CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La Sala del Consiglio non aveva ospitato una simile folla, da quando, trentamila anni prima, si era svolto il dibattito sull’autorizzazione per esperimenti limitati dei Cyborg su individui della loro stessa specie. Gli Optimati occupavano file di banchi in plasmeld, i cui cuscini multicolori provocavano un’iridescenza. Alcuni erano nudi, ma la maggior parte di essi, consci della solennità dell’occasione, erano giunti indossando vestiti di svariate epoche storiche, scelti secondo il capriccio individuale. Si notavano toghe, gonnellini, gonne coperte di trine, perizomi e muu-muu, in una ridda di tessuti e di stili che risalivano fino alla preistoria.

Coloro che non erano riusciti a entrare nella sala, osservavano la scena attraverso mezzo milione di sensori video che luccicavano tutt’intorno le pareti.

Era appena spuntata l’alba, nell’emisfero in cui era ubicata la Centrale, ma nessun Optimate dormiva.

Il Globo di Controllo era stato spostato di lato e i membri della Tuyere occupavano tre scranni all’estremità opposta della sala. I prigionieri erano stati introdotti dagli accoliti in una piattaforma pneumatica. I cinque sedevano sulla piattaforma, immobilizzati all’interno di lastre di plasmeld azzurro che permettevano loro a malapena di respirare.

Quando abbassò lo sguardo su di loro dal suo scranno, Calapine si permise un lieve sorriso, notando le cinque figure imprigionate in maniera tanto crudele. La donna: nei suoi occhi si scorgeva un tale terrore. Il volto di Harvey Durant distorto dall’ira. L’attesa piena di rassegnazione di Glisson e Boumour. Svengaard, invece, aveva l’aria di chi si fosse appena svegliato da un sogno.

Eppure Calapine aveva l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava. Non riusciva a comprendere il motivo, ma si sentiva vuota.

Nourse ha ragione, pensò. Questi cinque criminali sono davvero importanti.

Qualche Optimate seduto ai primi banchi aveva portato con sé un carillon, e la sua fievole melodia argentina poteva essere udita al di sopra del costante brusio che riempiva la sala. Il suono sembrò farsi più forte, mentre gli Optimati iniziavano a far silenzio, pieni d’aspettativa. Il carillon si interruppe a metà della melodia.

La sala era sempre più silenziosa.

Nonostante la paura, Lizbeth si guardò intorno. Prima di quel momento, non aveva mai visto un Optimate in carne e ossa, ma solo sugli schermi che trasmettevano comunicazioni di interesse pubblico (Durante la sua vita, la maggior parte delle volte erano comparsi i membri della Tuyere, sebbene alcuni tra la Gente, più vecchi, menzionassero la Triade Kagiss, che aveva preceduto quella attuale). Gli Optimati le sembrarono così diversi, colorati… e così distaccati. Ebbe la terribile impressione che tutto non fosse accaduto per caso, che trovarsi lì, in compagnia degli altri quattro prigionieri, fosse il risultato di un terribile schema ordito dal Fato.

«Sono completamente immobilizzati,» commentò Schruille. «Non c’è nulla da temere.»

«Eppure sono spaventati,» replicò Nourse. E a un tratto si ricordò un episodio che aveva vissuto durante la gioventù. Era stato invitato a casa di un amante delle antichità, un Edonista, che gli aveva mostrato con orgoglio le sue copie in plasmeld di statue ormai scomparse da millenni: un pesce gigantesco, una figura equestre acefala (dalle linee ardite), un monaco la cui testa era coperta da un cappuccio, e un uomo e una donna avvinti in un abbraccio terrorizzato. Comprese che erano stati i volti di Harvey e Lizbeth ad avergli ricordato quell’ultima statua.

In un certo qual modo, sono i nostri genitori, pensò Nourse. Anche noi discendiamo dalla Gente.

Improvvisamente, Calapine comprese che cosa mancava in quella scena. Non c’era un Max. Sapeva che era scomparso, e per un fuggevole istante si chiese che cosa gli fosse accaduto. Forse era troppo vecchio, non serviva più. Il nuovo Max evidentemente non era ancora pronto.

È strano che Max se ne sia andato in questo modo, pensò. Ma le vite della Gente sono effimere quanto tele di ragno. Un giorno sono lì; le vedi. Quello seguente, sono svanite. Devo ricordarmi di chiedere cosa è successo a Max. Ma sapeva che non l’avrebbe mai fatto. La risposta avrebbe potuto implicare una parola disgustosa, un concetto che l’avrebbe nauseata, seppure celato da un pietoso eufemismo.

«Prestate particolare attenzione al Cyborg Glisson,» dichiarò Schruille. «Non è strano che i nostri strumenti non rilevino in lui alcuna emozione?»

«Forse non ne ha,» osservò Calapine.

«Ah!» esclamò Schruille. «Un’ipotesi assai brillante.»

«Non mi fido di lui,» disse Nourse. «Un mio antenato mi ha raccontato dei trucchi usati dai Cyborg.»

«È sostanzialmente un robot, programmato per reagire nel modo più efficace per proteggere la propria esistenza. La sua attuale docilità è interessante.»

«Il nostro scopo non era quello di interrogarli?» chiese Nourse.

«Tra un istante,» disse Schruille, «metteremo a nudo i loro cervelli, ne estrarremo i ricordi per esaminarli. Ma prima, è meglio studiarli.»

«Sei così volgare, Schruille,» disse Calapine.

