CAPITOLO DODICESIMO

Per Svengaard, cresciuto in un mondo totalmente dominato dagli Optimati, l’idea che non fossero infallibili costituiva una vera e propria eresia. Tentò di escluderla dalle proprie orecchie e dalla propria mente. Non essere infallibili significava essere soggetti alla morte. Ma questo capitava solo alle classi inferiori, non agli Optimati. Come potevano non essere infallibili?

Conosceva il bioingegnere che sedeva di fronte a lui, nella pallida luce dell’alba che filtrava attraverso strette fessure nel soffitto a cupola. Quell’uomo era Toure Igan, uno dei medici d’élite della Centrale, a cui venivano sottoposti soltanto i problemi di bioingegneria più delicati e complessi.

La stanza che occupavano era un piccolo spazio ricavato tra le pareti di un condotto d’aria che serviva i sotterranei del Complesso delle Cascate. Svengaard sedeva in una poltrona piuttosto confortevole, ma aveva le braccia e le gambe legate. Passava altra gente, superando il tavolo a cui sedeva Igan. Portavano pacchi dall’aria strana, e nella maggior parte dei casi ignoravano sia Igan sia il suo compagno.

Svengaard studiò i lineamenti scuri e intensi di Igan. Le rughe sul viso dell’uomo tradivano l’inizio dello squilibrio enzimico. Stava iniziando a invecchiare. Ma gli occhi avevano ancora il colore azzurro del cielo estivo, erano ancora giovani.

«Lei deve scegliere da che parte stare,» gli aveva appena detto Igan.

Svengaard permise alla sua attenzione di vagare. Passò un uomo che portava un palla metallica dorata. Da una delle tasche spuntava una corta catenella d’argento da cui pendeva un feticcio della fertilità a forma di lingam.

«Lei deve rispondermi,» lo esortò Igan.

La gente continuava a passare per la piccola stanza. Il fatto che tutti indossassero la stessa uniforme iniziò a innervosire Svengaard. Chi era questa gente? Che facessero parte dell’Associazione Clandestina dei Genitori, questo era ovvio. Ma chi erano?

Una donna lo sfiorò. Svengaard alzò lo sguardo su un sorriso abbagliante scoccato da un volto nero, riconobbe una Zeek, il viso molto simile a quello di Potter ma dalla tinta ancora più scura… un errore nel genotipo. Al polso destro la donna portava un braccialetto di capelli umani biondi. Svengaard continuò a fissare il braccialetto finché la donna non girò un angolo, scomparendo alla vista.

«Ormai è guerra aperta,» disse Igan. «Lei deve credermi. La sua vita dipende da questo.»

La mia vita? si chiese Svengaard. Tentò di pensare alla propria vita, di individuarne le peculiarità. Aveva una moglie terziaria, poco più di una Compagna, una donna come lui a cui non era stato mai concesso il permesso di generare. Per un istante, non riuscì a ricordare i lineamenti del volto della moglie: nella sua memoria si confondevano con quelli di mogli e Compagne che aveva avuto in precedenza.

Lei non è la mia vita, si rese conto. Ma allora chi è la mia vita?

Era cosciente di essere stanchissimo, e di soffrire dei postumi dei narcotici che i suoi catturatori gli avevano somministrato durante la notte. Ricordava le mani che l’avevano afferrato, lo sguardo sbalordito che aveva dato alla parete che non poteva essere una porta e che invece lo era, lo spazio illuminato alle spalle di essa. E ricordava di essersi risvegliato in quel luogo, mentre Igan gli sedeva di fronte.

«Non le ho nascosto niente,» continuò Igan. «Le ho detto tutto. Potter è riuscito a malapena a salvare la vita. Per quanto riguarda lei, è già stato diramato l’ordine di arrestarla. L’infermiera addetta al computer è morta. Molte persone sono morte. E ne moriranno ancora. Devono essere sicuri, non capisce? Non possono lasciare nulla al caso.»

Cos’è la mia vita? si chiese Svengaard. E pensò al suo confortevole alloggio, agli oggetti d’arte e ai video d’intrattenimento, alle opere scientifiche di consultazione, agli amici, alla vita piatta e sicura che la sua posizione gli permetteva di condurre.

«Ma dove andrò?» chiese Svengaard.

«Per lei è stato preparato un posto.»

«Ma nessun luogo è al sicuro da loro,» ribatté Svengaard. Pronunciando quelle parole, per la prima volta si rese conto di quanto fosse intenso il suo risentimento nei confronti degli Optimati.

«Ci sono molti posti sicuri,» spiegò Igan. «Loro fanno solo finta di essere dotati di percezioni super-umane. In effetti, il loro potere si basa sulla tecnologia — macchine e strumenti — e su di un servizio segreto di sorveglianza. Ma le macchine e gli strumenti possono anche essere manomessi, adoperati per scopi affatto diversi. E gli Optimati dipendono dalla Gente per commettere atti di violenza.»

Svengaard scosse la testa. «Quel che mi sta dicendo è assurdo.»

«Tranne un particolare,» replicò Igan. «Loro sono come noi: ognuno dotato di una personalità individuale. E questo lo sappiamo per averlo sperimentato.»

