1 Ultimatum

Bella, non capisco perché tu costringa Charlie a passare bigliettini a Billy come fossimo alle elementari, se volessi parlarti mibasterebbe rispondere al

È una scelta tua, no? Non puoi tenere il piede in

Cos’è—che ti sfugge del concetto "nemici mortali", e che

Senti, so che è una reazione idiota, ma davvero non si può

Non possiamo essere amici se tu passi il tuo tempo con un brancodi

Se ti penso troppo è ancora peggio, perciò ti prego di non scrivermi più

Sì, anche tu mi manchi. Un sacco. Ma tanto non serve a niente. Scusa.

Jacob.

Sfioravo il foglio con le dita e sentivo i solchi nei punti in cui aveva premuto la penna così forte sulla carta da rischiare di bucarla. Me lo immaginavo scarabocchiare furioso con la sua grafia disordinata, barrare righe su righe quando non trovava le parole giuste, o addirittura spezzare la penna in due nella mano troppo grossa, cosa che spiegava le macchie d’inchiostro di cui era cosparsa la pagina. Immaginavo le sue sopracciglia aggrottate per la frustrazione, la fronte corrugata. Se gli fossi stata accanto, forse mi sarei messa a ridere.Non farti scoppiare la testa, Jacob , gli avrei detto.Di’ le cose come stanno.

Anche in quel momento avevo voglia di ridere, rileggendo le parole che già sapevo a memoria. La sua risposta al mio biglietto implorante — consegnato grazie a Charlie e poi a Billy, proprio come alle elementari — non mi sorprendeva. Ne avevo intuito il senso ancora prima di aprire la busta. A sorprendermi era il dolore che mi provocava ogni riga cancellata, come se le lettere avessero il profilo di lame affilate. E ancora, dietro ogni incipit furioso incombeva un abisso di sofferenza: sentivo le ferite di Jacob bruciare più delle mie.

Mentre meditavo, dalla cucina giunse l’odore inconfondibile di qualcosa che cuoceva. In un’altra casa, il fatto che qualcuno stesse cucinando al mio posto non sarebbe stato fonte di panico.

Infilai il foglio stropicciato nella tasca posteriore e scesi le scale con un balzo.

Aprii lo sportello del microonde mentre il vasetto di sugo che Charlie vi aveva infilato terminava il suo primo giro.

«Dove ho sbagliato?», chiese Charlie.

«Prima devi togliere il coperchio. Il metallo non va nel microonde». Mentre parlavo aprii il vasetto, versai metà del suo contenuto in una ciotola che infilai nel microonde e riposi il vasetto nel frigo; regolai il timer e lo feci partire.

Mentre mi davo da fare, Charlie assisteva dubbioso. «Almeno gli spaghetti vanno bene?». Osservai la pentola sul fornello, la fonte dell’odore che mi aveva messa in guardia. «Ogni tanto va mescolata», dissi a mezza voce. Trovai un cucchiaio e cercai di scomporre la poltiglia compatta che ribolliva sul fondo. Charlie sospirò.

«Cosa stavi combinando?», chiesi.

Incrociò le braccia e restò a fissare la pioggia che scrosciava fuori dalla finestra. «Non so di cosa tu stia parlando», mugugnò. Non riuscivo a capire. Charlie cucinava? E perché quell’aria arcigna?

Edward non era ancora arrivato; di solito mio padre riservava quel genere di umore al mio ragazzo e si impegnava a definire il concetto di "indesiderato" con ogni parola e azione. Gli sforzi di Charlie, oltretutto, erano superflui: Edward sapeva esattamente cosa pensava mio padre, senza bisogno di gesti teatrali. La parola "ragazzo" mi faceva mordicchiare le guance con una tensione innaturale, mentre mescolavo la pasta. Non era la definizione giusta, niente affatto. Avevo bisogno di qualcosa che esprimesse meglio la dedizione eterna... ma termini come "destino" e "fato" aggiungevano un che di posticcio se usati in una normale conversazione. Nella mente di Edward c’era un’altra parola, la vera fonte della tensione che avvertivo. Solo a pensarci mi venivano i brividi.Fidanzato. Oddio. Cercai di scrollarmi il pensiero di dosso. «Mi sono persa qualcosa? Da quando spetta a te preparare la cena?», chiesi a Charlie. Punzecchiavo il grumo di pasta che ballonzolava nell’acqua bollente.

«O meglio, cercare di prepararla».

Charlie scrollò le spalle. «Non mi pare che la legge mi vieti di cucinare in casa mia».

«Se non lo sai tu...», risposi sorridendo e lanciando un’occhiata al suo distintivo appuntato sul giubbotto di pelle. «Ah ah. Buona questa». Si levò il giubbotto, come se fosse stato il mio sguardo a ricordargli che ancora lo indossava, e lo ripose sull’appendiabiti riservato al suo equipaggiamento. Il cinturone con la pistola era già a posto: da settimane non sentiva il bisogno di indossarlo, nemmeno in servizio. Nessuna sparizione inquietante aveva più turbato la vita della cittadina di Forks, nello Stato di Washington, né c’erano più stati avvistamenti di lupi giganteschi e misteriosi sotto la pioggia incessante che avvolgeva i boschi... Scolai gli spaghetti in silenzio, sicura che Charlie avrebbe scelto da solo il momento per espormi le sue preoccupazioni. Mio padre era un uomo di poche parole e il fatto che si fosse sforzato di organizzare una cena con tutti i crismi stava a dimostrare che le parole che aveva nella testa in quel momento erano molte, molte più del solito.

Diedi la solita occhiata all’orologio, un gesto che ormai compivo meccanicamente ogni manciata di minuti. Mancava soltanto mezz’ora. Il pomeriggio era sempre la parte più difficile della giornata. Da quando il mio ex migliore amico (e licantropo) Jacob Black aveva fatto la spia riguardo alla motocicletta che avevo guidato di nascosto — tradimento architettato in modo da farmi mettere in castigo e impedirmi di frequentare il mio ragazzo (e vampiro) Edward Cullen — a Edward era permesso di venirmi a trovare soltanto dalle sette alle nove e mezza di sera, sempre all’interno dei miei confini domestici e sotto la supervisione dell’immancabile sguardo acido di mio padre.

Un vero giro di vite, rispetto al castigo precedente, meno rigoroso, a cui ero stata costretta dopo tre giorni di lontananza immotivata da casa e un tuffo dalla scogliera.

