Capitolo I

Mentre Rumata oltrepassava la tomba di san Michele, la settima e anche l’ultima su quel tratto di strada, era già calata la notte. Il prezioso stallone camalariano vinto a carte a Don Tameo si era rivelato un misero bolso. L’animale era madido di sudore, continuava a inciampare, e il suo trotto irregolare ricordava il beccheggio di una nave. Rumata gli premette forte le ginocchia nei fianchi e lo colpì con il guanto tra le orecchie. L’animale rispose con un movimento stanco senza cambiare andatura.

Nell’oscurità, i cespugli sul ciglio della strada sembravano nuvole di fumo solido.

Sciami di mosche fastidiose ronzavano intorno alla testa del cavaliere. In alto, nel cielo notturno, brillava fiocamente qualche stella. Folate leggere e irregolari di vento lo accarezzavano, prima fredde e poi tiepide, come sempre su quella zona costiera quando arriva l’autunno, con le sue giornate afose e polverose e le sue notti gelide.

Rumata si strinse nel mantello e lasciò andare le redini. Inutile cercare di procedere più veloce. Mancava ancora un’ora a mezzanotte, e riusciva già a distinguere all’orizzonte il profilo scuro e frastagliato della Foresta del Singhiozzo. A destra e a sinistra della strada si stendevano campi male arati. Alla luce fioca delle stelle brillavano le paludi, che puzzavano di vegetazione e animali putrefatti; qua e là incombevano i profili delle colline e quel che restava delle palizzate di legno mezze marce dell’epoca della Grande Invasione. In lontananza tremolavano fiamme sinistre: probabilmente laggiù bruciava qualche villaggio, uno degli innumerevoli disgraziati paesi tutti uguali che fino a poco tempo prima si chiamavano «Villaggio della Morte», «Collina del Patibolo», o «Covo dei Briganti». Gli editti imperiali li avevano ribattezzati «Bosco Fiorito», «Porto della Pace», «Casa dell’Angelo».

La regione si estendeva per centinaia di chilometri dalle rive della Grande Baia fino alla misteriosa Foresta del Singhiozzo. Era una zona brulicante di zanzare, scavata da gole, mezza soffocata dalle paludi. I suoi abitanti erano decimati dalle febbri e costantemente minacciati dalle pestilenze, come anche da semplici raffreddori.

Presso una curva, una figura nera uscì dai cespugli. Il cavallo improvvisamente scartò e alzò la testa. Rumata recuperò subito le redini, poi con un movimento rapido si aggiustò la manica destra (una sua vecchia abitudine) e afferrò la spada. Guardò meglio. L’uomo sul ciglio della strada si tolse il cappello.

«Buonasera, nobile signore» disse piano. «Chiedo scusa».

«Che c’è?» chiese Rumata. Tese l’orecchio in direzione dei cespugli.

Non esiste un’imboscata silenziosa. I briganti vengono traditi dal suono delle corde dei loro archi. Gli uomini della Milizia Grigia ruttano in continuazione la loro birra acida. Le orde di baroni sbuffano avide e fanno tintinnare le sciabole. E i monaci a caccia di schiavi si grattano rumorosamente. No, nei cespugli tutto era silenzio. Lo sconosciuto non era un guerrigliero, pensò Rumata. Non aveva neppure l’aria di un cecchino: era un cittadino basso e rozzo avvolto in un mantello non troppo costoso.

«Mi permette di camminare a fianco del suo cavallo?» chiese al cavaliere, inchinandosi profondamente.

«Venga» rispose Rumata giocherellando con le redini. «Può tenersi alla staffa».

L’uomo cominciò a camminare accanto a lui, tenendo in mano il cappello. Era completamente calvo. «Il castaldo di qualche barone» pensò Rumata. «Visita i nobili e i mercanti di bestiame, compra la canapa e il lino. Un uomo di fiducia… Oppure, forse non è affatto un castaldo. Forse è un topo di biblioteca, o un fuggiasco. Forse è un fannullone. Di notte ne circolano molti per le strade, senz’altro più che i castaldi.

Ma potrebbe anche essere una spia…» «Chi è lei, e da dove viene?» chiese.

«Mi chiamo Kiun» rispose l’uomo, malinconicamente. «Vengo da Arkanar».

«Vuol dire che sta scappando da Arkanar» disse Rumata, chinandosi leggermente verso di lui.

«Sì». L’uomo parlava tristemente.

«Un eccentrico, un tipo strano» pensò il cavaliere. «Oppure è una spia? Lo terrò d’occhio… Ma perché dovrei tenerlo d’occhio? A che pro? Chi sono io per metterlo alla prova, giudicarlo? Non ho neppure voglia di guardarlo! Perché non dovrei credergli sulla parola? Ecco un uomo, un intellettuale in fuga, la sua vita è appesa a un filo… Si sente solo, è debole, ha paura, cerca una mano amica, ed ecco che si imbatte in un aristocratico. Gli aristocratici sono troppo stupidi e arroganti per sapere qualcosa di politica. Invece portano sciabole e non amano la Milizia Grigia. Perché il cittadino Kiun dovrebbe chiedere protezione a un aristocratico stupido e arrogante?

Questo è il punto. Naturalmente non lo terrò sempre sotto controllo. Non c’è ragione.

Parliamo un po’, piuttosto, per passare il tempo, e poi ci saluteremo da buoni amici…» «Kiun» disse ad alta voce. «Una volta ho conosciuto un Kiun. Faceva il ciarlatano e l’alchimista in via Klempner. Siete parenti?»

«Oh sì, certo» rispose Kiun. «Sono solo un lontano parente, ma a quelli non interessa. Vogliono sterminare la nostra stirpe fino alla dodicesima generazione».

«E dove sta scappando, Kiun?»

«In qualunque luogo. Il più lontano possibile. Molti sono fuggiti a Irukan. Ci proverò anch’io».

«Bene, bene» disse Rumata. «E pensa che il nobile signore la farà passare sano e salvo attraverso i posti di blocco?»

Kiun tacque.

«Oppure crede forse che il nobile signore non sappia che uomo è in realtà l’alchimista di via Klempner?»

Kiun continuò a tacere. «Mi sembra proprio di dire un sacco di sciocchezze» pensò Rumata. Ma si sollevò sulle staffe, e imitando il banditore di Piazza Reale riempì i polmoni e gridò: «Accusato e condannato per i crimini più orribili e imperdonabili contro Dio, la Corona e la pubblica sicurezza!»

Kiun restava zitto.

«E cosa succederebbe se il nobile signore adorasse e riverisse Don Reba, padre di tutti gli abomini!? Se fosse devoto con tutto il cuore alla causa della Milizia Grigia?

