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Tornato a casa, Graham dormì profondamente fino al pomeriggio del giorno dopo. Il lungo sonno lo ricompensò delle estenuanti emozioni: una leggera colazione fu sufficiente a rinvigorirlo. Poi lo scienziato si mise a scorrere la posta arrivata durante la sua assenza. Una busta rigonfia attirò subito la sua attenzione. L’aprì togliendone un foglietto scritto a mano, e una seconda busta.

Sul primo foglio lesse:


6, Hammervil Ct.

Londra W.C.1.

7 agosto

Caro professor Graham,

il manoscritto qui accluso è stato trovato nell’ufficio del defunto professor Charles Alton.

Lo scienziato stava scrivendo il vostro indirizzo quando è rimasto vittima di un fatale

incidente. Nel caso desideriate altri particolari, mi troverete sempre a vostra disposizione

all’indirizzo sopra segnato…


La lettera era firmata da James Martin, il segretario di Alton.

Sulla seconda busta, una mano tremante aveva tracciato l’indirizzo di Graham. La scrittura incerta e disuguale aveva solo una vaga rassomiglianza con quella chiara, bella e leggibile di Charles Alton. L’archeologo strappò la busta e ne tolse numerosi fogli scritti a mano. Con una rapida occhiata si rese conto della stupefacente trasformazione progressiva che la scrittura del filologo aveva subito. Ferma e netta all’inizio, si deformava a mano a mano per finire in ghirigori quasi incomprensibili.

Senza aspettare oltre, Graham cominciò a leggere, e più volte, nel corso della lettura, dovette fermarsi, incerto di aver capito giusto.


È un uomo morto che vi scrive. Quando leggerete questa lettera, io avrò già raggiunto l’immensa massa dei simboli, per decifrare e tradurre i quali ho speso tutta la vita. Saranno, queste che vi scrivo, le mie ultime parole. Voi ne siete il depositario più degno e il più competente. Voi che siete la causa involontaria della mia fine.

Il mio istinto mi dice, senza possibilità di equivoco, che la mia ora è vicina. Io l’accetto poiché è stabilito che ognuno deve accettare il proprio destino, ma me ne vado con il rimpianto di non essere giunto ad una comprensione piena e completa di questo ultimo problema che mi avete sottoposto. Vi ho chiamato al telefono, ma eravate assente e non ho potuto parlarvi. E non avrò più, ne sono certo, l’occasione di farlo. Le mie ore sono contate, molto parsimoniosamente! Posso dunque solo scrivere quello che avrei voluto dirvi. Spero soltanto di arrivare alla fine di questa lettera.

Per la verità, credo che nessun altro al mondo avrebbe potuto misurarsi vittoriosamente con l’iscrizione che mi avete chiesto di decifrare. Non è peccato d’orgoglio il mio! Devo soltanto al caso di aver indirizzato i miei studi e le mie ricerche in un campo che altri scienziati, per valore e intelligenza non inferiori a me, non hanno approfondito.

È dunque per il timore che altrimenti vada perso questo mio sforzo finale, e con la speranza che voi arriviate a capire la natura del fenomeno che fra breve mi spezzerà la vita, che io vi mando i risultati delle mie fatiche, anche se incompleti e incerti. Essendo inoltre al corrente che vi siete ingolfato in una terribile avventura, mi auguro che la mia sorte vi illumini sui pericoli che vi minacciano.

Come sapete, ho passato la maggior, parte della mia vita viaggiando. L’interesse che ho sempre nutrito per le lingue, sia quelle vive sia quelle morte, mi ha spinto fin nei più remoti paesi dove ho vissuto parecchie avventure. Le mie ricerche sulle origini e gli sviluppi dei linguaggi mi hanno condotto a studiare moltissimi popoli, terre, secoli, e muoio prima di essermi impadronito della completa conoscenza dei diversi simboli usati dall’uomo. Questo è stato il sogno di tutta la mia vita. E anche se non l’ho raggiunto appieno, ho però acquistato una grande familiarità con le lingue scritte e parlate di tutto il mondo. Sono pure riuscito a scoprire una lingua fino ad oggi sconosciuta, e un’altra ancora completamente caduta in dimenticanza. Sono questi due linguaggi che nel nostro caso hanno avuto somma importanza.

Circa quindici anni fa, presi parte alla spedizione Richter-Angley. Partiti daHyderabad,ci siamo diretti verso nord, sino a Chitral, vero punto di partenza agli effetti della spedizione. Da qui seguimmo un difficile percorso attraverso la catena montuosa del Kush, superando l’altipiano del Pamir per proseguire verso i monti Altai e poi, ad Est, attraverso il deserto dei Gobi in direzione di Pechino. Nostro scopo era di ritrovare le tracce dell’uomo primitivo nella regione nota con il nome di Culla dell’Umanità.

