Capitolo II

Rumata si svegliò di soprassalto. Aprì gli occhi. Era ormai giorno. Per strada, proprio sotto le sue finestre, si sentiva litigare. Qualcuno, probabilmente un soldato, gridava: «Maledetto pezzente! Guarda che schifo! Te lo faccio pulire con la lingua!

Zitto! Giuro sulla gobba di san Michele che mi stai facendo uscire dai gangheri!» Buongiorno, pensò Rumata.

Un’altra voce, rauca e grossolana, brontolava: «Farebbe meglio a guardare dove mette i piedi, in questa strada schifosa! Stamattina è piovuto, ma chi lo sa quando hanno spazzato l’ultima volta».

«Mi vuoi insegnare dove devo guardare, eh?» «Farebbe meglio a lasciarmi andare, signore. Vuole lasciarmi stare?» «Oh, certo, certo…» Rumata sentì il rumore di uno schiaffo. Era evidentemente il secondo. Il primo lo aveva svegliato.

«Farebbe meglio a smetterla, signore». Una voce familiare. Chi poteva essere?

Probabilmente Don Tameo. «Oggi gli farò riprendere quel ronzino decrepito. Chissà se imparerò mai a distinguere un buon cavallo da uno scadente. Ma del resto in famiglia non siamo famosi come esperti di cavalli. Cammelli, sì. Siamo esperti in cammelli da combattimento. Meno male che qui su Arkanar non ce n’è quasi».

Rumata si stiracchiò fino a sentir scricchiolare le giunture. Cercò a tastoni il cordone di seta appeso alla testiera del letto e lo tirò. Sentì suonare i campanelli, ma non giunse nessuno. «Sarà senz’altro alla finestra a guardare la rissa. Potrei anche alzarmi e vestirmi da solo, ma darei solo adito a nuove chiacchiere».

Ascoltò di nuovo l’ondata di insulti che proveniva dalla strada. L’inventiva della lingua umana! Che entropia, che contrasto con l’incertezza della conoscenza!

«Ultimamente» continuò a riflettere Rumata «tra le truppe della guardia sono comparsi dei sapientoni che affermano che in battaglia si può usare una spada soltanto, mentre la seconda dev’essere riservata ai duelli per strada… E Don Reba presta troppa attenzione alle loro preoccupazioni nella gaia Arkanar. A proposito, Don Tameo non è uno di loro. È troppo vigliacco, il nostro caro Don Tameo, un incorreggibile politicante da salotto. È proprio orribile cominciare la giornata con Don Tameo…» Si sedette sul letto, intrecciando le mani intorno alle ginocchia sotto il copriletto ricamato. Era in preda alla più nera disperazione. «Si può meditare in eterno, continuare a riflettere sulla nostra impotenza di fronte alle circostanze… Sulla Terra non mi sognerei neppure di farlo. Sulla Terra siamo uomini forti e decisi, con un addestramento psicologico specializzato, pronti a tutto. E abbiamo i nervi saldi. Per esempio riusciamo a non distogliere lo sguardo quando un poveraccio viene picchiato o giustiziato. Siamo capaci di esercitare un autocontrollo tremendo. Riusciamo ad ascoltare imperturbabili le chiacchiere incessanti degli idioti più abbietti. Abbiamo anche dimenticato come si fa a disgustarsi. Non ci importa se ci mettono davanti un piatto da cui ha mangiato un cane, o pulito con uno straccio sporco. Non siamo attori meravigliosi? Non ricadiamo nella nostra lingua madre o in un’altra lingua terrestre neppure in sogno. Dopotutto disponiamo di un’arma invincibile: la basilare teoria del feudalesimo, elaborata nei nostri uffici tranquilli e nei nostri attrezzati laboratori, basata su ricerche assidue e discussioni serie…

«È un vero peccato che Don Reba non abbia la minima cognizione di quella teoria.

Ed è un vero peccato che il nostro addestramento psicologico si stacchi come pelle bruciata, che dobbiamo adattarci a condizioni estreme, che siamo costretti a subire un costante ricondizionamento mentale: stringi i denti e ricordati che sei un dio in incognito. Ricordati che loro non sanno quello che fanno, e che sono quasi del tutto esenti da colpe. E per questo devi avere la pazienza di Giobbe, pazienza, pazienza… E intanto le fonti dell’umanesimo dentro di noi, che sulla Terra sembravano inesauribili, qui si stanno inaridendo a velocità impressionante. San Michele! Sulla Terra non eravamo forse dei veri umanisti, degli amanti dell’umanità? L’umanesimo era il sostegno della nostra natura, e nel nostro rispetto per l’essere umano, nel nostro amore per l’uomo eravamo quasi giunti all’antropocentrismo… Adesso scopriamo con orrore che in realtà non amavamo l’umanità, ma i nostri compagni, i compatrioti che ci assomigliavano… E sempre più spesso ci scopriamo a chiederci: ma questi sono proprio esseri umani? Saranno capaci di diventarlo, con il tempo? E poi ricordiamo persone come Kyra, Budach, Arata il gobbo, o l’insuperabile barone Pampa, e ci vergogniamo… Ma anche questo è altrettanto raro e spiacevole. Peggio ancora, non ci aiuta affatto…

«Va bene, basta così. Non al mattino presto, almeno. E al diavolo Don Tameo!

Dentro di me si sono accumulati tanti problemi, e in questo isolamento non ho modo di sbarazzarmene. Ecco cosa mi blocca: l’isolamento, la solitudine. Come ci chiamavano, a casa? Giovani forti, sicuri e decisi. Avremmo mai immaginato di dover affrontare tanta solitudine? Nessuno ci crederebbe. Anton, amico mio, che ti succede? A ovest, a neanche tre ore di volo, vive Aleksandr Vassilevic, un brav’uomo con un gran cervello. A est c’è Pashka, un amico allegro e fedele, che è stato a scuola con te per sette anni. E solo una depressione temporanea, Anton. Peccato, credevamo che avessi più resistenza. Che sgobbata. Ti capiamo. Perché non torni a casa, sulla Terra, ti ristabilisci occupandoti di ricerca teoretica, poi si vedrà…

«Si dà il caso che Aleksandr Vassilevic sia un dogmatico per eccellenza. Quindi, se la teoria di base non contempla i Grigi… In quindici anni di studio, amico mio, non ho mai incontrato una simile eccezione’. In altre parole, le orde Grigie esistono solo nella mia mente. E se me le sono sognate significa solo che sono stressato, sotto pressione, che dovrebbero rimandarmi a casa per un periodo di riposo. ‘Va bene, Don Rumata, prometto di occuparmene personalmente e di comunicarvi le mie scoperte. Nel frattempo, però, datemi la vostra parola: niente eccessi, prego…’ E Pavel, che da ragazzo chiamavo Pashka. Adesso è uno scienziato, un esperto, un cervello pieno di informazioni. Si è immerso completamente nello studio della storia dei due pianeti e ha verificato che il fenomeno delle orde Grigie rappresenta l’avvenimento più comune nel rapporto tra la borghesia e i Baroni. ‘A proposito, tra qualche giorno verrò a trovarti. Per essere sincero, l’incidente con Budach mi secca, quando ci penso.