Oppure pensa che sia assolutamente fuori discussione?»

Kiun non parlava. Sulla destra si stagliava il profilo scuro di una forca. Un cadavere nudo, spettrale, appeso per i piedi, penzolava da una sbarra. «Ebbene» pensò Rumata «a che serve?» Tirò le redini, afferrò Kiun per le spalle e gli fece voltare il viso dalla sua parte.

«E cosa ne direbbe se il nobile signore la impiccasse proprio accanto a quella forca?» disse fissando il viso pallido e le orbite scure dell’uomo. «Potrei farlo con le mie mani. Preciso, veloce. Con una bella corda di Arkanar, perché no? In nome di qualche ideale? Perché non parli, topo di biblioteca?»

Kiun taceva. Batteva i denti per la paura e si divincolava debolmente sotto la mano forte di Rumata, come una lucertola in trappola. Improvvisamente si udì un tonfo, come se qualcosa fosse caduto nel canale che costeggiava la strada. Allo stesso tempo, come per coprire il rumore nell’acqua, l’uomo gridò, disperato: «Allora impiccami, traditore!»

Rumata prese fiato e lo lasciò andare.

«Stavo solo scherzando. Non abbia paura».

«Menzogne, menzogne» singhiozzò Kiun. «Menzogne dappertutto».

«Le chiedo scusa. Mi perdoni! Però farebbe meglio a ripescare quella cosa che ha appena buttato in acqua. Si inzupperà».

Kiun non si mosse. La parte superiore del suo corpo oscillava avanti e indietro per l’indecisione. Continuava a singhiozzare piano, battendosi il mantello con le dita, insensatamente. Poi scese lentamente nel canale. Rumata aspettava. Era molto stanco, e si accasciò sulla sella. «Così dev’essere» pensò. «Non si può fare diversamente».

Kiun uscì dal canale barcollando, con un fagotto nascosto sotto il mantello.

«Libri, naturalmente» disse Rumata.

Kiun scosse piano la testa.

«No» disse con voce rauca. «Uno solo. Il mio libro».

«Che cosa scrive?»

«Temo che non le interesserebbe, nobile signore».

Rumata corrugò la fronte, sospirando.

«Afferri la staffa» disse. «Andiamo».

Tacquero entrambi per molto tempo.

«Ascolti, Kiun» disse poi Rumata. «Stavo solo scherzando. Non abbia paura di me».

«Che mondo. Che mondo ridicolo. Tutti si divertono, e tutti allo stesso modo.

Perfino il nobile Don Rumata».

Rumata fu sorpreso.

«Conosce il mio nome?»

«Sì. L’ho riconosciuta dal cerchietto sulla fronte. E pensare che ero così contento di averla incontrata, tra tutti i viandanti di questa strada…»

«Ma certo» pensò Rumata. «Ecco a cosa pensava, quando mi ha chiamato traditore». Disse: «Vede, pensavo che lei fosse una spia. E di solito le uccido subito».

«Spia? Certo. Oggi è così facile, così redditizio fare la spia. La nostra aquila fiammante, il nostro nobilissimo Don Reba è impaziente di sapere cosa dicono e cosa pensano i sudditi del re. Mi piacerebbe fare la spia. Un informatore come si deve, alla Taverna della Grigia Gioia. Che distinzione, che onore! Alle sei esco per andare alla taverna. L’oste mi accompagna al solito tavolo portandomi il primo boccale, e posso bere fino a scoppiare. È Don Reba che paga la birra… Anzi, per essere precisi, non la paga nessuno. Sto seduto lì davanti alla mia birra, con le orecchie bene aperte.

Qualche volta faccio finta di prendere nota delle conversazioni. Mi par di vederli, quei poveracci spaventati che corrono a offrirmi la loro amicizia e le loro borse. Vedo nei loro occhi quello che ho sempre desiderato: la devozione del cane battuto, stupore, timore e odio impotente. Posso avere tutte le ragazze che voglio, in qualunque momento. Le donne si sciolgono nelle mie braccia sotto gli occhi dei loro mariti… Tutti uomini ben piantati, che restano lì con un sorrisetto ossequioso sulle labbra. Una meravigliosa prospettiva, signore, non siete d’accordo? L’ho sentito raccontare con le mie orecchie da un quindicenne, un allievo della Scuola Patriottica…»

«E cosa gli ha detto?»

«Cosa avrei dovuto dirgli? Non avrebbe capito comunque. Allora gli ho parlato degli uomini di Waga Koleso, il capo dei briganti. Quando catturano una spia, gli aprono la pancia e gliela riempiono di pepe. Poi ci sono anche i soldati ubriachi che ficcano le spie in un sacco e le gettano nel lago. E badate che gli stavo dicendo la verità, la pura verità… Ma non voleva credermi. Mi ha detto: ‘Non è quello che ci insegnano a scuola’. Allora ho preso un pezzo di carta e ho cominciato a trascrivere la nostra conversazione. Ne avevo bisogno per il mio libro, ma il povero ragazzo ha pensato che volessi denunciarlo. In un attimo era in un bagno di sudore…»

Scorgevano le luci che tremolavano attraverso il fogliame degli alberi lungo la strada. Provenivano dalla taverna Lo Scheletro di Bako. I passi di Kiun divennero esitanti e tacque nuovamente.

«Che cosa c’è?» chiese Rumata.

«Una pattuglia della Milizia Grigia. Laggiù» rispose Kiun, senza fiato.

«Bene, e allora? Ascolti. Noi amiamo e riveriamo questi uomini semplici e rudi, i nostri Ragazzi Grigi, i militi. Ne abbiamo bisogno. D’ora in poi la gente farà meglio a tenere d’occhio la lingua, se non vuole penzolare dal ramo più vicino!»

Rise, perché aveva espresso il concetto splendidamente. Proprio il linguaggio delle Baracche Grigie.

Kiun sembrò farsi più piccolo. Ritirò la testa fra le spalle.

«La gente semplice deve stare al suo posto. Dio non ha dato loro la lingua per parlare, ma per leccare lo stivale del loro signore, del nobile che è stato posto al di sopra di loro dall’origine dei tempi…»

Nel recinto dietro la locanda scalpitavano i cavalli sellati della Pattuglia Grigia. Da una finestra aperta provenivano le imprecazioni rauche dei giocatori e il rumore degli astragali. Sulla soglia c’era Scheletro Bako in persona, che ostruiva il passaggio con il suo ventre enorme. Portava una vecchia giubba* di cuoio sdrucita dappertutto. Gli orli delle maniche grondavano umidità. Con la zampa pelosa stringeva un randello.

