Capitolo X

Il Covo dell’Ubriaco quel giorno era relativamente in ordine; il pavimento era stato spazzato e la tavola pulita per bene. Negli angoli c’erano mazzolini di lavanda e di erbe profumate. Padre Kabani era seduto dignitosamente su una panca. Era sobrio e tranquillo, e teneva in grembo le mani pulite.

In attesa che Budach si addormentasse, parlavano del più e del meno. Budach, seduto a tavola accanto a Rumata, seguiva le chiacchiere spensierate dei signori con un sorriso indulgente. Ogni tanto sobbalzava all’improvviso, quando era sul punto di crollare. Le sue guance scavate erano imporporate dalla doppia dose di Tetraluminal che gli avevano messo di nascosto nel cibo. Il vecchio era eccitatissimo, e non riusciva a prender sonno. Don Hug, pieno d’impazienza, giocherellava con un ferro di cammello sotto il tavolo, mantenendo però un’espressione indifferente. Rumata faceva palline con la mollica e seguiva con interesse stanco Don Kondor, che si sforzava di nascondere la rabbia. Il Custode del Sigillo di Stato era nervosissimo per essere arrivato in ritardo alla conferenza notturna straordinaria dei venti agenti terrestri. La conferenza doveva discutere del colpo di stato ad Arkanar, e lui era il presidente.

«Amici!» disse infine il dottor Budach con voce sonora. Si alzò in piedi e cadde subito sulle spalle di Rumata.

Rumata lo circondò cautamente con un braccio.

«Pronto?» chiese Don Kondor.

«Non si sveglierà fino a domani mattina» disse Rumata. Prese Budach in braccio e lo portò sul pagliericcio di Padre Kabani.

Padre Kabani, geloso, disse: «Vi preoccupate del dottore ma vi dimenticate del vecchio Kabani, signori!»

«Ho solo un quarto d’ora» disse Don Kondor.

«Mi bastano cinque minuti» rispose Rumata. Non riusciva quasi a nascondere la propria irritazione. «E ve ne ho già parlato così a lungo che basterà anche solo un minuto. In completo accordo con la teoria di base del feudalesimo» guardò furioso Don Kondor negli occhi «questo è solo un normale confronto tra borghesi e baroni»

guardò Don Hug «che però si è sviluppato in un intrigo del Sacro Ordine, e alla fine ha fatto di Arkanar una roccaforte dell’aggressione feudale-assolutista.

Siamo seduti qui e ci spremiamo le meningi cercando di accomunare la figura complicata, contraddittoria ed enigmatica dell’Aquila Illuminata, Don Reba, a quella di personalità storiche della stessa statura: Richelieu, Oliver Necker, Tokugawa e il Monaco. E la nostra aquila si rivela solo un piccolo mascalzone insignificante. Ha tradito e venduto tutto ciò su cui ha potuto mettere le mani, si è invischiato nella rete dei suoi stessi intrighi, è stato sopraffatto da un terrore mortale e poi ha cercato di salvarsi la pelle mettendosi nelle mani del Sacro Ordine. Aspettate solo sei mesi: a lui taglieranno la gola, ma l’Ordine resterà. Non oso immaginare con quali conseguenze per le regioni costiere e infine per il regno intero. Comunque un fatto è certo: il lavoro di vent’anni è andato perduto. Con ogni probabilità il dottor Budach è l’ultima persona che potrò salvare. Non salveremo nessun altro: è troppo tardi. Questo è tutto quello che ho da dire».

Don Hug spezzò in due il ferro e lo gettò in un angolo.

«È davvero un problema, questo è certo» disse. «Ma forse la situazione non è così nera come tu la vedi, Anton».

Rumata lo guardò per un momento.

«Avreste dovuto rimuovere Don Reba» disse improvvisamente Don Kondor.

«In che senso ‘rimuovere’?»

Il viso di Don Kondor si riempì di chiazze rosse. «In senso fisico!» rispose seccamente.

Rumata si sedette. «Ucciderlo?»

«Sì! Sì! Sì! Rapirlo! Eliminarlo! Schiacciarlo! Ucciderlo! Avrebbe dovuto agire, non stare a discutere del problema con due idioti che non avevano la minima idea di quello che stava succedendo».

«Neanch’io l’avevo!»

«Ma almeno se n’era accorto».

Ci fu un silenzio imbarazzato.