Ovviamente vedevo Edward a scuola, e in questo Charlie non poteva mettere il becco. Inoltre, Edward passava quasi tutte le notti nella mia stanza, ma Charlie non ne era esattamente al corrente. L’abilità di Edward nell’arrampicarsi in silenzio fino alla mia finestra, al primo piano, era utile quasi quanto la sua capacità di leggere nei pensieri di mio padre. Benché il pomeriggio fosse l’unico momento della giornata che passavo lontana da Edward, era sufficiente a rendermi irrequieta, e le ore non passavano mai. Eppure sopportavo la punizione senza lamentarmi, prima di tutto perché sapevo di averla meritata, e poi perché non sopportavo l’idea di ferire mio padre andandomene di casa proprio in quel momento, quando al mio orizzonte incombeva una separazione permanente, ancora invisibile a Charlie.

Mio padre si sedette a tavola con un grugnito e sfogliò il giornale umido. Pochi secondi dopo schioccò la lingua in segno di disapprovazione.

«Dovresti smettere di leggere il giornale, papà. Ti innervosisce e basta». Ignorò le mie parole e continuò a mugugnare con il quotidiano tra le mani. «Ecco perché nelle città piccole si sta meglio! Ridicolo».

«Adesso che c’è che non va nelle città grandi?».

«Seattle si sta candidando a capitale nazionale degli assassini. Cinque casi irrisolti di omicidio nelle ultime due settimane. Vivresti mai in un posto del genere?».

«Credo che Phoenix si piazzi ancora meglio in classifica, papà. E io ci ho vissuto». E non avevo mai rischiato di restare vittima di un omicidio come dopo aver traslocato nella sua cittadina sicura. Anzi, comparivo nelle liste dei bersagli di parecchi killer... Tra le mie mani il cucchiaio ebbe un sussulto e fece tremare l’acqua.

«Be’, io nemmeno se mi pagassero», disse Charlie.

Rinunciai a salvare la cena e la servii così com’era: fui costretta a usare il coltello da carne per tagliare la porzione di spaghetti di Charlie e poi la mia, sotto il suo sguardo rassegnato. Charlie inondò il proprio piatto di sugo e ci si buttò. Io nascosi la mia poltiglia alla stessa maniera e lo imitai, con molto meno entusiasmo. Per qualche istante mangiammo in silenzio. Charlie era ancora impegnato a studiare la cronaca, perciò ripresi la mia copia malconcia diCime tempestose da dove l’avevo lasciata quel mattino a colazione e cercai di perdermi nell’Inghilterra di fine diciannovesimo secolo in attesa che mio padre parlasse. Proprio mentre leggevo del ritorno di Heathcliff, Charlie si schiarì la voce e gettò a terra il giornale.

«È vero», disse. «C’è un motivo per cui ho deciso di fare questa cosa». Indicò con la forchetta la poltiglia collosa. «Volevo parlarti». Riposi il libro; la costa era talmente distrutta che si appiattì sul tavolo.

«Bastava chiedere».

Annuì aggrottando le sopracciglia. «Già. Cercherò di ricordarmelo. Pensavo che risparmiarti di cucinare ti avrebbe addolcito». Scoppiai a ridere. «Ma certo, le tue capacità culinarie mi hanno letteralmente trasformato in uno zuccherino. Cosa c’è, papà?».

«Be’, riguarda Jacob».

Sentii il mio volto irrigidirsi. «Cosa c’entra?», chiesi a fil di labbra.

«Tranquilla, Bells. So che ce l’hai ancora con lui perché ha fatto la spia, ma è stata la decisione migliore. Si è comportato in maniera responsabile».

«Responsabile», risposi aspra, alzando gli occhi al cielo. «Va bene. Cosa c’entra Jacob?».

La domanda spontanea, tutt’altro che futile, riecheggiò nella mia testa.Cosa c’entra Jacob? Come potevo essergli utile, io? Il mio ex migliore amico ormai era... cosa? Un nemico? Rabbrividii. Charlie si accigliò all’istante. «Non arrabbiarti con me, per favore».

«Arrabbiarmi?».

«Be’, la cosa ha a che fare anche con Edward».

Affilai lo sguardo.

Il tono di Charlie divenne più goffo. «Gli ho concesso di tornare a trovarti, no?».

«Certo che sì. Ma solo in orari prestabiliti. Ovviamente avresti anche potuto concedere a me diuscire in orari prestabiliti», aggiunsi scherzando, certa che la prigionia sarebbe durata fino al termine dell’anno scolastico.

«Di recente mi sono comportata piuttosto bene».

«Ecco, più o meno volevo arrivare proprio qui...». A quel punto l’espressione di Charlie si rilassò in un sorriso pieno e per un istante dimostrò vent’anni in meno.

Scorsi un barlume di possibilità in quel sorriso, ma restai guardinga.

«Non capisco, papà. Stiamo parlando di Jacob, di Edward o del mio castigo?». Riecco il sorriso. «Più o meno di tutti e tre».

«E come c’entrano?», chiesi cauta.

«Okay». Fece un sospiro e alzò le mani come per arrendersi. «Ecco, pensavo che forse meriti uno sconto per buona condotta. Per l’età che hai, è straordinario quanto poco ti lamenti».

La mia voce e i miei occhi esplosero. «Davvero? Sono libera?». Cos’era successo? Ero sicura che avrei subito gli arresti domiciliari finché non mi fossi trasferita altrove, ed Edward non aveva colto alcun tentennamento nei pensieri di Charlie... Mio padre alzò un dito. «A una condizione».

L’entusiasmo svanì. «Grandioso», borbottai.

«Bella, questo è un sollecito più che una richiesta, d’accordo? Sei libera. Ma spero che userai la tua libertà... con giudizio».

«Cosa vuol dire?».

Fece un altro sospiro. «So che il tuo unico desiderio è di passare tutto il tuo tempo con Edward...».

«Lo passo anche con Alice», ribattei. La sorella di Edward non aveva orari di visita da rispettare: andava e veniva a suo piacimento. Nelle sue mani Charlie era come creta.

«Vero», disse Charlie. «Ma hai altri amici a parte i Cullen, Bella. O meglio, ne avevi». I nostri sguardi s’incrociarono per un interminabile istante.