Evidentemente aveva appena ucciso un cane per la zuppa, si era ricoperto di sudore per lo sforzo ed era uscito a riprendere fiato. Uno Sturmovik Grigio ciondolava sulle scale, con l’ascia da guerra tra le ginocchia. L’impugnatura massiccia lo costringeva a voltare la faccia da una parte.

Non era difficile intuire che stava smaltendo i postumi di una sbornia colossale.

Appena ebbe notato il cavaliere si schiarì la gola, sputò per terra e gridò, rauco: «Ferma! Chi va là? Alt! Signore!»

Rumata fece a malapena un cenno, oltrepassando l’uomo senza degnarlo di uno sguardo.

«…Ma se la loro lingua lecca lo stivale sbagliato» disse ad alta voce «allora dev’essere strappata, perché sta scritto: ‘La tua lingua è il mio nemico’…»

Nascosto dalla groppa del cavallo, Kiun si affrettava a passi lunghi. Con la coda dell’occhio, Rumata notò che la sua testa calva era lucida di sudore.

«Alt, ho detto!» ringhiò lo Sturmovik.

Si sentiva la sua ascia sfregare sui gradini mentre scendeva le scale bestemmiando Dio, il diavolo e tutti i nobili.

«Devono essere in cinque» pensò Rumata aggiustandosi i polsini di pizzo.

«Macellai, ubriaconi. E con ciò?» Ormai avevano oltrepassato la taverna, e continuavano a camminare verso il bosco.

«Posso andare più svelto, se vuole» disse Kiun, con voce esageratamente decisa.

«No di certo!» rispose Rumata, facendo rallentare il cavallo. «Sarebbe noioso cavalcare per tante miglia senza neanche una scaramuccia. Non vuole proprio battersi un po’, Kiun? Lei si limita a parlare, vero?»

«No. Non provo mai il desiderio di battermi».

«È proprio questo il guaio» bofonchiò l’altro, seccato.

Si portò con il cavallo sul ciglio della strada, aggiustandosi nervosamente i guanti.

Da una curva spuntarono due cavalieri lanciati al galoppo. Come lo videro, si fermarono.

«Ehilà, nobile signore, mostri il lasciapassare!»

«Villano. Non sai neanche leggere, a che ti serve il lasciapassare?» Rumata era gelido.

Premette forte le ginocchia nei fianchi del cavallo, che cominciò a trottare spedito verso i due inseguitori. «Codardi» pensò. «Diamogliele! No, a che serve? Sono impaziente di far esplodere la rabbia che ho accumulato per tutto il giorno, ma non ne ricaverei niente. Quindi restiamo calmi, superiori. Restiamo imperturbabili, come gli dèi. Gli dèi non hanno fretta; dopotutto, hanno tutta l’eternità a disposizione…» Si avvicinò agli Sturmovik. I due, non più tanto sicuri, afferrarono le asce e indietreggiarono.

«Dunque?» chiese lentamente Rumata.

«Oh… Che vuole?» balbettò il più coraggioso dei due Sturmovik, imbarazzato.

«Voglio dire… Lei è il nobile Don Rumata?»

Il suo compagno aveva già voltato il cavallo e si era allontanato al galoppo. Il primo Sturmovik continuò a indietreggiare, abbassando l’ascia.

«Chiedo umilmente scusa, signore. Non vi avevamo riconosciuto, da così lontano…

Ordini ufficiali, sapete… È facile sbagliarsi. I camerati hanno bevuto un po’, e sono pieni di entusiasmo…» fece girare il cavallo, pronto ad andarsene. «Capirà, signore, di questi tempi… Siamo alle calcagna di quei topi di biblioteca… Spero che non si lamenterà di noi, signore…»

Rumata gli voltò le spalle. «Buon viaggio, nobile signore!» gli gridò l’uomo, sollevato.

Non appena i due cavalieri furono scomparsi alla vista, Rumata chiamò piano Kiun.

Nessuno rispose.

«Ehi, Kiun!»

Nessuna risposta. Ascoltò più attentamente; riuscì a sentire un lontano fruscio nei cespugli, che il ronzio incessante delle zanzare e dei moscerini non riusciva a coprire.

Kiun stava attraversando la campagna verso ovest, in direzione del confine irukano.

«Così è» rifletté Rumata. «A che scopo questa conversazione? E sempre la stessa cosa, sempre, sempre. Dapprima l’esplorazione cauta, poi uno scambio guardingo di osservazioni ambigue… Un giorno dopo l’altro si sprecano energie in chiacchiere stupide con pezzenti di tutte le risme; ma se si è abbastanza fortunati da incontrare una persona vera non c’è tempo per parlare a cuore aperto. Si vorrebbe proteggerla, aiutarla a trovare un rifugio… E questa persona se ne va senza neppure sapere se ha incontrato un amico o un mascalzone. E neanche tu hai scoperto niente di lei… i suoi desideri, i suoi talenti, i suoi valori, le sue mete…» Cominciò a pensare ad Arkanar. Case di pietra lungo le vie principali, lanterne cordiali accese sulla porta delle taverne, negozianti gentili e soddisfatti che bevono birra ai tavolini puliti e chiacchierano della vita, che dopotutto non è male, o del prezzo del pane in ribasso, o di quello delle bardature in rialzo; qua e là si svela un complotto, topi di biblioteca e maghi vengono arrestati; il Re è grande e munifico come sempre; Don Reba, comunque, è straordinariamente intelligente, e sta sempre in guardia. «Non mi dire!» «Sembra che sia proprio così» «Il mondo è rotondo!» «Per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere quadrato, ma non toccare i nostri scienziati!» «Credimi, fratello, tutte le nostre disgrazie vengono da quei sapientoni!» «Il denaro non dà la felicità; anche il contadino è un essere umano, dicono. Bene, ma continuate così… dopo un po’ di queste poesie che li eccitano iniziano a scatenare il finimondo, sommosse, insurrezioni» «Mandateli tutti in galera, fratelli. Io, per esempio, sapete che cosa farei? Gli chiederei subito: sai leggere e scrivere? In gattabuia! Sei esperto di diagrammi? In gattabuia! Sai troppe cose!» «Bina, tesoro, altri tre boccali di birra e una lepre arrosto!» E fuori dalla finestra, tum tum tum, marciano gli scarponi chiodati dei robusti camerati con il naso rosso e la camicia grigia. Sulla spalla destra, l’ascia. Fratelli!

Ecco i nostri protettori! Loro tengono lontane quelle canaglie istruite!… E quello là è il mio ragazzo, mio figlio. Là, sul fianco destro! Sì, fratelli, viviamo in un’epoca meravigliosa! La nostra monarchia è stabile, prosperità, legge e ordine incrollabili, e giustizia. Urrà per le nostre Truppe Grigie! Urrà, Don Reba! Lunga vita al Re! Questa è vita, fratelli!