Un mormorio d’approvazione si diffuse nella sala.

Schruille lanciò un’occhiata a Calapine. La voce della donna aveva avuto un tono così strano. Scoprì di esserne stato turbato.

Gli occhi del Cyborg Glisson si mossero, valutando freddamente la scena, luccicando a causa delle lenti speciali che ne espandevano la capacità ottica.

«Se n’è accorto anche lei, Durant?» chiese con voce strozzata a causa del plasmeld che l’imprigionava.

Harvey ritrovò la voce. «Io… non… ci credo.»

«Stanno parlando tra loro,» disse Calapine in tono brillante. Fissò Harvey Durant, intravide nei suoi occhi uno sguardo in cui si mescolavano odio e compassione.

Compassione? si chiese.

Un’occhiata al minuscolo ripetitore da polso le confermò che i dati degli strumenti del Globo erano esatti. Compassione. Compassione! Come osa!

«Har… vey,» bisbigliò Lizbeth.

Una rabbia impotente distorse il viso di Harvey. Mosse gli occhi, ma non tanto da riuscire a vederla. «Liz,» sussurrò. «Liz, io ti amo.»

«Questo è il momento dell’odio, non dell’amore,» lo avvertì Glisson, con un tono distaccato che conferiva alle sue parole un’aura di irrealtà. «Dell’odio e della vendetta,» concluse Glisson.

«Cosa state dicendo?» chiese Svengaard. Era rimasto ad ascoltare le loro parole con crescente sbalordimento. Per un po’, aveva pensato di ricordare umilmente agli Optimati che lui era stato catturato, trattenuto contro il suo volere, ma un sesto senso gli disse che sarebbe stato inutile. Per quegli esseri superbi, lui non era nulla: la schiuma di un’onda che si frangeva contro un’alta roccia. E loro erano la roccia.

«Li guardi con l’occhio del medico,» lo esortò Glisson. «Stanno morendo.»

«È vero,» ammise Harvey.

Lizbeth aveva chiuso gli occhi per impedire alle lacrime di sgorgare. Ora li spalancò e fissò le persone intorno a lei, le vide attraverso gli occhi di Harvey e Glisson.

«Stanno davvero morendo,» alitò con un filo di voce.

Gli occhi addestrati di un Corriere non potevano sbagliarsi: la mortalità sul volto degli immortali! Ovviamente Glisson se n’era accorto grazie alla sua tipica capacità da ciberneuta di correlare e produrre ipotesi.

«Qualche volta la Gente sa essere così disgustosa,» si stupì Calapine.

«Non può essere,» obiettò Svengaard con un tono di voce indecifrabile che stupì Lizbeth; la voce era priva di quella disperazione che lei si sarebbe aspettata.

«Ho detto che sono disgustosi!» sbottò Calapine. «Nessuno stupido farmacista dovrebbe avere l’ardire di contraddirmi.»

Boumour riemerse dal suo stato di apatia. Il computer all’interno del suo corpo, la cui logica era ancora aliena per Boumour, aveva registrato e analizzato la conversazione, ricavandone conclusioni significative. Sollevò lo sguardo, e sebbene fosse ancora incompleto come Cyborg, rilevò dalla carne degli Optimati i segni quasi impercettibili che la sua ipotesi era esatta. Era vero! C’era qualcosa che non andava negli immortali. La sorpresa colmò l’animo di Boumour di una vaga sensazione di perdita, come se avesse dovuto manifestare una qualche emozione che non era più in grado di provare.

«Le loro parole,» disse Nourse. «Per me, sono quasi del tutto privo di significato. Cosa stanno dicendo, Schruille?»

«Adesso interroghiamoli sui Fertili,» li esortò Calapine. «E sull’embrione che hanno sostituito a quello dei Durant. È importantissimo.»

«Guardate là, nella fila più in alto,» disse Glisson. «Quell’Optimate alto. Vedete le rughe sul suo viso?»

«Sembra così vecchio,» sussurrò Lizbeth. Stranamente, si sentiva svuotata. Fino a quando fossero esistiti gli Optimati — immutabili, eterni — anche il suo mondo avrebbe poggiato su di un pilastro altrettanto saldo. Anche se si era opposta al loro dominio, Lizbeth aveva sempre avuto quella sensazione. I Cyborg morivano… alla fine. La Gente moriva. Ma gli Optimati continuavano a vivere… per sempre.

«Come è possibile? Che cosa sta succedendo agli Optimati?» chiese Svengaard.

«La seconda fila sulla sinistra,» disse Glisson. «La donna dai capelli rossi. Vedete le occhiaie, lo sguardo vacuo?»

Boumour mosse gli occhi per vederla. Questo gli bastò per constatare la verità delle parole di Glisson.

«Cosa stanno dicendo?» domandò Calapine. «Cos’è questo?» Parlò in tono querulo, perfino alle proprie orecchie. Si sentiva inquieta, afflitta da dolori di cui non avrebbe saputo spiegare la causa.

Un brusio di scontento si alzò dai banchi della sala. Inframmezzate a esso, si poterono udire risatine, esclamazioni di rabbia, risate sguaiate.

Dovevamo interrogare questi criminali, pensò Calapine. Quando cominceremo? Devo essere io a iniziare?

Fissò Schruille, che si era afflosciato sullo scranno e rivolgeva uno sguardo carico d’odio su Harvey Durant. Poi si voltò verso Nourse, notò il suo sorrisetto di superiorità, l’espressione remota dei suoi occhi. Una vena pulsava nel collo di Nourse — non l’aveva mai notata prima; su una guancia spiccava un groviglio di venuzze vermiglie.