«Quand’è stata l’ultima volta che hai parlato con Angela Weber?», chiese sfidandomi.

«Venerdì a pranzo», ribattei pronta.

Prima del ritorno di Edward, i miei compagni di scuola si erano divisi in due gruppi. Per come la vedevo, le due fazioni rappresentavano il Bene e il Male. Ma anche Noi e Loro poteva andare. I buoni erano Angela, il suo ragazzo Ben Cheney e Mike Newton: i tre erano stati ben disposti a perdonarmi la pazzia a cui mi ero lasciata andare dopo la partenza di Edward. Lauren Mallory era il polo d’attrazione negativo del gruppo dei Loro: fra questi, anche la mia prima amica a Forks, Jessica Stanley, sembrava ben felice di mantenere un comportamento anti-Bella.

Ricomparso Edward, a scuola la linea di confine si era fatta ancora più netta. Il ritorno di Edward mi era costato l’amicizia di Mike, mentre la lealtà di Angela non aveva avuto tentennamenti, con Ben al suo seguito. Malgrado l’avversione spontanea che la maggior parte degli umani provava per i Cullen, ogni giorno a pranzo Angela restava seduta accanto ad Alice. Dopo qualche settimana aveva persino iniziato a sentirsi a proprio agio. Era difficile non restare affascinati dai Cullen, a patto di concedere loro la possibilità di affascinare.

«A parte la scuola?», chiese Charlie interrompendo i miei pensieri.

«Non ho visto nessuno fuori scuola, papà. Sono in castigo, ricordi? E poi, anche Angela ha un ragazzo. Sta sempre con Ben. Se fossi davvero libera», aggiunsi, sottolineando il mio scetticismo, «magari potremmo uscire tutti assieme».

«D’accordo. Però... Tu e Jacob eravate inseparabili, e adesso...». Lo interruppi. «Ti spiacerebbe arrivare al dunque, papà? Quali sono — precisamente — le tue condizioni?».

«Non mi va bene che sacrifichi tutte le altre amicizie per stare con il tuo ragazzo, Bella», disse con voce ferma. «Non è giusto, e penso che la tua vita sarebbe più equilibrata se comprendesse anche altre persone. Quel che è successo lo scorso settembre...».

Trasalii.

«Be’», precisò, «se nella tua vita ci fosse stato qualcun altro, oltre a Edward Cullen, magari sarebbe andata diversamente».

«Sarebbe andata esattamente allo stesso modo», mormorai.

«Forse sì, forse no».

«Andiamo al dunque?», insistetti.

«Usa la tua nuova libertà per stare anche con gli altri amici. Resta in equilibrio». Annuii lentamente. «Vada per l’equilibrio. Dovrò dividere il mio tempo in parti precise?».

Fece una smorfia e scosse il capo. «Non renderla più complicata di quanto sia. Mi basta che non dimentichi gli amici... in particolare Jacob». Faticai a trovare le parole giuste. «Con Jacob rischia di essere... difficile».

«I Black sono amici di famiglia, Bella», disse, di nuovo serio e paterno.

«E Jacob ti è stato molto, molto vicino come amico».

«Lo so».

«Non ne senti mai la mancanza?», chiese Charlie esasperato. All’istante sentii un nodo in gola e fui costretta a schiarirla due volte prima di parlare. «Sì, mi manca», ammisi senza staccare gli occhi da terra.

«Mi manca parecchio».

«E allora dov’è la difficoltà?».

Non mi era concesso dare spiegazioni. Le regole impedivano alle persone normali — gli esseri umani come me e Charlie — di venire a contatto con il mondo clandestino e segreto popolato da miti e mostri che esisteva attorno a noi. Sapevo tutto di quel mondo e la conseguenza era stata una serie di problemi non da poco. Non intendevo trascinare Charlie negli stessi guai.

«Con Jacob sono in... contrasto», scandii. «Un contrasto relativo all’amicizia, intendo. A volte sembra che Jacob non se ne possa accontentare». Ricavai la mia scusa da dettagli reali ma assolutamente insignificanti di fronte all’odio cieco che il branco di licantropi di Jacob provava nei confronti della famiglia di vampiri di Edward, e quindi nei miei, dal momento che di quella famiglia ero seriamente intenzionata a fare parte. Era un problema irrisolvibile con un semplice biglietto e le telefonate continuavano a cadere nel vuoto. Inoltre il mio piano di discuterne con il licantropo in persona era tutt’altro che gradito ai vampiri.

«Edward non accetterebbe un po’ di sana rivalità?». La voce di Charlie si era fatta sarcastica.

Gli lanciai uno sguardo torvo. «Non c’è nessuna rivalità».

«Se ti ostini a evitare Jake in questo modo lo ferisci e basta. Sono sicuro che preferirebbe restarti amico, piuttosto che niente». Ah, adesso ero io a evitarlo?

«A Jake l’amicizia non basterebbe affatto, ne sono sicura». Le parole mi bruciavano in bocca. «Come ti vengono certe idee?».

Charlie sembrava imbarazzato. «Potrei averne parlato oggi con Billy...».

«Tu e Billy spettegolate peggio di due comari», replicai stizzita, e infilai con violenza la forchetta negli spaghetti solidificati nel piatto.

«Billy è preoccupato per Jacob», disse Charlie. «Se la passa molto male... È depresso». Trasalii, senza staccare gli occhi dal grumo di pasta.

«E poi, eri sempre così felice dopo le giornate passate con Jake», sospirò Charlie.

«Anche adesso sono felice», ruggii decisa a denti stretti. Il contrasto tra le mie parole e il tono della voce spezzò la tensione. Charlie scoppiò a ridere e io non riuscii a trattenermi.

«Va bene, va bene», risposi. «Equilibrio».

«E Jacob», insistette.

«Ci proverò».

«Bene. Trova un equilibrio, Bella. Ah, tra l’altro, c’è posta per te», disse Charlie chiudendo il discorso senza andare troppo per il sottile. «È sul caminetto». Restai immobile, mentre i miei pensieri si intrecciavano attorno al nome di Jacob. Probabilmente era posta inutile: avevo ricevuto un pacco da mia madre il giorno prima e non aspettavo nient’altro.

Charlie spinse la sedia lontano dal tavolo e si alzò stiracchiandosi. Infilò il piatto nel lavandino, ma prima di aprire il rubinetto per sciacquarlo si fermò e mi gettò una spessa busta. Il plico scivolò sul tavolo e fece toc contro il mio gomito.

