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DIARIO DI GRAHAM

Misteri profondi e sconvolgenti aspettano chi esplorerà gli spazi dell’Universo. Forse… Eppure questi enigmi perdono tutta la loro grandezza se li paragoniamo al mistero che accompagna ogni uomo nel corso della sua esistenza. Che l’astronomo scruti pure le stelle e continui pure ad arzigogolare sulla loro origine e sulla loro natura, io mi occupo dell’uomo che è più vicino, meditando sulla sua origine e sulla sua natura e composizione. Questo per me è il mistero più grande. La verità ci sfugge e l’ateo non ha in comune con il credente che questa stupida sconfitta.

C’è, in verità, una sola cosa che io possa forse dire di sapere e di comprendere interamente? Il mormorio del vento tra gli alberi al di là delle mie finestre, lo spuntare delle foglie in primavera, il colore delle perle, le onde che accarezzano le spiagge, i marciapiedi di una grande città, l’amore di una donna comperata per una notte, i granelli di sabbia che scricchiolano sotto i passi…

Tutto questo ha lo stesso significato del cielo che vive sopra la mia testa. Curioso! Per anni, mi sono sentito continuamente come se fossi sulle tracce di un fuggiasco che si sottraeva alle mie ricerche. Per anni, esaminando tutti gli indizi, mi sono sforzato invano di identificarli, arrivando sempre a un vicolo cieco…

Poi un giorno, in Egitto, mi trovai davanti alla Sfinge. Mi affascinò subito, come aveva incantato l’immaginazione di molti altri prima di me. Rimasi ore e ore a contemplarla.

La gigantesca costruzione enigmatica mi portò attraverso gli abissi del tempo. Mi sentivo entusiasmare. La passione per le antiche rovine si era impadronita di me. Esisteva dunque una cosa che aveva il potere di distrarmi dalla mia angoscia! Avevo trovato finalmente qualcosa in cui gli enigmi potevano concretarsi in una ricerca: la ricerca delle antichità, il fascino di quei colossali avanzi, il loro mistero. Nell’archeologia la mia vita avrebbe trovato uno scopo che non sarebbe mai venuto meno.

Studiai le Piramidi, e in seguito mi recai nel Tibet e in Mongolia. Esaminai i cerchi fatti di pietre, come se ne trovano in certi luoghi dell’Inghilterra. Feci ricerche a Stonehenge. Penetrai nelle giungle delloYucatandove mi interessai alle testimonianze della civiltà Maya. Visitai tutte le biblioteche leggendo avidamente quanto riguardava l’Atlantide. Anghor-Vat risuonò dei miei passi. E quante ore trascorsi davanti a quell’unica favolosa meraviglia che è il Grande Quadrante dorato di Nyamba:

Ma più di ogni altro luogo, l’Isola di Pasqua tentava la mia mente. Ho vissuto mesi interi sull’isola studiando le enormi piattaforme di pietra e le ciclopiche statue.

Tutti questi posti famosi e molti altri ancora che io esplorai per anni fecero sorgere in me certe domande precise. Perché gli antichi costruttori usavano così largamente delle forme piramidali e circolari? L’Isola di Pasqua abbonda di avanzi disposti in cerchi concentrici. Ma, innanzi tutto, da dove traevano ispirazione quei colossi che sorgevano dovunque? E quale serie di cataclismi o di sacrifici aveva completamente spazzato dalla faccia della Terra la razza che li aveva costruiti?

Durante un viaggio nel cuore del Tibet, a Paru-Sai, scoprii su una grande montagna volta a sudest un santuario isolato e un vecchio prete Sekhita, sacerdote di un culto che va scomparendo. Il tibetano mi offrì ospitalità per la notte. Parlava un inglese assai corretto, ed è uno degli uomini più istruiti che abbia mai conosciuto. Passammo quasi tutta la notte a parlare. Gli raccontai dei miei viaggi e delle mie esplorazioni rivelandogli lo scopo segreto di tutte queste ricerche. Gli dissi della mia curiosità per l’origine degli antichissimi monumenti, parlai della loro immensa grandezza e del più importante mistero che mi assillava: la venuta sul mondo della razza umana.

Lui mi ascoltò nell’oscurità del suo rifugio, senza interrompermi. Quando smisi di parlare, il Sekhita si drizzò sul fragile corpo e scomparve in una nicchia della caverna. Tornò quasi subito tenendo tra le mani un libro che recava impressi sulla rilegatura di avorio alcuni strani simboli in oro. L’aprì mostrandomi le pagine di pergamena. Si trattava certamente di un documento antichissimo, non avrei saputo dire quanto, e scritto in una lingua che mi era sconosciuta. Probabilmente anteriore al sanscrito. Il mio ospite me ne lesse un brano.