Fummo molto fortunati, quella volta. A circa duecentoventi chilometri a nord di Chitral, in una regione assolutamente selvaggia, incappammo miracolosamente nelle rovine di un tempio, o santuario che fosse. Qui facemmo la prima importante scoperta: qualche foglio di antica pergamena, tutto ciò che restava di un’opera che in origine doveva essere assai voluminosa. Quei fogli erano coperti da caratteri che avevano un lieve legame con il sanscrito, ma assai più antichi di quella pur antichissima lingua. Per darvene meglio un’idea, dirò che somigliavano al sanscrito come l’inglese moderno somiglia all’anglosassone originale.

Battezzai questa nuova lingua col nome di Kanja in onore della località dove avevamo trovato i frammenti di pergamena. In seguito, rifacendomi appunto al sanscrito, identificando le radici delle nuove parole e cercando di indovinare quando i metodi sintetici e analitici non mi potevano aiutare, riuscii a compilare una traduzione corredata da una grammatica rudimentale e da una ipotetica pronuncia dell’antico linguaggio. Può darsi che abbiate visto la monografia da me pubblicata sull’argomento:Iframmenti Kanja, tradotti con note sulla loro relazione con il sanscrito.

Quegli scritti erano di natura religiosa e comprendevano brani di un rituale. Tralascio qui la spiegazione dettagliata del loro contenuto che non ha nulla a che fare con quanto ci interessa.

Molti anni più tardi, partecipai a un’altra spedizione che si spinse all’interno del continente nero. E fu laggiù, in Africa, che feci la mia seconda scoperta: il dialetto Ulonga, di cui nessuno aveva mai sentito parlare. A quell’epoca io cercavo di completare i miei studi comparativi sui primitivi linguaggi africani. Feci la scoperta in quella parte dell’Africa dove si estendono i territori dell’Abissinia, dell’Uganda e del Sudan, ed ebbi la fortuna di poter realizzare qualche registrazione. Non potrò mai completare gli studi già a buon punto, e non pubblicherò mai i risultati del mio lavoro, ma non considero perse le mie fatiche poiché quelle registrazioni mi hanno fornito la chiave per decifrare la vostra iscrizione.

Devo riconoscere però che senza le vostre annotazioni su come avete creduto di sentir pronunciare le misteriose parole, io mi sarei trovato in alto mare o, nella migliore delle ipotesi, avrei impiegato interi mesi per ottenere gli stessi risultati. Ma questi risultati mi pongono un nuovo problema nel momento in cui la mia vita sta per finire.

Dunque, io ho lavorato sui frammenti Kanja, sul dialetto Ulonga, sull’iscrizione di Isling e sulle frasi delle quali mi avete fornito la pronuncia. Mi piacerebbe sapere dove avete sentito quelle parole, e saldare l’una all’altra le maglie misteriose di questa enigmatica catena. Ma non lo saprò mai.Irimpianti quindi sono inutili, e mi manca il tempo per fare supposizioni.

Usando gli elementi a mia disposizione, potevo seguire due metodi di ricerca. O accostare i frammenti Kanja alla iscrizione di Isling comparandone le radici (e questo sarebbe stato il metodo più logico, ma anche il più lungo), oppure cominciare dalla vostra annotazione, paragonandola al dialetto Ulonga e, in seguito, agli scritti Kanja. Questo sistema, per quanto meno sicuro, era però assai più rapido, ed è quello che ho scelto tenendo conto della fretta che avevate dimostrato per conoscere la traduzione. Naturalmente mi riservavo di adoperare in seguitoi duesistemi alternativamenteper unapiù accurata verifica.

La mia fatica fu assai semplificata dalla riproduzione dei suoni da voi uditi. N’ga n’ga clretl ust s g’lgggar assomiglia stranamente a un canto ulonga che comincia così: ’Nya ’Nya ke re telus tse gul ge gegar. Le piccole differenze di pronuncia si spiegano con facilità con le modifiche apportate dai secoli al linguaggio unicamente parlato.

E in realtà dovremmo piuttosto stupirci che queste differenze non siano molto più sensibili, considerando che il territorio ulonga è lontano migliaia di chilometri da Isling.

Ho avuto la certezza che quello da voi sentito altro non fosse che il canto ulonga, o piuttosto una forma anteriore, e quindi più pura, di quel canto. Se le parole da voi sentite corrispondevano veramente alla iscrizione di Isling, il canto ulonga era dunque solo la contropartita dell’iscrizione, e io mi trovavo in possesso della pronuncia e del testo scritto di cui non avevo mai sospettato l’esistenza.

