Così raccontai a McNulty, e anche allo sceriffo, dato che c’era, che cosa era successo. Non in maniera particolareggiata, ma quel tanto che bastava per far capire loro come ero legato a Hetherton e al Sun e come, salvo un miracolo, ci sarei rimasto legato ancora per un altro anno, a uno stipendio che era ridicolo anche per una cittadina come Mayville.
Mio padre era morto quando iniziavo il mio terzo anno all’università dell’Ohio. Avevo solo lui, perchè ero figlio unico e mia madre era morta cinque anni prima. Naturalmente, ero tornato in aereo a Kansas City, con la convinzione di rientrare all’università dopo i funerali e dopo un colloquio con l’esecutore testamentario, che era da molti anni il miglior amico di mio padre.
Mio padre era vicepresidente di una delle più importanti banche di Kansas City. Non eravamo ricchi, ma avevamo un buon reddito, e non avevo mai dovuto preoccuparmi per il denaro. Non mi aspettavo di ereditare una fortuna, sia pure piccola, ma avevo ogni motivo di pensare che la proprietà fosse più che sufficiente a permettermi di terminare gli studi prima che potessi pensare a guadagnarmi da vivere.
Ma mi sbagliavo. Mio padre aveva fatto alcuni investimenti sbagliati, come capita anche ai banchieri, ed aveva perduto molto. Inoltre aveva fatto un prestito ad un amico che si era dimostrato tutt’altro che amico ed era scomparso. Seppi che, una volta pagate le spese dei funerali, il capitale si sarebbe volatilizzato, con un notevole margine di passivo. Il legale mi spiegò che ero responsabile solo di alcuni dei debiti; gli altri sarebbero stati annullati per il semplice fatto della mancanza di fondi. Ma gli dissi che era mio desiderio che il nome di mio padre restasse senza macchie e che mi assumevo la responsabilità di tutto, se solo i creditori mi avessero accordato un certo qual respiro.
Così non tornai all’università, nemmeno per recuperare quello che avevo lasciato là; mi feci rimandare tutto quanto. Forse avrei potuto lasciare i debiti in sospeso fino al termine degli studi, e probabilmente, se fossi stato iscritto in una facoltà tecnica, avrei preso in considerazione una soluzione del genere che, a lungo andare, mi avrebbe permesso di guadagnare di più. Ma ero iscritto a un corso di carattere culturale, e, date le circostanze, non mi sembrava che una laurea del genere corrispondesse al valore venale di altri due anni.
La banca per la quale lavorava mio padre mi offrì un posto di impiegato avventizio, ed io accettai.
Ma il posto dietro gli sportelli non era di mio gradimento. Il lavoro di banca non mi piaceva, anche se riuscivo a sbrigarmela discretamente; continuavo a ricevere piccoli aumenti, e in capo a due anni fui trasferito in pianta stabile. Cosa ancora più importante, ero riuscito a pagare tutti i debiti. Dopo un altro anno avevo una macchina, in buone condizioni, anche se non nuova, ed un discreto conto corrente.
E in questo modo arrivavamo a tredici mesi addietro, quando nella mia vita c’è stata una brusca svolta.
Era mio amico un certo Rod Cameron, più o meno della mia età, che lavorava come cronista al Kansas City Times. Una sera, mentre bevevamo birra in camera sua, gli parlai per caso della noia inenarrabile della vita in banca.
Mi disse: «Se la banca non ti piace, perchè non ne esci mentre sei ancora in tempo? Non hai ancora trent’anni e sei libero e solo. Sei abbastanza intelligente. Che cosa ti piacerebbe fare?»
«Il cronista,» risposi. Non avevo esitazioni in proposito: lo avevo sempre invidiato per il suo lavoro, anche se tutti e due guadagnavamo più o meno lo stesso. «Ma è un sogno impossibile. I giornali non assumono come cronista chi non abbia già una pratica precedente. No, a meno che non si siano frequentati i corsi di giornalismo, cosa che non ho fatto. O a meno che tu non sia abbastanza giovane da cominciare come correttore di bozze o simili, e non assumerebbero mai come correttore di bozze un ventottenne, sia pure disposto a lavorare per lo stipendio che la qualifica comporta.»
Annuì. «Hai ragione, per ciò che riguarda i giornali di città. Ma i giornali di provincia non riescono qualche volta a trovare gente in gamba e non guardano troppo per il sottile. Naturalmente, dovresti cominciare con uno stipendio molto inferiore a quello che guadagni ora, Bob, ma se ci sai fare, non ti riuscirebbe poi molto difficile trovarti un posto decente.»
«Quanto tempo ci vorrebbe?» chiesi. Mi interessava più questo che non la diminuzione di stipendio alla quale avrei dovuto sottostare. Improvvisamente mi ero reso conto che si trattava di una cosa seria, non di un’idea campata in aria.