Sulle pianure buie del regno di Arkanar, però, illuminate dagli incendi, centinaia di sventurati sono in fuga, intenti a eludere i posti di blocco correndo, inciampando e ricominciando a correre. Punti dalle zanzare, con i piedi sanguinanti, coperti di polvere e di sudore, tormentati, terrorizzati e torturati dalla disperazione, ma forti come l’acciaio e incrollabili. Sono accusati e perseguitati ingiustamente. Perché?

Perché curano e istruiscono il loro popolo decimato dalle malattie e schiacciato dall’ignoranza. Perché, come dèi, creano una seconda natura dalla pietra e dall’argilla spinti dal desiderio di abbellire l’esistenza, e tutto per un popolo che non conosce la bellezza. Perché penetrano i segreti della natura sperando di metterli al servizio del popolo ottuso e apatico, per il suo bene, dopo che è stato mantenuto nell’ignoranza dalle antiche arti magiche. Sono indifesi, generosi e pericolosi, molto in anticipo sul loro tempo…

Rumata si tolse un guanto e colpì sonoramente il suo cavallo tra le orecchie.

«Avanti, brutto ronzino!» disse.

Quando entrò nella foresta era ormai passata la mezzanotte.

Nessuno avrebbe saputo dire con certezza da dove veniva quello strano nome, «Foresta del Singhiozzo». Circolava una voce, accreditata da fonti ufficiali, secondo la quale circa tre secoli prima le Squadre di Ferro del Maresciallo Imperiale Totz, poi primo Re di Arkanar, erano penetrate nella foresta inseguendo le orde in ritirata dei barbari pelle-di-rame. Là quei valorosi avevano ricavato una specie di birra rudimentale dalla corteccia degli Alberi Bianchi, che si era rivelata tanto scadente da provocare continuamente a chi la beveva rutti e singhiozzo. Il mattino dopo, continuava la leggenda, quando il Maresciallo Totz era andato a ispezionare il campo, aveva arricciato il suo naso di sangue blu dicendo: «È veramente insopportabile! La foresta intera ha il singhiozzo e puzza di birra!». Si diceva che quella fosse l’origine di un nome tanto insolito.

Che la leggenda avesse qualche fondamento poteva essere discutibile, ma in ogni caso quella non era una foresta come tutte le altre. Vi crescevano alberi giganteschi dal tronco bianco, di una specie che non si trovava più in nessun altro luogo della regione. Neppure nel ducato di Irukan, e neanche nella Repubblica Mercantile di Soan, dove tutti gli alberi erano stati abbattuti da tempo per costruire navi. Si diceva che molti boschi simili a quello esistevano ancora al di là delle Montagne Rosse, nella terra dei barbari, ma si sa che sui barbari si raccontano molte storie…

Un paio di secoli prima, nella foresta, era stato aperto un sentiero che portava alle miniere d’argento. In base alla legge feudale, la nobile famiglia dei Baroni di Pampa, discendenti da un camerata del Maresciallo Totz, ne aveva l’appalto. Secondo la legge feudale i Baroni di Pampa avrebbero dovuto pagare ai re di Arkanar solo dodici pud di argento puro all’anno. Così di solito tutti i nuovi re, subito dopo essere saliti al trono, si facevano venire in mente di reclutare un esercito e di marciare contro il Castello di Bau, residenza dei Baroni. Ma le mura del castello erano inespugnabili e i Baroni combattevano valorosamente. E ogni anno, come sempre, il regno di Arkanar doveva accontentarsi di dodici pud di argento puro. Dopo il ritorno dell’esercito, i re sconfitti dovevano confermare un’altra volta i diritti dei Baroni, tra cui quello di mettersi le dita nel naso sedendo alla tavola del Re, di cacciare nelle regioni occidentali di Arkanar, e infine di chiamare i principi per nome senza aggiungere il loro titolo.

La Foresta del Singhiozzo pullulava di segreti strani. Durante il giorno venivano inviati verso sud pesanti carichi di minerale d’argento. Ma di notte la strada era deserta, perché pochi osavano attraversarla alla luce delle stelle. Si raccontava che di notte l’uccello Siu cantasse sui rami dell’Albero Alto. Nessuno l’aveva mai visto, perché occhi umani non potevano vederlo, non essendo un uccello come tutti gli altri.

Si raccontava che dai rami degli alberi balzassero a terra grandi ragni pelosi che in un attimo succhiavano il sangue dal collo dei cavalli. Si raccontava anche che nella foresta si aggirasse il mostruoso drago primigenio Pech, coperto di squame enormi.

Ogni dodici anni generava un altro drago, e aveva dodici code sempre madide di sudore. Si diceva anche che qualcuno avesse visto con i suoi occhi, di giorno, la scrofa Y, maledetta da san Michele, che vagava gemendo e grugnendo lungo la strada. Era un feroce predatore, invulnerabile al ferro ma indifeso di fronte a un osso.

Là, in quella foresta misteriosa, si poteva incontrare lo schiavo fuggiasco che portava tatuaggi neri tra le scapole. Era stupido e spietato, proprio come i ragni pelosi succhiasangue. Oppure si poteva incontrare il mago straziato da tre morti; raccoglieva sempre strani funghi per le sue pozioni, che potevano rendere invisibili o trasformare in vari animali o dare addirittura due ombre.

Naturalmente tutti sapevano che il capo dei briganti Waga Koleso e la sua banda si aggiravano lungo la strada durante la notte, e anche i minatori fuggiti dai lavori forzati nelle miniere d’argento, con le mani nere e i volti pallidi e quasi trasparenti.

Gli avvelenatori si radunavano là per i loro incontri notturni, e i cacciatori di frodo dei Baroni di Pampa si accampavano nelle radure per arrostire sul fuoco i bufali che avevano rubato.

Nel cuore della foresta, dove il sottobosco cresceva più fitto che altrove, c’era un gigantesco albero dalla corteccia crepata dagli anni, sotto il quale si trovava una casupola di legno cadente circondata da una palizzata annerita. La casupola esisteva da tempo immemorabile. La porta era sempre chiusa. Idoli scolpiti in tronchi interi si rizzavano ancora accanto ai gradini di legno fradicio. Chiunque poteva testimoniare che si trattava del punto più pericoloso di tutta la Foresta del Singhiozzo. Ogni dodici anni il vecchio Pech veniva lì per dare alla luce il suo piccolo. Poi scavava sotto la catapecchia per morire, contaminandone le fondamenta con il suo nero veleno. Se mai il veleno fosse arrivato alla superficie sarebbe stata la fine del mondo. La gente raccontava anche che, nelle notti senza luna, gli idoli si staccavano dal terreno e camminavano verso la strada facendo segnali misteriosi. E che a volte una luce diabolica splendeva dalle finestre vuote della casupola da cui provenivano rumori soffocati, e dal camino usciva del fumo.

