CAPITOLO VENTESIMO

«Ma perché li sta aiutando?» chiese Glisson. «Non la capisco, Boumour. Le sue azioni sono illogiche. A cosa serve aiutarli?»

Sollevò lo sguardo sul segmento aperto del Globo, al cui interno Calapine sedeva sulla piattaforma dei troni della Tuyere, da sola. Le luci emesse dagli strumenti giocavano lente sul suo viso. Un ologramma danzava nell’aria di fronte a lei.

Glisson era stato liberato dalla sua prigione di plasmeld, ma sedeva ancora sulla piattaforma, con i cavi che penzolavano dalle cavità vuote delle braccia. Lizbeth era sdraiata su di una gravi-barella e Harvey le era inginocchiato accanto. Boumour voltava le spalle a Glisson, e guardava all’interno del Globo. Muoveva meccanicamente le dita, flettendole, aprendole. Aveva la parte destra della camicia macchiata di sangue. Il volto dai lineamenti sottili come quello di un elfo aveva un’espressione perplessa.

Svengaard spuntò da dietro il globo, una figura che si muoveva lentamente nella penombra rossastra. Di colpo, la sala si illuminò tutta. I grandi fotoglobi si erano attivati automaticamente non appena, all’esterno, era calato il buio. Svengaard si fermò a controllare le condizioni di Lizbeth, diede una pacca sulla spalla di Harvey. «Non si preoccupi. Sua moglie si riprenderà perfettamente; è una donna forte.»

Gli occhi di Lizbeth lo seguirono mentre si avvicinava al Globo di Controllo e vi guardava all’interno. Le spalle di Svengaard erano curvate per la fatica, ma il suo sguardo era stranamente vivo, quasi raggiante. Svengaard era un uomo che aveva trovato se stesso.

«Calapine,» annunciò il medico, «l’ultimo dei feriti è stato inviato in ospedale.»

«Capisco,» rispose l’Optimate. Guardò i sensori video, tutti attivati. Più della metà degli Optimati erano stati internati, ormai impazziti. Migliaia erano morti. Altre migliaia erano gravemente feriti. I sopravvissuti osservavano il globo. Calapine sospirò, chiedendosi cosa stessero pensando i suoi pari, come affrontassero il fatto di aver perso il fragile dono dell’immortalità. Ma lei stessa provava emozioni che la confondevano. Nel suo petto, provava addirittura uno strano senso di sollievo.

«Schruille?» chiese a Svengaard.

«Schiacciato dalla folla che tentava di uscire,» rispose l’altro. «Lui è… morto.»

Calapine sospirò. «E Nourse?»

«Sta rispondendo alla cure.»

«Non ha ancora compreso cosa vi è accaduto?» le chiese Glisson. I suoi occhi scintillarono quando guardò Calapine.

Calapine lo fissò, parlò scandendo bene le parole, «Abbiamo subito un trauma emotivo che ha alterato il delicato equilibrio ormonale del nostro organismo,» rispose. «E siete stati voi, con un trucco, a provocarlo. Questo è chiaro… e non si può tornare indietro.»

«Allora sa tutto,» dichiarò Glisson. «Ogni tentativo di ritornare al vostro vecchio stato avrebbe come risultato quello di farvi precipitare nella noia e in un’apatia sempre più pronunciata.»

Calapine sorrise. «Sì, Glisson. E noi non lo vogliamo. Ora siamo affascinati da un nuovo tipo di… vitalità, che neppure sospettavamo esistesse.»

«Lei ha davvero compreso,» affermò Glisson con tono lievemente irritato.

«Avevamo spezzato il ritmo della vita,» disse Calapine. «Tutta la vita è dominata dal ritmo, ma noi ci siamo fermati. Immagino che questa fosse la causa di quell’interferenza esterna: il ritmo della vita che si imponeva di nuovo.»

«Bene,» disse Glisson, «prima cederete il comando a noi, prima le cose si aggiusteranno…»

«Il comando a voi?» chiese Calapine con voce piena di disprezzo. Guardò fuori, verso la sala illuminata, dominata da un netto contrasto tra luci e ombre. La separazione era così netta: tutto si riduceva ad un’opposizione bianco/nero. «Preferirei far morire tutti noi.»

«Ma state morendo!»

«Anche voi,» ribatté Calapine.