Grazie! E questo è tutto! Mi occuperò io del caso Budach, anche se non servo più a molto.

«L’eruditissimo Dottor Budach. Un grande medico, cittadino leale di Irukan. Il Duca stava per farlo cavaliere, poi ha cambiato idea e ha preferito incarcerarlo. Il migliore specialista di droghe curative dell’Impero. Autore del ramosissimo trattato Delle erbe e altre piante, quali enti in forme misteriose causino dolore, gioia o tranquillità; dei fluidi salivari e corporali dei rettili ragni e della scrofa Y, che dispone di dette caratteristiche e di molte altre ancora. Indubbiamente una persona non comune, un vero gigante dello spirito, allo stesso tempo umanista ed eccentrico squattrinato. I suoi beni consistevano solo in un sacco pieno di libri. Ma chi ha bisogno di te, dottor Budach, in questo paese di ignoranti che nuotano in un pantano sanguinoso fatto di cospirazioni e avidità?

«Supponiamo che tu sia vivo e sia ad Arkanar. Naturalmente potresti essere caduto in mano ai barbari, che devastano periodicamente le campagne scendendo dalle loro piazzeforti sulla montagna. Se così fosse, allora Don Kondor potrebbe mettersi in contatto con il nostro amico Schumtuletidovodus, specialista di storia delle culture antiche, che adesso lavora come sciamano alle dipendenze di un capitano che ha un nome di quarantacinque sillabe. Ma se fossi ad Arkanar, prima di tutto potresti essere stato catturato dalle bande di Waga Koleso. No, non proprio catturato; ti avrebbero solo portato con loro perché avrebbero considerato il tuo compagno il miglior bottino, il tuo amico, un signore che si è giocato tutto il patrimonio. In ogni caso non ti ucciderebbero. Waga Koleso è troppo avido.

«C’è un’altra possibilità, però. Che qualche idiota di barone ti prenda tra le sue grinfie. Senza cattive intenzioni, solo per noia, per una forma perversa di ospitalità.

Solo perché vorrebbe bere in compagnia di un nobile ospite. Allora manda le sue schiere a rapirti e a portarti al castello. In questo caso saresti in un salone puzzolente ad aspettare che i signori siano ubriachi fradici e se ne vadano. Però non ti succederebbe niente di male.

«Ma sarebbe tutt’altra faccenda con il resto dell’esercito contadino di Don Ksi e Pert Posvonocnik, che dopo la sconfitta si è ritirato nel villaggio di Nido Marcio, segretamente finanziato dal nostro Don Reba, nel caso dovessero sorgere complicazioni nei suoi rapporti con i baroni. Quei contadini non hanno pietà: meglio non pensarci. E poi c’è Don Satarina, un aristocratico bisbetico di centodue anni, naturalmente arteriosclerotico. Mantiene il feudo di famiglia con i duchi di Irukan e cattura, quando ne ha la forza, tutto quello che attraversa il confine irukano. È molto pericoloso. Quando subisce l’influenza di Cholezistit, è capace di dare ordini dalle conseguenze così disastrose che le chiese non fanno neppure in tempo a recuperare i cadaveri.

«Poi c’è l’ultima possibilità. Non è la più pericolosa, ma è la più probabile: la Pattuglia Grigia di Don Reba. Gli Sturmovik. Saresti potuto incappare in loro per puro caso, Budach, e allora la tua unica speranza sarebbe stata il sangue freddo e la prontezza di spirito del tuo compagno. Ma se Don Reba fosse interessato a te personalmente? Perché Don Reba a volte dimostra interessi inaspettati… Le sue spie potrebbero avergli riferito che stavi attraversando Arkanar, e allora ecco che invia uno dei suoi distaccamenti al comando di un ufficiale Grigio pieno di zelo. E questo cretino di basso rango potrebbe essere responsabile della tua fine nella Torre della Gioia…» Rumata diede un altro strattone al cordone, spazientito. La porta della camera si aprì con un cigolio fastidioso e nella stanza entrò un ragazzo magro, dall’aria cupa. Si chiamava Uno, e la sua vita avrebbe potuto essere un buon tema per una ballata. Si fermò sulla soglia, inchinandosi profondamente, strisciando le scarpe rotte sul pavimento, e andò verso il letto. Sul comodino appoggiò un vassoio con alcune lettere, una tazza di caffè e una crosta di pane raffermo, che doveva servire a rafforzare e a pulire i denti. Rumata lo guardò, molto infastidito.

«Di’ un po’, quand’è che olierai quella porta cigolante?»

Il ragazzo taceva e fissava il pavimento. Rumata scostò il copriletto, si sedette sulla sponda del letto e prese il vassoio.

«Ti sei lavato stamattina?» chiese.

Il ragazzo si appoggiava prima su un piede e poi sull’altro; senza rispondere, cominciò a girare per la stanza e a raccattare i vestiti sparsi sul pavimento.

«Mi sembra di averti chiesto se stamattina ti sei lavato» ripeté Rumata, aprendo la prima lettera.

«L’acqua non lava i peccati» brontolò sottovoce il ragazzo. «Quindi perché mai dovrei lavarmi, signore?»

«Che cosa ti ho detto dei microbi?» disse Rumata.

Il ragazzo appoggiò con cura i pantaloni verdi del padrone sullo schienale di una poltrona, poi con il pollice vi segnò sopra un cerchio per scacciare gli spiriti maligni.

«Stanotte ho pregato tre volte. Cosa potevo fare di più?»

«Imbecille» disse Rumata, e cominciò a leggere la lettera.