«Ma perché dovrebbero fare le cose di cui li accusa?» protestò Svengaard. «Non è ragionevole. Loro sono buoni con noi.»

«Il loro unico interesse è quello di continuare ad esistere,» gli spiegò Igan. «E sono sempre sull’orlo del baratro. Fino a quando non avvengono cambiamenti significativi nell’ambiente che li circonda, continueranno a vivere… indefinitivamente. Ma non appena avverrà un qualche mutamento significativo, essi diventeranno come noi: soggetti ai capricci della natura. Per essi, capisce, non può esistere alcuna natura, se non sottomessa al loro volere.»

«Non ci credo,» insisté Svengaard. «Loro ci amano e si prendono cura di noi. Consideri quel che hanno fatto per noi.»

«L’ho fatto.» Igan scosse il capo. Svengaard si stava dimostrando ancora più stolido di quanto si fossero aspettati. Rifiutava l’evidenza per rifugiarsi in vecchie formule.

«Voi volete che periscano,» lo accusò Svengaard. «Perché?»

«Perché ci hanno privato della possibilità di evolverci,» rispose Igan.

Svengaard lo fissò. «Cosa?»

«Sono diventati gli unici individui liberi nel nostro mondo,» disse Igan. «Ma gli individui non si evolvono. Al contrario dei popoli. E noi non abbiamo un popolo.»

«Ma la Gente…»

«Certo, la gente! Ma tra di noi, chi ha il permesso di procreare?» Igan scosse la testa. «Lei è un bioingegnere, dannazione! È possibile che non abbia ancora intuito lo schema?»

«Schema? Quale schema? Cosa vuol dire?» Svengaard tentò di alzarsi dalla sedia, maledì i legacci che lo bloccavano. Si sentiva le braccia e le gambe intorpidite.

«Gli Optimati obbediscono ad una sola regola, nel campo della procreazione,» disse Igan. «Il ritorno all’individuo medio. Autorizzano rapporti casuali con gli individui medi proprio per impedire lo sviluppo di individui superiori alla media. E a questi individui viene impedito di procreare.»

Svengaard scosse la testa. «Non ci credo,» ripeté. Ma poteva percepire il dubbio che si infiltrava nella sua mente. Il suo caso, per esempio: qualunque partner avesse scelto, il permesso di procreare gli era sempre stato negato. Aveva controllato di persona gli accoppiamenti genetici, rilevando combinazioni che avrebbe giurato fossero fertili, ma gli Optimati avevano detto di no.

«Lei ora comincia a credermi,» constatò igan.

«Ma consideri le lunghe vite che ci donano,» disse Svengaard. «Io posso aspettarmi di vivere per quasi duecento anni.»

«Questo grazie alla scienza medica, e non agli Optimati,» replicò Igan. «La chiave è una somministrazione estremamente accurata di enzimi. Unita ad una vita pianificata in cui le emozioni sono ridotte al minimo, a esercizi ginnici ad hoc e a una dieta personalizzata. Procedimenti che potrebbero essere applicati alla maggior parte delle persone.»

«Una vita infinita?» sussurrò Svengaard.

«No! Ma una vita lunga, molto più lunga di adesso. Io, per esempio, sto per raggiungere i quattrocento anni, e come me ce ne sono molti. Quasi quattrocento meravigliosi anni,» disse, ricordando la maligna definizione di Calapine… e il risolino di Nourse.

«Lei… quattrocento anni?» chiese Svengaard.

«Concordo che sono nulla paragonati alle molte migliaia della loro vita,» disse Igan. «Quasi tutti noi potremmo raggiungere quell’età, ma loro non lo permettono.»

«Perché?» volle sapere Svengaard.

«In questo modo, possono offrire vite più lunghe ai loro fedeli servitori,» spiegò Igan, «come ricompensa per i servigi resi. In caso contrario, non avrebbero alcun mezzo per comprarci. E lei lo sapeva! Proprio per questo li ha serviti per tutta la vita.»

Svengaard abbassò lo sguardo sulle proprie mani legate. È questa la mia vita? si chiese. Mani legate? Chi comprerà le mie mani legate?

«E avrebbe dovuto sentire Nourse ridacchiare per i miei miseri quattrocento anni,» disse Igan.

«Nourse?»

«Sì! Nourse della Tuyere, Nourse il Cinico, Nourse che ha vissuto per più di quarantamila anni! Perché crede che Nourse sia un Cinico? Altri Optimati sono più vecchi, molto più vecchi. Ma quelli non sono Cinici.»

«Non capisco,» ammise Svengaard. Fissò Igan, sentendosi debole, battuto, incapace di controbattere la forza di quelle parole, di quelle idee.

«Dimentico che lei non è della Centrale,» disse Igan. «Gli Optimati identificano se stessi in base a quelle poche emozioni che decidono di provare. Sono Decisionisti, Emotivi, Cinici, Edonisti ed Effeti. Per arrivare all’edonismo passano attraverso una fase cinica. Ma i membri della Tuyere perseguono già il proprio piacere personale, e questo non è un buon segno.»

