CAPITOLO TREDICESIMO

Lizbeth giaceva su di una panca, con Henry seduto accanto a lei che la sorreggeva. In uno spazio ristretto, una specie di cubo non molto più grande di uno scatolone da imballaggio, erano in cinque. Il vano era stato ricavato al centro del carico normale di un hovercraft da trasporto. Un solo neon, in alto, lo illuminava di una luce fievole, malata. Lizbeth vedeva Igan e Boumour seduti sulla panca di fronte, con le gambe allungate sulla figura di Svengaard, che, legato, imbavagliato e privo di sensi giaceva sul pavimento.

Harvey aveva detto che fuori era già calata la sera. Lizbeth pensò che questo significava che dovevano aver percorso un buon tratto di strada. Provava un leggero senso di nausea e l’addome le faceva male, laddove le erano stati applicati i punti. Ma il pensiero di portare dentro di sé suo figlio la dava uno strano senso di sicurezza. Inoltre provava una calda sensazione di soddisfazione. Potter le aveva assicurato che, mentre custodiva dentro di sé l’embrione, avrebbe potuto tranquillamente fare a meno di assumere enzimi. Ovviamente il medico doveva aver pensato che, una volta giunti in un luogo sicuro, l’embrione sarebbe stato rimosso dal suo corpo e rimesso in una vasca. Ma lei si sarebbe opposta. Voleva portare a termine la gravidanza. Nessuna donna l’aveva fatto per migliaia di anni, ma lei voleva farlo.

«Stiamo accelerando,» commentò Igan. «Ormai dobbiamo essere usciti dai tubi.»

«Ci saranno dei posti di blocco?» chiese Boumour.

«Senza dubbio.»

Harvey si rese conto della veridicità dell’affermazione di Igan. La velocità era aumentata? Sì… i loro corpi stavano compensando la maggiore pressione che subivano nelle curve. Il ventilatore sotto la panca di Lizbeth inviava un flusso d’aria più fresca. Il veicolo procedeva più spedito, senza più sobbalzi. Il rombo delle turbine riecheggiava fortemente nel piccolo vano, e lui percepiva nell’atmosfera l’odore di idrocarburi incombusti.

I posti di blocco? La Sicurezza avrebbe usato ogni mezzo per evitare che qualcuno riuscisse a fuggire da Seatac. Si chiese cosa sarebbe accaduto alla megalopoli. I bioingegneri avevano parlato di gas mortali liberati nell’atmosfera, di raggi sonici. Avevano affermato che la Centrale era in possesso di numerose armi. Harvey allungò un braccio per sostenere Lizbeth mentre il veicolo svoltava bruscamente.

Non sarebbe stato capace di dare un nome alla sensazione che provava sapendo che Lizbeth portava in grembo il loro figlio. Era una sensazione strana, certo non si trattava di disgusto od orrore… ma era strana. In lui si era risvegliato un riflesso istintivo, e dunque era costantemente all’erta nei confronti di eventuali pericoli che avrebbero potuto minacciare la moglie. Ma per quel momento c’era solo il vano, che odorava di sudore stantio e olio.

«Cosa c’è nel carico che ci circonda?» chiese Boumour.

«Un po’ di tutto,» rispose Igan. «Parti di macchinari, vecchie opere d’arte, oggetti sparsi. Abbiamo preso tutto quello su cui potevamo mettere le mani per farlo sembrare un carico assolutamente normale.»

Oggetti sparsi, pensò Harvey. Fu affascinato da quella definizione illuminante. Oggetti sparsi. Stavano trasportando pezzi di macchinari che forse non sarebbero mai stati costruiti.

Lizbeth allungò la mano a tentoni, strinse quella del marito. «Harvey?»

Premuroso, lui si chinò verso la moglie. «Sì, cara?»

«Mi sento… così… strana.»

Harvey lanciò uno sguardo disperato ai due dottori.

«Sua moglie starà benone,» lo tranquillizzò Igan.

«Harvey, ho paura,» disse Lizbeth. «Non ce la faremo.»

«Non è questo il modo di parlare,» la rimproverò Igan.

Lizbeth sollevò lo sguardo, si accorse che il bioingegnere la stava studiando dall’altro lato dello stretto vano. In quel viso severo, i suoi occhi brillavano come due strumenti chirurgici. Anche lui è un Cyborg? si chiese Lizbeth. Lo sguardo gelido di quegli occhi infranse il suo autocontrollo.

