Capitolo III

Sarebbe molto interessante» pensava Rumata «catturare questo Waga e portarlo sulla Terra. Tecnicamente, non sarebbe affatto difficile, tutt’altro. Ma cosa farebbe sulla Terra?» Cercò di immaginarlo. «Getta un peloso ragno gigante in una stanza illuminata con pareti lucide e aria condizionata profumata di pino o di brezza marina, e il ragno si appiattirà sul pavimento, storcerà i suoi occhietti malvagi e febbrili e striscerà lateralmente verso l’angolino più lontano. Che altro potrebbe fare? Poi si raggomitolerà scoprendo minacciosamente le mandibole velenose. Per prima cosa Waga cercherebbe la compagnia dei disadattati e degli emarginati. Ma sicuramente anche il contestatore più stupido della Terra sarebbe troppo puro per Waga, e quindi inadatto ai suoi scopi. Il vecchio deperirebbe. Forse si spegnerebbe addirittura. Ma chi può sapere com’è veramente? Ecco la vera difficoltà di tutta la questione. La psiche di questi mostri assomiglia a una foresta buia. Santo dio! È molto più complicato raccapezzarsi con loro che con le civiltà non umanoidi. Si possono spiegare tutte le loro azioni, ma è terribilmente difficile prevederle. Sì, c’è un’effettiva possibilità che Waga muoia di dispiacere. Forse però potrebbe anche guardarsi intorno, adattarsi in qualche modo, capire velocemente come funzionano le cose e poi vivere in una riserva naturale, come uno spirito dei boschi. È assolutamente improbabile che non abbia nemmeno una piccola passione insignificante, qualche interesse che qui è solo marginale ma che sulla Terra potrebbe diventare il centro della sua esistenza. Mi sembra che gli piacciano i gatti. Dicono che ne abbia un esercito nella Foresta del Singhiozzo, e che tenga appositamente un servo per prendersi cura di loro. E Waga gli dà uno stipendio malgrado la sua reputazione di vecchio avaro, anche se potrebbe costringerlo con lusinghe e minacce. Ma non riesco a immaginare che cosa potrebbe fare sulla Terra, con la sua incredibile avidità di potere!» Rumata si fermò davanti a una taverna. Stava per entrare quando si accorse che gli mancava un sacchetto di monete. Rimase sulla porta, perplesso. Non sarebbe mai riuscito ad abituarsi a queste cose, anche se non era la prima volta che accadeva. Si frugò nelle tasche per un bel po’. Aveva portato con sé tre sacchetti con dieci monete d’oro.

Uno l’aveva dato a Padre Kin, il procuratore, e l’altro a Waga. Il terzo sacchetto era sparito. Le tasche erano vuote. Dalla gamba sinistra dei pantaloni erano stati tagliati via accuratamente tutti i fermagli d’oro, e gli mancava il pugnale che teneva appeso alla cintura.

Improvvisamente notò poco lontano due Sturmovik che lo fissavano, sorridendo beffardi. Per quanto riguardava il membro e collaboratore dell’Istituto di Storia Sperimentale potevano andare all’inferno, ma il gentiluomo andò su tutte le furie. Per un attimo perse il controllo di sé. Andò verso di loro e sollevò la mano, che in qualche modo si era stretta spontaneamente a pugno. Evidentemente, anche il suo viso doveva aver cambiato espressione perché i due soldati rimasero impietriti e poi, terrorizzati, si rifugiarono nella taverna. Rumata era spaventato. Solo una volta, prima di allora, si era sentito così male, quando, all’epoca in cui era astronauta di riserva, aveva riconosciuto i primi sintomi della malaria. Nessuno riusciva a capire come mai la malattia si fosse manifestata così improvvisamente, e due ore più tardi era già guarito e dimesso con qualche parola buona e qualche battuta. Ma non era mai riuscito a dimenticare il trauma: lui che non era mai stato malato in vita sua, aveva avuto l’impressione che dentro il suo corpo qualcosa si stesse disgregando; si stesse gradualmente disfacendo e che lui non potesse controllarlo più.

«Non volevo farlo» pensava, lì sulla porta della taverna. «Non mi sarebbe mai passato per la testa. Non avevano fatto niente di particolare, dopotutto…

«Stavano là e ghignavano, scoprendo i denti… Ammetto che era un ghigno idiota, ma anch’io devo essere sembrato un po’ stupido a frugarmi nelle tasche in quel modo.