Svengaard deglutì. Si rendeva conto che l’antica animosità non si sarebbe placata facilmente. E si interrogò su se stesso: un bioingegnere di secondo rango che si era trasformato in un medico che curava coloro che avevano bisogno di lui. Durant aveva ben intuito il suo bisogno che altri avessero bisogno di lui.

«Ho un piano che forse tutti noi potremmo accettare,» affermò Svengaard.

«Io la ascolterò,» rispose Calapine con voce affettuosa. Studiò Svengaard, mentre il medico si sforzava di cercare le parole adatte, ricordando che quell’uomo aveva salvato le vite di Nourse e di molti altri.

Non avevamo fatto alcun piano per questa impensabile eventualità, rifletté. È possibile che questo individuo insignificante, fino a poco tempo fa oggetto della nostra derisione, possa salvarci? Ma non osava sperarlo.

«I Cyborg hanno elaborato tecniche che permettono di tenere sotto controllo le emozioni,» esordì Svengaard. «Una volta che le abbiate imparate, credo di conoscere un modo che permetterà di eliminare gli squilibri enzimici nella maggior parte di voi.»

Calapine deglutì. I sensori video iniziarono a lampeggiare, segno che gli osservatori volevano l’accesso ai canali di comunicazione. Ovviamente desideravano rivolgere delle domande a Svengaard. Anche lei ne aveva, ma non sapeva se sarebbe riuscita a trovare le parole adatte. Colse il riflesso del proprio viso in uno dei prismi, ricordò lo sguardo negli occhi di Lizbeth, quando la donna l’aveva implorata dalla piattaforma.

«Non posso promettervi una vita infinita,» disse Svengaard, «ma credo che molti potranno vivere ancora per molte migliaia di anni.»

«Perché noi Cyborg dovremmo essere d’accordo nell’aiutarli?» chiese Glisson. La sua voce aveva un tono calcolatore, quasi querulo.

«Anche voi rappresentate dei fallimenti!» esclamò Svengaard. «Non lo capisce?» Capì che aveva urlato, spinto dalla sua delusione.

«Non urli in quel modo quando parla con me!» replicò Glisson.

E così anche loro provano delle emozioni, pensò Svengaard. Orgoglio… rabbia…

«Avete ancora l’illusione di controllare la situazione?» domandò Svengaard al Cyborg. Indicò Calapine. «Quella donna lassù potrebbe sterminare ogni non-Optimate della Terra.»

«Ascoltalo, sciocco Cyborg,» intervenne Calapine.

«Non usi troppo la parola "sciocco",» la avvertì Svengaard, fissandola.

«Tenga a freno la lingua, Svengaard,» minacciò Calapine. «La nostra pazienza non è infinita.»

«E neppure la vostra gratitudine lo è, vero?» replicò Svengaard.

Un sorriso amaro sfiorò le labbra di Calapine. «Stiamo discutendo della nostra sopravvivenza,» disse.

Svengaard sospirò. Si chiese se gli schemi mentali creati dall’essere stati immortali avrebbero potuto essere modificati. Calapine aveva parlato come avrebbe fatto il vecchio membro della Tuyere. Ma la sua capacità di adattamento lo aveva già sorpreso altre volte.

Quello scambio di aspre battute aveva risvegliato tutti i timori di Harvey Durant per l’incolumità della moglie. Rivolse uno sguardo furioso su Svengaard e Glisson, tentò di controllare la sua paura, la sua rabbia. Quell’immensa sala gli incuteva soggezione, gli ricordava le scene caotiche che vi erano svolte. Il Globo torreggiava su di lui, una forza mostruosa che avrebbe potuto schiacciarli come insetti.

«Bene, allora parliamo di sopravvivenza,» disse Svengaard.

«Intendiamoci bene,» lo avvertì Calapine. «Tra di noi ci sono alcuni che diranno che il vostro aiuto è semplicemente dovuto. Voi siete ancora nostri prigionieri. Altri pretenderanno che vi sottomettiate e confessiate tutto sull’Associazione Clandestina.»