«Non mi importa nulla della mia vita!» sibilò. «Ma cosa ne sarà di mio figlio?»

«Farebbe meglio a calmarsi, signora,» la avvertì Igan.

«Non posso,» ribatté lei. «Non al pensiero che non abbiamo scampo.»

«Non dovrebbe preoccuparsi tanto,» tentò di rassicurarla Igan. «Il nostro autista è il miglior Cyborg disponibile.»

«Non riuscirà mai a farci sfuggire alle loro grinfie,» gemé lei.

«Farebbe meglio a star zitta,» disse Igan.

Harvey aveva ormai trovato un oggetto da cui proteggere la moglie. «Non le parli in quel modo!» esclamò.

Igan replicò in tono di sopportazione. «Non ci si metta anche lei, Durant. E abbassi la voce. Sa bene quanto me che durante il tragitto potremmo trovare blocchi stradali dotati di dispositivi di ascolto. In effetti, dovremmo parlare solo quando è strettamente necessario.»

«Stanotte niente riuscirà a sfuggire alle maglie della loro rete,» bisbigliò Lizbeth.

«Il nostro autista è poco più di un guscio di carne intorno ad un potentissimo computer,» li informò Igan. «È stato programmato esclusivamente per svolgere questo compito. Se non ci riesce lui, nessuno sarebbe in grado di farci passare.»

«Nessuno,» mormorò Lizbeth. Iniziò a piangere con singhiozzi convulsi che le scossero l’intero corpo.

«Guardi cosa le ha fatto!» accusò Harvey.

Igan sospirò, sollevò una mano che stringeva una capsula, la tese verso Harvey. «Le dia questa.»

«Cos’è?» chiese Harvey con voce sospettosa.

«Si tratta soltanto di un sedativo.»

«Non voglio un sedativo,» singhiozzò Lizbeth.

«È per il suo bene, mia cara,» tentò di convincerla Igan. «Se continua così, potrebbe rischiare di perdere l’embrione. È passato troppo poco tempo dall’operazione; dovrebbe rimanere calma e tranquilla.»

«Non vuole prenderlo,» disse Harvey. I suoi occhi sprizzavano rabbia.

«Deve farlo,» insisté Igan.

«No, se non vuole.»

Igan costrinse la sua voce a conservare un tono ragionevole. «Durant, sto solo cercando di salvare le nostre vite. Adesso lei è infuriato e…»

«Ha dannatamente ragione! Sono fuori di me! E sono stufo di ricevere continuamente ordini!»

«Mi perdoni, se la ho offesa in qualche modo, Durant,» disse Igan. «Ma devo avvertirla che la sua attuale reazione è condizionata dal suo schema genetico. Lei ha un istinto protettivo maschile eccessivamente sviluppato. Sua moglie starà benissimo. Il sedativo è innocuo. È isterica poiché il suo senso materno è fin troppo intenso. Sono difetti dei vostri genotipi, ma andrà tutto bene se rimarrete calmi.»

«E proprio lei afferma che noi abbiamo dei genotipi difettosi?» ribatté Harvey. «Scommetto che lei è uno Steri che non ha mai…»

«Basta così, Durant,» intervenne l’altro dottore. Aveva una voce profonda, imperiosa.

Harvey guardò Boumour, notando il viso da elfo e il corpo massiccio. Il dottore appariva imponente e pericoloso, il suo volto era stranamente inumano.

«Non possiamo permetterci di litigare,» tuonò Boumour. «Potremmo essere vicini a qualche posto di blocco. E di sicuro sono dotati di dispositivi d’ascolto.»

«Noi siamo perfetti,» ringhiò Harvey.

«Forse ha ragione,» gli concesse Igan. «Ma entrambi state riducendo le nostre possibilità di fuga. Se a uno di voi cedono i nervi quando incontreremo un posto di blocco, siamo spacciati.» Questa volta tese la mano con la capsula verso Lizbeth. «La prenda, per favore. Contiene soltanto un tranquillante, del tutto innocuo, glielo assicuro.»

Con esitazione, Lizbeth prese la capsula. Era fredda e gelatinosa. Le comunicò una sensazione di disgusto. Volle scagliare quella cosa contro Igan, ma poi Harvey le sfiorò una guancia.

«Forse faresti meglio a prenderla,» le disse il marito. «Per il bene del bambino.»

Lizbeth tese la mano, schiacciò la capsula contro la parte inferiore della lingua, poi la inghiottì. Se Harvey era d’accordo, quella era la cosa giusta da fare. Ma non le piacque l’espressione offesa e perplessa negli occhi del marito.