Stavo per farli a pezzi! E se non fossero scappati li avrei uccisi!» Si ricordò di una recente scommessa: aveva preso un manichino protetto da una doppia corazza soaniana e lo aveva tagliato a metà dalla testa ai piedi con la spada. A quel pensiero un brivido gli percorse la schiena. Ora i due Grigi sarebbero potuti giacere a terra in una pozza di sangue, infilzati come maiali, mentre lui sarebbe rimasto lì con la spada in mano senza sapere che cosa fare… «Proprio un vero dio! Sei diventato una bestia!» Improvvisamente tutti i muscoli cominciarono a dolergli come se avesse fatto chissà quale sforzo fisico. «Su, su» si disse. Dopotutto, non era così terribile. Era tutto finito.

Questione di un attimo. Come un lampo che sparisce immediatamente. «Malgrado tutto sono un essere umano, perciò dentro di me ci dev’essere anche una parte di bestialità. Sono i nervi. I nervi e la tensione degli ultimi giorni. La cosa peggiore, comunque, è la sensazione di un’ombra che si sta avvicinando. Non sai che cosa sia, a chi appartenga, ma continua ad avvicinarsi e non si può fermarla…» Quella sensazione di ineluttabilità pervadeva tutto. Si percepiva nel fatto che gli Sturmovik, che fino a poco tempo prima si nascondevano vigliaccamente nelle loro baracche, ora marciavano tronfi in mezzo alle strade, cosa permessa solo ai nobili. E nel fatto che dalla città erano scomparsi cantastorie, menestrelli, danzatori, acrobati.

Nel fatto che i cittadini non cantavano più canzoni di argomento politico, erano diventati serissimi e sapevano sempre con certezza assoluta che cosa era bene per lo Stato. Nel fatto che il porto fosse stato chiuso improvvisamente e senza spiegazioni.

Nel fatto che le «folle indignate» avessero distrutto tutte le botteghe dei rigattieri, gli unici luoghi in tutto il regno in cui fosse ancora possibile comprare o farsi prestare libri e manoscritti in tutte le lingue, anche quelle morte dei nativi che vivevano dall’altra parte del golfo. Nel fatto che il simbolo della città, la torre luminosa dell’Osservatorio, si ergesse nel cielo come un dente nero e cariato: era stata bruciata da «un’esplosione accidentale». Nel fatto che il consumo di alcol fosse quadruplicato in due anni. Nel fatto che i contadini vessati e terrorizzati si seppellissero nelle cantine dei loro tuguri e non osassero uscirne neppure per svolgere i più indispensabili lavori nei campi. E infine, nel fatto che quella vecchia poiana di Waga Koleso avesse trasferito in città il suo quartier generale. Evidentemente doveva aver fiutato qualche ricca possibilità di bottino.

Da qualche parte all’interno del palazzo, negli appartamenti lussuosi in cui risiedeva il Re gottoso, il Re che negli ultimi vent’anni non aveva visto la luce del sole per paura del mondo esterno, il Re minorato che firmava una sentenza dopo l’altra mandando a morte le persone più onorate e generose… da qualche parte s’ingrossava un terribile bubbone che minacciava di scoppiare da un momento all’altro.

Rumata incespicò nei resti di un melone spiaccicato e alzò lo sguardo. Era sul Viale della Gratitudine Inesprimibile, nel quartière dove si trovavano i negozi migliori, gli usurai e i gioiellieri. Ai lati della via si susseguivano case antiche, i marciapiedi erano ampi, la strada lastricata di granito. Di solito era frequentata dai gentiluomini e dai ricchi aristocratici della città, ma in quel momento avanzava verso di lui una folla compatta di povera gente. Cautamente si tennero tutti alla larga da Rumata. Qualcuno l’osservava con curiosità, molti si inchinavano profondamente a scanso di equivoci. Visi tondi e lustri si sporgevano dalle finestre dei piani alti come piccoli fari, emozionati e quasi paralizzati dalla curiosità. Più avanti si sentivano voci imperiose: «Ehi, laggiù! Muovetevi! Disperdetevi! Volete sbrigarvi? Forza!» La folla commentava: «State attenti a quelli là, sono i peggiori, sono posseduti dal diavolo. Sembrano persone perbene, tranquille, sembrano mercanti come tutti gli altri. Ma guardateli un po’ più da vicino: dentro hanno un veleno, un veleno amaro…» «Se lo è meritato, quel demonio… Io ci sono abituato, ma mi bruciano ancora gli occhi…» «Bruciateli, sì! Mi si apre il cuore: possiamo contare sui nostri ragazzi».

«Non è stato troppo crudele? Dopotutto è un essere umano, una creatura di carne e sangue… Se uno sbaglia, be’, bisogna punirlo, chiarirgli le idee, ma perché…» «Basta con queste sciocchezze! E parla piano, amico. Qui non sei solo, vuoi tenerlo a mente? La gente ti ascolta».