«Sì, è giusto intendersi alla perfezione,» replicò Svengaard. «Ma chi sono i vostri prigionieri? Io, che non ero un membro dell’Associazione e che so poco su di essa. Avete Glisson, che ne sa molto di più di me, ma di sicuro non è conoscenza di tutto. Boumour, uno dei vostri farmacisti fuggiti, ne sa ancora meno di Glisson. Poi ci sono i Durant, ma loro probabilmente conoscono soltanto la cellula di cui facevano parte, e poco altro. Cosa ci guadagnereste a strapparci con la tortura quel poco che sappiamo?»

«Il suo piano per salvarci,» rispose Calapine.

«Il mio piano richiede cooperazione, non coercizione,» ribatté Svengaard.

«E ci permetterà soltanto di continuare a vivere, e non di ritornare al nostro stato di immortali, non è così?» chiese Calapine.

«Dovreste esserne lieti,» affermò il medico. «Vi darebbe la possibilità di maturare, di dare un senso alle vostre vite.» Con un gesto, indicò la sala. «Qui dentro vi siete rinchiusi in una falsa adolescenza! Vi siete limitati a giocare! Io vi offro la possibilità di vivere!»

È davvero così? si chiese Calapine. Questa nuova percezione della vita è causata dall’essere coscienti che dovremo morire?

«Non sono così sicuro che noi Cyborg coopereremo,» annunciò Glisson.

Harvey ne aveva avuto abbastanza. Balzò in piedi, fissò furioso Glisson. «Tu, robot, vuoi che la razza umana muoia! Proprio tu! Tu, che rappresenti un altro vicolo cieco dell’evoluzione!»

«Stupidaggini!» replicò Glisson.

«Ascoltate,» disse Calapine e fece loro udire frammenti di quello che gli Optimati stavano trasmettendo sui canali di comunicazione. Le voci rimbombarono nella sala: «Possiamo ovviare allo squilibrio enzimico con le nostre sole risorse!»… «Eliminate quelle creature!»… «Qual è il suo piano? Qual è il suo piano?»… «Iniziate la sterilizzazione!»… «…il suo piano?»… «Quanto tempo avremo ancora da vivere se… «Non c’è dubbio sul fatto che possiamo…»

Calapine, premendo un interruttore, interruppe il flusso di voci. «Il suo piano dovrà essere sottoposto al voto di tutti gli Optimati,» disse. «Se lo ricordi, Svengaard.»

«Morirete tutti, e presto, se noi non cooperemo,» ribatté Glisson. «Voglio che questo sia perfettamente chiaro a tutti.»

«Lei conosce il piano di Svengaard?» chiese Calapine.

«Per me, il suo ragionamento è trasparente,» affermò il Cyborg.

«Io penso di no,» disse Calapine. «L’ho visto curare Nourse. Ha manipolato il dispensatore affinché somministrasse un’overdose di aneurina e inostol. Ricordando questo particolare, mi chiedo quanti di noi moriranno nel tentativo di arrestare questo processo che continua nei nostri corpi? Io stessa avrei rischiato di assumere un quantità tale di quelle sostanze? Forse è così che si spiega il senso di euforia che si è impadronito di noi? Dopo aver provato una tale eccitazione, chi di noi vorrà ricadere in uno stato di… noia quasi del tutto priva di emozioni?» Fissò Svengaard. «Queste sono alcune delle domande che volevo farle.»

«Conosco il piano di Svengaard,» ribatté acidamente Glisson. «Mettere sotto controllo le vostre emozioni, e poi impiantare un dispensatore di enzimi nei vostri corpi.» Un lieve sogghigno scoprì una fila di denti sul volto del Cyborg. «È la vostra sola speranza. Ma se accetterete, noi avremo vinto.»

Calapine lo fissò sconvolta.

Harvey fu colpito dal tono meschino e brutale della voce di Glisson. Aveva sempre saputo che i Cyborg erano troppo calcolatori e freddamente logici per poter prendere decisioni puramente umane, ma fino a quel momento non aveva mai avuto una dimostrazione tanto lampante di quella verità.

«È questo il suo piano, Svengaard?» chiese Calapine.

Harvey balzò in piedi. «No! Non lo è!»

Svengaard annuì tra sé e sé. Ma certo! Lui che è umano come me, un padre, ha intuito subito qual è il mio piano.

«Tu affermi di sapere quello che io, un Cyborg, ignoro?» si stupì Glisson.

Svengaard fissò Harvey con espressione interrogativa.

«Gli embrioni,» affermò Harvey.