Era di Donna Okana, una dama di compagnia, l’ultima favorita di Don Reba. Lo invitava ad andarla a trovare quella sera stessa, e si firmava «languente d’amore per voi». Il poscritto diceva molto chiaramente che cosa si aspettava da quell’appuntamento galante. Rumata era imbarazzato. Arrossì. Guardando di sfuggita il ragazzo, mormorò: «Questo è davvero troppo…» Doveva pensarci su. Andarci sarebbe stato disgustoso, ma non andarci sarebbe stato stupido. Donna Okana era molto ben informata. Sorseggiò velocemente il caffè e mise in bocca la crosta.

L’altra busta era di carta pesante. Il sigillo era manomesso. Ovviamente la lettera era stata aperta. Veniva da Don Ripat, un tenente della Milizia Grigia arrivista e senza scrupoli, che si informava della sua preziosa salute, esprimeva la propria fiducia nella vittoria imminente della Causa e pregava di posporre il pagamento del suo debito citando varie circostanze sfavorevoli. «Va bene, va bene» brontolò Rumata mettendo da parte la lettera per riprendere in mano la busta ed esaminarla con grande interesse. Oh sì, ora lavoravano più accuratamente, molto più accuratamente.

La terza lettera conteneva la sfida a duello a causa di una certa Donna Pifa, ma lo scrivente era pronto a ritirarla se Don Rumata avesse testimoniato che lui non aveva avanzato pretese su Donna Pifa. La lettera era tipica: il testo base scritto da un calligrafo, e gli spazi bianchi riempiti goffamente e con molti errori con i nomi e le date del caso.

Rumata posò la lettera, grattandosi le punture di zanzara sulla mano sinistra.

«Voglio lavarmi. Porta il necessario!»

Il ragazzo sparì dietro la porta, ritornando subito con una tinozza di legno che trascinò sul pavimento, traballando per lo sforzo. Poi uscì di nuovo dalla stanza e tornò trascinando una vasca vuota e un grosso mestolo.

Rumata balzò in piedi, si tolse la camicia da notte fittamente ricamata e slacciò rumorosamente le spade appese sopra la testiera del letto. Il ragazzo si rannicchiò cautamente dietro una sedia. Rumata si esercitò all’attacco e alla difesa per dieci minuti, poi appoggiò le spade al muro, si chinò sulla vasca vuota e ordinò l’acqua. Era piuttosto scomodo lavarsi senza sapone, ma ormai ci si era abituato. Il ragazzo raccoglieva l’acqua con il mestolo e gliela versava sulla schiena, sul collo e sulla testa, un mestolo dopo l’altro. Intanto continuava a borbottare: «Dappertutto ci si comporta come esseri umani, sciocchezze raffinate. Ma quando mai? Lavarsi con due secchi d’acqua? Tutti i giorni un asciugamano pulito… E Sua Signoria che tutte le mattine salta su nudo con due spade senza neanche aver detto le preghiere…»

Rumata si asciugò vigorosamente dicendo in tono autoritario: «Sono un membro della corte, non un barone pidocchioso. Un cortigiano dev’essere sempre pulito e profumato».

«Sua Altezza Reale non vi annusa mica» ribatté il ragazzo. «Lo sanno tutti che Sua Altezza prega giorno e notte per noi peccatori. E Don Reba, lui non si lava mai. Lo so per certo, me lo ha detto il suo servo».

«Va bene, non preoccuparti» disse Rumata infilando la maglietta. Il ragazzo lo guardava costernato. Ormai da un po’ di tempo ad Arkanar circolavano pettegolezzi tra i servi. Ma Rumata non poteva farci niente. Mentre si infilava le mutande, il ragazzo si voltò dall’altra parte, muovendo le labbra come per scacciare lo spirito dell’impurità.

«Eppure non sarebbe una cattiva idea lanciare la moda della biancheria intima» pensò Rumata. Ma quelle innovazioni avrebbero potuto essere introdotte solo con la collaborazione del gentil sesso. E anche in questo campo, sfortunatamente, lui si distingueva per la sua raffinatezza. Piuttosto scomoda per una spia. Per un cavaliere, un uomo di mondo, un conoscitore dell’etichetta di corte, un dignitario inviato nelle province e abituato a battersi in duello e a sistemare faccende di cuore, avere una ventina di amanti era una cosa normale. Rumata si sforzava eroicamente di mantenersi all’altezza di quell’aspettativa, e metà dei membri della sua agenzia, invece di dedicarsi a cose più serie, faceva circolare le voci più spregevoli. Voci intese a destare l’invidia e la delizia dei giovani della Guardia di Arkanar. Si diceva che decine di signore estasiate o deluse a cui Rumata faceva visita fino a tarda notte, recitando loro poesie (terza notte di veglia: un bacio fraterno sulla guancia della signora, un gran salto oltre la balaustra del balcone, giù in braccio al comandante delle sentinelle che lo conosceva bene), decine di signore cercavano di superarsi l’un l’altra con i racconti della classe straordinaria di quel vero cavaliere. Rumata sfruttava per i suoi scopi la vanità di quelle donne, depravate fino a essere ripugnanti.

Comunque non si parlava mai della sua biancheria.

Con i fazzoletti era stato tutto molto più semplice. In occasione di un ballo aveva estratto dal taschino del panciotto un elegante fazzoletto di seta con cui si era asciugato ostentatamente le labbra. Al ballo successivo i giovani si asciugavano il viso sudato con scampoli di tessuti piccoli o grandi, di vari colori, vivacemente ricamati e con tanto di monogramma. Nel giro di un mese gli uomini facevano a gara nel drappeggiarsi vere e proprie lenzuola attorno al braccio, trascinandone elegantemente gli angoli dietro di sé…

Rumata infilò i calzoni verdi e una camicia bianca di batista con il colletto alto appena stirato.

«Visitatori?» chiese al ragazzo.

«Il barbiere la sta aspettando. E due signori l’attendono in salotto. Don Tameo e Don Sera. Mi hanno detto di portare del vino, e stanno litigando. Aspettano di fare colazione con lei».

«Va’ a chiamare il barbiere. Di’ a quei signori che li raggiungerò presto. Ma non essere sgarbato con loro, hai capito? Devi essere sempre gentile».