«Caro signore! È un materiale eccellente, un tessuto ottimo. Approfittatene, prima che rincari di nuovo… prima che gli agenti di Pakin arraffino tutto…» «E soprattutto, figliolo, non dubitare mai! Credi e basta, è la cosa più importante.

Una volta che le autorità intervengono, puoi essere certo che sanno quello che fanno…» «È successo un’altra volta. Hanno picchiato a sangue qualche poveraccio». Rumata avrebbe voluto allontanarsi, girare alla larga dalla folla che arrivava, dalle grida. Ma non si voltò. Invece tirò indietro i capelli per scoprire la pietra incastonata nel cerchietto d’oro che portava intorno alla fronte. In realtà non era una pietra, ma la lente di una telecamera, e il cerchietto non era un ornamento ma una ricetrasmittente.

Gli storici sulla Terra potevano vedere e sentire tutto quello che i duecentoquindici emissari vedevano e sentivano sui nove continenti del pianeta. E gli emissari erano obbligati a stare a sentire e a guardare.

A testa alta, tenne le due spade orizzontali ai lati del corpo per allontanare la gente il più possibile e cominciò a camminare in mezzo alla strada. I curiosi si spostarono subito per lasciarlo passare. Quattro servitori dalle labbra tumide e pesantemente truccate trasportavano una portantina lucidissima. Dietro le tendine si intravedeva un viso freddo e bellissimo, con gli occhi semichiusi. Rumata si tolse il cappello con uno svolazzo e fece un inchino. Era Donna Okana, la favorita attuale dell’Aquila Illuminata, Don Reba. Accorgendosi di lui, la donna gli sorrise. I suoi occhi erano promettenti, appassionati. Almeno due dozzine di gentiluomini avrebbero dato qualunque cosa per quel sorriso. Un sorriso così era raro, in quei giorni, e non si comprava con l’oro. Rumata si fermò un momento, seguendo la portantina con lo sguardo. «Devo prendere una decisione» pensò. «Devo decidermi, finalmente».

Rabbrividì al pensiero delle conseguenze. Ma doveva essere così!» Io devo… Adesso lo so, e poi non ho scelta, non c’è altro modo. Stanotte». Passò accanto alla bottega dell’armaiolo dove, quella mattina, aveva provato i pugnali e parlato di poesia. Si fermò. «Ecco di cosa si trattava. Questa volta è toccato a te, caro Padre Hauk…» La folla aveva già cominciato a disperdersi. La porta della bottega era stata scardinata, le vetrine infrante. Uno Sturmovik Grigio con l’aria da bullo era appoggiato allo stipite della porta, con le gambe incrociate. Un altro era acquattato contro il muro. Il vento spingeva dei fogli scritti e strappati lungo la via. Il bullo si mise un dito in bocca e lo succhiò per un po’, lo tirò fuori e l’esaminò con cura.

Sanguinava. Poi si accorse di Rumata che lo fissava e disse con una voce roca e compiaciuta: «Quell’animale mordeva come un ossesso».

Il secondo Sturmovik ridacchiò, pieno di zelo. Un ragazzino magro e pallido, insicuro e foruncoloso. Era ovviamente un novellino, un principiante. Un mostriciattolo, una piccola iena.

«Che succede qui?» chiese Rumata.

«Hanno scoperto un topo di biblioteca» disse nervosamente la piccola iena.

Il bullo si rimise il dito in bocca senza scomporsi.

«At-tenti!» ordinò Rumata.

La piccola iena scattò in piedi e prese l’ascia. Il bullo rifletté un attimo, poi si mise più o meno sull’attenti.

«Un topo di biblioteca? Di che tipo? Chi è?» s’informò Rumata.

«Chi lo sa?» rispose il più giovane. «Ordini di Padre Zupik…»

«L’hanno preso?»

«Certo che l’hanno preso».

«Magnifico» disse Rumata.

Tutto sommato non era un gran guaio. C’era ancora tempo. «Il tempo è la cosa più importante. Un’ora può costare una vita, un giorno è inestimabile».

«E dove l’avete portato? Nella Torre?»

«Eh?» chiese il ragazzo distrattamente.

«Ti sto chiedendo se adesso è nella Torre».

Sul viso foruncoloso comparve un sorriso incerto.

Il bullo rise sguaiatamente. Rumata si voltò. Sull’altro lato della strada il cadavere di Padre Hauk penzolava dall’architrave di una porta. Ciondolava come un sacco pieno di stracci. Qualche piccolo vagabondo lo stava a guardare a bocca aperta.

«Di questi tempi non li mandano tutti nella Torre» disse la voce rauca del bullo dietro di lui. «Oggi si va per le spicce. Una corda al collo e buonanotte».