«Adesso si rilassi,» disse Igan. «Farà effetto molto in fretta — tre o quattro minuti e si sentirà perfettamente tranquilla.» Si sedette di nuovo e lanciò una rapida occhiata a Svengaard. La figura legata era apparentemente ancora priva di sensi; il petto si alzava e si abbassava con ritmo regolare.

Era ormai da molto tempo che Svengaard era sempre più cosciente della fame e del movimento che faceva rotolare il suo corpo contro una superficie solida. E il movimento comunicava anche una sensazione di velocità. Percepiva confusamente un odore di sudore umano, udiva un rombo di turbine. Quel suono stava iniziando a imporsi alla sua coscienza. Dalle palpebre pesanti filtrava una luce fievole. Sentiva di avere un bavaglio in bocca, le braccia e le gambe legate.

Svengaard aprì gli occhi.

Per un istante, non riuscì a mettere a fuoco le immagini, poi si scoprì a fissare un soffitto basso, illuminato da un minuscolo neon, al di sotto del quale si notava la griglia di un comunicatore accanto a una spia color rubino. Il soffitto gli sembrava troppo vicino e sulla destra aveva notato una forma confusa — una gamba tesa su di lui. Il neon emetteva un bagliore giallastro a malapena sufficiente a diradare l’oscurità.

La spia iniziò a lampeggiare freneticamente.

«Un posto di blocco!» sibilò Igan. «Silenzio, tutti quanti!»

Il velivolo iniziò a rallentare. Le turbine diminuirono i giri e il loro rombo si trasformò in un lamento. Infine l’hovercraft si fermò, mentre le turbine si spegnevano con un sussurro.

Lo sguardo di Svengaard esaminò in un lampo il luogo in cui si trovava. Alla sua destra, sopra di lui, una panca… su cui erano sedute due persone. Un bordo metallico sporgeva dal supporto della panca accanto la sua guancia. Con cautela, Svengaard mosse la testa verso il bordo, sentì attraverso la benda che la sua carne era entrata in contatto con esso. Spinse delicatamente la testa in avanti e il bavaglio si abbassò leggermente. Il bordo gli graffiò la guancia, ma Svengaard ignorò il dolore. Un’altra leggera spinta e il bavaglio si abbassò ancora di una frazione di millimetro. Svengaard si guardò intorno, vide sopra di lui, alla sua sinistra, il volto di Lizbeth. La donna aveva gli occhi chiusi, le mani che le coprivano la bocca. Sembrava terrorizzata.

Svengaard mosse ancora una volta la testa.

In lontananza, da qualche parte, si udirono delle voci: domande rivolte in tono tagliente, mormoni di risposta.

Le mani di Lizbeth smisero di coprirle la bocca, rivelando labbra che si muovevano senza emettere un suono.

Le voci adesso tacevano.

Lentamente, l’hovercraft iniziò a muoversi.

Svengaard voltò bruscamente la testa. La benda che teneva al suo posto il bavaglio si spezzò. Svengaard lo sputò via e urlò, «Aiuto! Aiuto! Sono prigioniero! Aiuto!»

Igan e Boumour balzarono in piedi per la sorpresa. Lizbeth urlò, «No! Oh, no!»

Harvey si scagliò in avanti, sferrò un pugno contro la mascella di Svengaard, mentre con l’altra mano gli tappava la bocca. Rimasero immobili, in una terribile attesa, mentre l’hovercraft continuava a guadagnare velocità.

Igan emise un respiro tremulo, fissò lo sguardo negli occhi di Lizbeth, che avevano assunto un’espressione selvaggia.

Dal comunicatore provenne la voce dell’autista: «Cosa è successo? Non sapete neppure osservare le precauzioni più semplici?»

Il tono di voce accusatorio, ma nel contempo privo di emozioni, gelò Harvey. Si chiese perché l’autista si fosse rivolto loro in quel modo, invece di annunciare se erano stati scoperti oppure no. Poi si rese conto che Svengaard giaceva svenuto sotto di lui. Sperimentò l’impulso selvaggio di strozzarlo seduta stante, ebbe quasi l’impressione di stringere tra le mani la gola dell’uomo.

«Ci hanno sentito?» sussurrò Igan.

«Apparentemente no,» rispose l’autista, con voce resa gracchiante dal comunicatore. «Non noto alcun segno d’inseguimento. Presumo che eviterete di commettere di nuovo una simile imprudenza. Per favore, mi spieghi cosa è successo.»