La prima colazione non fu molto ricca, e lasciò spazio a un pranzo. Insieme a un arrosto molto speziato furono servite orecchie di cane marinate nell’aceto. Bevvero vino frizzante irukano, il denso rosso estoriano e il bianco di Soan. Disossando abilmente un cosciotto d’agnello con l’aiuto di due pugnali, Don Tameo cominciò a lagnarsi della temerarietà crescente delle classi inferiori. «Presenterò le mie lamentele alle più alte autorità» dichiarò. «La nobiltà pretende che alla plebe, ai contadini e agli artigiani venga proibito di farsi vedere nei luoghi pubblici e per la strada. Che usino i cortili e le entrate di servizio. Nelle situazioni in cui la loro presenza non può essere evitata, ad esempio per la consegna di pane, carne o vino, devono avere un permesso speciale del ministro per la Protezione della Corona».

«Che mente geniale!» Don Sera parlava con entusiasmo, spruzzando generosamente l’aria di saliva e sugo. «Ma ieri sera, a Corte…» E riferì l’ultimo pettegolezzo. La favorita attuale di Don Reba, la dama di compagnia Okana, aveva calpestato sbadatamente il piede malato del Re. Sua Altezza era andato su tutte le furie e si era rivolto a Don Reba, ordinandogli di assegnare alla malcapitata una punizione esemplare. Al che Don Reba, senza batter ciglio, aveva risposto: «Sarà fatto, Vostra Altezza! Stanotte stessa».

«Ho riso tanto che mi si sono staccati due bottoni dal panciotto!» disse Don Sera, piegando indietro la testa.

«Protoplasma» pensò Rumata. «Sei solo un blocco di protoplasma che mangia, digerisce e si riproduce».

«In effetti, signori» disse «Don Reba è davvero un uomo molto, molto intelligente».

«Oh! Oh!» esclamò Don Sera. «Di più: è un luminare, un intellettuale!»

«Uno statista eccezionale» aggiunse Don Tameo enfaticamente, con aria da esperto.

«È davvero strano» continuò Don Rumata sorridendo affabilmente «se si pensa a quello che si diceva di lui soltanto un anno fa. Don Tameo, ricordate le vostre battute di spirito sulle sue gambe storte?»

Don Tameo stava sorbendo un bicchierino di vino irukano, che gli andò quasi di traverso.

«Non ricordo affatto» brontolò. «E poi non sono un uomo spiritoso…»

«Se ne ricorderà senz’altro» disse Don Sera, scuotendo la testa in segno di rimprovero.

«È così, infatti!» insistette Rumata. «Era presente anche lei, Don Sera! Ricordo benissimo come rideva alle battute di Don Tameo. Rideva così di gusto che le si scucì qualcosa dal vestito».

Don Sera divenne di tutti i colori e cominciò a presentare giustificazioni prolisse e confuse. Stava mentendo spudoratamente. Don Tameo si era incupito e immusonito.

Si dedicò con tutto il cuore al vino estoriano e siccome, a sentir lui, aveva cominciato da due settimane e fino a quel momento non era stato capace di smettere, quando alla fine si alzarono da tavola dovette essere sorretto dagli altri due.

Era una piacevole giornata di sole. Il popolino si radunava nelle strade a bocca aperta come se ci fosse qualcosa da vedere. I ragazzini fischiettavano e schiamazzavano tirandosi manciate di fango. Massaie con la cuffietta stavano alla finestra. Servette impudenti lanciavano languide occhiate. L’umore di Don Sera cominciò a migliorare. Fece lo sgambetto a un contadino, sbellicandosi poi nel vederlo cadere nel fango. Don Tameo si accorse improvvisamente di aver indossato il fez con lo stemma delle due spade al contrario. Gridò: «Ferma!» e si tolse il fez reggendolo alto, tentando di girargli di sotto con il corpo. Dal panciotto di Don Sera si staccò di nuovo qualcosa. Rumata fermò una graziosa servetta che passava, le tirò un orecchio e la pregò di rimettere a posto il copricapo di Don Tameo. Intorno ai tre signori si radunò una folla di curiosi, tutti molto solleciti nel dare consigli alla ragazza, che era diventata rossa come un pomodoro. Intanto dal panciotto di Don Sera continuavano a staccarsi bottoni, fibbie e gancetti. Alla fine, quando ripresero il cammino, Don Tameo ritrovò il coraggio di aggiungere una precisazione alla sua lamentela, mettendo in rilievo la necessità di tenere a debita distanza dai contadini e dal popolino gli esseri graziosi di sesso femminile.

Un carro carico di vasi di terracotta ostruiva la strada. Don Sera sguainò entrambe le spade, dichiarando che era sconveniente e indegno di tre signori dover girare attorno a dei vasi, e che era sua intenzione aprirsi la via attraversando il carro. Ma mentre cercava di prendere la mira e di distinguere dove finiva il muro e dove cominciavano i vasi, Rumata afferrò i raggi delle due ruote e girò il carro, sgomberando la strada.

La folla, che aveva assistito a bocca aperta, cominciò ad applaudire. I signori stavano per riprendere il cammino quando da una finestra al secondo piano apparve la testa brizzolata di un mercante, il quale tuonava contro la maleducazione dei cortigiani, a cui la nostra aquila illuminata, Don Reba, avrebbe posto presto rimedio.

Naturalmente dovettero fermarsi un’altra volta per trasferire tutto il carico di vasi dentro la finestra. Rumata salvò l’ultimo vaso, vi gettò dentro due monete d’oro con l’effigie di Pitz Sesto e lo diede al proprietario del carro, allibito.

«Quanto gli ha dato?» chiese poi Don Tameo.

«Oh, non vale la pena di parlarne» rispose Rumata con un’alzata di spalle. «Due monete d’oro».

«Per la gobba di san Michele!» esclamò Don Tameo. «Ha davvero del denaro! Se vuole le vendo il mio stallone camalariano!»

«Preferirei vincerlo agli astragali» disse Rumata.

«Splendido!» gridò Don Sera fermandosi di colpo. «Giochiamo!»

«Qui?» chiese Rumata.

«Perché no?» disse Don Sera. «Non vedo perché tre gentiluomini non possano giocare agli astragali quando ne hanno voglia».

Improvvisamente Don Tameo inciampò, cadendo lungo disteso nel fango. Anche Don Sera incespicò e cadde.

«Oh, mi ero completamente dimenticato che ora dovremmo entrare in servizio»

disse.

Rumata li rimise in piedi e li guidò tenendoli per il braccio, fermandosi davanti al palazzo tetro di Don Satarina.

«Dovremmo fargli visita» suggerì.

«Certo, non vedo perché tre gentiluomini non potrebbero andare a trovare Don Satarina» disse Don Sera.