Lasciano che sia io a occuparmi della faccenda, pensò poi.

Con uno scatto nervoso delle spalle, toccò il ripetitore da polso. Una luce purpurea invase il globo che era stato spostato ad un lato della sala. Un raggio di luce scaturì dalla sommità della sfera e lambì il pavimento. Si allungò verso i prigionieri.

Schruille osservò la scena. Presto i cinque criminali si sarebbero trasformati in folli creature urlanti, e avrebbero confessato tutto ciò che sapevano agli analizzatori della Tuyere. La loro personalità sarebbe svanita, ridotta a una fascio di fibre nervose, da cui la luce ardente avrebbe assorbito ricordi, esperienze, conoscenze.

«Aspetta!» esclamò Nourse.

Studiò la luce. L’esclamazione aveva interrotto l’avvicinamento del raggio ai prigionieri. Sentiva che stavano commettendo un grosso errore di cui si era accorto soltanto lui, e si guardò intorno nella sala improvvisamente silenziosa, chiedendosi se qualcun altro avrebbe potuto dare un nome a quell’errore. In quel luogo si trovavano le tecnologie segrete su cui si basava il loro dominio, tutto era ordinato, programmato. Ma, in qualche modo, la casualità della Vita si era introdotta nella Sala. Era un errore.

«Perché stiamo aspettando?» chiese Calapine.

Nourse tentò di ricordarlo. Sapeva di essersi opposto all’interrogatorio. Perché?

La sofferenza!

«Non dobbiamo causare sofferenze,» affermò allora. «Dobbiamo dar loro la possibilità di confessare senza esservi costretti.»

«Sono impazziti,» sussurrò Lizbeth.

«E noi abbiamo vinto,» affermò Glisson. «Attraverso i miei occhi, tutti i Cyborg possono assistere alla nostra vittoria.»

«Ci distruggeranno,» gli ricordò Boumour.

«Ma avremo vinto lo stesso,» replicò Glisson.

«Come?» chiese Svengaard. E a voce più alta ripeté, «Come?»

«Potter ha funto da esca, e così abbiamo fatto loro assaporare il gusto della violenza,» spiegò Glisson. «Sapevamo che avrebbero abboccato. Dovevano farlo.»

«Perché?» sussurrò Svengaard.

«Perché abbiamo modificato le condizioni ambientali in cui vivevano,» rispose Glisson. «Piccole cose: un po’ di pressione qua, un inquietante Cyborg là. E abbiamo fatto loro provare il gusto della guerra.»

«Come?» insisté Svengaard. «Come?»

«Istinto,» replicò Glisson. Quella parola fu pronunciata in tono talmente deciso, che fu chiaro che era il risultato di una logica inumana da cui non c’era scampo. «Le guerra, per gli umani, fa parte del loro istinto. La battaglia. La violenza. Ma le menti degli Optimati hanno imparato a controllare quest’istinto — per migliaia di anni. Ah, il prezzo che hanno pagato: stagnazione, apatia, noia. Ora si sono trovati di fronte alla necessità di usare la violenza, ma la loro capacità di adattarsi si è atrofizzata. Di conseguenza, sono sottoposti a squilibri enzimici sempre più gravi, si stanno allontanando sempre più dallo stato di immortalità. Presto moriranno.»

«Guerra?» Svengaard aveva udito le storie su come gli Optimati preservassero la Gente dalla violenza. «Non può essere,» protestò. «Magari si tratta di una malattia sconosciuta o di…»

«Le mie conclusioni sono esatte, fino all’ultimo decimale,» replicò Glisson.

Calapine urlò, «Ma cosa stanno dicendo?»

Aveva udito perfettamente le parole dei prigionieri, ma il loro significato le sfuggiva. Stava pronunciando vere oscenità. La sua mente registrava una parola, poi quella successiva, ma non riusciva a stabilire un legame logico tra esse. Erano soltanto volgarità, della specie peggiore. Scosse Schruille per un braccio. «Cosa stanno dicendo?»

«Tra un istante li interrogheremo e lo sapremo,» rispose Schruille.

«Sì,» disse Calapine. «Voglio la verità.»

«Ma come è possibile?» sussurrò Svengaard. Vedeva una coppia che danzava tra i banchi. Altre coppie si abbracciavano, facevano l’amore. Alla sua destra, due Optimati presero a inveire uno contro l’altro — vicinissimi allo scontro fisico. Svengaard ebbe l’impressione di vedere edifici che crollavano, la terra fendersi e sputare fiamme.

«Li guardi!» incalzò Glisson.

«Ma perché non riescono ad adattarsi a questo… mutamento?» chiese Svengaard.

«La loro capacità di adattamento si è atrofizzata,» ripeté Glisson. «E lei deve rendersi conto che l’adattamento crea esso stesso nuove condizioni di vita, provoca oscillazioni comportamentali sempre più violente. Li guardi! Stanno perdendo il controllo.»

«Fateli tacere!» urlò Calapine. Balzò in piedi, avanzò verso i prigionieri.

Harvey osservò l’Optimate che si avvicinava. Era affascinato e terrorizzato nello stesso tempo. Calapine sembrava aver perso il controllo dei movimenti, di ogni reazione emotiva, tranne la rabbia. I suoi occhi, fissi su Harvey, sprizzavano furore. Un violento tremito le squassava il corpo.