Poi Don Kondor ricominciò. Parlava piano, guardando il vuoto. «Una cosa sul tipo del massacro di Barkan?»

«Sì, più o meno. Solo meglio organizzata».

Don Kondor si morse le labbra. «Sarebbe troppo tardi, ora, per eliminarlo dalla scena?»

«Completamente inutile» disse Rumata. «Primo, lo faranno fuori comunque, con o senza la nostra assistenza; secondo, non sarà neppure necessario. Mi segue come un cagnolino».

«Che significa?»

«Ha paura di me. Sente che dietro di me c’è una potenza misteriosa. Ha suggerito addirittura di collaborare».

«Davvero?» borbottò Don Kondor. «Allora non ne vale la pena».

Don Hug non resisteva più. «Compagni, che vi succede, parlate seriamente?»

«Come?»

«Insomma, tutto questo… rimuoverlo, farlo fuori… Che vi ha preso, siete impazziti?»

«Il signore ci ha punti sul vivo!» osservò piano Rumata. Don Kondor pesò accuratamente le parole.

«In casi eccezionali funzionano solo mezzi eccezionali!»

Don Hug guardò prima l’uno e poi l’altro; le labbra gli tremavano.

«Davvero… Davvero sapete in cosa vi state cacciando?» Non trovava le parole.

«Capite a cosa potrebbe portare?»

«Per favore, calmatevi» disse Don Kondor. «Non succederà niente. Ora basta.

Cosa facciamo con il Sacro Ordine? Suggerisco di mettere dei posti di blocco nella zona intorno ad Arkanar. Qual è la vostra opinione, compagni? Veloci, per favore, ho fretta».

«Opinioni non ne ho, non ancora» rispose Rumata. «E neppure Pashka. Dovremo parlare con i Controlli. Aspettiamo un po’. Ci incontreremo di nuovo fra una settimana e poi prenderemo una decisione».

«D’accordo» disse Don Kondor, e si alzò in piedi. «Andiamo!»

Rumata si prese Budach in spalla e lasciò la capanna. Don Kondor faceva luce con una lanterna. Salirono sull’elicottero e Rumata distese Budach sul sedile posteriore.

Don Kondor s’impigliò con il piede nel mantello e cadde sul sedile del pilota con un tintinnare di spade.

«Non potreste riportarmi subito a casa?» chiese Rumata. «Devo dormire un po’«.

«Sì, sì» brontolò Don Kondor. «Sbrigatevi, eh!»

«Torno subito» disse Rumata, e corse nella capanna.

Don Hug era ancora seduto al tavolo, e guardava fisso davanti a sé stropicciandosi il mento. Padre Kabani, in piedi accanto a lui, disse: «Va sempre a finire così, amico mio. Ci si batte con le unghie e con i denti, si cerca di fare meglio che si può, ma alla fine va sempre male…»

Rumata prese svelto le spade e il fez.

«Dai, Pashka» disse a Don Hug. «Tirati su, siamo tutti sfiniti e irritabili».

Don Hug scosse la testa con energia.

«Anton, per piacere! Non dico niente di zio Sasha, è qui da tanto e non può più cambiare. Ma tu…»

«Adesso voglio dormire, solo questo. Padre Kabani, per favore, porti i miei cavalli dal barone Pampa. Andrò a trovarlo fra pochi giorni».

L’elicottero cominciò a rombare piano. Rumata salutò e corse fuori. La luce dei fari dell’elicottero rendeva spettrali i grovigli di felci giganti contro i tronchi candidi delle betulle. Rumata salì a bordo e chiuse lo sportello. Nella cabina c’era odore di ossigeno, di pannelli sintetici e d’acqua di colonia.

Don Kondor fece decollare l’apparecchio e lo guidò con sicurezza indifferente lungo il sentiero. «Io non ci riuscirei, adesso» pensò Rumata, un po’ geloso. Sul sedile posteriore russava placidamente il dottor Budach.

«Anton» disse Don Kondor. «Vorrei… Cioè, non… Non voglio essere invadente, e mi creda, non voglio interferire con le sue faccende personali…»

«La ascolto» disse Rumata. Sapeva già dove l’altro voleva andare a parare.

«Noi qui siamo in missione» disse Don Kondor. «Tutto quel che amiamo deve restare sulla Terra, oppure chiuso dentro di noi. In questo modo non ci può essere tolto o usato per ricattarci».

«Vi state riferendo a Kyra?»

