CAPITOLO QUARTO

Lizbeth e Harvey Durant uscirono mano nella mano dall’ospedale, dopo il colloquio sostenuto con i due dottori, Potter e Svengaard. Sorridevano e facevano ondeggiare allegramente le loro mani intrecciate come bambini in vacanza — e in un certo senso lo erano.

La pioggia del mattino era stata fatta cessare e le nuvole si erano spostate verso est, al di sopra delle alte cime che torreggiavano sulla Megalopoli di Seatac. Il cielo era di un azzurro ceruleo, e un sole capriccioso vi navigava alto.

Una folla di persone, in ordine sparso di marcia, stava attraversando il parco che si stendeva dall’altro lato della strada: si trattava ovviamente dei lavoratori di qualche fabbrica o di un gruppo di lavoro impegnato negli esercizi fisici obbligatori. Erano uguali uno all’altro, e solo qualche occasionale tocco di colore mitigava la loro uniformità: una sciarpa arancione sulla testa di una donna, un panciotto giallo indossato da un uomo, lo scarlatto di un feticcio della fertilità che pendeva da un cerchietto d’oro al lobo di un’altra donna. Un uomo indossava un paio di scarpe verde vivo.

Quei patetici tentativi di affermare la propria individualità in un mondo in cui l’uniformità era inscritta nel codice genetico fecero breccia nelle difese emotive di Lizbeth. Distolse il viso, per evitare che quella scena le cancellasse il sorriso dalle labbra, e chiese: «Dove andiamo?»

«Hmmm?» Harvey la fece fermare, e attesero che il resto del gruppo li superasse.

Tra i marciatori, dei volti si girarono per osservare con invidia Harvey e Lizbeth. Tutti sapevano perché i Durant erano lì. L’ospedale, la cui enorme mole in plasmeld si ergeva alle spalle della coppia, il fatto che fossero insieme, l’abbigliamento, i sorrisi… tutto contribuiva a indicare che erano in permesso di procreazione dai rispettivi lavori.

Ogni individuo in quella folla sperava disperamente in quella medesima scappatoia dalla monotonia quotidiana in cui erano tutti imprigionati. Gameti fertili, permesso di procreazione: quello era il sogno di tutti. Perfino coloro che sapevano di essere Sterili speravano ancora, alimentando le fortune di ciarlatani e fabbricanti di feticci.

Non hanno un passato, rifletté Lizbeth, ricordandosi di colpo un’osservazione comune a tutti i filosofi della Gente. Sono tutti senza passato, e hanno soltanto la speranza del futuro a cui aggrapparsi. In una qualche epoca, il nostro passato è svanito nelle tenebre; sono stati gli Optimati e i loro ingegneri genetici a cancellarlo.

Di fronte a quel pensiero, anche il permesso di procreazione perdeva il suo fascino speciale. I Durant potevano anche non essere costretti a svegliarsi in fretta e a separarsi per recarsi al lavoro, ma erano egualmente senza passato… e in un istante avrebbero potuto perdere il loro futuro. Il bambino che si stava formando nella vasca dell’ospedale… poteva ancora essere una parte di loro in alcuni piccoli particolari, ma i bioingegneri l’avevano cambiato. L’avevano tagliato fuori dal suo passato.

Lizbeth ricordò i propri genitori, il senso di estraneità che aveva provato nei loro confronti, la percezione di differenze che anche i legami di sangue erano incapaci di attenuare.

Erano i miei genitori soltanto in parte, pensò. Loro lo sapevano… e anch’io lo sapevo.

E allora iniziò a provare un senso di estraneità nei confronti del figlio non ancora completamente formato, un’emozione che sottolineva ancora di più le necessità del momento. A cosa serve ciò che stiamo facendo? si chiese. Ma conosceva bene la risposta: far cessare per sempre quell’amputazione continua del passato.

L’ultimo volto invidioso li aveva superati. La folla divenne una selva di schiene in movimento, contraddistinte da qualche chiazza di colore. Girarono l’angolo e scomparvero.

Anche noi abbiamo girato un angolo, senza alcuna possibilità di tornare indietro? si chiese Lizbeth.

«Andiamo a piedi alla metropolitana,» disse Harvey.