La piccola iena riprese a ridacchiare. Rumata lo fulminò con lo sguardo e attraversò la strada. Il poeta triste aveva il viso annerito e irriconoscibile. Rumata abbassò gli occhi. Solo le sue mani avevano conservato l’aspetto familiare, le lunghe dita sottili macchiate d’inchiostro…

Oggi nessuno si avventura più nella vita Sei preso per il collo.

Qualcuno ha chiesto Un altra possibilità?

Deboli e goffe Le sue mani fiacche cederanno.

Chissà dov’è nascosto il cuore del polpo Chissà se ha un cuore…

Rumata si voltò e se ne andò. «Povero Padre Hauk…» «Il polpo ha un cuore. E sappiamo dov’è. Ed è questa la cosa più terribile, amico mio muto e abbandonato. Sappiamo dov’è, ma non possiamo distruggerlo senza spargere il sangue di migliaia di persone spaventate, corrotte, acritiche, cieche. E sono in tanti, disperatamente tanti: gente misera, senza speranza, indurita da un lavoro incessante privo di ricompensa. Esseri umani abbrutiti che ancora non sono in grado di elevarsi sopra l’ideale dei pochi spiccioli. Troppo, troppo presto, in anticipo di un secolo si è diffusa ad Arkanar la peste Grigia, senza incontrare resistenza.

Perciò resta da fare una cosa sola: salvare i pochi che possono essere ancora salvati.

Budach, Tarra, Nanin, altri dieci o venti al massimo…» Ma solo al pensiero delle migliaia di altri, forse meno dotati ma comunque nobili e onesti, che erano condannati a perire, Rumata si sentì gelare, conscio della propria impotenza.

A volte quella sensazione lo sommergeva al punto di oscurare la sua consapevolezza. Rumata vedeva davanti a sé schiere di soldati Grigi che gli voltavano la schiena, illuminati dai lampi delle armi da fuoco; il viso insignificante di Don Reba divorato vivo da mosche ripugnanti; la Torre della Gioia che crollava lentamente su se stessa e diventava un cumulo di macerie… Non sarebbe stato meraviglioso? Un’impresa straordinaria. Un intervento in grande stile. Ma dopo…

sarebbe accaduto l’inevitabile. Il caos più sanguinoso avrebbe regnato sul paese. Le truppe notturne di Koleso sarebbero state in prima linea: diecimila schifosi assassini, gli scarti della società, scomunicati, molestatori di bimbi, stupratori, feccia della razza umana. Orde di barbari pellerossa sarebbero calate dalle montagne e avrebbero massacrato tutti, vecchi e bambini. Folle immense di contadini, artigiani e borghesi accecati dal terrore, sarebbero fuggiti a nascondersi nei boschi, sulle montagne, nel deserto. E i suoi compagni d’arme, uomini meravigliosamente coraggiosi, si sarebbero sgozzati l’uno con l’altro lottando per il potere e per il possesso della mitragliatrice dopo l’inevitabile fine violenta di Rumata, la sua morte… E quella morte stupida e volgare lo avrebbe sorpreso con un calice di vino offerto da un amico o una freccia scoccata da dietro una tenda. E poi il viso ferreo del suo successore mandato dalla Terra a sostituirlo, che avrebbe trovato un paese grondante di sangue e devastato dal fuoco. Un paese dove tutto, sì, tutto, sarebbe dovuto ricominciare dal principio…

Rumata spinse la porta di casa ed entrò nell’ingresso magnifico che stava già cadendo in rovina. Aveva il volto cupo come una tempesta pronta a scatenarsi. Muga il gobbo, il servitore dai capelli grigi che era stato lacchè per quarantanni, nel vederlo si spaventò. Curvò la schiena ancora di più e ritrasse la testa fra le spalle mentre il giovane padrone, furioso, si toglieva cappello, mantello e guanti, e gettava su una panca le spade, salendo velocemente nella sua stanza. Uno, il ragazzo, lo aspettava in salotto.

«Da’ ordine di servire il pranzo!» sbraitò Rumata. «Nel mio studio!»

Il ragazzo non si mosse.

«C’è qualcuno che vi sta aspettando» disse di malumore.

«Chi?»

«Una ragazza. Forse una nobildonna. Affascinante, vestita come una signora. È bella».

«Kyra» pensò Rumata, sollevato. La tensione cominciò ad allentarsi.

«Meraviglioso. Che bello che sia venuta proprio ora…» Si fermò, chiuse gli occhi per riacquistare completamente la calma.

«Devo cacciarla via?» chiese sollecitamente il ragazzo.

«Idiota!» esclamò Rumata. «Io caccio via te! Dov’è?»

«Nello studio» rispose il ragazzo con un sorriso umile.

«Pranzo per due» disse Rumata, entrando nello studio. «E niente visite! Neanche se fosse il Re, o il diavolo, o Don Reba in persona! Non voglio ricevere nessuno».