«Sì, amico mio. Se metà di quello che mi hanno detto di Don Reba è vero, allora trattenerlo non sarà né facile, né privo di pericoli. Capite?»

«Sì, capisco. Cercherò di escogitare qualcosa».

Distesi l’uno accanto all’altra al buio, si tenevano per mano. In città ormai era tutto tranquillo. Si sentiva solo qualche cavallo che nitriva e scalpitava lontano. Ogni tanto Rumata cadeva in un sonno leggero, ma si svegliava subito. Allora Kyra tratteneva il respiro; nel sonno lui le stringeva forte la mano.

«Sei molto, molto stanco» disse piano lei. «Vai a dormire, ti prego».

«No, no, dimmi tutto, ti ascolto».

«Continui ad addormentarti, caro».

«Ti ascolto lo stesso. Hai ragione, sono stanchissimo, ma desidero ancora di più starti vicino e ascoltarti. Non dormirò, continua a raccontare, ti ascolto».

Lei strofinò il naso contro la sua spalla, lo baciò sulla guancia e ricominciò a raccontare. Poco tempo prima il figlio del vicino di suo padre una sera era andato da lei. «Tuo padre è immobilizzato a letto. Lo hanno cacciato dall’ufficio e lo hanno battuto con le verghe come regalo d’addio. Non mangia quasi più, beve soltanto. È diventato pallido e cianotico, ha la tremarella». Il ragazzo le aveva anche detto che suo fratello era ricomparso, ferito ma felice e ubriaco, con un’uniforme nuova. Aveva dato un po’ di soldi a suo padre, aveva bevuto con lui e poi aveva minacciato di ucciderli tutti. Adesso era tenente, chissà dove, in un distaccamento speciale, aveva giurato fedeltà al Sacro Ordine e stava per essere fatto cavaliere. Suo padre la implorava di non tornare a casa, almeno per il momento. Suo fratello la minacciava continuamente di sconfessarla, perché lei, la strega con i capelli rossi, si era messa con un nobile…

«Certamente non può più tornare a casa» pensò. «E non può assolutamente restare qui. Se dovesse capitarle qualcosa…» Aveva il presentimento che sarebbe successo. A quel pensiero gli corsero i brividi per la schiena.

«Dormi?» chiese Kyra.

Lui sobbalzò e aprì la mano con cui le aveva stretto spasmodicamente il mignolo.

«No» rispose, mezzo addormentato. «Che altro hai fatto?»

«Ho messo in ordine le tue stanze. C’era una confusione terribile. Ho trovato un libro, un’opera di Padre Gur. Parla di un nobile principe che ama una fanciulla bella ma primitiva della regione delle montagne. Lei è completamente selvaggia e lo ritiene un dio, ma lo ama con tutto il cuore. Poi li separano e lei muore di dolore».

«È un bel libro» disse Rumata.

«Ho anche pianto. Ho continuato a pensare che parlasse di noi, di te e di me».

«Sì, parla di persone come noi. E in generale di tutti gli esseri umani che si amano.

Solo che nessuno ci separerà».

«Per lei la Terra sarebbe il luogo più sicuro» pensò Rumata. «Ma come farebbe a vivere senza di me? E come farei io, qui da solo? Potrei chiedere ad Anka di diventarti amica. Ma come farò io a restare qui senza di te? No, andremo sulla Terra, ma insieme! Guiderò io l’astronave, e tu starai seduta accanto a me, e ti spiegherò tutto. Così non avrai paura. Così amerai subito la Terra. Così non avrai mai nostalgia di casa. Questo pianeta non è affatto la tua casa. La tua casa ti ha respinta. E sei nata mille anni prima del tuo tempo. Tesoro mio, così buona, così cara, così generosa e pronta a sacrificarti… persone come te sono nate in tutte le epoche della storia sanguinosa dei nostri pianeti. Anime pure e candide, che non capiscono la crudeltà e non conoscono l’odio. Vittime. Vittime inutili. Ancora più inutili del poeta Gur o di Galileo. Perché le persone come te non lottano. Per lottare bisogna odiare, ed è proprio quello che non sai fare…» Rumata si addormentò di nuovo. In sogno vide Kyra in piedi sul bordo di un tetto, in Russia, con un degravitatore allacciato alla cintura. Anka, con tono allegro e scherzoso, l’incitava sull’orlo di un abisso immenso…

«Rumata» disse Kyra. «Ho paura!»

«Di cosa, cara?»