«Attraverso il parco?» chiese lei.

«Sì,» rispose Harvey. «Pensa: dieci mesi.»

«E poi potremo portare nostro figlio a casa,» disse Lizbeth. «Siamo davvero fortunati.»

«Dieci mesi — sembrerà un periodo di tempo lunghissimo,» disse Harvey.

Lizbeth gli rispose mentre attraversavano la strada ed entravano nel parco. «Sì, ma potremo vederlo ogni settimana, quando lo trasferiranno nella vasca grande… e mancano soltanto tre mesi.»

«Hai ragione,» ammise Harvey. «Saranno trascorsi prima di quanto pensiamo. E fortunatamente non è uno specialista o nient’altro. Potremo allevarlo in casa. Il nostro orario di lavoro verrà ridotto.»

«Quel dottor Potter è stato meraviglioso,» commentò Lizbeth.

Mentre parlavano, le loro mani intrecciate si muovevano esercitando con le dita le lievi pressioni e movimenti del codice segreto di conversazione che li classificava come Corrieri dell’Associazione Clandestina dei Genitori.

«Ci stanno ancora sorvegliando,» comunicò Harvey.

«Lo so.»

«Svengaard è inutile per noi: uno schiavo del potere.»

«Senza dubbio. Sai, non sapevo che l’addetta al computer fosse una dei nostri.»

«Anche tu te ne sei accorta?»

«Potter la stava guardando, quando lei ha fatto scattare l’interruttore.»

«Pensi che quelli della Sicurezza se ne siano accorti?»

«Assolutamente no. Erano troppo occupati a sorvegliare noi.»

«Forse non è una di noi,» ipotizzò Harvey. E poi disse ad alta voce, «È un giornata bellissima, vero? Prendiamo il sentiero fiorito.»

Lizbeth gli rispose con le dita, «Pensi che quell’infermiera sia un’Accidentale?»

«Può essere. Forse si è accorta di ciò che Potter aveva ottenuto e sapeva che c’era soltanto un modo per salvare l’embrione.»

«Allora qualcuno dovrà contattarla immediatamente.»

«Con molta catela, però. Potrebbe rivelarsi emotivamente instabile… neurotica.»

«E Potter?»

«Dobbiamo mandargli subito qualcuno dei nostri. Avremo bisogno di aiuto, se vogliamo far uscire di lì l’embrione.»

«Se accetterà, avremo dalla nostra parte nove chirurghi della Centrale,» gli fece notare Lizbeth.

«Se accetterà,» replicò Harvey.

La moglie lo fissò con un sorriso che celava alla perfezione la preoccupazione che l’aveva improvvisamente assalita. «Hai qualche dubbio?»

«È solo che, mentre lo leggevo, lui stava facendo lo stesso con me.»

«Oh, sì,» replicò Lizbeth. «Ma era lento… in confronto a noi.»

«Me ne sono accorto. Era come se fosse un dilettante alla sua prima volta, come se acquistasse maggiore confidenza man mano che procedeva.»

«Non è stato addestrato,» disse la moglie. «Questo è ovvio. Temevo che avessi letto in lui qualcosa che mi era sfuggito.»

«Penso che tu abbia ragione.»

In tutto il parco la luce del sole aveva trasformato il pulviscolo atmosferico in innumerevoli colonne che si alternavano agli alberi. Lizbeth osservò quella scena mentre rispondeva, «Non c’è alcun dubbio, caro. Potter è un Naturale, ha sviluppato per caso questo talento. Capita, lo sai, deve essere così. Nulla può impedirci di comunicare.»

«Questo non impedisce che loro ci provino.»

«Sì,» ammise Lizbeth. «Oggi non hanno fatto altro, quando ci sorvegliavano in quella sala. Ma gente che pensa in maniera meccanica non riuscirà mai a indovinare che le nostre armi sono le persone e non le cose.»

«È il loro punto debole più grave,» confermò Harvey. «La Centrale ha scavato i solchi genetici con la logica… e la logica continua a renderli sempre più profondi. Adesso sono così profondi che non si riesce più a vedere l’esterno.»

«E l’universo sterminato che ci sta chiamando,» segnalò lei.

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