Entrando nello studio la vide. Era seduta in una grande poltrona, le gambe piegate da un lato sotto di sé, la testa appoggiata sulla mano sinistra, e sfogliava distrattamente il Trattato sulle voci.

Vide Rumata che entrava e fece per alzarsi in piedi. Ma lui non gliene diede il tempo, corse da lei, la baciò, immerse il viso nei suoi capelli morbidi e profumati e le sussurrò: «Sei venuta al momento giusto, Kyra! È magnifico!»

Kyra in fondo non era niente di speciale. Era una ragazza come tante, di diciott’anni, con il naso all’insù. Suo padre era assistente cancelliere del tribunale, suo fratello era sergente nella Milizia Grigia. Aveva pochi corteggiatori a causa dei suoi capelli ramati, perché le rosse non erano molto richieste ad Arkanar. Forse era quello il motivo della sua tranquillità e della sua timidezza sorprendenti: non aveva niente da spartire con le donne vistose e voluttuose che erano idolatrate dai ricchi e anche dai poveri. Non aveva neppure le caratteristiche delle languide dame di corte, costrette a imparare fin troppo presto e per sempre il loro ruolo di donne. Kyra era capace di vero amore, di amare come una terrestre: silenziosamente e senza riserve.

«Perché hai pianto?»

«Che cosa ti ha irritato tanto?»

«No, dimmi, perché hai pianto?»

«Te lo dirò poi. Hai gli occhi così stanchi. Che è successo?»

«Dopo. Chi ti ha insultato?»

«Nessuno. Per favore, portami via!»

«Te lo prometto».

«Quando ce ne andremo?»

«Cara, non lo so. Ma ce ne andremo, questo è certo».

«Lontano?»

«Molto lontano».

«Nella capitale?»

«Sì… Nella capitale. A casa mia».

«È bello, là?»

«Molto. Là non si piange mai».

«E com’è la gente?»

«Come me».

«Tutti?»

«Non tutti. Molti sono molto meglio di me».

«Impossibile!»

«Vedrai!»

«Perché è così facile crederti? Mio padre non crede a nessuno. Mio fratello dice che gli uomini sono tutti dei porci, degli schifosi. Ma non gli credo, non credo a quello che mi dicono, mentre a te credo sempre».

«Ti amo…»

«Aspetta… Rumata… Togliti il cerchietto. Hai detto che era peccato…»

Rumata sorrise. Si tolse il cerchietto dalla fronte, lo appoggiò sul tavolo e lo coprì con un libro.

«È l’occhio di Dio» disse. «Lasciamolo riposare un po’«.

La prese tra le braccia.

«È peccato, sì. Ma quando sono con te Dio non mi serve, vero?»

«Sì, è così» rispose piano la ragazza.

Quando si sedettero a tavola l’arrosto era ormai freddo e il vino di cantina si era riscaldato. Uno entrò camminando silenziosamente rasente il muro, come gli era stato insegnato da Muga, e cominciò ad accendere le candele anche se era ancora giorno.

«È il tuo schiavo?» domandò Kyra.

«No, lui è libero. Un ottimo ragazzo, solo molto tirchio».

«L’oro deve restare al suo posto» disse Uno senza voltarsi.

«Di certo non hai comprato le lenzuola nuove, vero?» chiese Rumata.

«E perché? Quelle vecchie sono ancora buone. Dureranno ancora un po’«.

«Ma non posso dormire con le stesse lenzuola per un mese, Uno!»

«Eh! Sua Altezza Reale dorme nelle stesse lenzuola per sei mesi e non si lamenta».

«E le candele?» disse Rumata, strizzando l’occhio a Kyra. «Le candele delle bugie?

Le hai avute gratis?»

Uno tacque per un momento.

«Ma avete visite!» disse poi enfaticamente.

«Vedi com’è!» esclamò Rumata.

«È un bravo ragazzo!» ribatté seria Kyra. «Ti vuole bene. Portiamolo con noi».

«Vedremo» disse Rumata.

Il ragazzo si accigliò sospettoso. «Dove dovrei andare? Non mi muovo di qui».

«Andremo in un posto dove tutti sono come Rumata».

Il ragazzo rifletté brevemente, poi disse con disprezzo: «In paradiso, eh? Come la nobiltà».

Poi sbuffò come un cavallo, e uscì trascinando le ciabatte. Kyra lo seguì con lo sguardo.

«Un bravo ragazzo» disse. «Diffidente come un orso. Ma ti è veramente amico».

«Tutti i miei amici sono brave persone».

«Anche il Barone Pampa?»

«Come fai a saperlo?»