Svengaard annuì, fissò Calapine. «Io propongo di farvi impiantare in permanenza degli embrioni vivi,» spiegò. «Fungeranno da strumenti di controllo, vi aiuteranno a eliminare i vostri squilibri ormonali. Recupererete le vostre emozioni… l’amore per la vita, l’eccitazione da voi tanto apprezzata.»

«Lei ci propone di trasformarci in vasche viventi per gli embrioni?» chiese Calapine con voce carica di meraviglia.

«Il processo di gestazione potrà essere ritardato per secoli,» aggiunse Svengaard. «Con l’utilizzo di ormoni appropriati, potrà essere applicato anche agli individui di sesso maschile. Chiaramente con loro si dovrà usare il parto cesareo, ma questo non sarà doloroso… né avverrà di frequente.»

Calapine rifletté sulle parole di Svengaard, chiedendosi perché quel suggerimento non l’avesse disgustata. Un tempo, era stata nauseata dal pensiero che Lizbeth Durant portasse un embrione dentro di sé, ma Calapine comprese che la sua ripugnanza era stata mescolata ad invidia. Sapeva che non tutti gli Optimati avrebbero accettato quel metodo. Alcuni avrebbero sperato di poter ritornare al loro vecchio stile di vita. Sollevò lo sguardo verso il circolo dei sensori. Però nessuno era sfuggito a quell’intossicante eccitazione. Avrebbero dovuto rassegnarsi al fatto che tutti morivano… prima o poi. A loro rimaneva soltanto il poter scegliere quando.

Dopo tutto, non possedevamo l’immortalità, ma solo l’illusione di essa. Ma l’abbiamo avuta… per eoni.

«Calapine!» esclamò Glisson. «Lei non starà pensando di accettare questa… assurda proposta?»

Il Cyborg è sconvolto dall’idea di una soluzione escogitata da esseri di carne, pensò Calapine. Poi disse, «Boumour, lei che ne pensa?»

«Sì,» intervenne Glisson, «ci dica la sua opinione, Boumour. Dimostri l’assurdità di questa… proposta.»

Boumour si voltò, studiò Glisson, sbirciò Svengaard, i Durant, sollevò lo sguardo verso Calapine. Negli occhi di Boumour splendeva una conoscenza nota solo a lui. «Ricordo ancora… com’ero,» disse. «Io… penso che stessi meglio… prima di venir modificato.»

«Boumour!» esclamò Glisson.

Boumour lo ha ferito nel suo orgoglio, pensò Svengaard.

Lo sguardo di Glisson si fissò con intensità meccanica su Calapine. «Non è ancora detto che vi aiuteremo!»

«Ma noi non abbiamo bisogno di voi!» dichiarò Svengaard. «Non avete il monopolio delle vostre tecniche. Il vostro aiuto ci farebbe risparmiare un po’ di tempo, ci faciliterebbe il compito, ecco tutto. Ma possiamo trovare da soli gli embrioni che ci servono.»

Glisson fece correre lo sguardo su tutti i presenti. «Ma i miei calcoli non avevano previsto che li avreste aiutati!»

Poi il Cyborg tacque, gli occhi divenuti improvvisamente vacui.

«Dottor Svengaard,» disse Calapine, «sarà in grado di creare altri embrioni fertili come quello dei Durant? Lei ha assistito all’intrusione dell’arginina. Nourse credeva che fosse possibile replicare il fenomeno.»

«Sì, è possibile,» confermò Svengaard. Poi rifletté. «Anzi… è molto probabile.»

Calapine alzò lo sguardo verso i sensori. «Se accettiamo questa offerta,» spiegò, «continueremo a vivere. Capite? Adesso siamo vivi, ma fino a poco tempo fa non lo eravamo veramente.»

«Vi aiuteremo, se proprio dobbiamo,» capitolò Glisson, e la sua voce suonò untuosa.

Soltanto Lizbeth, immersa in uno stato di docilità bucolica provocata dalla gravidanza, accortasi che le sue emozioni si stavano placando, intuì il ragionamento logico che aveva fatto cambiare idea al Cyborg. Gli individui docili potevano essere facilmente controllati. Ecco cosa aveva pensato Glisson. Ora che sapeva che il Cyborg poteva provare orgoglio o rabbia, Lizbeth era in grado di leggere i suoi pensieri con chiarezza stupefacente.