«Tu!» esclamò Calapine, indicando Harvey. «Perché mi fissi così e borbotti? Rispondimi!»

Harvey rimase in silenzio, non a causa della rabbia dell’Optimate, ma per essersi improvvisamente reso conto dell’età di quella donna. Quanti anni aveva vissuto? Trentamila? Quarantamila? Oppure era una degli Optimati originali, e aveva più di ottantamila anni?

«Parla, di’ ciò che vuoi,» gli ingiunse Calapine. «Io, Calapine, te lo ordino. Mostra rispetto e forse sarò misericordiosa.»

Harvey la fissò, ammutolito. Calapine sembrava ignara della baraonda sempre più violenta che si era scatenata nella Sala del Consiglio.

«Durant,» disse Glisson, «deve ricordare che esistono impulsi sotterranei chiamati istinti che dirigono le nostre esistenze come la corrente inesorabile di un fiume. Questo è ciò che chiamiamo cambiamento. Ora ci circonda. Il mutamento è l’unica costante.»

«Ma Calapine sta morendo,» fece notare Harvey.

Quest’ultima non riuscì a comprendere le sue parole, ma fu toccata dalla sfumatura di preoccupazione che percepì nella voce di Durant. Diede un’occhiata al braccialetto che la manteneva in collegamento con gli strumenti del Globo. Preoccupazione! Durant era preoccupato per lei, non per la sua vita o per la sua insignificante compagna!

Si girò, mentre veniva avvolta da una subitanea oscurità, e stramazzò al suolo, con le braccia spalancate verso le file di banchi.

Un risolino crudele sfuggì dalle labbra di Glisson.

«Dobbiamo fare qualcosa per loro,» disse Harvey. «Devono capire cosa stanno infliggendo a loro stessi!»

Improvvisamente, Schruille si riprese, guardò verso la parete opposta della sala, notò che molti dei sensori video, utilizzati dagli Optimati che non erano riusciti ad entrare nella sala, erano spenti. Poi venne allarmato dalla confusione di cui sembravano essere preda i suoi pari. Alcuni degli Optimati stavano andandosene; nel farlo barcollavano, correvano, ridevano…

Ma dovevamo interrogare i prigionieri, pensò Schruille.

Lentamente l’isteria che aveva invaso la sala si impresse sui sensi di Schruille, che guardò Nourse.

Nourse sedeva con gli occhi chiusi, borbottando tra sé e sé. «Olio bollente,» disse poi. «Ma è un sistema troppo rapido. Abbiamo bisogno di una tortura più raffinata, che duri più a lungo.»

Schruille si tese in avanti. «Voglio rivolgere una domanda all’uomo chiamato Harvey Durant.»

«Cosa?» sbottò Nourse. Aprì gli occhi, si sporse in avanti, poi si rilassò.

«La domanda è: cosa sperava di guadagnare dalle sue azioni?» chiese Schruille.

«Molto bene,» approvò Nourse. «Rispondi alla domanda, Harvey Durant.»

Nourse toccò il proprio braccialetto. Il raggio purpureo si avvicinò di un paio di centimetri ai prigionieri.

«Non volevo che moriste,» spiegò Durant. «Assolutamente.»

«Rispondi alla domanda!» latrò Schruille.

Harvey deglutì a vuoto. «Volevo…»

«Volevamo formare una famiglia,» intervenne Lizbeth. Parlò con voce chiara, tranquilla. «Ecco tutto. Volevamo una famiglia.» Iniziò a piangere e si chiese a chi sarebbe assomigliato loro figlio. Senza dubbio nessuno di loro sarebbe sopravvissuto a quella follia.

«Cosa?» si stupì Schruille. «Ma cosa sono queste sciocchezze su una famiglia?»

«Dove avete preso l’altro embrione?» chiese Nourse. «Rispondete e forse ci dimostreremo misericordiosi.» La luce bruciante si avvicinò ancora un po’ ai cinque prigionieri.

«Abbiamo a disposizione degli individui fertili e immuni al gas contraccettivo,» rispose Glisson. «Sono molti.»

«Avete sentito?» esclamò trionfante Schruille. «Ve l’avevo detto.»

«Dove sono?» chiese Nourse. Si accorse che gli tremava la mano destra, la fissò sorpreso.

«Proprio sotto il vostro naso,» replicò Glisson. «Sono mimetizzati tra la popolazione. E non chiedetemi di fornirvi i loro nomi. Non li conosco tutti. Nessuno li conosce.»

«Non ce ne sfuggirà nessuno,» promise Schruille.

«Nessuno!» gli fece eco Nourse.

«Se vi saremo costretti,» annunciò Schruille, «sterilizzeremo tutta la Terra, tranne la Centrale, e ricominceremo da capo.»

«Con che cosa?» ribatté acidamente Glisson.

«Che vuoi dire?» Schruille quasi gridò quella domanda.

«Dove troverete il genoma umano necessario per ricominciare?» chiese Glisson. «Siete sterili, e state per morire.»

«Ci basta di una sola cellula per duplicare l’organismo originale,» gli ricordò Schruille in tono sardonico.

«E allora perché non avete clonato voi stessi?» ribatté Glisson.

«Tu osi rivolgerci delle domande?» trasecolò Nourse.

«Benissimo, allora risponderò io al vostro posto,» disse Glisson. «Avete rinunciato alla clonazione perché è un processo gravido di rischi. I cloni sono instabili, votati all’estinzione.»