“Quando le stelle si troveranno nella posizione profetizzata, allora i Titani si sveglieranno e ritorneranno. La terra si spalancherà, e da cripte più profonde di quanto sono alte le nubi, il Guardiano del Sigillo lancerà ai Titani il suo richiamo. Il Guardiano del Sigillo diverrà anch’esso grande come un Titano e andrà a porsi sul Crltul Thr. Le acque ribolliranno, la terra si aprirà, e le stelle sorgeranno in un cielo di fiamma. Dal loro Universo, al di là degli astri, scenderanno i Titani. Essi reclameranno per sé tutto ciò che vive, loro che ci hanno fatti di polvere e di fuoco che consuma. Questo si compirà quando i Titani si sveglieranno, quando le stelle saranno al posto giusto, a meno che non giunga colui che affronterà il Guardiano del Sigillo e lo sconfiggerà. Allora il Guardiano tornerà pietra e i Titani aspetteranno nella loro grande sfera fino a che le stelle non saranno tornate una volta ancora nella posizione voluta dalla profezia. E il Guardiano del Sigillo resterà sull’asse da Crltul Thr a Mrcg.”


Mentre il prete leggeva, io stenografavo questo rituale che allora non aveva nessun significato per me. Il mio ospite sfogliò poi le ultime pagine del libro. Queste erano in carta semplice. Su una pagina erano segnate le costellazioni quali nessun uomo le aveva mai viste. Forse quella era la disposizione celeste di un milione di anni prima. La seconda pagina le raffigurava invece come sarebbero state di lì a vent’anni. Questo lo seppi dal Sekhita, la cui conoscenza dell’astronomia era profondissima. Sulla carta, le zone piene indicavano i mari e i continenti, ma con una forma del tutto diversa da quella che ci è nota. Le mie cognizioni di geologia si rivelarono assai preziose in quell’occasione. Mi ricordai infatti di alcune carte ipotetiche le quali rappresentano il nostro mondo nell’aspetto che si suppone abbia avuto nelle diverse epoche geologiche. La cartina che stavo guardando corrispondeva alla fine del Miocene o all’inizio del Pliocene, cioè alla Terra di 1.500.000 anni fa.

Inoltre su quella carta era segnata una linea che univa il punto dove attualmente sorge l’Isola di Pasqua al luogo cui corrisponde adesso Stonehenge. Interrogai il tibetano sul significato di quel segno, ma lui si limitò a indicare con un dito il brano che aveva letto. Gli chiesi allora chi fosse il Guardiano del Sigillo e se “l’asse da Crltul Thr a Mrcg” potesse identificarsi con una immaginaria linea dall’Isola di Pasqua a Stonehenge. Ma anche a questa domanda il prete non rispose.

Per lunghi anni ancora dopo questo incontro io continuai le mie ricerche attraverso il mondo. Mi specializzai nella storia dell’uomo attraverso le vestigia più antiche e i monumenti più, primitivi. Non dimenticai mai la notte trascorsa nella caverna del Sekhita e feci diversi viaggi nei dintorni di Stonehenge, ma senza scoprire niente di speciale.

Infine accettai il posto di conservatore al Museo Ludbury. Beninteso però continuai a leggere per tenermi al corrente di ogni novità nel campo delle scoperte e delle invenzioni. Mi familiarizzai con la teoria della elettrogenetica, secondo la quale ciò che noi chiamiamo “vita” può sussistere soltanto finché nel corpo umano si verifica uno scambio positivo-negativo di impulsi elettrici. Mi dedicai anche allo studio delle teorie di Einstein e della geometria a quattro dimensioni, e passai in rivista le diverse ipotesi e dottrine sulle origini del mondo, interessandomi a miti, leggende e folclore.

Le mie inchieste e le analisi mi posero nell’alternativa di scegliere tra due conclusioni che si annullavano a vicenda.

O la vita umana era nata sulla Terra spontaneamente, o vi era stata portata dall’esterno. Se vi era nata in modo spontaneo, non sarei mai riuscito a sapere come e quando fosse avvenuto. Ma se era venuta dall’esterno, mi trovavo di fronte a una nuova alternativa: o l’avvenimento si era verificato accidentalmente con la caduta di qualche meteorite o per un fatto consimile, oppure era il prodotto di una intelligenza dotata di volontà. Se la tesi esatta era quella della casualità, ancora non sarei mai arrivato a capo di niente. Ma se era giusta l’ultima ipotesi, potevo nutrire ancora qualche speranza.

Questo era il tema generale dei miei ragionamenti. E pur occupando il posto di conservatore al Museo, continuai le mie esplorazioni approfittando dei periodi di ferie.