Don Tameo aprì gli occhi.

«Essendo al servizio del re» riuscì a dire faticosamente «dovremmo tutti guardare al futuro. D-d-don Satarina… è già una reliquia del passato. Avanti, signori! Devo andare al mio posto di guardia!»

«Avanti!» ripeté Don Rumata.

Don Tameo lasciò cadere la testa sul petto; non si svegliò per un bel pezzo. Don Sera, facendo schioccare le dita, cominciò a parlare dei suoi innumerevoli successi amorosi. Giunsero a palazzo ed entrarono nella sala delle guardie, dove Rumata, con grande sollievo, fece sdraiare Don Tameo su una panca. Don Sera, da parte sua, si sedette, allontanò con un gesto superbo del braccio una pila di ordinanze firmate dal re e dichiarò che era venuto finalmente il momento di bersi un bicchiere di vino irukano ghiacciato. Disse che il padrone doveva portarne un barilotto e che quelle zitelle (indicando gli ufficiali in servizio che stavano giocando a carte a un altro tavolo) avrebbero dovuto unirsi a loro per un brindisi. Venne il comandante della guardia. Squadrò Don Tameo e Don Sera. E dopo che Don Sera gli ebbe chiesto: «Perché tutti i fiori appassiscono al riparo della mia solitudine?» concluse che non avrebbe avuto senso mandarli al loro posto di guardia in simili condizioni; sarebbe stato meglio lasciarli per un po’ dov’erano.

Rumata gli vinse una moneta d’oro e scambiò con lui quattro chiacchiere sui nuovi nastri delle uniformi e sul modo migliore di lucidare le spade. Poco dopo disse che pensava di fare una visita a Don Satarina, che a quanto si sapeva possedeva delle ottime mole, e sembrò visibilmente contrariato quando gli dissero che il nobiluomo aveva ormai perso la ragione.

Raccontavano che un mese prima aveva rilasciato tutti i prigionieri, sciolto la guardia del corpo e ceduto allo Stato il suo ricco arsenale di strumenti di tortura. A centodue anni il vecchio aveva dichiarato che ormai aveva intenzione di dedicarsi alle opere buone. Probabilmente non gli restava molto da vivere.

Rumata prese commiato dal comandante e lasciò il palazzo, andando verso il porto.

Doveva evitare le pozzanghere e saltare i solchi delle ruote pieni di acqua verdastra.

Senza scomporsi allontanava dal suo cammino i fannulloni, ammiccava alle ragazze, che sembravano molto colpite dal suo aspetto, si inchinava alle dame che si facevano trasportare nelle portantine, salutava i conoscenti e ignorava deliberatamente gli Sturmovik Grigi.

Fece una piccola deviazione per dare un’occhiata alla Scuola dei Patrioti. La scuola era stata fondata due anni prima con il patrocinio di Don Reba in persona per addestrare i figli dei mercanti e dei piccolo-borghesi destinati a diventare sottufficiali o a entrare nell’amministrazione. Era un edificio di pietra senza colonne o fregi. Le mura spesse avevano finestre piccole e simili a feritoie, e ai lati dell’entrata si ergevano due torri semicircolari. Se necessario, là dentro ci si poteva asserragliare.

Rumata salì una stretta scala a chiocciola che portava al secondo piano, facendo risuonare gli speroni. Per andare verso l’ufficio del procuratore della scuola doveva passare davanti alle aule, da cui proveniva un ronzio monotono e uniforme di risposte date all’unisono. «Com’è il nostro Re?» «Una persona sublime» «Come sono i nostri ministri?» «Leali e senza spirito di contraddizione» «E Dio, il Creatore, parlò: ‘Io maledico’. Ed Egli maledì…» «‘…e al secondo squillo di tromba, formate una catena a due a due, tenendovi pronti a colpire con le lance…’ ‘…nel caso in cui il torturato perda i sensi, sospendere immediatamente la tortura…’««La scuola» rifletté Rumata. «La culla del sapere, il perno della cultura…» Senza bussare, aprì la porta ed entrò nell’ufficio. Era buio e freddo come una cripta. Dietro una scrivania enorme ingombra di carte e di sferze si alzò in piedi un uomo alto e ossuto. Era calvo e con gli occhi infossati, e sull’uniforme grigia coperta di passamanerie intrecciate spiccavano le spalline del ministro della Sicurezza. Era il procuratore della Scuola dei Patrioti, l’esimio Padre Kin, sadico, assassino e monaco allo stesso tempo, autore del Trattato sulle denunce, che aveva attirato l’attenzione di Don Reba.

«Ebbene, come vanno le cose qui?» chiese Don Rumata con un sorriso benevolo.

«Le persone istruite… Certe le ammazziamo, altre le indottriniamo, eh?»

Padre Kin sorrise beffardo.

«Non tutte le persone istruite sono da considerare nemiche della corona» disse. «I nemici del Re sono i sognatori, gli scettici e i dissidenti sleali! Mentre qui il nostro compito…»

«Certo, certo» disse Rumata. «Le credo. State scrivendo qualcosa di nuovo? Ho letto il suo trattato. Un’opera utile, ma stupida. Come può pensare certe cose? Da dove le vengono certe idee? Non è un bene, mio caro… procuratore, vero?»

«Io non mi vanto di essere particolarmente intelligente o saggio» rispose Padre Kin con dignità. «Il mio unico scopo è il bene dello Stato. Non abbiamo bisogno di persone intelligenti. Abbiamo bisogno di lealtà. E…»

«Basta, basta. Va bene. Allora, state scrivendo qualcosa di nuovo?»

«Ho intenzione di presentare al ministro un abbozzo del Nuovo Stato perché lo esamini. Ho preso a modello il Regno del Sacro Ordine».

Rumata era allibito. «Intendete farci diventare tutti monaci?»

Padre Kin giunse le mani e si chinò in avanti.

«Permettetemi, signore, di spiegarmi meglio» disse con tono emozionato, leccandosi le labbra. «Il nocciolo della questione consiste in qualcos’altro. Il nodo della questione consiste nei pilastri fondamentali del Nuovo Stato. E questi sono relativamente semplici. Sono solo tre: fede cieca nell’infallibilità della legge; sottomissione assoluta alla legge; e infine, controllo costante di tutti su tutti».

«E a che scopo?»

«Come, a che scopo?»

«Dimenticavo che lei è uno stupido. Va bene, le credo. Volevo dire un’altra cosa.