«Svengaard si è svegliato prima di quanto ci aspettassimo.»

«Ma era imbavagliato.»

«In qualche modo… è riuscito a liberarsi del bavaglio.»

«Forse dovreste ucciderlo. È ovvio che con lui il ricondizionamento non funzionerà.»

Harvey si allontanò da Svengaard. Ora che il Cyborg aveva ventilato quella prospettiva, lui non aveva più alcuna voglia di uccidere Svengaard. Harvey si chiese chi fosse colui che si trovava nella cabina di guida. I Cyborg sembravano tutti uguali, grazie alla loro intelligenza computerizzata tanto lontana da quella umana, ma l’autista era ancora più distaccato del solito.

«Rifletteremo… su cosa fare,» rispose Igan.

«Svengaard è stato neutralizzato?»

«Sì, è svenuto. Ora non darà più fastidi.»

«Certo non grazie a lei,» commentò Harvey fissando Igan. «Era proprio sopra di lui.»

Il viso di Igan impallidì. Ricordò di essere rimasto immobile, dopo essere balzato in piedi per la paura e la sorpresa. Fu travolto da un moto di rabbia. Con che diritto quel bifolco osava rimproverare un dottore? «Mi dispiace, ma temo di non essere un uomo incline alla violenza,» rispose freddamente.

«Allora farà meglio a diventarlo,» ribatté Harvey. Sentì che Lizbeth gli posava la mano sulla spalla e le permise di farlo sedere di nuovo sulla panca. «Se ha ancora un po’ di quella roba che ha usato per addormentare Svengaard, sarà meglio che gliene somministri un po’, prima che si svegli di nuovo.»

Igan si rimangiò una risposta tagliente.

«È nella borsa sotto la nostra panca,» disse Boumour. «Un suggerimento ragionevole.»

A malavoglia, Igan cercò a tentoni una siringa e iniettò a Svengaard il narcotico.

Ancora una volta dal comunicatore provenne la voce dell’autista: «Attenzione! Anche se non ci hanno inseguito immediamente, non dobbiamo presupporre che non abbiano rilevato le vostre voci. Di conseguenza, sto eseguendo il Piano Gamma.»

«Chi è l’autista?» bisbigliò Harvey.

«Non ho visto chi hanno programmato per quest’incombenza,» disse Boumour. Studiò Harvey. Quella domanda era decisamente appropriata. Quel Cyborg era strano, molto più della media. Gli avevano detto che l’autista sarebbe stato dotato di un computer eccezionalmente veloce, una macchina progettata per aumentare al massimo le probabilità di successo della loro fuga. Ma chi aveva scelto il programma?

«Cos’è il Piano Gamma?» sussurrò Lizbeth.

«Stiamo abbandonando il percorso in precedenza scelto,» disse Boumour. Fissò la parete di fronte a lui. Abbandonare il percorso scelto… questo significava che ormai dipendevano esclusivamente dall’abilità dell’autista… e dalle eventuali cellule dell’Associazione che non fossero state scoperte. Ovviamente ognuna di quelle cellule poteva essere già sorvegliata dalla Sicurezza. Anche l’animo di Boumour, di solito saldo come una roccia, iniziò a provare il morso della paura.

«Autista!» chiamò Harvey.

«Silenzio,» replicò bruscamente il Cyborg.

«Si attenga al piano originale,» ordinò Harvey. «Là dove eravamo diretti sono dotati di attrezzature mediche, nel caso mia moglie…»

«La salvezza di sua moglie non è considerata il fattore principale,» rispose l’autista. «I membri che agiscono lungo il percorso programmato non devono essere scoperti. Non mi distragga con le sue obiezioni. Il Piano Gamma verrà eseguito.»

«Tanto vale rassegnarsi,» commentò Boumour, mentre Harvey balzava in piedi, reggendosi con una mano sulla panca. «Cosa può farci lei, Durant?»

Harvey ricadde a sedere, cercò a tentoni la mano di Lizbeth. La moglie gli segnalò, «Aspetta. Non hai letto i dottori? Anche loro sono spaventati… e preoccupati.»

«Io mi preoccupo solo di te,» gli rispose allo stesso modo Harvey.

E così la salvezza della donna — e probabilmente la salvezza di noi tutti — non costituisce il fattore principale, pensò Boumour. Ma qual è allora il vero obiettivo? Che tipo di programma controlla il nostro computer di carne?

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