Non molto tempo prima Kukisch, l’idiota del villaggio di Dolce Puzzo, conosciuto anche come Mucchio di Letame, si era imbattuto nella casupola e, da quello stupido che era, aveva guardato da una finestra. Era ritornato completamente pazzo, e dopo aver recuperato quel poco di senno che possedeva raccontò di aver visto all’interno un uomo seduto a un tavolaccio di legno che beveva da una botticella. La mascella gli arrivava fin quasi al petto, e aveva la pelle tutta butterata.

Naturalmente era san Michele in persona, com’era prima dell’illuminazione: puttaniere, ubriacone e bestemmiatore. Solo chi non conosce la paura poteva guardarlo. Dalle finestre usciva un odore dolciastro e ombre strane svolazzavano tra gli alberi. La gente veniva da ogni dove per ascoltare il racconto dell’idiota. La storia ebbe termine quando infine arrivarono gli Sturmovik, che gli slogarono le braccia e gli fecero far fagotto. Ma naturalmente non si poté far tacere le voci che circolavano a proposito della casupola, che da allora fu conosciuta da tutti come «Il Covo dell’Ubriaco».

Rumata si fece largo tra le fitte felci giganti e arrivò alla porta del Covo dell’Ubriaco. Legò il cavallo a uno degli idoli. Nella casupola c’era la luce accesa, e la porta, fissata a un cardine solo, era aperta. Padre Kabani, tutto arruffato, era seduto a tavola. All’interno stagnava un odore penetrante di grappa; sul tavolo, tra ossa rosicchiate e bietole bollite, c’era una grande brocca di terracotta.

«Buonasera, Padre Kabani» disse Rumata superando la soglia.

«Benvenuto» rispose lui con una voce che sembrava il suono di un corno da caccia.

Il gentiluomo si avvicinò al tavolo facendo tintinnare gli speroni, vi posò i guanti e guardò un’altra volta Padre Kabani, che sedeva immobile tenendosi la mascella. Le sopracciglia pelose e grigie gli cadevano sulle guance come ciuffi d’erba su un burrone. Quando espirava, l’aria usciva sibilando dalle narici pelose. Puzzava di alcol mal digerito.

«L’ho inventata io!» disse d’un tratto, inaspettatamente. Con grande sforzo, sollevò il sopracciglio destro e guardò cupamente Rumata. «Io! E per cosa?» Tolse la mano da sotto la mascella, gesticolando all’impazzata con il dito villoso. «E nonostante tutto sono un buono a niente! Io l’ho inventata… Eppure sono un buono a niente, eh?

E vero, è vero, un fallimento. Nessuno inventa nulla, nessuno ha idee veramente nuove, ma… Oh, al diavolo tutto!»

Rumata si slacciò la cintura, si tolse il fez e le due spade.

«Su, su» disse piano.

«La scatola!» ansimò Padre Kabani. Poi tacque, muovendo le guance in modo strano.

Senza distogliere lo sguardo dal vecchio, Rumata posò sulla panca i piedi nei loro stivali polverosi e si sedette. Mise le spade sul tavolo.

«La scatola…» ripeté Padre Kabani. «Diciamo sempre di averla inventata noi. Ma in realtà tutto era stato pensato molto prima. Qualcuno l’ha inventato molto tempo fa, l’ha messo in una scatola, ha fatto un buco nella scatola e poi ha lasciato perdere…

Forse è andato a dormire… E poi che cosa succede? Poi arriva Padre Kabani, chiude gli occhi e mette la mano nel buco». Si guardò la mano. «Ah! Inventata! Sono stato io a escogitare questa cosa! E se non ci credete siete degli stupidi. Infilo la mano… Uno!

Cosa ci trovo? Filo spinato! A che serve? Contro i lupi, naturalmente. Magnifico! Ci infilo di nuovo la mano… Due! Che cosa ci trovo? Un oggetto concepito molto abilmente, un cosiddetto tritacarne. A che serve? Per macinare finemente la carne.

Magnifico! Infilo dentro la mano per la terza volta… Tre! Che cos’è? Combustibile. A che serve? Per far bruciare la legna umida, eh?»

Padre Kabani tacque di nuovo e si irrigidì, come se qualcuno lo avesse afferrato per la collottola. Rumata prese in mano la brocca, vi guardò dentro e poi si versò qualche goccia sul dorso della mano. Il liquido era viola e puzzava di alcol da poco.

Si asciugò accuratamente con il fazzoletto di pizzo. Sulla stoffa rimasero macchie unte. La testa arruffata di Padre Kabani toccò il tavolo. Improvvisamente, si rialzò.

«Chiunque sia stato a mettere quella roba nella scatola sapeva a che cosa serviva.

Filo spinato contro i lupi? Sono stato io a farlo, stupido che sono. Usano il filo spinato per circondare i pozzi e le miniere! Così i prigionieri politici non possono scappare. Ma non farò il loro gioco! Anch’io sono un nemico, per lo Stato. Ma me l’hanno chiesto? Certo che sì! Filo spinato, eh? Certo, filo spinato, che altro. Contro i lupi, eh? Contro i lupi… Eccellente… Magnifico! Usiamolo per circondare i pozzi e le miniere! Don Reba in persona, primo ministro, li ha aiutati a fare le recinzioni. E ha anche requisito il mio tritacarne. È un cervellone! Magnifico! E adesso fa la carne macinata nella Torre della Gioia… Con gli esseri umani… Fa miracoli, durante gli interrogatori, dicono…»

«So tutto» pensò Rumata. «So tutto. So come hai gridato, durante il tuo colloquio privato con Don Reba, come hai strisciato ai suoi piedi, implorando, basta, basta, confesserò. Ma era già troppo tardi. Il tuo tritacarne era già in funzione…» Padre Kabani afferrò la brocca e la portò alle labbra, sorbendo la brodaglia tossica e grugnendo come la scrofa Y. Poi s’appoggiò rumorosamente sul tavolo, infilandosi in bocca una bietola lessata. Sulle guance larghe gli scorrevano le lacrime.

«Già, combustibile!» disse, ritrovando la voce. «Da usare come esca per il fuoco, e per un paio di giochetti. Ma che combustibile è, caro mio, se si può bere? Mescolalo alla birra, e vedi come aumenta il prezzo! Ma no, non te lo darò! Me lo berrò tutto io!