Che cos’era?… Ah, sì. Domani arriveranno due nuovi insegnanti: Padre Tarra, che si diletta di cosmografia, e Frate Nanin, anche lui un uomo notevole, specialista di storia. Sono della mia gente ed è necessario trattarli come si deve. Questa è la mia garanzia». Gettò sul tavolo un sacchetto tintinnante. «Per lei, cinque monete d’oro.

Tutto chiaro?»

«Sì, signore» disse umilmente Padre Kin.

Rumata si guardò attorno sbadigliando.

«Tanto per capirci» disse «per qualche motivo queste persone erano molto care a mio padre che mi ha incaricato di rendere loro la vita piacevole. Per favore, sa spiegarmi, lei che è un uomo colto, perché un gentiluomo dovrebbe essere così appassionato di scienza?»

«Forse qualche loro merito particolare?» azzardò Padre Kin.

«Ma che dice?» ribatté astiosamente Rumata. «E perché no, in fondo? Già, perché no? Magari una figlia graziosa, o una sorella… Avete del vino? Naturalmente no…»

Padre Kin si strinse nelle spalle. Rumata prese una delle carte che coprivano il tavolo e la mise brevemente davanti alla luce.

«Sfondamento della linea difensiva» lesse ad alta voce. «Oh, che ingegnosi!»

Lasciò cadere per terra il foglio e si alzò.

«Si assicuri che i vostri pupilli non disturbino quei due. Fra non molto li verrò a trovare, e se vengo a sapere che…» Mise il pugno sotto il naso di Padre Kin.

«Certo, certo, non si preoccupi» squittì ossequioso Padre Kin.

Rumata fece un cenno brusco e uscì, graffiando il pavimento con gli speroni.

Sul Viale della Gratitudine Inesprimibile entrò nella bottega di un armaiolo e comprò degli anelli nuovi per il fodero della spada. Provò alcuni pugnali, li lanciò contro il muro e li soppesò in mano, ma non ne scelse nessuno. Poi si sedette a chiacchierare con il proprietario, un certo Padre Hauk. Padre Hauk aveva occhi miti e malinconici e mani bianche macchiate d’inchiostro. Rumata rimase a discutere per un po’ sui meriti della poesia di Zuren, ascoltò un commento interessante sulla lirica Pesa sulla mia anima come le foglie morte e chiese qualche novità da leggere. Prima di andarsene sospirò sull’autore di quei versi incredibilmente tristi e recitò «Essere o non essere» tradotto in irukano.

«San Michele!» esclamò con foga Padre Hauk. «Chi ha scritto questi versi?»

«Io» rispose Rumata, e uscì.

Andò fino alla Taverna della Grigia Gioia, bevve un bicchiere di vino bianco di Irukan, diede un buffetto sulla guancia alla moglie dell’oste e rovesciò abilmente con un colpo di spada il tavolo di una spia governativa che lo fissava con occhi vuoti. Poi andò in un angolo del locale, dove sedeva uno straccione che portava un calamaio appeso al collo.

«Buongiorno, Frate Nanin. Quante petizioni hai scritto, oggi?»

Frate Nanin sorrise imbarazzato, mostrando i denti cariati.

«Oggi la gente scrive poche petizioni, signore. Certi pensano che chiedere favori sia inutile. E altri confidano che comunque otterranno quello che vogliono senza doverlo chiedere».

Rumata si chinò e gli sussurrò all’orecchio che aveva sistemato tutto alla Scuola dei Patrioti.

«Qui ci sono due monete d’oro per te. Lavati e mettiti addosso qualcosa di decente.

E sta’ attento a quello che dici, almeno per i primi giorni. Padre Kin, il procuratore, è un uomo pericoloso».

«Gli leggerò il mio Trattato sulle voci» disse allegramente Frate Nanin. «Vi ringrazio, signore».

«Lo faccio in ricordo del mio caro padre. Ma dimmi, dove posso trovare Padre Tarra?»

Improvvisamente Frate Nanin smise di sorridere e storse la bocca in un tic nervoso.

«Ieri qui c’è stata una rissa, e Padre Tarra ha bevuto un po’ troppo e ha menato le mani. E poi, lo sapete, ha i capelli rossi… Gli hanno spezzato le costole».

«Che pasticcio!» disse Rumata. «Ma perché bevete tanto?»

«A volte è difficile controllarsi» disse tristemente Frate Nanin.

«È vero. Be’, ecco qui qualche moneta d’oro. Cerca di curarlo, d’accordo?»

Frate Nanin si inchinò e cercò di baciare la mano di Rumata, ma lui si ritrasse subito.

«Andiamo» disse. «Ti ho visto fare scherzi migliori ai tuoi bei tempi, Frate Nanin.

Addio!»

Gli odori del porto erano unici. Puzza di salmastro e di alghe marce, di spezie, catrame, fumo e carne in scatola andata a male. Dalle taverne proveniva l’odore nauseabondo del pesce bollito e della birra fatta in casa inacidita. L’aria afosa risuonava di imprecazioni in lingue diverse. Sui moli, nelle stradine tra i magazzini e intorno alle taverne, migliaia di persone tiravano e spingevano. Lupi di mare in disarmo, mercanti gonfi, pescatori dalle facce cupe, mercanti di schiavi, protettori, puttane dal trucco pesante, soldati ubriachi, uomini indefinibili armati fino ai denti, e vagabondi folli e cenciosi con braccialetti d’oro ai polsi. Erano tutti eccitati e nervosi.

Don Reba aveva emesso un decreto, tre giorni prima, che vietava a tutte le navi e alle barche di salpare.

Gli Sturmovik Grigi si aggiravano sulle banchine, giocherellando con le loro mannaie arrugginite. Sputavano in acqua e lanciavano sguardi impertinenti e maligni alla folla. Su alcune delle navi ormeggiate lì vicino si vedevano gruppi di cinque o sei uomini imbacuccati o impellicciati, muscolosi, dalla pelle rossa. Erano i mercenari barbari. Non valevano molto nei combattimenti corpo a corpo, ma quando si trovavano a distanza, come ora, le loro cerbottane e le loro frecce avvelenate erano temibili. Più lontano si scorgevano gli alberi delle galee da guerra della flotta reale, simili a dita minacciose puntate verso il cielo. Ogni tanto facevano partire lingue di fuoco che saettavano sulla superficie dell’acqua fino alle banchine; le scie d’olio venivano incendiate per intimidire la folla in attesa.