«Parli solo di lui. Il Barone Pampa qui, il Barone Pampa là…»

«Il Barone Pampa è un buon compagno».

«Cosa vuol dire che è un compagno?»

«Voglio dire che è una brava persona. Molto gentile e affabile. E ama molto sua moglie, sopra ogni cosa».

«Mi piacerebbe incontrarlo… O hai altri progetti, per me?»

«No, no. Ma per quanto sia una brava persona, è pur sempre un barone».

«Ma…»

Rumata spinse via il piatto. «Adesso dimmi perché hai pianto. E perché sei venuta di corsa a casa mia, da sola. Lo sai che di questi tempi non è consigliabile».

«Non sopportavo più di stare a casa. Non voglio tornarci. Sarò la tua serva.

Gratis».

Rumata sorrise, ma allo stesso tempo sentì un nodo in gola.

«Ogni giorno mio padre copia le confessioni» continuò lei con una calma disperazione nella voce «e i documenti che ricopia sono macchiati di sangue. Li va a prendere nella Torre della Gioia. Oh, perché mi hai insegnato a leggere? Tutte le sere, tutte le notti, copia quei rapporti, e beve. È così orribile, orribile! ‘Guarda, Kyra’ mi dice il nostro vicino, il calligrafo, insegnava a leggere e scrivere alla gente. Riesci a immaginare che cos’era in realtà? Lo ha confessato sotto tortura: era un mago, una spia di Irukan. A chi, a chi si può credere ormai? Io stesso ho imparato da lui a leggere e scrivere’. E mio fratello torna a casa dal servizio puzzando di birra, con le mani sporche di sangue… ‘Li stermineremo tutti’ dice ‘fino alla dodicesima generazione’. Non vuol lasciare in pace mio padre, continua a chiedergli come mai sa leggere e scrivere… Oggi mi ha raccontato che con i suoi amici ha trascinato a casa nostra un uomo… Lo hanno picchiato finché non sono stati tutti sporchi di sangue, e finalmente lui ha smesso di urlare. Non posso andare avanti così, non voglio più tornarci, piuttosto la morte…»

Rumata le era accanto e le accarezzava i capelli. I suoi occhi asciutti e ardenti fissavano un punto nel vuoto. Cosa poteva dirle? La prese in braccio e la portò sul divano, si sedette vicino a lei e cominciò a parlare. Le parlò di templi di cristallo, di giardini che si estendevano per miglia e miglia senza sporcizia, moscerini, zanzare, spazzatura. Le parlò della tavola che serviva la cena da sé, del tappeto volante, della bella Leningrado, dei suoi amici, gente felice, buona e fiera, e di un paese meraviglioso oltre gli oceani, oltre i sette monti, chiamato Terra… Lei ascoltava tranquilla e attenta, stringendosi a lui, mentre dalla strada proveniva il rumore metallico degli scarponi sul selciato.

Kyra aveva una dote meravigliosa. Credeva incondizionatamente nel bene. Se lui avesse raccontato le stesse cose a un servo della gleba, l’uomo avrebbe fatto una smorfia stupida e incredula, si sarebbe soffiato il naso nella manica e l’avrebbe guardato a bocca aperta senza dire una parola, come avrebbe guardato una creatura leggendaria, pensando: «Che peccato! Un signore così buono, nobile, intelligente!

Peccato che gli abbia dato di volta il cervello!» Peggio ancora, se avesse detto quelle cose a Don Tameo o a Don Sera, non si sarebbero degnati di prestargli attenzione. Il primo si sarebbe addormentato e l’altro si sarebbe limitato a ruttare e a dire: «Interessante, interessante davvero… Ma le donne come sono?» Mentre Don Reba avrebbe ascoltato attentamente fino alla fine, poi avrebbe fatto un cenno ai suoi segugi, gli Sturmovik, perché slogassero le braccia al signore e scoprissero dove il signore aveva imparato quelle favole e chi altri le conosceva…

Quando Kyra si fu calmata e addormentata, la baciò piano sul viso, la coprì con la propria pelliccia, lasciò la stanza in punta di piedi e chiuse lentamente dietro di sé la porta cigolante. Scese le scale buie e andò nelle stanze della servitù, guardò le loro teste chine in segno di saluto e disse: «Ho assunto una governante. Si chiama Kyra.

Vivrà al piano di sopra e dividerà i miei appartamenti. Domani la stanza accanto allo studio dovrà essere pulita da cima a fondo. Obbedirete ai suoi ordini come se fossero i miei». Osservò per un attimo i servitori per vedere se qualcuno sogghignava.

Nessuno batteva ciglio; lo ascoltavano con il dovuto rispetto. «E se qualcuno osa mormorare alle mie spalle, gli strappo la lingua!»