E come lo bevo! Giorno e notte. Sono tutto gonfio. E va sempre peggio. L’altro giorno mi sono guardato allo specchio. Don Rumata, non ci crederebbe: mi sono spaventato. Ho guardato meglio… Che il buon Dio mi protegga! Che cosa è rimasto di Padre Kabani? Un mostro marino, un polipo, pieno di macchie colorate, rosse e blu… Dicono che il combustibile sia stato inventato per fare dei bei giochi con il fuoco…»

Il vecchio sputò sul pavimento, sfregandovi poi sopra la scarpa. Improvvisamente chiese: «Che giorno è oggi?»

«La vigilia di Kata il Giusto».

«E perché non c’è il sole?»

«Perché è notte».

«Di nuovo» disse dolorosamente Padre Kabani, cadendo con il viso nelle bietole.

Rumata restò a guardarlo per un po’, fischiettando piano tra i denti. Poi si alzò e andò verso il portico retrostante. In uno stambugio tra mucchi di bietole e di segatura brillavano i tubi di vetro del distillatore di Padre Kabani. Era la creazione stupefacente di un ingegnere nato e di un maestro vetraio. Il giovane girò due volte intorno alla macchina diabolica, poi, al buio, afferrò un pezzo di ferro e cominciò a colpire a casaccio, senza mirare a niente in particolare. Si sentì il rumore dei vetri rotti, del metallo e dei liquidi che sgorgavano. L’odore di alcol fermentato pervase la stanzetta. Mentre Rumata andava ad accendere la luce, i vetri rotti scricchiolarono sotto i suoi piedi. Nell’angolo c’era una grossa cassaforte che conteneva un sintetizzatore Mida. La liberò dai detriti, compose la combinazione e l’aprì. Anche con la luce elettrica, il sintetizzatore faceva uno strano effetto in mezzo ai rifiuti.

Rumata prese una manciata di segatura e la gettò nell’alimentatore. Subito la macchina cominciò a ronzare, e l’indicatore si regolò automaticamente. Con la punta dello stivale, l’uomo spinse un secchio arrugginito sotto l’apertura del sintetizzatore. E in un batter d’occhio caddero nel secchio ammaccato, tintinnando, ducati d’oro, le monete con il profilo aristocratico di Pitz Sesto, Re di Arkanar.

Rumata adagiò il vecchio su un pagliericcio scricchiolante, gli tolse le scarpe, lo voltò sul fianco destro e lo coprì con la pelliccia spelacchiata di un animale morto da chissà quanto. Ogni tanto Padre Kabani si svegliava. Non riusciva a muoversi né a pensare. Così si limitava a recitare qualche verso di una romanza proibita. «Son come purpureo fior nella tua cara manina…» Infine cadde in un sonno profondo.

Rumata sgombrò il tavolo, pulì il pavimento e anche l’unica finestra che c’era, annerita dalla sporcizia accumulatasi durante gli esperimenti di chimica che Padre Kabani conduceva sul davanzale. Dietro la stufa in sfacelo trovò una bottiglia di alcol, che rovesciò in un buco. Poi diede da bere al suo cavallo, gli diede l’avena che aveva nella bisaccia, si lavò le mani e il viso e si sedette ad aspettare. Fissava la fiammella della lampada a olio.

Da sei anni conduceva quella strana doppia vita, e ormai sembrava essersi abituato.

Solo qualche volta, come per esempio in quel momento, gli sembrava improvvisamente che dietro la bestialità organizzata, il culto deprimente dei Grigi, non ci fosse nulla. Gli sembrava che davanti ai suoi occhi si stesse svolgendo una strana azione teatrale, con lui, Rumata, nel ruolo di protagonista. E in qualunque momento, dopo una battuta particolarmente felice, sarebbe potuto scrosciare l’applauso, e gli esperti, gli amanti dell’arte dell’Istituto di Storia Sperimentale, avrebbero gridato entusiasti dai loro palchi: «Bravo, Anton, grande! Fantastico!

Bravo, Toshka!» Si guardò intorno. Non c’era nessun teatro, solo i muri umidi e ammuffiti di tronchi rozzamente sbozzati, anneriti dal fumo della lampada.

Fuori, il cavallo nitriva piano, battendo lo zoccolo sul terreno. Gradualmente sentì avvicinarsi un sibilo. Era così familiare, lo conosceva così bene e da tanto tempo che quasi gli si riempirono gli occhi di lacrime. Era un suono inaspettato, in quel luogo dimenticato da Dio.

Rumata ascoltava attentamente, con la bocca semiaperta. Improvvisamente la vibrazione cessò; la fiammella nella lampada cominciò a vacillare, poi si stabilizzò di nuovo. Rumata stava per alzarsi dalla panca quando Don Kondor emerse dal buio della notte, entrando a grandi passi nella stanza.

Don Kondor era Giudice Supremo e Custode del Gran Sigillo della Repubblica Mercantile di Soan, Vicepresidente della Conferenza dei Dodici Negoziatori e Cavaliere dell’Ordine Imperiale della Giusta Pietà.

Rumata balzò in piedi, allontanando la panca con un calcio. Avrebbe voluto abbracciare l’amico e baciarlo sulle guance, ma si inginocchiò come prescritto dall’etichetta, e gli speroni tintinnarono solennemente; fece un gesto semicircolare con la mano, dal cuore al fianco destro, e chinò la testa così velocemente che il mento quasi sparì nella sciarpa.

Don Kondor si levò il berretto di velluto ornato da una piuma e l’agitò brevemente in direzione di Don Rumata, come per scacciare una mosca. Poi gettò il berretto sul tavolo e slacciò la fibbia del mantello, che gli cadde dalle spalle mentre lui sedeva sulla panca e allungava le gambe. Teneva la sinistra sul fianco, e con la destra stringeva l’impugnatura della spada cesellata, che con la punta bucava il pavimento di legno ammuffito. Era piuttosto piccolo, snello; gli occhi grandi e un po’ sporgenti spiccavano nel viso pallido. I capelli neri erano fermati sulla fronte da un cerchietto d’oro massiccio con una pietra verde al centro, come quello di Rumata.

«È solo, Don Rumata?» chiese frettolosamente.

«Sì, signore» rispose lui, depresso.

Improvvisamente rimbombò la voce di Padre Kabani. «Nobile Don Reba! Una iena, ecco cos’è lei!»

Kondor non gli prestò attenzione. Non si voltò neppure.

«Sono venuto in elicottero» disse.

«Speriamo che nessuno l’abbia vista».

«Una leggenda in più o in meno, che differenza fa?» chiese Kondor, come infastidito. «È che non ho tempo di viaggiare a cavallo. Che è successo a Budach?

Sono preoccupato. Vuole sedersi, Don Rumata, per favore? Così mi fa venire il torcicollo».