Ammesso ciò, il problema diventava relativamente facile: si trattava solo di assegnare la raffigurazione grafica alle parole chiave e di colmare le lacune servendosi del dialetto africano. Feci dunque le due cose. Forse non riesco a spiegarmi bene, e quanto vi dico appare poco chiaro, ma in realtà il procedimento era molto semplice, e dal momento che io conoscevo già il significato del canto ulonga, così potevo dire di conoscere il senso dell’iscrizione di Isling. Più esattamente dirò che ero a conoscenza dell’equivalente in lingua inglese, perché non posso giurare di sapere esattamente il senso reale o nascosto di quelle frasi. Le tribù ulonga hanno custodito per tradizione un rito che si è tramandato di generazione in generazione sin da tempi lontanissimi, ma del quale ormai non si conosce più l’origine né lo scopo. Può darsi, e ve lo dico per scrupolo, che abbia un significato particolare il fatto che gli Ulonga si voltino sempre verso Est, e tengano il viso levato al cielo, quando cantano la loro nenia.

Le mie forze diminuiscono rapidamente. Sento che non mi rimane più molto da vivere. Troverete qui unita la trascrizione della pronuncia esatta dell’iscrizione e l’equivalente in inglese. Il fenomeno fatale al quale ho accennato più su sta per avere ragione di me. Ne parlo soltanto perché sembra che abbia qualche rapporto soprannaturale con il problema di cui ci occupiamo.

Circa due ore fa, avevo appena terminato la mia fatica, lessi l’iscrizione di Isling ad alta voce per rendere queste strane frasi il più pronunciabili possibile per comunicarvene il suono. Avevo appena pronunciata l’ultima parola e la sua eco si era spenta nell’aria, quando mi sentii avvolgere da un silenzio innaturale in un’atmosfera diventata stranamente elettrica. Immaginai, a tutta prima, che quella sensazione fosse dovuta allo sforzo eccessivo al quale mi ero assoggettato nelle ultime ore. E allorché mi sembrò di sentir ripetere in lontananza le parole che io stesso avevo appena finito di pronunciare, pensai di essere sull’orlo dell’esaurimento nervoso. È stata un’illusione, la mia? Io non lo so, Graham, e non lo saprò mai.

Una voce gutturale e orribile, di una cacofonia atroce, impossibile a descriversi, sembrava suscitare l’eco ormai spenta. Le pareti della biblioteca parvero allontanarsi all’infinito come in un incubo diabolico, e io mi sentii sperduto al centro di uno spazio senza limiti, avvolto da una palpitante radiazione verdastra, in balia di forze extraterrene. Reagii dibattendomi con tale violenza per sfuggire alla morsa che mi serrava, che andai a sbattere con la testa contro lo spigolo del camino e svenni.

Quando ripresi i sensi, ero terribilmente debole e sconvolto dalla nausea. E mi trovavo steso in una gran pozza di sangue. Capii subito che il colpo e la perdita di tutto quel sangue non potevano avere che un risultato. Sono adesso sotto l’effetto di una profonda depressione. Pazzia, o l’avvicinarsi della morte?

Ho risvegliato forse una potenza sconosciuta che si vendica su di me?

Le idee mi si confondono e non riesco più a dominare i miei pensieri. Ma comincio però a capire come mai voi conoscete la pronuncia di una parte dell’iscrizione di Isling. Che il destino vi protegga, e che la vostra sorte sia migliore della mia.

Che cosa ho visto?


La lettera finiva qui. La firma sarebbe stata illeggibile per chiunque non avesse avuto la familiarità di Graham con la scrittura di Alton. Profondamente turbato, l’archeologo ripiegò le pagine lette e prese a considerare la traduzione fatta dal filologo.

Come al solito, il professore aveva scelto un lavoro accurato. Aveva copiato su un’unica riga i segni e i simboli dell’iscrizione, sotto aveva trascritto le corrispondenti sillabe del canto ulonga, sotto ancora veniva la pronuncia corretta, e infine, su un’ultima riga, c’era la traduzione in inglese.

Dopo un rapido sguardo all’insieme, Graham si concentrò sulla traduzione.

La sua fronte si corrugò mentre leggeva:


Svegliatevi! Lontani Titani del Tempo, e dello Spazio, e dell’Esistenza, creatori della Vita, creatori della Morte, creatori dell’Energia. Nel giorno destinato dagli astri, scendete dal vostro immenso mondo, attraverso le stelle, fino a questo piccolo mondo che voi avete creato. Prendete quello che è vostro e tornate nel vostro universo. O Guardiano del Sigillo, prendi tutto quello che i Titani ci hanno dato e che appartiene a loro, poiché loro stessi lo riprenderanno nel giorno che è stato fissato nelle stelle. Noi apparteniamo a te come a loro. E, aspettandoli, noi ti preghiamo. Titani remoti svegliatevi!


Chi erano questi Titani invocati? Chi era il Guardiano del Sigillo? Forse quella piccola fantastica statuetta verde? Che cosa significava quel parlare di immensi mondi lontani? Quel rito era dunque solo un innocuo e incoerente vaneggiare superstizioso?

Graham notò che Alton aveva tradotto l’iscrizione soltanto fino alla metà dei segni geometrici, lasciando la seconda parte indecifrata, e senza dubbio mai decifrabile, nella sfida delle spirali e dei terribili simboli.

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