Igan studiò Svengaard, soppesando l’effetto provocato dalle proprie parole. Si trovava di fronte a una creatura che si elevava a malapena rispetto al livello mentale medio della Gente. Era un uomo medievale. Per lui, la Centrale e gli Optimati costituivano il primum mobile che controllava il sistema celeste. Oltre la centrale si stendeva l’empirea dimora del Creatore… e per gli Svengaard di quel mondo esisteva poca differenza tra un Optimate e il Creatore. Erano entrambi più in alto della luna, e totalmente privi di difetti.

«Dove possiamo fuggire?» chiese Svengaard. «Non possiamo nasconderci da nessuna parte. Loro controllano le forniture di enzimi. L’istante stesso in cui uno di noi entrerà in uno dei Dispensatorii Farmaceutici, sarà la fine.»

«Abbiamo le nostre fonti di approvvigionamento,» replicò Igan.

«Ma perché volete me?» domandò Svengaard. Contino a fissare i legacci.

«Perché lei è un individuo speciale,» spiegò Igan. «Perché Potter la vuole al suo fianco. Perché lei sa dell’embrione dei Durant.»

L’embrione, pensò Svengaard. Ma qual è il significato di quell’embrione? Tutto sembra ruotare intorno ad esso.

Sollevò gli occhi, incontrò lo sguardo di Igan.

«Lei trova difficile considerare gli Optimati nel modo in cui glieli ho descritti,» commentò Igan.

«Sì.»

«Sono una piaga,» dichiarò Igan. «Sono una malattia che affligge l’intera umanità.»

Svengaard rabbrividì per l’amarezza che aveva percepito nella voce dell’altro.

«Saul ha cancellato l’esistenza di migliaia di persone, Davide quella di decine di migliaia, ma gli Optimati hanno cancellato il nostro futuro,»

Un uomo grande e grosso si avvicinò al tavolo, si fermò voltando le spalle a Svengaard.

«Ebbene?» chiese. Anche se aveva pronunciato una sola parola, fu chiarissimo che la sua voce aveva un inquietante tono d’urgenza. Svengaard tentò di osservare il suo volto, ma non ci riuscì a causa dei legacci che lo bloccavano. Per lui l’uomo rimase un’ampia schiena coperta da una giacca grigia.

«Non lo so,» rispose Igan.

«Non abbiamo più tempo,» disse il nuovo venuto. «Potter ha terminato il suo lavoro.»

«Con quale risultato?» chiese Igan.

«Lui dice che l’operazione ha avuto successo. Ha usato un’iniezione di enzimi per accelerare il ristabilimento della madre. Tra poco sarà in grado di spostarsi.» Con una mano massiccia l’uomo indicò dietro la spalla, verso Svengaard. «Che ne facciamo di lui?»

«Lo porti con sé,» disse Igan. «Cosa sta facendo la Centrale?»

«Ha ordinato l’arresto di tutti i bioingegneri.»

«Così presto? Hanno preso anche il Dottor Hand?»

«Sì, ma lui ha scelto la porta nera.»

«Ha costretto il suo cuore a fermarsi,» commentò Igan. «Era l’unico modo. Non possiamo permetterci che uno di noi venga interrogato. In quanti siamo rimasti?»

«Sette.»

«Compreso Svengaard?»

«Con lui siete in otto.»

«Per il momento terremo Svengaard sotto sorveglianza,» disse Igan.

«Stanno iniziando a far evacuare il loro personale da Seatac,» annunciò l’uomo.

Svengaard riusciva a vedere soltanto una metà del viso di Igan, coperto parzialmente dal nuovo venuto, ma quella metà mostrava chiaramente un’espressione preoccupata, riflessiva. L’unico occhio visibile fissò Svengaard per un istante, poi guardò altrove.

«È chiaro,» disse Igan.

«Sì, stanno per distruggere la megalopoli.»

«No… loro direbbero "sterilizzare".»

«Ha mai sentito Allgood parlare della Gente?»

«Molte volte. Feccia della terra. Distruggerebbe l’intera regione senza battere ciglio. È tutto pronto per muoverci?»

«Più o meno.»

«L’autista?»

«È stato programmato per il percorso desiderato.»

«Faccia un’iniezione a Svengaard per tenerlo tranquillo. In viaggio non avremo tempo di occuparci di lui.»

Svengaard si irrigidì.

L’uomo si girò. Svengaard sollevò lo sguardo, fissando due occhi scintillanti, grigi, calcolatori, privi di qualsiasi emozione. Una delle mani massicce dell’uomo si sollevò, stringendo una siringa a pressione. La mano gli toccò il collo. Svengaard sussultò.

Poi fissò quel volto privo di espressione mentre la sua mente veniva avvolta da soffici nuvole. Si sentiva la gola arida, era incapace di parlare. Volle protestare, ma nessuna parola gli uscì di bocca. La sua coscienza divenne un globo sempre più piccolo concentrato su di una piccola parte del soffitto dotato di feritoie. La scena si condensò, divenne sempre più piccola, fino a trasformarsi in un occhio dalle pupille simili a feritoie che ruotava freneticamente.

Poi Svengaard precipitò in una morbida oscurità.

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