Obbediente, Rumata si sedette sulla panca.

«Budach è scomparso» disse. «L’ho aspettato in Piazza delle Spade Pesanti. È venuto solo un vagabondo guercio che mi ha dato la parola d’ordine e una borsa piena di libri. Ho aspettato altre due ore, poi ho interpellato Don Hug, che mi ha detto di aver portato Budach fino al confine. Budach era insieme a un nobile, un uomo di fiducia, dato che aveva perso tutto a carte con Don Hug e si era venduto a lui anima e corpo. Dunque Budach dev’essere da qualche parte ad Arkanar. È tutto quello che so».

«Non è molto, direi» osservò Kondor.

«Ma la faccenda di Budach non è poi così importante. Se è ancora vivo, lo troverò e lo tirerò fuori dal suo buco. Davvero, non c’è nessun problema. Ma non è questo che volevo discutere con lei. Ancora una volta devo attirare la sua attenzione sul fatto che la situazione, ad Arkanar, sta oltrepassando i limiti della teoria basilare…»

Kondor arricciò il naso.

«No, no, ascolti» disse Rumata con decisione. «Ho la sensazione di non poter riuscire a farmi capire davvero, per radio? E ad Arkanar va tutto a rotoli! Sembra che Don Reba stia intenzionalmente scagliando il Grigiore contro gli scienziati. Chiunque si elevi anche solo di poco al di sopra del livello medio Grigio mette in pericolo la propria vita. Mi ascolti, Don Kondor! Queste non sono impressioni vaghe, emotive, sono fatti! Basta essere intelligenti e istruiti, avere qualche dubbio, dire qualcosa fuori dal comune. Forse anche solo rifiutare un bicchiere di vino può essere pericoloso. Qualunque garzone di droghiere ti può picchiare a sangue. Centinaia, migliaia di persone vengono denunciate. Vengono catturate dagli Sturmovik e appese nude a testa in giù per le strade. Soltanto ieri nella mia strada hanno ucciso un vecchio a calci: qualcuno aveva detto che sapeva leggere e scrivere. Lo hanno preso a calci per due ore, quei porci bavosi…»

Rumata tacque un momento per riprendersi e finì, calmo: «Per concludere, non ci vorrà molto perché ad Arkanar non resti più una sola persona intelligente. Proprio come nel possedimento del Sacro Ordine dopo il massacro di Barkan».

Kondor fissò Rumata con gli occhi scuri, stringendo le labbra. «Non mi piace quello che le sta succedendo, Anton» disse.

«Ci sono molte cose che non piacciono neppure a me, Aleksandr Vassilevic»

rispose Rumata. «Per esempio non mi va il fatto che abbiamo le mani legate, il modo in cui abbiamo affrontato il problema. Non mi va che l’abbiamo definito ‘il problema della procedura incruenta’. Perché per quanto mi riguarda questo equivale a una giustificazione scientifica dell’inerzia! Conosco tutti i vostri argomenti. E ho approfondito le nostre teorie. Ma in simili situazioni le teorie non funzionano, quando gli esseri umani sono attaccati da bestie feroci con i metodi tipici della dittatura più ottusa. Tutto sta andando a pezzi, a rotoli. A cosa ci servono le ricchezze e la conoscenza? E sempre troppo tardi».

«Anton» lo interruppe Kondor «si calmi. Le credo, quando dice che la situazione di Arkanar è critica. Ma sono anche convinto che non potrebbe proporre una sola soluzione costruttiva».

«È vero. Non posso proporre soluzioni concrete. Ma mi è sempre più difficile controllarmi di fronte alla crescente corruzione fisica e morale».

«Anton, su questo pianeta siamo ormai in duecentocinquanta. Dobbiamo mantenere il massimo autocontrollo, ed è difficile per tutti. I più esperti di noi vivono qui da ventidue anni. Siamo venuti solo come osservatori e nient’altro. E proibito intervenire, in qualunque modo. Immagini un vero e proprio divieto di intervento.

Non avremmo il diritto di salvare Budach neanche se lo vedessimo massacrare sotto i nostri occhi».

«Non c’è bisogno che mi parli come se fossi un bambino».

«Ma lei è impaziente come un bambino. E qui dovrà dimostrare molta pazienza».

Rumata rise amaramente.

«E mentre noi esercitiamo la pazienza e aspettiamo» disse «impegnati a discutere continuamente su come comportarci, queste belve attaccano la gente tutti i giorni, in ogni momento».

«Anton, nell’universo esistono migliaia di altri pianeti che non abbiamo ancora visitato, dove la storia segue il suo corso».

«Ma noi è qui che siamo venuti!»

«Sì. Non per dar sfogo alla nostra legittima ira, ma piuttosto per aiutare queste creature. Se è inadatto al suo compito, allora se ne vada! Torni a casa! Dopotutto non è un ragazzino, sapeva già cosa l’aspettava».

Rumata non rispose. Il viso di Kondor si distese; durante quelle ultime parole sembrava invecchiato di molti anni. Lentamente andò all’altra estremità del tavolo, prese la sua spada e se la portò dietro come un bastone. Poi scosse la testa tristemente, impercettibilmente; soltanto il naso sembrava essersi mosso.

«Posso capire» disse. «Anch’io ci sono passato. A volte questa sensazione d’impotenza, la mia inanità, mi sembravano la cosa più orribile. Uomini dal carattere più debole sono addirittura impazziti e sono stati rimandati indietro a curarsi. Ho impiegato quindici anni per capire qual è la cosa più terribile. È il perdere la propria umanità, Anton, indurirsi l’anima trascinandola nel fango. Qui noi siamo dèi, e dobbiamo essere più saggi degli dèi che questi uomini si sono creati a loro immagine.

Ma la nostra strada corre sull’orlo dell’abisso. Un passo falso e cadi nel pantano, e per tutta la vita non riuscirai a ripulirti. Nella Storia della discesa, Goran di Irukan ha scritto: ‘Quando Dio discese dai Cieli ed emerse dalle paludi di Pitan per mostrarsi al Suo popolo, ecco, i Suoi piedi erano coperti di fango’«.

«Non molto tempo fa Goran è stato mandato al rogo per quella frase» osservò Rumata cupamente.

«E vero, l’hanno bruciato vivo. Ma sono cose che non ci riguardano. Sono qui da quindici anni. Non vedo più la Terra neppure in sogno. Qualche tempo fa, rovistando fra vecchie carte, ho trovato la foto di una donna, e non sono riuscito a ricordare chi fosse. Qualche volta sono sopraffatto dall’orrore, perché in realtà non sono più un membro dell’Istituto ma un esponente delle istituzioni locali, il giudice supremo della Repubblica Mercantile. Per me è questa la cosa più terribile: adeguarsi al proprio ruolo. Dentro di noi l’animale selvaggio lotta con il comunardo. E mentre tutti incitano l’animale il comunardo è solo… La Terra è lontana mille anni e mille parsec». Tacque. Si accarezzò le ginocchia. «Così è, Anton» riprese dopo un po’, con maggiore decisione. «Quindi restiamo comunardi!»