«Ehm, grazie», mormorai meravigliata da tanta insistenza. Poi notai l’indirizzo del mittente: la lettera veniva dall’Università dell’Alaska Southeast.

«Che velocità. Temevo di essere arrivata in ritardo anche con loro». Charlie ridacchiò.

Sollevai la linguetta e gli lanciai un’occhiataccia. «È già aperta».

«Ero curioso».

«Sono allibita, sceriffo. Secondo la legge federale è un crimine».

«Oh, l’ho appena letta».

Estrassi la lettera, assieme a un orario dei corsi ripiegato.

«Congratulazioni», disse senza nemmeno aspettare che leggessi. «Domanda accettata».

«Grazie, papà».

«Credo che dobbiamo parlare della retta. Ho risparmiato qualche soldo...».

«Alt, alt, fermo lì. La tua pensione non si tocca, papà. Ho anch’io dei risparmi per il college». O meglio, ciò che restava di una cifra che non era mai stata granché.

Charlie si rabbuiò. «Certi posti sono davvero costosi, Bells. Voglio aiutarti. Non sei costretta ad andare in Alaska soltanto perché costa meno». Non costava meno, proprio no. Però eralontano , nella città di Juneau, che vantava una media di trecentoventun giorni di cielo nuvoloso all’anno. Il primo requisito l’avevo fissato io, il secondo Edward.

«Le spese sono coperte. E poi, laggiù danno un sacco di incentivi. È facile ottenere un prestito». Speravo che il bluff non fosse troppo palese. In realtà non ero così documentata.

«Quindi...», esordì Charlie, che subito increspò le labbra e guardò altrove.

«Quindi cosa?».

«Niente. Mi chiedevo...». S’incupì. «Mi chiedevo soltanto quali fossero i... piani di Edward per l’anno prossimo».

«Ah».

«Quindi?».

Tre colpi secchi alla porta mi salvarono. Charlie alzò gli occhi al cielo e io scattai.

«Arrivo!», gridai, mentre Charlie mormorò qualcosa che somigliava a un «vattene». Lo ignorai e andai ad aprire a Edward.

Spalancai la porta con forza — e con impazienza assurda — ed eccolo, il mio miracolo personale.

Il tempo non mi aveva resa immune alla perfezione di quel viso ed ero certa che non avrei mai dato per scontato niente del suo aspetto. Con lo sguardo ripercorsi i suoi lineamenti pallidi: la mascella quadrata, la curva più morbida delle labbra piene, che in quel momento mostravano un sorriso, la linea diritta del naso, l’angolo netto delle guance, l’arco liscio e marmoreo della fronte, spezzato da un ciuffo di capelli bronzei che la pioggia aveva reso più scuri...

Gli occhi li conservai per ultimi, certa che fissarli mi avrebbe fatto perdere il filo del discorso. Erano grandi, caldi d’oro liquido, incorniciati da ciglia nere e fitte. Guardarlo negli occhi mi faceva sentire sempre straordinaria, tanto leggera che quasi non sentivo più le ossa. Mi girava anche un po’ la testa, forse perché mi ero dimenticata di respirare. Di nuovo. Qualsiasi modello al mondo avrebbe venduto l’anima per un viso come il suo. Sì, forse il prezzo era proprio quello: un’anima. No. Non ci credevo. Mi vergognai di averci pensato e mi sentii lieta — come sempre mi capitava — di essere l’unica persona i cui pensieri fossero un mistero per Edward.

Cercai la sua mano e sospirai quando le sue dita fredde trovarono le mie. Il contatto portò con sé una stranissima sensazione di sicurezza, come una sofferenza placata all’improvviso.

«Ciao». Sorrisi del mio saluto così poco enfatico.

Sollevò le nostre dita intrecciate per sfiorarmi la guancia con il dorso della mano. «Com’è stato il pomeriggio?».

«Lento».

«Anche il mio».

Avvicinò il mio polso al suo viso senza mollare la presa. Chiuse gli occhi, lo sfiorò con il naso e sorrise delicatamente senza riaprirli. Se resisteva al vino non significava che non ne potesse apprezzare il bouquet, così aveva detto. Sapevo che l’odore del mio sangue — per lui molto più dolce del sangue di chiunque altro, davvero una tentazione simile al vino per un alcolista — gli causava una vera sofferenza per la sete bruciante che scatenava. Ma non sembrava temerlo più come un tempo. Riuscivo a malapena a immaginare lo sforzo titanico dietro un gesto tanto semplice. Era triste pensare che dovesse impegnarsi in quel modo. Mi consolai con la certezza che un giorno avrei smesso per sempre di torturarlo. A quel punto sentii avvicinarsi Charlie, che sfoderava il passo pesante con cui esprimeva il consueto fastidio per l’ospite. Gli occhi di Edward si aprirono di scatto e abbassò le nostre mani, senza abbandonare le mie dita.

«Buonasera, Charlie». Edward era sempre educato e impeccabile, benché Charlie non meritasse tanto. Charlie brontolò qualcosa e poi restò fermo a braccia conserte. Da qualche tempo la sua idea di "controllo paterno" era un po’ estrema.

«Ho portato qualche altra domanda d’iscrizione», mi disse Edward sfoderando una busta imbottita strapiena. Sul mignolo portava un rotolo di francobolli a mo’ di anello.

Risposi con una smorfia. Com’era possibile che fossero rimasti altri college a cui ancora non mi aveva obbligata a presentare domanda? Come faceva a trovare sempre nuove scappatoie? Ormai l’anno scolastico era quasi finito.

Sorrise come se davvero mi leggesse nel pensiero: evidentemente l’espressione svelava tutto. «C’è ancora qualche termine non scaduto. Università disposte a fare un’eccezione». Non era difficile immaginare cosa giustificasse le eccezioni. E quanti dollari ci fossero dietro.

Edward rise della mia espressione.

«Dopo di lei», disse spingendomi verso il tavolo della cucina. Charlie sbuffò e ci seguì, benché non potesse lamentarsi del programma della serata. Non passava giorno senza che mi tormentasse con la necessità di scegliere il college.