Rumata oltrepassò la dogana, dove i capitani delle navi aspettavano inutilmente di fronte alle porte chiuse, cercando di ottenere il permesso di partire. Si fece largo tra la folla indaffarata a barattare e a commerciare tutto quello che poteva: dalle schiave alle perle nere, dai narcotici ai ragni ammaestrati. Proseguì sulle banchine, guardando di sfuggita cadaveri in divisa da marinai esposti al pubblico. Si erano già gonfiati, sotto il sole cocente.

Fece un largo giro intorno a una piazza ingombra di rifiuti di ogni genere, entrando infine in una stradina laterale puzzolente. Lì c’era più calma. Prostitute mezze nude erano distese sulla soglia di bettole di infimo ordine; a un incrocio vide per terra un soldato ubriaco fradicio con il naso rotto e le tasche rivoltate. Individui dall’aria sinistra strisciavano guardinghi lungo i muri delle case.

Era la prima volta che Rumata si recava da quelle parti. Sulle prime fu sorpreso dalla mancanza di reazioni che la sua presenza avrebbe dovuto suscitare. La gente che incrociava guardava oltre con occhi inespressivi o sembrava non vederlo; eppure tutti si spostavano per farlo passare. A un certo punto, svoltando un angolo e guardandosi indietro, vide una ventina di teste, maschili e femminili, calve e ricciolute, che istantaneamente sparivano dietro porte, finestre, recinti.

Improvvisamente percepì l’atmosfera strana di quel rione ripugnante, un’atmosfera piena non tanto di ostilità o di pericoli quanto di un interesse avido e maligno.

Aprì una porta con una spallata ed entrò in una taverna. Nella stanza buia un uomo sonnecchiava dietro il banco. Era molto vecchio, aveva la faccia di una mummia e il naso enorme. Non c’erano clienti. Rumata si avvicinò al banco e stava quasi per colpire il naso del vecchio con la punta delle dita quando si rese conto di colpo che l’uomo non stava affatto dormendo, ma l’osservava attentamente da dietro le palpebre semichiuse. Rumata gettò una moneta d’argento sul tavolo e gli occhi del vecchio si spalancarono come se avesse premuto un bottone.

«Cosa desidera, signore?» chiese cerimoniosamente. «Qualcosa da mangiare? Da fiutare? Una ragazza?»

«Non fare domande idiote. Sai bene perché sono qui».

«Ma guarda! Non è il nobile Don Rumata?» gridò l’altro, come se fosse stato colto di sorpresa. «Sono qui seduto… E improvvisamente vedo un viso familiare…»

Dopo il lungo discorso, l’uomo richiuse gli occhi. Rumata capì il messaggio: la via era libera. Girò intorno al banco, intrufolandosi in una porticina che dava nella stanza adiacente. La stanza era buia e affollata, permeata dell’odore penetrante della birra acida. In mezzo al locale, dietro un banco alto, stava in piedi un uomo di mezza età. Il suo viso rugoso era chino sopra un fascio di carte. In testa aveva un berretto nero, piatto. La luce fioca di una lampada a olio tremolava sul banco e illuminava appena i visi degli uomini seduti immobili lungo le pareti. Rumata usò le due spade a mo’ di bastone per cercare a tentoni una sedia vicino al muro. Si sedette. Lì vigevano leggi particolari e un’etichetta tutta speciale. Nessuno dei presenti prestò la minima attenzione al nuovo arrivato. Se qualcuno doveva entrare, ci si aspettava che lo facesse così; e se non fosse stato il modo giusto bastava strizzare l’occhio e la persona spariva. Si sarebbe potuto cercare ovunque senza trovarne la minima traccia…

L’uomo dal viso grinzoso era intento a scribacchiare; le persone sedute lungo le pareti non si muovevano. Ogni tanto qualcuno sospirava. Sui muri correvano salamandre invisibili a caccia di mosche.

Gli uomini che sedevano immobili lungo i muri erano i capi delle bande di briganti. Rumata ne aveva già riconosciuto qualcuno. Quei bruti ottusi non valevano niente. La loro psiche non era più complessa di quella di un bottegaio medio. Erano stupidi, violenti e abili nel maneggiare coltelli e bastoni. Però c’era l’uomo in piedi dietro al banco.

Si chiamava Waga Koleso, ed era potentissimo. Non c’era rivale che potesse contestargli la posizione di capo di tutti i criminali del paese, dalle paludi di Pitan nella regione occidentale di Irukan sino ai confini marittimi della Repubblica mercantile di Soan. Era stato maledetto ed espulso da tutte e tre le chiese ufficiali dell’impero a causa della sua arroganza, perché sosteneva di essere il fratello minore del principe regnante. Giorno e notte disponeva di un esercito sempre pronto, forte di circa diecimila uomini; nei forzieri aveva qualche centinaio di migliaia di monete d’oro e i suoi agenti si erano infiltrati nel cuore dell’apparato amministrativo.

Nell’arco degli ultimi vent’anni era stato giustiziato ufficialmente almeno quattro volte, sempre in presenza di una gran folla. Secondo un’altra versione ufficiale aveva languito contemporaneamente in tre delle carceri più oscure del regno. Comunque Don Reba aveva ripetutamente emesso decreti «in merito alla diffusione sovversiva di voci e dicerie da parte di nemici dello Stato e altri individui maligni riguardo certo Waga Koleso, che in realtà non esiste e perciò appartiene al regno della leggenda».

Secondo altre informazioni, sempre Don Reba aveva convocato un certo numero di baroni che disponevano di truppe agguerrite promettendo cinquecento monete d’oro per il cadavere di Waga e settemila per Waga vivo. In quel periodo Rumata stesso aveva dovuto fare grandi sforzi e spendere molto denaro per mettersi in contatto con Koleso. Sentiva per lui una forte repulsione, ma quell’uomo poteva essere molto utile, addirittura indispensabile. Inoltre provava per lui un interesse di tipo scientifico, come inquietante esemplare per la sua collezione di mostri medievali, e come persona che, in apparenza, mancava totalmente di un passato.

Finalmente Waga posò la penna, raddrizzò la schiena e disse con voce gracchiante: «Bene, figli miei. Duemilacinquecento monete d’oro in tre giorni. E solo millenovecentonovantasei per le spese. Cinquecentoquattro tondi d’oro in tre giorni.