Calapine udì soltanto delle parole sconnesse, «Sterili… morire… instabili… estinzione…» Quelle parole terribili si insinuarono nella sua coscienza, occupata a osservare una sfilata di grosse salsicce luminescenti. Erano come semi avvolti da un’aura luminosa che si muovessero contro uno sfondo di velluto di un nero oleoso. Salsicce. Semi. Ma poi li vide non proprio come semi, ma piuttosto come vite incapsulate — avvolte in un bozzolo, protette per affrontare un periodo non favorevole al loro sbocciare. Quel pensiero le rese i semi meno disgustosi. Dopo tutto, erano vita… sempre vita.

«Non abbiamo bisogno del genoma,» dichiarò Schruille.

Calapine udì distintamente quell’affermazione, sentì di essere in grado di leggere i pensieri di Schruille. Le parole di una delle salsicce si impressero sulla sua coscienza: Qui, nella Centrale, siamo milioni. Siamo in numero più che sufficiente. La Gente, la cui vita è breve e futile, è solo un disgustoso relitto del nostro passato. Sono i nostri animali domestici, e noi ora non ne abbiamo più bisogno.

«Ho deciso cosa ne faremo di questi criminali,» disse Nourse. Parlò a voce alta, per farsi udire al di sopra del frastuono sempre più assordante. «Applicheremo loro una stimolazione nervosa, un micron per volta. La loro sofferenza sarà squisita e potrà protrarsi per secoli.»

«Ma avevi detto che non volevi usare la violenza,» gli ricordò Schruille.

«Davvero?» chiese Nourse con voce preoccupata.

Non mi sento bene, pensò Calapine. Ho bisogno di andare in Farmacia. In Farmacia. Quella parola agì da interruttore, riportandola alla piena coscienza. Si accorse di essere sdraiata a terra, di avere il naso dolorante per la caduta, e umido di una qualche sostanza.

«In ogni caso, il tuo suggerimento è notevole,» disse Schruille. «Potremmo ricostruire i loro sistemi nervosi ogni volta, e continuare a punirli per sempre. Un’eterna, squisita sofferenza!»

«Un vero inferno,» gongolò Nourse. «Una punizione appropriata.»

«Sono abbastanza pazzi da farlo sul serio,» gracchiò Svengaard. «Come faremo a impedirglielo?»

«Glisson!» esclamò Lizbeth. «Faccia qualcosa!»

Ma il Cyborg rimase in silenzio.

«Questo non l’aveva previsto, eh, Glisson?» commentò amaramente Svengaard.

Ancora una volta il Cyborg non pronunciò parola.

«Mi risponda!» annaspò Svengaard.

«Il piano era che morissero,» disse Glisson con voce priva di ogni emozione.

«Ma adesso magari sterilizzeranno davvero tutta la Terra, salvo la Centrale, e potranno indulgere nella loro follia in perfetta solitudine,» disse Svengaard. «E noi potremmo essere torturati per sempre!»

«Non per sempre,» lo corresse Glisson. «Stanno morendo.»

Applausi fragorosi scoppiarono verso il fondo della sala. Nessuno dei prigionieri poté girarsi per osservarne la causa, ma quel suono conferì maggiore frenesia a un’atmosfera già caotica.

Calapine si alzò dal pavimento. Il naso e la bocca le pulsavano dolorosamente. Si girò verso la piattaforma, osservò il tumulto alle spalle della macchina. Gli Optimati erano saliti sui banchi per osservare una qualche attività nascosta dalla loro stessa calca. Improvvisamente un corpo nudo fu scagliato al di sopra della folla, roteò nell’aria per poi ricadere con un tonfo orribile. Ancora una volta un applauso fragoroso scosse la sala.

Cosa stanno facendo? si chiese Calapine. Si stanno facendo del male — reciprocamente.

Calapine si passò una mano sulla naso e la bocca, la guardò. Sangue. Ora ne sentiva l’odore allettante. Il proprio sangue. Ne fu affascinata. Si avvicinò ai prigionieri, mostrò la mano a Harvey Durant.

«Sangue,» gli disse. Si toccò il naso. Dolore! «Soffro,» annunciò. «Perché sto soffrendo, Harvey Durant?» Lo fissò negli occhi. Durant la guardava con uno sguardo così addolorato. Lui era un essere umano, provava dei sentimenti.

Harvey continuò a guardarla, i loro occhi quasi allo stesso livello grazie alla piattaforma. Improvvisamente provò per lei una grande pietà. Lei era Lizbeth, Calapine, ogni donna mai vissuta. Si accorse che la donna lo fissava con attenzione spasmodica, in attesa della sua risposta, dimentica di ogni altra cosa.

«Anch’io soffro, Calapine,» disse infine. «E la vostra morte mi farebbe soffrire ancora di più.»

Per un istante, Calapine pensò che il baccano nella sala fosse cessato. Poi comprese che continuava ancora più intenso. Udiva Nourse cantilenare «Bene! Bene!» e Schruille ripetere «Eccellente! Eccellente!» Fu conscia di essere stata l’unica ad aver ascoltato le terribili parole di Durant. Erano parole oscene. Aveva vissuto migliaia di anni tentando di cancellare il concetto stesso di morte individuale. Esso non poteva essere espresso, e neppure pensato. Ma Calapine aveva udito quelle parole. Provò il desiderio di far finta che non fossero mai state pronunciate. Ma un frammento dell’attenzione che aveva concentrato su Durant la costrinse a riflettere sul loro significato. Solo pochi minuti prima, aveva visto come i semi della vita superavano gli eoni. Aveva percepito la presenza di forze, al di fuori di qualsiasi controllo, che potevano agire nel mitocondrio di una cellula.