Niente però durante questi ultimi anni mi ha sconvolto quanto l’avvenimento della statuetta verde scoperta a Isling. Ben presto mi resi conto che poteva trattarsi del famoso Guardiano del Sigillo del quale si parlava nel preistorico volume del santuario di Paru-Sai. Erano state così eccezionali le manifestazioni di potenza della statuetta verde, che mi recai subito a Isling. Qui non solo trovai la scultura cosmica ma in seguito scoprii un tunnel che si inoltrava nelle viscere della Terra, e nel quale rischiai di perdere la vita mentre cercavo di uscirne. Inoltre, quando per caso le mie dita si erano messe a seguire i contorni delle incisioni sullo zoccolo della statuina, si era prodotto un fenomeno inimmaginabile accompagnato da una visione paurosa.

Questi fatti hanno solo due possibili spiegazioni. O io sono stato vittima di continue allucinazioni, o avevo assistito al manifestarsi di forze superiori a ogni immaginazione.

Penso che questa ultima ipotesi sia quella giusta. Se è così, allora è stato proprio il fatto di toccare i segni incisi sul sostegno della statuetta a scatenare le forze incontrollabili.

Ma in che modo? Qual è la natura del meccanismo? Senza dubbio con quel gesto io ho lanciato nello spazio o un segnale o un avvertimento. Tutto infatti è successo come se la statuetta avesse trasmesso in modo inesplicabile i miei pensieri, intensificandoli e imprimendo loro una potenza sovrannaturale, e provocando una reazione estremamente rapida dell’essere al quale erano destinati. Un essere che si trovava in un altro tempo e in un altro spazio.

Qualunque fosse la soluzione del mistero, essa doveva necessariamente risiedere nella statuetta. Dal momento che. l’idolo non presentava alcuna somiglianza con nessun minerale conosciuto, doveva avere un’origine extraterrestre e perciò sfuggiva a tutte le regole del nostro mondo. Dirò di più. Quella statuetta doveva rispondere a leggi totalmente estranee a quelle che regolano la materia e l’energia come noi le conosciamo.

L’immagine doveva dunque essere stata portata sul nostro mondo da creature venute dagli spazi, o dagli abissi, per un motivo ben stabilito e con uno scopo altrettanto preciso. E questo scopo doveva essere talmente importante che al minimo accenno di pericolo, al più piccolo allarme, una specie di sentinella correva alla riscossa. Infine la natura stessa della statua, la sua fattura altamente artistica, tutto denunciava una civiltà molto progredita.

La visione che mi era apparsa, pensai, era quella di un guardiano avvertito di un pericolo da un eccezionale mezzo di comunicazione sconosciuto a noi uomini di scienza, o dalla stessa entità che nel lontanissimo passato aveva posto la statuetta a Isling. Ma quando era avvenuto questo? E perché? E chi era questa potenza sconosciuta?

E perché la pietra verde era stata messa a protezione del pozzo del Cimitero del Diavolo? Sono sempre più convinto che in origine quel pozzo fosse destinato ai sacrifici umani di esseri votati a una divinità mostruosa e sconosciuta, come lo prova, sempre secondo me, la straordinaria varietà di scheletri che vanno dall’uomo dell’età moderna fino a specie infinitamente più antiche di quelle conosciute. Questa mia teoria del sacrificio religioso era plausibile, ma era anche logico pensare che le vittime venissero destinate ad altro, se si considera la sparizione della carne dal loro corpo. Forse se ne nutrivano? E quella sostanza verde era forse organica, inun altro universo, o perlomeno dotata di una forza e di una “esistenza” simili a quella che noi chiamiamo “vita”. Questi pensieri mi diedero la sensazione che, per la prima volta nel corso delle mie esperienze di investigatore lanciato attraverso il tempo e lo spazio, io cominciassi davvero a veder chiaro. Gli enigmi che mi avevano assillato prendevano forma nella mia mente, si precisavano.

Ragionai a lungo sul modo in cui potevo essere uscito dal tunnel finendo a Stonehenge, e alle straordinarie proprietà della pietra e del sigillo posto a guardia del pozzo. Tutto faceva pensare a una geometria ultraeuclidea. Anche Stonehenge sembrava essere stata costruita in funzione del corridoio sotterraneo. E chissà che gli uomini ai quali erano appartenute quelle innumerevoli ossa, all’epoca in cui rivestivano ancora la loro carne mortale, non fossero entrati spontaneamente nella caverna allo scopo di trasferire la loro carne, la loro intelligenza, la loro personalità, alla potenza superumana tanto lontana da noi, e pur così vicina secondo le regole dell’iperuniverso, dell’iperspazio, dell’ipertempo!

