa. Siamo infinitamente più forti di Arata nel nostro regno di bontà, ma infinitamente più deboli di lui nel suo regno di malvagità».

«Non avrebbe dovuto discendere dal cielo» disse improvvisamente Arata. «Se ne torni indietro. Qui ci fa solo del male!»

«No, no» rispose Rumata. «Qui non facciamo del male a nessuno».

«Sì, invece. Ci fate del male. Create in noi speranze inutili».

«In chi, per esempio?»

«In me. Lei, personalmente, ha indebolito la mia forza di volontà, Don Rumata.

Una volta mi basavo solo su me stesso, adesso sono sempre consapevole della forza che sta dietro di me. Prima combattevo ogni battaglia come se fosse l’ultima, ma ora mi sono accorto che risparmio le forze per le altre battaglie, per quelle decisive, perché parteciperà anche lei. Lasci questo pianeta, Don Rumata, raggiunga i suoi cieli e non torni più. Oppure ci consegni i suoi fulmini, o almeno il suo uccello di ferro. O alla peggio, sguaini la spada e sia il nostro capo».

L’uomo tacque di nuovo e prese un altro pezzo di pane. Rumata osservava le mani di Arata, soprattutto le sue dita. Due anni prima, Don Reba in persona gli aveva strappato tutte le unghie con uno strumento speciale. «Sai solo metà della storia» pensò Rumata. «Ti senti in pace, pensando di essere l’unico condannato al fallimento.

Ancora non sai quanto la tua causa sia davvero disperata. Non sai che il tuo nemico non si trova oltre le file dei tuoi soldati, ma piuttosto dentro di loro. Forse ce la farai a sconfiggere il Sacro Ordine dei monaci neri, e l’onda della rivolta contadina ti porterà sul trono di Arkanar. Raderai al suolo i castelli dei feudatari e annegherai i baroni nella baia. Le masse ribelli ti copriranno di ogni onore, e sarai un signore buono e saggio… L’unico uomo buono e saggio in tutto il regno: nella tua bontà distribuirai terre ai tuoi commilitoni, ma che vantaggio daranno queste terre ai tuoi compagni, senza servi della gleba? E la ruota ricomincerà a girare in un’altra direzione. Sarai fortunato se morirai di morte naturale e non dovrai stare attento ai nuovi conti e baroni che sorgeranno dai ranghi dei tuoi collaboratori fedeli di ieri. Tutto questo è successo mille volte, amico mio, sulla Terra e anche qui».

«Non mi dice niente?» chiese Arata. Spinse indietro il piatto e ripulì le briciole dalla scrivania con la manica. «Una volta avevo un amico» disse. «Forse ne ha sentito parlare: Waga Koleso. Abbiamo iniziato insieme. Poi lui è diventato un bandito, un principe delle tenebre. Non gli ho mai perdonato questo tradimento, e lui lo sa. Poi mi ha aiutato molto, per paura o per vanità, ma comunque non si è mai voluto pentire: aveva scopi tutti suoi. Due anni fa quest’uomo mi ha consegnato nelle mani di Don Reba…» Si guardò le dita deformi e strinse il pugno. «E stamattina l’ho catturato nel porto di Arkanar. Amicizie a mezzo cuore sono impossibili, nella nostra causa, perché un mezzo amico è già mezzo nemico».

Si alzò in piedi e si tirò il cappuccio sugli occhi. «Troverò l’oro al solito posto, Don Rumata?»

«Sì» rispose lui lentamente. «Al solito posto».

«Adesso vado. Grazie, Don Rumata».

Senza far rumore attraversò lo studio e scomparve dietro la porta. Giù, nell’entrata, i chiavistelli scattarono impercettibilmente.

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