«La prego,» sussurrò Lizbeth. «Ci liberi. Lei è una donna. Deve provare un po’ di compassione. Cosa abbiamo fatto di male? Desiderare l’amore, la nascita di una nuova vita sono crimini tanto gravi? Non volevamo farvi alcun male.»

Calapine non diede segno di aver udito la supplica. Nella sua mente continuavano a risuonare le parole di Harvey, La vostra morte… la vostra morte… la vostra morte…

Il suo corpo fu assalito da vampate di gelo e di calore. Udì un altro applauso. Si rese conto del malessere che l’aveva assalita, del vicolo cieco in cui era stata intrappolata. Fu invasa dalla rabbia. Si chinò verso i controlli della piattaforma, premette un bottone sotto i piedi di Glisson.

Le lastre da cui era formato l’involucro che imprigionava il Cyborg iniziarono a stringersi. Glisson sbarrò gli occhi ed emise un ansito roco. Calapine ridacchiò, premette un altro bottone. Le lastre ritornarono al loro posto. Questa volta Glisson ansimò di sollievo.

Calapine sfiorò con la mano i controlli dell’involucro di Harvey. «Giustifica subito il tuo imperdonabile comportamento!» ordinò.

Harvey rimase in silenzio, gelato dalla paura. Stava per essere schiacciato come un insetto!

Svengaard iniziò a ridere. Ormai aveva compreso di ricoprire un ruolo di secondo piano in tutta quella faccenda. Non riusciva a immaginare il perché fosse stato scelto per assistere a una scena del genere: Glisson e Boumour apatici e silenziosi, Nourse e Schruille che deliravano sui loro scranni, gli Optimati in preda a una violenza insensata, Calapine pronta a ucciderli tutti, per poi dimenticarsene un istante dopo. La sua risata divenne più forte, più selvaggia.

«Smettila di ridere!» gridò Calapine.

Il corpo di Svengaard tremava, in preda a un attacco di ilarità isterica. Annaspò nel tentativo di riprendere fiato. Poi la voce sferzante di Calapine lo aiutò a riacquistare l’autocontrollo. Ma l’intera situazione rimaneva immensamente comica.

«Pazzo!» lo schernì Calapine. «Dimmi perché stavi ridendo!»

Svengaard la fissò. Ora nei confronti di Calapine provava soltanto della pietà. Ricordò il mare che bagnava Lapush, il luogo in cui andavano a riposarsi i medici, e comprese il motivo per cui gli Optimati avevano edificato la Centrale il più lontano possibile da qualunque oceano. Le onde del mare avrebbero loro ricordato che lottavano contro ben altri flutti: quelli dell’eternità. E gli Optimati erano incapaci di sopportare quel pensiero.

«Rispondimi,» ordinò Calapine. La sua mano era vicinissima ai controlli.

Svengaard si limitò a fissare lei, e la follia che si era impadronita degli Optimati. Ora li comprendeva perfettamente; era come se i loro corpi e le loro menti giacessero aperti davanti al suo sguardo.

Le loro anime hanno una sola cicatrice, pensò Svengaard.

Era stata scavata giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, eone dopo eone — il timore sempre più grande che la benedizione dell’immortalità potesse rivelarsi un’illusione, che dopo tutto la loro esistenza privilegiata potesse finire. Fino a quel momento, Svengaard non aveva mai sospettato quale prezzo pagassero gli Optimati per la loro immortalità. Più vivevano, più essa aumentava di valore. Più aumentava di valore, più temevano di perderla. Era un circolo vizioso… e la pressione continuava ad aumentare… per l’eternità.

Ma, prima o poi, si sarebbe raggiunto il punto di rottura. I Cyborg l’avevano intuito, ma la loro logica fredda e inumana aveva fatto sì che fossero stati incapaci di prevedere le vere conseguenze.

Gli Optimati erano sempre vissuti circondandosi di eufemismi. Chiamavano farmacisti i dottori, poiché il termine "dottore" implicava concetti come "malattia", e questo per gli Optimati era impensabile. Per loro esisteva soltanto la Farmacia Centrale, e i suoi innumerevoli Dispensatorii, uno dei quali era sempre a pochi passi da qualsiasi Optimate. Non si allontanavano mai dalla Centrale e dalle sue sofisticate difese. Perpetui adolescenti, continuavano a vivere in un asilo infantile trasformatosi in prigione.

«E così non vuoi dirmelo,» concluse Calapine.

«Aspetti,» disse Svengaard, mentre Calapine avvicinava la mano ai pulsanti che controllavano la sua prigione di plasmeld. «Quando avrete ucciso tutti gli individui fertili, e sarete rimasti soltanto voi, quando vi vedrete morire, allora cosa succederà?»

«Come osi!» sibilò Calapine. «Tu osi interrogare un Optimate, la cui esperienza di vita riduce la tua a questo!» Schioccò le dita.

Svengaard guardò il naso illividito di Calapine, il sangue.

«Optimate,» recitò. «Uno Steri la cui costituzione accetta la modifica enzimica che dona l’immortalità… finché il suo stesso corpo inizia ad autodistruggersi. Io penso che voi vogliate morire.»