«Stai sempre zitto, sempre zitto. Ho una sensazione strana…»

Lui la strinse a sé.

«Va bene, cara, allora parlerò, e tu ascoltami bene. Lontano, molto lontano, oltre la grande foresta, c’è un castello dall’aria sinistra e inaccessibile. Là vive il barone Pampa, un uomo allegro, felice e buono, il miglior barone di tutta Arkanar. Ha una moglie, una donna bella e gentile che lo ama quando è sobrio, ma non può sopportarlo quando è ubriaco…»

S’interruppe e ascoltò attentamente. Dalla strada veniva il rumore di molti scarponi, il vociare degli uomini, il nitrito dei cavalli.

«Sembra che sia qui, eh?» disse una voce roca sotto le loro finestre.

«Già».

«Alt!» I tacchi dei molti scarponi risuonarono sui gradini della scala esterna, e poco dopo dei pugni bussarono al portone. Kyra, spaventata, si strinse a Rumata.

«Aspetta, cara» disse lui gettando via le coperte.

«Sono venuti per me» mormorò Kyra. «Lo sapevo che sarebbero venuti».

Rumata si liberò dal suo abbraccio e corse alla finestra.

«Nel nome del Signore!» gridavano da sotto. «Aprite, se dovremo sfondare la porta sarà peggio per voi!»

Rumata scostò appena la tenda e la luce ondeggiante delle torce riempì la stanza.

Davanti alla casa si muoveva un gruppo abbastanza consistente di cavalieri incappucciati, gente sinistra vestita di nero. Rumata guardò rapidamente di sotto, poi esaminò l’intelaiatura della finestra. Era fissata solidamente al muro. Da basso stavano cercando di sfondare la porta principale. Il giovane frugò nel buio in cerca della spada e sfondò i vetri con l’elsa. Sulla strada cadde una pioggia di cocci tintinnanti.

«Ehi, voi!» gridò. «Che cosa volete? Siete stanchi di vivere?»

I colpi cessarono.

«Combinano sempre guai» dissero delle voci. «Il padrone è in casa…»

«E che ci importa?»

«Non lo sai? Con la spada in mano è imbattibile…»

«Avevano detto che stanotte sarebbe stato via e non sarebbe tornato prima dell’alba».

«Paura?»

«No, no, non abbiamo paura. È solo che non abbiamo ordini riguardo a lui. Non abbiamo l’ordine di ucciderlo…»

«Lo legheremo, lo picchieremo e poi lo incateneremo mani e piedi! Ehi, chi sta spingendo con le lance, laggiù?»

«Se solo non ci spaccasse la testa…»

«No, non aver paura. Dicono che ha la strana abitudine di non uccidere nessuno».

«Vi sgozzerò come cani» minacciò Rumata con una voce terribile.

Kyra si strinse dietro a lui. Il cuore le batteva all’impazzata, Rumata lo sentiva. Di sotto si sentivano urlare i comandi: «Buttate giù la porta, fratelli! In nome del Signore!»

Rumata si voltò e guardò Kyra negli occhi. Lei lo guardava come poco prima, con la paura e la speranza negli occhi. Nelle sue pupille asciutte si riflettevano le torce.

«Andiamo, piccola» le disse teneramente. «Non avrai paura di quelle canaglie? Vai a vestirti. Non ha senso restare qui». Indossò velocemente la maglia di metalloplast.

«Li caccerò via e poi ce ne andremo. Andremo al castello del barone Pampa».

Lei si avvicinò alla finestra per guardare. Sul viso le passavano punti di luce rossastra. Da sotto venne il rumore del legno che si rompeva, del metallo che si schiodava.

Il cuore di Rumata sembrava scoppiare, pieno d’ansia e d’amore per lei. «Li caccerò via come cani rognosi» pensò. Si chinò per prendere la seconda spada, ma quando si rialzò, Kyra non era più davanti alla finestra. Si aggrappava alle tende, e scivolava lentamente a terra.

«Kyra!»

La freccia di una balestra le aveva trapassato la gola, un’altra era conficcata nel petto. La prese tra le braccia e la mise sul letto, posandola dolcemente sulle coperte.

«Kyra…» disse piano. Lei gemette appena e le membra le si afflosciarono. «Kyra» ripeté. Lei non rispose. Per un momento restò chino su di lei, poi prese le spade, scese lentamente le scale fino all’entrata e aspettò che il portone cedesse sotto i loro colpi…

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