«Non capisce» pensò Anton-Rumata. «E perché dovrebbe, in fondo? È fortunato.

Non conosce il Terrore Grigio o Don Reba. Tutto quel che ha visto su questo pianeta negli ultimi quindici anni rientra nel modello della teoria di base. E se gli parlo della dittatura, degli Sturmovik Grigi, della militanza sempre più aggressiva della borghesia, mi accusa di fare giochi di parole: ‘Non giocate con la terminologia, Anton! In questo campo la confusione genera risultati pericolosi!’ E completamente incapace di capire che il livello medio di bestialità medievale corrisponde al buon tempo andato, su Arkanar. Per lui Don Reba è un altro Richelieu, un politico astuto e lungimirante che difende l’assolutismo dagli eccessi del feudalesimo. Sono l’unico su questo pianeta a vedere l’ombra terribile che si staglia su tutto. Ma non riesco a capire da dove venga quest’ombra, e perché. E come posso convincerlo, quando gli leggo in volto che preferirebbe rimandarmi sulla Terra per farmi curare?» «Come sta il nobile Synda?» chiese.

Kondor smise di scrutarlo, mormorando: «Benissimo, grazie». Poi aggiunse: «Dobbiamo finalmente affrontare il fatto che né lei, né io, né nessuno di noi vedrà mai il risultato del nostro lavoro. Noi non siamo fisici, ma storici. La nostra unità di misura non è il secondo, è il secolo. E qui non abbiamo il compito di seminare, ma solo di preparare il terreno. E quegli emissari della Terra, quei… fanatici che arrivano di tanto in tanto… Preferirei che andassero all’inferno, quegli zelanti…»

Rumata fece un sorriso di circostanza, e si aggiustò senza motivo gli stivali.

Zelanti. Proprio.

Dieci anni prima Stepàn Orlovskij, alias Don Kapada, comandante delle truppe dei balestrieri di Sua Altezza Imperiale, aveva ordinato ai suoi uomini di tirare sui soldati dell’Imperatore mentre torturavano pubblicamente diciotto streghe estoriane. Aveva ucciso di sua mano il giudice supremo imperiale e due dei suoi assistenti, ma alla fine era stato trucidato dalle lance della guardia del corpo imperiale. Agonizzante, aveva incitato gli spettatori della tortura: «Ricordate che siete esseri umani! Difendetevi, uccideteli, non abbiate paura di loro!» Ma la sua voce era stata sopraffatta dalle urla della folla inferocita, che gridava: «Bruciate le streghe! Bruciatele vive!» E quasi contemporaneamente Karl Rosenblum, uno degli storici più eminenti, studioso delle rivolte contadine in Francia e in Germania, alias Pani-Pas, mercante di lane, aveva fomentato un’insurrezione tra i contadini muriani. Aveva assalito e conquistato due città, ed era stato ucciso da una freccia alla schiena mentre tentava di fermare il saccheggio. Salvato da un elicottero, era ancora vivo ma non poteva parlare. I suoi grandi occhi azzurri esprimevano ancora dolore e meraviglia, e le lacrime gli scorrevano sulle guance esangui…

E, poco prima dell’arrivo di Rumata sul pianeta, il cospiratore più potente, confidente del Tiranno di Kaisan (alias Geremia Duranoce, specialista di riforme sulla Terra), con una congiura di palazzo aveva preso il potere e tentato di instaurare l’Età dell’Oro nel giro di due mesi. Aveva rifiutato decisamente di rispondere alle proteste dei paesi vicini e della Terra, si era guadagnato la dubbia reputazione di pazzo, aveva stroncato otto tentativi di restaurazione. Alla fine era stato catturato da un commando dell’Istituto che lo aveva portato con un sottomarino in una base vicino al Polo Sud.

«Pensi un po’!» disse Rumata sottovoce. «E i terrestri credono ancora oggi che i nostri fisici si occupino dei problemi più complessi…»

Kondor si alzò di scatto.

«Ah, finalmente» mormorò.

Dall’esterno proveniva un nitrito rabbioso e disperato, un rumore di zoccoli che scalpitavano e l’imprecare energico di una voce dal forte accento irukano. Un uomo entrò nella stanza. Era Don Hug, primo gentiluomo della camera di Sua Signoria il Duca di Irukan. Era robusto e rubizzo, con i baffetti arricciati e un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Sotto i riccioli ramati della parrucca brillavano due occhietti allegri. Ancora una volta Rumata avrebbe voluto obbedire all’impulso di abbracciare il nuovo arrivato: Pashka, il suo amico d’infanzia. Ma Don Hug assunse subito un atteggiamento formale, il suo viso esibì il fastidioso sorriso mellifluo richiesto dall’etichetta. Si inchinò svelto, premendo il cappello sul petto e arricciando le labbra.

Rumata guardò furtivamente Aleksandr Vassilevic. Aleksandr Vassilevic era scomparso, al suo posto c’era Don Kondor, Giudice Supremo e Guardasigilli, con le gambe allungate, la sinistra appoggiata sul fianco e la destra che stringeva l’elsa della spada cesellata.

«È molto in ritardo, Don Hug» disse con tono sgradevole.

«Vi chiedo umilmente perdono!» esclamò l’altro, avvicinandosi subito al tavolo.

«Lo giuro sui reumatismi del Duca, è tutta colpa di circostanze imprevedibili e sfortunate! Sono stato fermato quattro volte dalle pattuglie di Sua Altezza il Re di Arkanar, e ho dovuto battermi due volte contro dei briganti». Sollevò la mano sinistra, con un movimento elegante, per mostrare il braccio bendato e insanguinato.

«A proposito, signore, di chi è l’elicottero dietro la capanna?»

«È mio» rispose seccamente Don Kondor. «Io non ho tempo da perdere ad azzuffarmi per strada».

Don Hug sorrise amabilmente e si sedette a cavalcioni sulla panca. «In altre parole, signori, siamo costretti ad ammettere che il nostro dottor Budach è scomparso misteriosamente da qualche parte tra il confine irukano e la Piazza delle Spade Pesanti…»

Padre Kabani si mosse. Si voltò nel sonno, e senza svegliarsi bofonchiò: «Don Reba…»

«Lasciate a me Budach» disse Rumata in tono disperato «e malgrado tutto, per favore, cercate di capirmi…»

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