Calapine si raddrizzò, gli scoccò un’occhiata rabbiosa. Mentre lo faceva, si rese conto del bizzarro silenzio che all’improvviso era sceso sull’intera sala. Si guardò intorno, vide che tutti gli Optimati la stavano fissando attentamente. Poi ne comprese la causa. Hanno notato il sangue sul mio volto.

«Eravate immortali,» proseguì Svengaard. «Ma questo vi ha reso più brillanti, più intelligenti? No. Avete semplicemente vissuto più a lungo, avendo a disposizione più tempo per educare voi stessi, per vivere numerose esperienze. Molto probabilmente non è servito a nulla, oppure avreste compreso molto tempo fa che questo momento era inevitabile: l’equilibrio infranto, la morte di voi tutti.»

Calapine arretrò di un passo. Le parole di Svengaard erano coltelli brucianti che le ferivano i nervi.

«Guardi se stessa, i suoi pari!» incalzò Svengaard. «Tutti voi state male. E cosa fa il vostro prezioso sistema medico computerizzato? Io lo so, senza bisogno che me lo dica qualcun altro: sta tentando di bilanciare le oscillazioni; è stato programmato per questo. Lo farà finché glielo permetterete, ma questo non vi salverà.»

Qualcuno gridò alle sue spalle, «Fatelo tacere!»

Il grido si diffuse per la sala, divenne un canto assordante. Gli Optimati iniziarono a battere i piedi, a battere i pugni sui banchi. «Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere!»

Calapine si coprì le orecchie con le mani. Ma sentiva ancora quel canto, attraverso la pelle. E si accorse che gli Optimati stavano abbandonando le file di banchi per avvicinarsi minacciosamente ai prigionieri. Sapeva che tra qualche istante sarebbe scoppiata una sanguinosa violenza.

Gli Optimati si fermarono.

Calapine non riuscì a comprenderne il motivo e tolse le mani dalle orecchie. Gli Optimati incominciarono a urlare, a invocare i nomi di dèi semi-dimenticati. Gli occhi di tutti stavano fissando una figura riversa al suolo.

Calapine ruotò su se stessa, vide Nourse che si contorceva sul pavimento della sala, con la bava alla bocca. La sua pelle era chiazzata da macchie porpora e gialle. Le mani artigliavano il pavimento.

«Fate qualcosa!» gridò Svengaard. «Sta morendo!» Non appena ebbe pronunciato quell’invocazione, si stupì di averlo fatto. Fate qualcosa! Ma era stata la coscienza di essere un medico a farlo parlare, nonostante tutto quello che era accaduto.

Calapine arretrò, sollevò le mani in un gesto di scongiuro antico quanto la stregoneria. Schruille balzò in piedi sullo scranno, con la bocca che si muoveva senza emettere alcun suono.

«Calapine,» disse Svengaard, «se lei non vuole aiutarlo, mi liberi e lo farò io.»

Calapine si affrettò a ubbidire, estremamente grata di poter scaricare quella tremenda responsabilità su qualcun altro.

Al suo tocco, la lastre di plasmeld che imprigionavano Svengaard rientrarono nella piattaforma. Svengaard saltò a terra, quasi cadde. Aveva le braccia e le gambe che gli formicolavano. Zoppicò verso Nourse, con gli occhi e la mente in frenetica attività. Colorito giallastro — probabilmente una reazione immunitaria all’acido pantotenico unita ad uno squilibrio nella soppressione dell’adrenalina.

Il triangolo rosso che indicava un Dispensatorio della Farmacia luccicava alla sua sinistra, al di sopra delle file di banchi. Svengaard si chinò, raccolse il corpo di Nourse ancora in preda alle convulsioni, iniziò a salire verso il simbolo. Improvvisamente, Nourse si accasciò tra le sue braccia, immobile tranne il leggero sollevarsi del petto.

Gli Optimati si scostarono da lui come se fosse un appestato. Di colpo, qualcuno urlò, «Fatemi uscire!»

La folla si mise a correre. Migliaia di piedi rimbombarono sul plasmeld del pavimento. Gli Optimati si accalcarono davanti le porte, scavalcandosi l’un l’altro, lottando follemente per essere i primi a uscire. Si udivano urla, imprecazioni, grida rauche. Era come se in un recinto di bestiame fosse stato liberato un predatore.

Una parte della coscienza di Svengaard registrò l’immagine di una donna alla sua destra. La superò. La donna giaceva tra due file di banchi, con la schiena ad un angolo assurdo, con la bocca spalancata, gli occhi che fissavano il sangue che le ricopriva le braccia e il collo. Non respirava più. Svengaard superò anche un uomo che si trascinava in avanti, con una gamba inutilizzabile, gli occhi fissi sull’insegna dell’uscita, attorno a cui si ammassavano centinaia di figure frenetiche.

A Svengaard avevano cominciato a far male le braccia. Incespicò, quasi cadde salendo gli ultimi due gradini. Depose il corpo di Nourse sul pavimento accanto al punto di distribuzione.

Dal basso lo stavano chiamando delle voci: Durant e Boumour che gli urlavano di liberarli.

Più tardi, pensò Svengaard. Premette il palmo della mano contro la serratura del Dispensatorio. Le porte rifiutarono di aprirsi. È ovvio, pensò. Io non sono un Optimate. Sollevò Nourse, premette una delle mani di Nourse sulla serratura digitale. Le porte scivolarono via. Dietro di esse si trovava un apparecchio di somministrazione, apparentemente del solito tipo: pirimidini, aneurina…

Aneurina e inositol, pensò Svengaard. Devo compensare la reazione immunitaria.