Quando ebbe finito si fermò ancora un momento aspettando che quelle parole facessero effetto, poi si voltò e tornò nei suoi appartamenti. Il soggiorno era arredato con mobili bizzarri, macchiati dai resti di innumerevoli insetti, e dalle pareti pendevano a mo’ di decorazione dozzine di vecchie armi arrugginite. Rumata andò alla finestra, premette la fronte contro il vetro scuro e freddo e guardò giù in strada.

Proprio in quel momento il rintocco delle campane segnava la prima veglia. Dall’altra parte della via le finestre erano illuminate dietro le persiane chiuse, per evitare di attirare i malintenzionati e i fantasmi. Per un attimo fu tutto tranquillo. Una volta soltanto il silenzio fu rotto da un ubriaco che ringhiava orribilmente: forse lo stavano derubando, oppure aveva bussato a una porta non sua.

Quelle serate erano la cosa più terribile: tetre, solitarie e disperate. «Sapevamo che la battaglia si sarebbe trascinata a lungo, feroce ma vittoriosa» rifletté Rumata.

«Sapevamo che non avremmo mai deviato dalle nostre convinzioni circa il bene e il male, l’amico e il nemico. E in generale le nostre proiezioni si sono rivelate esatte, ma non potevamo prevedere tutto. Serate come queste, per esempio. Anche se ci aspettavamo che sarebbero arrivate».

Di sotto sentì il rumore del metallo che colpiva altro metallo: stavano sprangando le porte, preparandosi per la notte. La cuoca pregava san Michele che le mandasse un uomo, uno qualsiasi, purché avesse rispetto di sé e di lei. Il vecchio Muga sbadigliava e con il pollice disegnava cerchi nell’aria. I servi bevevano la loro birra in cucina e spettegolavano, mentre Uno lanciava loro occhiate di disapprovazione e li rimproverava come un adulto: «Vi laverà la bocca con il sapone, imbecilli».

Rumata si allontanò dalla finestra e cominciò a camminare su e giù per la stanza.

«Non c’è speranza» pensò. «In questo mondo nessun potere avrà mai la forza di strapparli alle loro abitudini, alle loro preoccupazioni, alle loro tradizioni consolidate.

Si potrebbe dare loro qualsiasi cosa. Si potrebbe trasferirli negli alloggi spettroacustici più avanzati, spiegare loro la ionizzazione, e continuerebbero a radunarsi in cucina per giocare a carte fino al mattino, indifferenti al vicino che picchia sua moglie. E non potrebbero avere passatempo migliore. Don Kondor ha ragione quando dice che Don Reba è un pidocchio, una nullità in confronto al peso schiacciante delle tradizioni, regole inflessibili santificate dai secoli, onorate da sempre, irrefutabili e familiari anche al peggiore idiota. Evitano di dover pensare e di doversi interessare a qualcosa. E Don Reba forse sarà appena menzionato nei libri di scuola: ‘Avventuriero di secondo piano vissuto all’epoca in cui si consolidò l’assolutismo’.

«Don Reba, Don Reba! Né alto né basso, né magro né grasso. Non ha capelli troppo folti, ma non è neppure calvo. I suoi movimenti non sono né energici né lenti.

Il suo viso si dimentica in un attimo: ci sono migliaia di persone che gli assomigliano.

Con le signore è cortese e galante. Un conversatore attento, quando vuole, ma non molto brillante…» Tre anni prima era emerso da qualche ufficio nel seminterrato della cancelleria, piccolo ufficiale insignificante… In quel periodo aveva ancora un atteggiamento servile, e il colorito pallido. A volte era addirittura grigiastro. Poco tempo dopo il primo ministro era stato improvvisamente arrestato e giustiziato. Molti alti ufficiali avevano perso la vita sotto le torture: erano impazziti di terrore senza neppure sapere che cosa fosse successo. Sui loro cadaveri era cresciuto un fungo gigantesco e incolore, quel genio della mediocrità ottuso e spietato.