Non male, figlioli, non male…»

Nessuno si mosse. Waga lasciò la sua postazione, si sedette in un angolo e si sfregò le mani energicamente.

«Non è una notizia che vi fa fare salti di gioia, figlioli cari?» disse. «Sono tempi buoni per noi, anni fruttuosi… Ma dobbiamo lavorare sodo per guadagnarci il pane quotidiano. Davvero sodo! Il mio fratello maggiore, il Re di Arkanar, ha deciso di eliminare tutte le persone istruite del suo regno, e anche del mio. Be’, lui che è così saggio saprà bene perché lo fa. Dopotutto chi siamo noi per dubitare del suo giudizio?

Non spetta a noi criticare le sue decisioni. D’altra parte noi possiamo, anzi dobbiamo, ricavare qualche vantaggio da queste decisioni. Poiché siamo sudditi fedeli dobbiamo servirlo, ma essendo solo sudditi notturni, non consegneremo nelle sue mani la nostra modesta parte di tali profitti. Lui naturalmente non se ne accorgerà, e quindi non si offenderà. Che c’è?»

Nessuno si mosse.

«Avevo avuto l’impressione che Piga, laggiù, stesse sospirando. È così, Piga, figlio mio?»

Ci fu un po’ d’agitazione, come di qualcuno che si stesse dimenando sulla sedia, anche se nella stanza buia non si distingueva niente. Da un angolo si sentì tossire.

«Non sospiravo, Waga» disse una voce roca. «Non lo farei mai…»

«Appunto! Sta’ buono. Eccellente! Adesso trattenete il respiro e ascoltatemi con attenzione. Drizzate le orecchie, mettetevi al lavoro, e nessuno vi disturberà nel vostro difficile compito. Il mio fratello maggiore, Sua Altezza Reale, ha fatto sapere tramite il suo portavoce, Don Reba, di aver posto una taglia considerevole sulla testa di alcuni studiosi latitanti o desiderosi di fuggire. Dobbiamo consegnare queste teste nelle sue mani, per assecondare il Re. D’altro canto, però, alcuni di questi studiosi vogliono sottrarsi all’ira di mio fratello e sono disposti a ricompensare chi li assisterà in questo. Per spirito di compassione, per pietà e anche per evitare al mio fratello maggiore di portare il peso di troppe cure, aiuteremo queste persone. E se poi Sua Altezza Reale dovesse ancora avere bisogno di queste teste, potrà sempre riaverle da noi. A un buon prezzo. Molto conveniente…»

Waga tacque e abbassò la testa. Improvvisamente le lacrime cominciarono a scorrere sulle sue guance: le lacrime lente di un vecchio.

«Sto invecchiando» sospirò, cercando inutilmente di soffocare un singhiozzo. «Le mani mi tremano, le gambe non mi reggono e comincio a perdere la memoria. Avevo completamente dimenticato che, in mezzo a noi, dentro questa gabbia stretta e opprimente, langue un gentiluomo… Certo a lui non interessa ascoltare le nostre meschine questioni economiche. Ora vi lascio, vado a riposare. Ma intanto, figlioli, chiediamo al nobile signore di essere tanto gentile da perdonarci la svista…»

Gemendo e brontolando si alzò in piedi, inarcandosi. Anche gli altri si alzarono in piedi e si inchinarono davanti a Rumata, ma nei loro volti si leggevano indecisione e timore. Rumata riusciva a sentire gli scricchiolii dei loro cervelli ottusi e primitivi che si sforzavano di interpretare le parole e i gesti del capo.

Per lui invece era tutto chiarissimo. L’astuto vecchio avrebbe colto l’occasione, al momento giusto, per informare Don Reba della propria intenzione di unirsi, con le sue orde, al pogrom appena iniziato. Era il momento di impartire ordini concreti; stavano per essere divulgate le liste dei nomi, e ben presto avrebbero deciso il giorno e l’ora in cui sarebbe scattato il piano. A quel punto la presenza di Don Rumata era ritenuta, per usare un eufemismo, indesiderabile. Di conseguenza si suggeriva al nobiluomo di rivelare chiaramente il motivo della sua visita e poi di allontanarsi il più presto possibile. Che uomo sinistro! Che personaggio sgradevole! E cosa ci faceva in città, lui che non poteva sopportare la vita cittadina?

«Hai ragione, caro Waga» disse Rumata. «Il tempo a mia disposizione è limitato.

Ma sono io che devo chiederti scusa, perché ti disturbo per affarucci senza importanza». Rumata rimaneva seduto, mentre tutti gli altri stavano in piedi ad ascoltarlo.

«Succede che io abbia bisogno di un tuo consiglio… Puoi sederti».

Waga s’inchinò di nuovo e si sedette.

«Questo è quanto sono venuto a dirti» continuò Rumata. «Tre giorni fa dovevo incontrare un mio amico, un gentiluomo di Irukan, in Piazza delle Spade Pesanti. Non ci siamo incontrati. E scomparso. Ma so con sicurezza che ha attraversato sano e salvo il confine irukano. Forse potresti sapere qualcosa di più sul suo destino».

Per molto tempo Waga non rispose. I banditi continuavano a schiarirsi la gola, sospirando profondamente. Infine anche Waga si schiarì la gola.

«No, signore» disse. «Non sappiamo niente di questa faccenda».

Rumata si alzò immediatamente in piedi.

«Grazie, amico mio» disse. Poi andò verso il banco in mezzo alla stanza e vi appoggiò un sacchetto di cuoio con dieci monete doro. «Lo lascio qui con la seguente richiesta: se doveste venire a conoscenza di qualcosa, per favore fatemelo sapere». Si toccò il berretto. «Addio».

Appena prima di aprire la porta si fermò di nuovo, si voltò e disse con noncuranza: «Avete detto qualcosa a proposito di certi studiosi. Mi è venuta in mente una cosa.

Ho la sensazione che il Re di Arkanar non riuscirà ad arrestare nessun vero topo di biblioteca, anche se dovesse provarci per un mese. E io devo fondare un’università nella capitale. Là ho fatto un voto, una volta, quando sono andato a farmi curare dalla peste. Perciò, se doveste catturare qualche topo di biblioteca, fatemelo sapere prima di avvertire Don Reba. Forse potrebbe farmi comodo per la mia università».

«Vi costerà molto caro» l’avvertì Waga in tono mellifluo. «La merce è difficilmente reperibile».

«Ma il mio onore è ancora più caro» sentenziò Rumata, uscendo.

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