Tornai a esaminare le fotografie scattate a Isling, concentrando la mia attenzione sulle riproduzioni della volta celeste, e riconobbi facilmente la stessa disposizione delle stelle come era riprodotta nelle carte del manoscritto di Paru-Sai. Doveva per forza esistere un nesso tra le due cose! E mi ricordai della riproduzione della terra di 1.500.000 di anni fa. Qualcosa cominciava finalmente a delinearsi. Tentai di ricostruire alcuni fatti che appartenevano a un passato assai lontano, cercando di astrarmi dalla mia posizione di essere umano condizionato dalle cose di questo mondo, per adottare il punto di vista di un abitante del supercosmo completamente estraneo alla Terra, questo piccolo grano di sabbia di uno sconfinato deserto. Immaginai dunque che questa potenza del supercosmo si fosse trovata nella necessità di gettare, a scopo di esperimento, un minuscolo germe su questa terra, come si semina un batterio in una provetta, e di lasciarlo sviluppare liberamente per un certo periodo. E calcolai questo periodo a 1.500.000 di anni del nostro tempo che per gli sconosciuti esseri possono benissimo corrispondere a 1.500.000 di secondi, cioè meno di tre settimane.

Se la prima cartina geografica stabiliva l’epoca nella quale i Titani erano venuti sulla Terra per seminarvi il virus della vita umana, la seconda doveva necessariamente riferirsi al tempo nel quale l’esperimento sarebbe finito. L’avvenimento determinante la fine doveva allora aver luogo all’una o all’altra estremità dell’asse Stonehenge-Isola di Pasqua, e in un lasso di tempo molto breve.

Più pensavo e più mi convincevo che la vita umana era opera di questa potenza supercosmica. Ma per quale motivo era stata creata? Si trattava unicamente di una coltura di laboratorio impiantata per trovare un virus che servisse da antidoto a qualche malattia che affliggeva quelle superesistenze? Allo scadere di quelle tre settimane corrispondenti a un nostro milione e mezzo di anni, avrebbero colto il frutto del loro esperimento o ricominciato una nuova coltura?

Un milione e mezzo di anni! L’universo conosciuto da noi forse è solo una molecola o una cellula della specie più comune nel superuniverso dei Titanici colossi. C’è una mosca, l’effimera, la cui esistenza dura solo una giornata. Ma per lei, l’effimera, queste ventiquattro ore valgono forse quanto cento anni per noi. Così questo milione e mezzo di anni di peccati, d’amori, di rancori, di morti, di invenzioni e di lento progresso verso la conquista della civiltà rappresentano forse solo qualche settimana nel tempo dei nostri padroni.

E la strana statuetta verde, il Guardiano del Sigillo, è la guida di questo esperimento-vita. Tutto è come se gli enigmatici chimici, abitanti di un superuniverso al di là del tempo e dello spazio, in rapporto al quale il nostro mondo non è che un insetto ondeggiante nel sistema solare, come se questi chimici, dicevo, avessero deposto una goccia di liquido inquinato sotto il microscopio di un laboratorio ultracosmico ottenendo quale risultato la moltiplicazione di germi nel virus durante un periodo di incubazione di tre settimane. E adesso che l’uomo si era moltiplicato, l’esperienza veniva interrotta. Per apportarvi una variazione o per subire una trasmutazione? Io non lo so, ma credo che questo fantomatico gioco di forze convergerà sull’Isola di Pasqua, tra i giganteschi uomini di pietra e i funebri monoliti che la ricoprono, perché le stelle si trovano nella posizione descritta nel manoscritto Sekhita e sulla pietra verde di Isling.

Cosa farò io quando gli esseri di questo superuniverso si manifesteranno? Cosa potrò fare e come potrò sconfiggerli? È evidente che nessuna tra le forze elementari in possesso degli uomini, nessuna forza terrestre li può combattere poiché essi soggiacciono soltanto alle loro leggi superne, alle regole di uno spazio e di un tempo che ci sono estranei, a concetti di una più grande complessità, d’un genere di vita completamente diverso dal nostro, d’un genere di energia e di potenza infinitamente superiore. Bisognerebbe poterli affrontare nel campo dei loro stessi elementi, ma come? C’è forse un indizio, una chiave che ne riveli il modo, nel materiale che ho raccolto? È possibile scoprire la natura del loro mondo infinito? E se queste entità hanno davvero creato la vita umana, da chi a loro volta sono state create, e come sono fatte?

Potrebbero essere tanto organici quanto inorganici, o l’una e l’altra cosa insieme con l’aggiunta di energia pesante. Potrebbero anche essere privi di qualsiasi sostanza: energia pura, puro concetto, forza pura, sfuggenti a ogni analisi e privi di forma stabile. Se una emanazione gassosa potesse parlare, un lampo di luce pensare, il mercurio respirare, forse allora potrei comprendere meglio i Titani. Ma non sono in grado di dare nessuna risposta a tutti i miei interrogativi. Posso soltanto aspettare, vegliare, e sorvegliare l’Isola di Pasqua.

Forse succederà qualcosa.

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