«E una nullità. È emerso dal nulla. Non è la mente brillante sotto un governante debole che si incontra spesso nella storia. Non è neanche il grand’uomo che sparge il terrore dedicando tutta la sua vita a unificare la nazione nel nome dell’autocrazia. E non è neppure l’avido parassita che pensa solo alle donne e all’oro, quello che, ubriaco di potere, colpisce alla cieca e governa solo per uccidere. Si mormora addirittura che non sia affatto Don Reba, che Don Reba in realtà sia una persona molto diversa, mentre l’altro potrebbe essere un lupo mannaro, un sosia, un demonio…» Qualunque piano avesse in mente Don Reba, era destinato a fallire. Aveva istigato due famiglie principesche a combattersi e a tramare l’una contro l’altra per indebolirle, e aveva cercato di approfittare di questa inimicizia attaccando direttamente i baroni. Ma le due famiglie si erano riconciliate, giurando eterna fratellanza al tintinnio dei calici di champagne, e avevano sottratto al Re alcuni territori che erano da sempre appartenuti alla famiglia reale. Aveva dichiarato guerra a Irukan, guidato personalmente l’esercito fino al confine lasciando annegare i soldati nelle paludi o facendoli perdere nei boschi, ed era fuggito ad Arkanar. Grazie agli sforzi di Don Hug, che naturalmente era all’oscuro di tutto, era riuscito a strappare un trattato di pace al Duca di Irukan, costato la perdita di due città di confine. Il Re era stato costretto a mettere a repentaglio il suo tesoro, per fronteggiare la rivolta dei contadini che si era propagata per tutto il paese. Chiunque avesse commesso errori così stupidi sarebbe stato appeso per i piedi nella Torre della Gioia. Don Reba, invece, riusciva sempre a mantenere il potere. Con un decreto aveva sciolto i ministeri della Cultura e della Morale e aveva fondato il ministero della Sicurezza Interna per la Protezione della Corona, aveva allontanato l’aristocrazia locale e vari studiosi dalle posizioni chiave, aveva ribaltato l’economia del paese, aveva scritto un trattato Sulla stupidità degli allevatori e dell’ agricoltura, e un anno prima aveva creato le sue truppe speciali, i Grigi.

«Hitler era sostenuto dai capitalisti» pensò Rumata «ma non c’è nessuno dietro Don Reba. È inevitabile come il giorno dopo la notte che gli Sturmovik prima o poi lo ammazzino come una mosca». Eppure lui continuava a schivare i colpi, a tramare, a commettere una sciocchezza dopo l’altra, sfuggendo sempre alla rete che minacciava di intrappolarlo; imbrogliava e mentiva a se stesso giorno dopo giorno, ossessionato da un desiderio folle: distruggere tutta la cultura. Come Waga Koleso, non aveva un passato. Appena due anni prima tutti i parassiti aristocratici di corte ne parlavano con disprezzo, lo chiamavano imbroglione spregevole, ingannatore del Re. Invece adesso qualsiasi nobile si dichiarava parente stretto del ministro della Sicurezza, almeno da parte di madre.

«Ora sembra che abbia bisogno di Budach per qualche suo piano. Sarà l’ennesima calamità. Un altro disastro. Budach è un topo di biblioteca. Giù nella fossa! Facciamo un gran clamore, così tutti lo sapranno. Ma non c’è stato nessun clamore. Significa forse che Budach gli serve vivo? A che scopo? Reba non può essere tanto ingenuo da sperare di costringerlo a lavorare per lui. Ma forse dopotutto lo è. Potrebbe darsi che Don Reba sia solo un intrigante stupido ma abile, che non sa neppure lui cosa vuole, che si nasconde dietro una finta astuzia. È ridicolo. L’ho studiato per tre anni e ancora non riesco a definirlo. E se a sua volta mi osservasse non riuscirebbe a trarne migliori conclusioni. Ma tutto è possibile, questo è il bello. La teoria di base può elaborare un elenco articolato delle possibili mete psicologiche, ma in realtà esistono tanti obiettivi quanti esseri umani sulla Terra, e chiunque può raggiungere il potere. Anche uno che si dedica a truffare gli altri, a sabotarli, a rovinarli. Naturalmente alla fine sarà spodestato, ma intanto avrà avuto il tempo di mostrare il suo disprezzo per l’umanità, di danneggiarla il più possibile e, quel che è peggio, di rallegrarsi delle sue malefatte.

E non gli importa se la storia non si chiederà mai chi era, e se i suoi discendenti si spremeranno le meningi per classificare la sua condotta in modo da adeguarla alle teorie più avanzate sulle leggi della storia». Improvvisamente, Rumata si ricordò di Donna Okana. «Su, deciditi» pensò. «Comincia subito. Una volta che un dio si decide a spazzar via tutto, non ha bisogno di avere le mani pulite…» Il pensiero di ciò che l’aspettava gli dava la nausea. Ma era sempre meglio che uccidere. Meglio il letame del sangue.

In punta di piedi, per non svegliare Kyra, entrò nello studio e si cambiò. Indeciso, giocherellò con il cerchietto trasmittente, poi lo infilò risolutamente in un cassetto della scrivania. Si mise una piuma bianca dietro l’orecchio sinistro, simbolo della passione, si allacciò le due spade alla cintura e si avvolse nel mantello più elegante che aveva. Aprendo il portone, pensò: «Se Don Reba lo verrà a sapere, per Donna Okana sarà la fine. Ma è troppo tardi per tornare indietro».

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