Il lato destro dell’apparecchiatura era occupato da una familiare console di controllo, con un foro per infilarvi un braccio e gli aghi collegati ai quadranti di misurazione. Svengaard premette alcuni tasti sulla consolle, aprì il pannello. Individuò gli aghi che somministravano aneurina e inositol, bloccò gli altri, posizionò il braccio di Nourse sotto gli aghi, che trovarono le vene, vi affondarono. Le lancette dei quadranti scattarono improvvisamente verso l’alto.

Svengaard interruppe il flusso di sostanze. I contatori ritornarono sullo zero.

Con delicatezza, Svengaard staccò gli aghi dal corpo di Nourse, lo adagiò sul pavimento. Il volto dell’Optimate era soffuso da un pallore mortale, ma il respiro era divenuto più forte. Sbatté le palpebre. Le pelle era fredda, madida di sudore.

È lo choc, pensò Svengaard. Si tolse la giacca, la drappeggiò intorno al corpo di Nourse, iniziò a frizionargli le braccia per riattivare la circolazione.

Calapine apparve alla sua destra, si sedette accanto alla testa di Nourse. Aveva le mani strette a pugno, su cui spiccavano bianchissime le nocche. I lineamenti del volto era incredibilmente nitidi, gli occhi fissavano lontano. A Calapine sembrava di aver percorso una lunga strada, da quando si era rialzata dal pavimento della sala, spinta da ricordi che non poteva cancellare. Sapeva che aveva superato la follia, era conscia di aver raggiunto una sanità mentale stranamente distaccata.

Il rosso Globo di Controllo attirò il suo sguardo: la fonte di un enorme potere, che ancora adesso l’attraeva. Poi pensò a Nourse, tante volte divenuto suo compagno di letto. Compagno e giocattolo.

«Morirà?» chiese e si voltò a fissare Svengaard.

«Non subito,» rispose il medico. «Ma quell’ultimo attacco isterico… ha causato danni irreparabili al suo corpo.»

Svengaard si rese conto che adesso nella sala risuonavano soltanto gemiti sommessi e qualche ordine impartito con voce calma. Erano intervenuti alcuni degli accoliti.

«Ho liberato Boumour e i Durant e ho richiesto altri… medici,» lo informò Calapine. «Ci sono stati dei… morti. Molti sono feriti.»

Morti, pensò poi. Che strano parola, se la si usa per gli Optimati. Morti… morti… morti…

Sapeva che la necessità del momento l’aveva forzata a raggiungere un nuovo stato stato di coscienza. Era accaduto laggiù, sul pavimento, in un diluvio di ricordi frutto di quarantamila anni di esistenza. Nessuno di essi le era sfuggito: né un momento di gentilezza, né un momento di crudeltà. Ricordava tutti i Max Allgood, Seatac… ogni amante, ogni giocattolo… Nourse.

Svengaard udì un suono di passi, si guardò intorno. Boumour lo raggiunse, reggendo tra le braccia una donna priva di sensi. Un lungo livido bluastro le attraversava una guancia e la mascella. Le braccia pendevano dal corpo come bastoncini spezzati.

«Il Dispensatorio funziona ancora?» chiese Boumour. La sua voce era gelida come quella di tutti i Cyborg, ma i suoi occhi avevano uno sguardo sconvolto, spaventato.

«Dovrà ricorrere ai controlli manuali,» lo avvertì Svengaard. «Ho disinserito quelli automatici.»

Boumour gli girò attorno con passo pesante, sempre reggendo la donna, che aveva un aspetto così fragile. Sul collo le pulsava una grossa vena.

«Devo somministarle qualcosa che rilassi i suoi muscoli, fino a che non potremo portarla in ospedale,» spiegò Boumour. «Si è fratturata entrambe le braccia… tensione contromuscolare.»

Calapine riconobbe il volto della donna, ricordò che un tempo avevano avuto una discussione senza importanza su un uomo, un compagno di letto.

Svengaard si spostò e continuò a massaggiare il braccio destro di Nourse. Quello spostamento gli permise di dare un’occhiata alla piattaforma. Impassibile, Glisson sedeva nel suo involucro. Lizbeth giaceva sul pavimento della sala, con il marito inginocchiato accanto.

«Mrs. Durant!» esclamò Svengaard, ricordando l’impegno che si era assunto.

«Sta bene,» lo rassicurò Boumour. «Rimanere immobile è stata la cosa migliore che potesse capitarle.»

La cosa migliore! pensò Svengaard. Durant aveva ragione: questi Cyborg sono insensibili come macchine.

«Fatelo ta-cere,» mormorò Nourse.

Svengaard lo guardò, notò il pallore del viso, le venuzze scoppiate sulle guance, la carne flaccida. Le palpebre di Nourse si sollevarono con uno sforzo enorme.

«Lo lasci a me,» disse Calapine.

Nourse mosse la testa, tentò di guardarla. Sbatté le palpebre: ovviamente aveva qualche problema a mettere a fuoco lo sguardo. Gli occhi iniziarono a lacrimargli.

Calapine gli sollevò la testa, la poggiò sul proprio grembo. Cominciò a carezzargli la fronte.

«Gli piaceva,» spiegò. «Vada ad aiutare gli altri, Dottore.»

«Cal,» gemé Nourse. «Oh, Cal… io… soffro.»

Загрузка...