Sparecchiai alla svelta, mentre Edward metteva in ordine una pila inquietante di moduli. Quando spostaiCime tempestose sul piano della cucina, Edward alzò un sopracciglio. Sapevo cosa stava pensando, ma Charlie lo interruppe prima che potesse commentare.

«A proposito di college e iscrizioni, Edward», disse mio padre, il tono di voce ancora più burbero — si sforzava di non parlare mai con Edward e, quando vi era costretto, il suo malumore saliva alle stelle, «io e Bella stavamo giusto parlando dell’anno prossimo. Hai deciso che istituto frequenterai?». Edward sorrise a Charlie e parlò in tono amichevole. «Non ancora. Ho ricevuto qualche risposta positiva, ma ogni opzione resta aperta».

«Dove ti hanno accettato?», insistette Charlie.

«Syracuse... Harvard... Dartmouth... e oggi mi è arrivata anche la risposta positiva dell’Alaska Southeast». Edward si voltò verso di me quel tanto che bastava per strizzarmi l’occhio. Soffocai un risolino.

«Harvard? Dartmouth?», borbottò Charlie, incapace di nascondere l’irritazione. «Be’, è davvero... qualcosa. Già, ma l’Università dell’Alaska... non dirmi che la prenderai in considerazione, di fronte alla possibilità di frequentare istituti così prestigiosi. Voglio dire, immagino che tuo padre preferisca che tu...».

«Carlisle accetta sempre di buon grado le mie scelte», rispose Edward, sereno.

«Mmm».

«Indovina un po’, Edward», dissi con voce squillante, stando al gioco.

«Cosa, Bella?».

Indicai la busta spessa sul ripiano della cucina. «L’Università dell’Alaska ha appena accettato la mia domanda di iscrizione!».

«Congratulazioni!». Sorrise. «Che coincidenza».

Lo sguardo torvo di Charlie faceva avanti e indietro tra me ed Edward.

«Bene», mormorò dopo un minuto. «Vado a vedere la partita, Bella. Nove e mezza».

Era l’ordine con cui si congedava, sempre.

«Ehm, papà? Ricordi la recentissima discussione a proposito della mia libertà?».

Fece un sospiro. «Certo. Va bene, dieci e mezza. Nei giorni di scuola resta il coprifuoco».

«Bella non è più in castigo?», chiese Edward. Malgrado la sua sorpresa non fosse sincera, non sentii forzature nell’improvviso entusiasmo della sua voce.

«Libertà vigilata», precisò Charlie a denti stretti. «A te cosa importa?». Lanciai un’occhiataccia a mio padre, che non se ne accorse.

«È bello saperlo», disse Edward. «Alice è alla disperata ricerca di una compagna per lo shopping, e sono certo che a Bella piacerebbe dare un’occhiata alle luci della città». Mi sorrise. Ma Charlie ruggì: «No!», e si fece rosso in viso.

«Papà? Cosa c’è che non va?».

Si sforzò di rilassare i lineamenti contratti. «Non voglio che tu vada a Seattle, per il momento».

«Eh?».

«Ti ho detto dell’articolo sul giornale: c’è una specie di banda assetata di sangue a Seattle e voglio che tu ne resti lontana, okay?». Alzai gli occhi al cielo. «Papà, le probabilità che un fulmine mi colpisca sono più alte di quelle che a Seattle...».

«No, ha ragione, Charlie», disse Edward, interrompendomi. «Non intendevo Seattle. In realtà pensavo a Portland. Nemmeno io porterei mai Bella a Seattle. Ci mancherebbe».

Lo guardai incredula, ma a quel punto aveva afferrato il giornale di Charlie e leggeva la prima pagina con attenzione.

Probabilmente cercava di placare mio padre. L’idea che il più pericoloso degli esseri umani potesse farmi del male, se al mio fianco c’erano Alice o Edward, era decisamente ridicola.

Funzionò. Charlie fissò Edward per un secondo ancora, e scrollò le spalle. «D’accordo». Si diresse in salotto a grandi passi, quasi di fretta: forse non voleva perdersi l’inizio della partita.

Attesi che Charlie accendesse la TV, così che non potesse sentirmi.

«Cosa...», cercai di chiedere.

«Aspetta», disse Edward senza alzare gli occhi dal giornale. Con lo sguardo fisso sulla pagina mi avvicinò il primo modulo sul tavolo. «Per questo penso che tu possa riciclare le tue tesine. Stesse domande». Evidentemente Charlie ci stava ascoltando. Sospirai e iniziai a scrivere le solite informazioni: nome, indirizzo, numero di previdenza sociale... Qualche minuto dopo alzai lo sguardo, ma trovai Edward assorto, lo sguardo perso fuori dalla finestra. Tornai al lavoro e per la prima volta notai il nome dell’istituto. Feci una smorfia e allontanai i moduli.

«Bella?».

«Sii serio, Edward. Dartmouth?».

Edward sollevò il modulo che avevo appena scartato e lo ripose con delicatezza di fronte a me. «Credo che il New Hampshire ti piacerà», disse.

«Per me c’è un programma completo di corsi serali, e per gli appassionati di trekking non mancano le foreste. Ricche di animali selvatici». Sfoderò il sorriso sghembo a cui sapeva che non avrei resistito.

«Ti concederò di restituirmi i soldi, se proprio ci tieni», promise. «Se vuoi posso chiederti anche gli interessi sul prestito».

«Come se potessi superare la prova d’ammissione senza imbrogliare clamorosamente. Oppure vuoi dirmi che sarebbe tutto compreso nel prestito? Ci sarà una nuova "sala Cullen" in biblioteca? Uffa. Perché rifacciamo questo discorso?».

«Ti dispiacerebbe finire di riempire il modulo, per favore, Bella? Per una domanda di ammissione non muore nessuno».

La mia mascella si contrasse. «Sai una cosa? Penso che non lo farò». Cercai i moduli, decisa ad accartocciarli in una forma che potessi scagliare nella spazzatura, ma non c’erano già più. Per un istante fissai il tavolo vuoto e poi Edward. Sembrava che non si fosse mosso, ma probabilmente la domanda di iscrizione era già al sicuro nella tasca del suo giubbotto.

«Cosa credi di fare?», chiesi.

«Sono capace di fare la tua firma persino meglio di te. E il resto l’hai già scritto di tuo pugno».