Calapine, rilevando dagli strumenti del Globo un’unica domanda posta da tutti gli Optimati, programmò gli analizzatori per la risposta. Quasi subito essa fu a disposizione, sotto forma di ologramma, per gli osservatori. «Questo processo potrebbe allungare la durata media di una vita da ottomila a dodicimila anni, e questo vale anche per la Gente.»

«Anche per la Gente,» sussurrò Calapine. Sapeva che l’avrebbero scoperto. Ora non avrebbe più potuto esistere un organismo come la Sicurezza. Anche il Globo di Controllo aveva dimostrato di non essere esente da difetti e limiti. Glisson l’aveva sempre saputo. Calapine lo capiva dal suo silenzio. Anche Svengaard se ne sarebbe sicuramente accorto. Forse l’avevano fatto perfino i Durant.

Calapine fissò Svengaard; adesso sapeva cosa doveva fare. In quel momento, sarebbe stato facilissimo perdere totalmente la fiducia della Gente.

«Se decideremo in senso affermativo,» annunciò, «tutti potranno beneficiare del processo — Optimati e membri della Gente.»

Questa è politica, pensò poi. La Tuyere si sarebbe comportata in questo modo… anche Schruille sarebbe stato d’accordo. Specialmente Schruille. Schruille, che era così intelligente. Schruille, che è morto. Ebbe quasi l’impressione di sentirlo ridacchiare.

«Può davvero essere fatto anche per la Gente?» chiese Harvey.

«È possibile farlo per tutti,» rispose Calapine. Rivolse un sorriso a Glisson, facendogli capire che era stata lei a vincere. «Ora penso che possiamo mettere la questione ai voti.»

Ancora una volta, Calapine sollevò lo sguardo verso i sensori video, chiedendosi se avesse previsto correttamente ciò che avrebbe deciso la sua gente. Ovviamente, molti di loro l’avrebbero seguita nel suo tentativo. Alcuni avrebbero sperato di ristabilire un equilibrio completo dei propri enzimi. Lei sapeva che non era possibile; lo sapeva anche il suo corpo. Tuttavia, qualcuno avrebbe potuto decidere di tentare di ripercorrere quella via pericolosa che portava alla noia, all’apatia.

«Il verde significherà che accettate la proposta del Dottor Svengaard,» annunciò Calapine. «Il colore dorato, che siete contrari.»

Lentamente, ma poi con sempre maggiore rapidità, il circolo di videosensori divenne verde… verde… un mare di verde con qualche isolata pagliuzza dorata. Calapine non si era aspettata una vittoria così netta, e questo la rese sospettosa. Lei si fidava del suo istinto. Una vittoria schiacciante. Consultò gli strumenti del Globo, lesse i dati: «Il Cyborg può essere manipolato facendo leva sulla sua fiducia assoluta nell’onnipotenza della logica.»

Calapine annuì tra sé, pensando alla sua follia. E la Vita non può essere manovrata contro gli interessi degli esseri viventi, rifletté.

«La proposta è stata accettata,» annunciò.

E scoprì che non le piaceva l’improvvisa espressione di soddisfazione che era apparsa sul volto del Cyborg. Abbiamo trascurato qualche particolare. Oh, be’, ce ne occuperemo… quando saremo tutti più tranquilli.

Svengaard si girò a guardare Harvey Durant, permise ai muscoli del suo volto di atteggiarsi in un ampio sorriso. Era stato come intervenire su di un embrione: una piccolissima modifica, da cui sarebbe scaturito l’intera schema di sviluppo. E si poteva agire in questo modo anche nella realtà.

Harvey rifletté sul sorriso di Svengaard, intuì dal volto dell’uomo i suoi pensieri. Istantaneamente, fu in grado di leggere tutti i volti di coloro che lo circondavano, grazie al proprio addestramento di Corriere. Si era creata una situazione di stallo tra i potenti. La Gente avrebbe avuto una possibiltà — per migliaia di anni, se si doveva credere a Calapine, e lei di sicuro ci credeva. Comprese che l’ambiente genetico era mutato, aveva assunto un nuovo schema: indefinito, indeterminato. A Heisenberg sarebbe piaciuto. Coloro che muovevano le pedine erano stati mossi a loro volta… e cambiati da quella mossa.

«Quand’è che Lizbeth e io potremo andarcene?» chiese allora.

FINE
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