«Stai tirando un po’ troppo la corda, e lo sai bene». Parlavo a bassa voce, nell’eventualità che Charlie non fosse del tutto perso nella partita. «Non è necessario che chieda di iscrivermi altrove. Mi hanno già accettata all’Alaska. Posso quasi permettermi la retta del primo semestre. Come alibi va bene. Non c’è bisogno di sprecare un mucchio di soldi, poco importa di chi siano».

Uno sguardo spaventato indurì la sua espressione. «Bella...».

«Non cominciare. Capisco di dover inscenare tutto al meglio, per il bene di Charlie, ma sappiamo entrambi che il prossimo autunno non sarò in grado di iscrivermi a nessuna università. Né di avvicinare le persone». Avevo un’idea ancora approssimativa di cosa sarebbero stati i miei primi anni da vampira. Edward non era mai sceso nei dettagli — non era il suo argomento preferito — ma sapevo che non erano piacevoli. L’autocontrollo era solo apparentemente una qualità acquisita. E al massimo, potevo concedermi dei corsi per corrispondenza.

«Pensavo che non avessimo ancora parlato di tempi», mi ricordò Edward in un bisbiglio. «Può darsi che ti piaccia frequentare un semestre o due di università. Ci sono un sacco di esperienze umane che non hai mai fatto».

«Per quelle avrò tempo dopo».

«Non ci saranno più esperienze umane, dopo. Non avrai un’altra possibilità, Bella». Sospirai. «Devi pensare con razionalità al modo e al tempo, Edward. È troppo pericoloso cincischiare».

«Non siamo ancora in pericolo», insistette.

Gli lanciai un’occhiataccia. Non eravamo in pericolo? Certo che no. C’era soltanto una vampira sadica desiderosa di vendicare la morte del suo compagno uccidendo me, preferibilmente con una lenta tortura. Era il caso di preoccuparsi di Victoria? Ah, già, c’erano anche i Volturi — la famiglia reale dei vampiri, con il loro piccolo esercito di guerrieri — determinati ad arrestare i battiti del mio cuore, prima o poi, in un futuro prossimo, perché a nessun umano era concesso di sapere della loro esistenza. Certo. Non c’era nessun motivo per andare nel panico. Benché Alice fosse all’erta — Edward confidava che le sue visioni soprannaturali del futuro ci avrebbero avvertiti in anticipo — rischiare era una follia.

Inoltre, avevo già chiuso il discorso. La data della mia trasformazione era stata fissata all’incirca poco dopo la consegna dei diplomi di scuola superiore, giorno da cui ci separava soltanto una manciata di settimane. Una fitta di inquietudine mi perforò lo stomaco quando mi resi conto che mancava così poco tempo. Certo, la trasformazione, oltre a rappresentare la chiave di ciò che desideravo più di ogni cosa al mondo, era indispensabile, ma sentivo forte la presenza di mio padre, seduto nell’altra stanza a godersi la partita, come ogni sera. E di mia madre Renée, lontana, sotto il sole della Florida, che ancora mi implorava di passare l’estate assieme a lei e al suo nuovo marito. E di Jacob, che a differenza dei miei genitori sapeva esattamente cosa sarebbe successo dopo la mia partenza per una università lontana. Anche se per un bel po’ mio padre e mia madre non avessero sospettato nulla, anche se fossi riuscita a cancellare le visite con qualche scusa legata alle spese di viaggio, allo studio o alla malattia, Jacob avrebbe intuito la verità. Per un istante il pensiero del suo disgusto inevitabile sovrastò ogni altra sofferenza.

«Bella», mormorò Edward, il volto contratto quando colse l’inquietudine sul mio. «Non è il caso di avere fretta. Ci sarò io a difenderti. Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi».

«Voglio fare in fretta», sussurrai sforzandomi di sorridere, cercando di fare dell’ironia. «Anch’io voglio essere un mostro».

Serrò i denti e parlò, rigido. «Non ti rendi conto di ciò che dici». All’improvviso frustò con il giornale umido il tavolo che ci divideva. Puntò un dito sul titolo in prima pagina:

CONTINUA LA SCIA DI OMICIDI

LA POLIZIA: FORSE È UNA BANDA

«E questo cosa c’entra?».

«I mostri non sono uno scherzo, Bella».

Fissai di nuovo il titolo e tornai all’espressione contratta di Edward. «È... è colpa di un vampiro?», sussurrai.

Sorrise serio. La sua voce era bassa e gelida. «Saresti sorpresa, Bella, se ti raccontassi quanto spesso sono quelli della mia razza a riempire di orrore le vostre cronache. Chi sa vedere li riconosce facilmente. A giudicare da queste informazioni, c’è un vampiro appena nato a piede libero, a Seattle. Assetato di sangue, selvaggio, fuori controllo. Come siamo stati tutti». Posai di nuovo lo sguardo sul giornale, evitando i suoi occhi.

«Teniamo d’occhio la situazione da qualche settimana. I segni ci sono tutti: sparizioni improbabili, sempre di notte, cadaveri celati male, assenza di altri indizi... Sì, uno nuovo. E nessuno sembra vegliare l’attività del neofita...». Prese fiato. «Be’, non è un problema nostro. Non ci occuperemmo neanche della faccenda, se non fosse così vicino a casa nostra. Te l’ho detto, succede di continuo. La presenza dei mostri implica conseguenze mostruose». Cercai di non leggere i nomi sulla pagina, ma risaltavano tra le colonne come fossero scritti in grassetto. Cinque persone la cui vita era terminata, le cui famiglie erano in lutto. Leggere quei nomi era diverso dal pensare in astratto all’omicidio. Maureen Gardiner, Geoffrey Campbell, Grace Razi, Michelle O’Connell, Ronald Albrook. Persone che avevano avuto genitori, figli, amici, animali domestici, lavori, speranze, progetti, ricordi e futuro...

«Per me sarà diverso», sussurrai, parlando anche a me stessa. «Tu non mi permetterai di diventare così. Vivremo in Antartide». Edward sbuffò e spezzò la tensione. «In mezzo ai pinguini. Sai che bello». Mi lasciai sfuggire una risata nervosa e per non avere più quei nomi sott’occhio cacciai via il giornale, che cadde sul pavimento con un colpo secco. Era ovvio che Edward valutasse le possibilità di caccia. Lui e i suoi familiari "vegetariani", tutti impegnati a salvaguardare la vita degli umani, per soddisfare le proprie necessità alimentari preferivano il sapore dei grandi predatori. «Allora Alaska, come abbiamo deciso. Magari in un posto più isolato di Juneau... dove ci siano un sacco di grizzly».

«Così va meglio», concesse. «Ci sono anche gli orsi polari. Molto cattivi. E i lupi sono piuttosto grossi». Spalancai la bocca con un respiro secco.

«Che c’è che non va?», chiese Edward. Prima che potessi riprendermi, la confusione svanì e il suo corpo sembrò irrigidirsi. «Oh, va bene, lasciamo perdere i lupi, se l’idea ti mette a disagio». La sua voce era severa, formale, le spalle rigide.

«Era il mio migliore amico, Edward», mormorai. Usare l’imperfetto mi bruciava. «È ovvio che l’idea mi metta a disagio».

«Perdona la mia leggerezza», disse, sempre molto formale. «Era meglio non entrare nel dettaglio».

«Non preoccuparti». Guardai le mie mani, strette a pugno sul tavolo. Per qualche istante restammo in silenzio, e a quel punto sentii il suo dito freddo che, da sotto il mento, cercava di sollevarmi il viso. La sua espressione era di nuovo molto rilassata.

«Scusa. Davvero».

«Lo so. So che non è lo stesso. Non avrei dovuto reagire così. È solo che... be’, stavo pensando a Jacob già prima che tu arrivassi». Non sapevo come continuare. I suoi occhi fulvi sembravano farsi più scuri ogni volta che pronunciavo il nome di Jacob. La mia voce si fece implorante. «Secondo Charlie, Jake se la passa male. Sta soffrendo... per colpa mia».

«Non hai fatto niente di male, Bella».

Respirai a fondo. «Ho bisogno di aiutarlo, Edward. Glielo devo. Oltretutto, Charlie l’ha posta tra le sue condizioni...». Mentre parlavo cambiò espressione e ridiventò rigido come una statua.

«Sai bene che è fuori discussione che tu frequenti un licantropo senza che nessuno ti protegga, Bella. E se uno di noi entrasse nel loro territorio, infrangeremmo il patto. Vuoi forse che scateniamo una guerra?».

«Certo che no!».

«Allora non ha senso continuare a discutere». Ritirò la mano e guardò altrove, in cerca di un appiglio per cambiare argomento. Si soffermò su qualcosa alle mie spalle e sorrise, malgrado lo sguardo preoccupato.

«Sono lieto che Charlie abbia deciso di lasciarti uscire, temo che tu abbia bisogno di fare visita a una libreria. Non posso credere che stia rileggendoCime tempestose. Non lo sai a memoria ormai?».

«Non tutti abbiamo una memoria fotografica», tagliai corto.

«Memoria fotografica o no, non capisco come faccia a piacerti. I protagonisti sono personaggi disgustosi che si rovinano la vita a vicenda. Non mi capacito del fatto che Heathcliff e Cathy siano considerati al livello di coppie come Romeo e Giulietta oppure Elizabeth Bennet e Darcy. La loro è una storia d’odio, non d’amore».

«Proprio non ti vanno giù i classici, eh?», sbottai.

«Forse è perché non mi colpisce ciò che è antico». Sorrise, evidentemente lieto di avere dirottato la mia attenzione. «Seriamente, perché ti ostini a rileggerlo?». A quel punto i suoi occhi erano accesi di vero interesse, per l’ennesima volta desiderosi di sciogliere i pensieri annodati nella mia mente. Si sporse sopra il tavolo per prendermi il viso tra le mani. «Cos’è che ti attira tanto?».

La sua curiosità sincera mi colse di sorpresa. «Non saprei», risposi, in cerca di un barlume di coerenza mentre il suo sguardo scompigliava involontariamente i miei pensieri. «Penso abbia a che fare con l’inevitabilità della loro unione. Niente può separarli: né l’egoismo di lei, né la cattiveria, e alla fine la morte...».

Valutava le mie parole con espressione pensierosa. Dopo qualche istante sfoderò un sorriso ironico. «Continuo a pensare che sarebbe una storia migliore se uno dei due avesse almeno un pregio».

«Forse il punto è proprio questo», replicai. «L’unico pregio che hanno è il loro amore».

«Spero che tu non sia tanto temeraria da innamorarti di una persona così... malevola».

«Ormai è tardi per decidere di chi innamorarmi. E nonostante le raccomandazioni, mi sembra di essermela cavata piuttosto bene». Ridacchiò. «Sono lieto che tu ne sia convinta».

«Be’, io spero che tu sia abbastanza sveglio da evitare una persona tanto egoista. La vera origine di tutti i problemi è Catherine, non Heathcliff».

«Starò in guardia», promise.

Sospirai. Era proprio bravo a cambiare discorso.

Gli strinsi la mano perché non si allontanasse dal mio viso. «Ho bisogno di vedere Jacob».

Chiuse gli occhi. «No».

«Guarda che non è pericoloso», dissi implorante. «Ho passato giornate intere a La Push assieme a tutti loro e non è mai successo niente». Ma mi tradii: alla fine della frase la mia voce cedette, perché mi resi conto che tra le mie parole c’era una bugia. Non era vero che non fosse mai successoniente.

Un’immagine mi passò davanti — un enorme lupo grigio rannicchiato e pronto a scattare, che mi mostrava i denti affilati come lame — e mi fece sudare freddo, portando con sé l’eco di un vecchio spavento. Edward sentì il mio cuore accelerare e annuì, come se avessi confessato ad alta voce. «I licantropi sono instabili. Chi gli sta accanto finisce per farsi male. Qualcuno ha rischiato anche la morte». Avrei voluto controbattere, ma un’altra immagine me lo impedì. Visualizzai il volto di Emily Young, un tempo bello ma ora rovinato da tre cicatrici scure che le curvavano l’angolo dell’occhio destro e condannavano la sua bocca a una smorfia eterna di dolore e sofferenza. Torvo e trionfante, restò in attesa che ritrovassi la voce.

«Non li conosci», sussurrai.

«Li conosco meglio di quanto pensi, Bella. L’ultima volta, io c’ero».

«L’ultima volta?».

«La nostra strada incrociò quella dei lupi circa settant’anni fa... Ci eravamo appena stabiliti nei pressi di Hoquiam. Fu prima che Alice e Jasper si unissero a noi. Eravamo più numerosi di loro, ma ciò non sarebbe bastato a impedire lo scontro, se non ci fosse stato Carlisle. Riuscì a convincere Ephraim Black che la coesistenza era possibile, e alla fine sancimmo la tregua».

Il nome del bisnonno di Jacob mi fece trasalire.

«Pensavamo che la discendenza non fosse andata oltre Ephraim», mormorò Edward; sembrava stesse parlando da solo. «Che il difetto genetico all’origine della mutazione fosse sparito...». Perse le staffe e mi lanciò uno sguardo accusatore. «La tua malasorte sembra farsi più potente ogni giorno che passa. Ti rendi conto che la tua attrazione inarrestabile verso tutto ciò che è letale è riuscita addirittura a salvare dall’estinzione un branco di canidi mutanti? Se fosse possibile imbottigliare la tua sfortuna, avremmo tra le mani un’arma di distruzione di massa».

Ignorai la battuta, scossa com’ero dalla sua deduzione: diceva sul serio?

«Ma non sono stata io a riportarli in vita. Non lo sai?».

«Che cosa?».

«La mia sfortuna non c’entra nulla. I licantropi sono tornati quando sono riapparsi i vampiri».

Edward mi fissò, pietrificato dallo stupore.

«Jacob mi ha raccontato che è stata la presenza della tua famiglia a rimettere tutto in moto. Pensavo già lo sapessi...». Mi guardò torvo. «Ne sono proprio convinti?».

«Edward, considera i fatti. Settant’anni fa, quando siete arrivati, ecco comparire i licantropi. Ora siete tornati, e riecco anche loro. La giudichi una coincidenza?».

Sbarrò gli occhi e il suo sguardo si rilassò. «Carlisle troverà interessante la tua teoria».

«Teoria, certo», sbuffai.

Per un istante restò zitto, lo sguardo perso nella pioggia fuori dalla finestra; forse rifletteva sul fatto che la presenza della sua famiglia avesse trasformato certi indigeni in cani giganti.

«Interessante, ma non del tutto rilevante», sussurrò poco dopo. «La situazione non cambia». La traduzione era molto facile: niente amici licantropi. Sapevo di dover portare pazienza, con Edward. Il problema non era la sua razionalità, ma la sua incapacità di capire. Non si rendeva conto di quanto dovessi a Jacob Black: mi aveva salvato più volte la vita, e forse solo grazie a lui non ero impazzita.

Di quel brutto periodo non mi andava mai di parlare con nessuno, tanto meno con Edward. Andandosene, aveva soltanto cercato di salvarmi, di salvare la mia anima. Non lo ritenevo responsabile delle stupidaggini che avevo commesso in sua assenza, né di quanto avevo sofferto. Lui invece sì.

Perciò, era il caso di soppesare con cura ogni spiegazione. Mi alzai per spostarmi dall’altra parte del tavolo. Aprì le braccia per accogliermi e mi sedetti in braccio a lui, protetta dalla sua stretta potente e fredda. Parlai guardandogli le mani.

«Ti prego, ascoltami per un minuto soltanto. Per me è importante, non è solo il capriccio di voler rivedere un vecchio amico. Jacob stamale ». Pronunciai l’ultima parola con voce secca. «Non posso non cercare di aiutarlo, non posso abbandonarlo ora che ha bisogno di me. Soltanto perché non è sempre umano... Be’, lui mi è stato vicino quando nemmeno io ero più... tanto umana. Tu non sai come mi sono sentita...». Non trovavo le parole. Le braccia di Edward mi cingevano rigide, stringeva i pugni, i tendini erano contratti. «Se Jacob non mi avesse aiutata... non so cosa avresti trovato al tuo ritorno. Gli devo molto più di tutto questo, Edward». Preoccupata, osservai la sua espressione. Teneva gli occhi chiusi e la mascella rigida.

«Non mi perdonerò mai di averti abbandonata», sussurrò. «Nemmeno se vivrò altri mille anni».

Avvicinai una mano al suo viso e attesi finché non lo vidi sospirare e aprire gli occhi.

«Hai soltanto cercato di prendere la decisione migliore. E sono certa che avrebbe funzionato, con qualcuno meno pazzo di me. Ma adesso sei qui. Solo questo conta».

«Se non me ne fossi andato, adesso non ti sentiresti in. dovere di rischiare la vita per aiutare uncane ». Mi irrigidii. Ero abituata a Jacob e a certe ingiurie offensive, comesucchiasangue ,sanguisuga ,parassita... che pronunciate dalla voce vellutata di Edward sembravano davvero sgraziate.

«Non trovo le parole giuste per dirtelo», rispose Edward, cupo. «Ti sembrerà crudele, temo. Ma ho rischiato già troppe volte di perderti. So quanto pesa la certezza di non averti più. Non intendo tollerare alcun comportamento pericoloso».

«Ti chiedo soltanto di fidarti. Andrà tutto bene».

Di nuovo il dolore sul suo viso. «Bella, per favore», sussurrò. Fissai i suoi occhi dorati d’un tratto accesi. «Per favore cosa?».

«Per favore, fallo per me. Per favore, sii razionale e sforzati di proteggere te stessa. Io farò tutto il possibile, ma mi piacerebbe che collaborassi almeno un po’».

«Farò del mio meglio», mormorai.

«Hai idea di quanto importante tu sia per me? Riesci a renderti conto di quanto ti amo?». Mi strinse più forte contro il suo petto marmoreo e accolse la mia testa sotto il mento. Sfiorai con le labbra il suo collo freddo come la neve. «Mi rendo conto delmio amore perte », risposi.

«È come paragonare un alberello a un’intera foresta». Alzai gli occhi al cielo senza che Edward potesse vedermi. «Impossibile». Mi baciò la testa e sospirò.

«Niente licantropi».

«Non intendo obbedire. Devo vedere Jacob».

«Allora sarò costretto a fermarti».

Sembrava sicurissimo che non sarebbe stato un problema. E sapevo che aveva ragione.

«Vedremo», risposi bluffando. «È ancora mio amico».

Il biglietto di Jacob nella tasca era diventato ingombrante, come se all’improvviso pesasse cinque chili. Riuscivo a sentirlo parola per parola, come se mi stesse parlando, sembrava quasi d’accordo con Edward, eppure nella realtà non lo sarebbe stato mai.

Ma tanto non serve a niente. Scusa.

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