«Non saprei, dipende dalla tua capacità e dalla tua applicazione al lavoro. Io ho cominciato con i tuoi stessi titoli di studio: due anni di università, senza corsi di giornalismo. Mi ero iscritto ai corsi tecnici, ma mi ero accorto che non erano pane per i miei denti. E non avevo nemmeno una passione particolare per il giornalismo; ho incominciato a cercare un posto e mi è capitato di entrare in un giornale di provincia. Ma il lavoro mi piaceva e me la sono sbrigata bene; dopo meno di un anno ho trovato un posto in un quotidiano di Topeka. Due anni laggiù e sono diventato cronista, il che mi ha permesso di trasferirmi qui. La prossima tappa sarà magari New York. Ho già fatto domanda a due giornali. Naturalmente, ho cominciato prima di te, ma si tratta di cinque anni soltanto, e questi non fanno una grande differenza perchè tu, essendo più maturo, potresti far carriera molto più in fretta di me.»
«O magari potrei fare un buco nell’acqua.»
«O magari potresti fare un buco nell’acqua. Questo dipende da te. Stammi a sentire, però: parli sul serio?»
«Certo che parlo sul serio. Ma come devo fare? Procurarmi un elenco dei giornali di provincia e cominciare a scrivere centinaia di lettere?»
«Niente affatto. Pubblica un’inserzione sull’Editor and Publisher, il giornale di categoria per la stampa. Una inserzione lunga abbastanza per presentarti, senza nascondere la tua età e la tua mancanza di qualifiche. Non dimenticare però i tuoi due anni di università; i giornali di provincia non abbondano di uomini con un’educazione universitaria, sia pure ridotta a metà.»
«Andrebbe bene un testo che dicesse, più o meno: “Giovane ventottenne, due anni università, cerca modo di impratichirsi di giornalismo in piccolo quotidiano provincia”?»
«Qualcosa del genere. E aggiungi: “Disposto lavorare ragionevole periodo di tempo a stipendio minimo” o roba del genere, in modo che nessuno possa pensare che tu sia pronto a lavorare gratuitamente per imparare il mestiere.»
«Dove posso trovare una copia dell’E. and P. per l’indirizzo?»
«Ce n’è una su quel tavolo. Prendila pure, perchè a me non serve.»
La presi quando me ne andai, un’ora più tardi. Ma non mandai l’inserzione quella sera e nemmeno quella settimana; era un passo di una tale importanza, un gioco così grosso che preferii rifletterci sopra un poco. Naturalmente, la pubblicazione dell’inserzione non mi avrebbe impegnato, ma non volevo spedirla a meno che non fossi deciso a prendere in seria considerazione le proposte che mi sarebbero potute arrivare.
Il lunedì seguente Rod Cameron mi telefonò, ma non per chiedermi se avevo mandato l’inserzione. Era eccitatissimo: aveva ricevuto una offerta dal Philadelphia Bulletin - non era ancora New York, ma qualcosa di molto vicino, e si trattava di un giornale importante — con uno stipendio di trenta dollari superiore a quello che riceveva a Kansas City. Sarebbe partito alla fine della settimana.
Fu questo a decidermi. Mandai l’inserzione. E cominciai a seguire corsi serali di giornalismo, mentre aspettavo di vedere che cosa sarebbe saltato fuori. Se non avessi ricevuto risposta, avrei insistito. Di lì a poco mi spettava un periodo di ferie; ne avrei approfittato per fare un giro e per interrogare tutti i direttori di giornali delle cittadine che avrei attraversato. E intanto continuavo a studiare, per imparare i primi rudimenti del mestiere.
L’inserzione mi procurò due risposte.
Una era del direttore di un quotidiano di una cittadina del Tennessee, e le proposte non erano certo allettanti: niente stipendio e pensione gratuita a casa sua fino a quando non fosse stato in grado di rendersi conto di quanto effettivamente valevo.
L’altra appariva un poco più promettente. L’aveva scritta un certo Sidney M. Hetherton, proprietario e direttore di un settimanale di Mayville, Arizona. Mi offriva trentacinque dollari la settimana, purché mi impegnassi, come diceva l’inserzione, a lavorare a quello stipendio per un ragionevole periodo di tempo. Perchè, diceva francamente, gli sarei stato di scarso aiuto da principio. Aveva una tiratura limitata, affermava, e, dato che lui solo lavorava al giornale (il che avrebbe dovuto mettermi in sospetto) avrei avuto modo di imparare il mestiere meglio che non in una grande azienda.
Lo stipendio non era peggiore di quello che avevo immaginato per un principiante. Sapevo che con quella cifra sarei stato in grado di vivere, perchè ci avevo già vissuto mentre pagavo i debiti di mio padre. Era poco meno della metà di quello che guadagnavo come impiegato di banca, ma…
Cercai Mayville su un atlante. Popolazione, duemila e cinquecento: una cittadina un poco troppo piccola per i miei gusti. Ma non mi sarei fermato là a lungo. E quando guardai sulla cartina geografica vidi che Mayville era a un’ora di macchina da Bisbee e non molto distante da Douglas, due città abbastanza grandi dove sarei potuto andare a passare la sera se mi fossi annoiato troppo. E Tucson, una cittadina che mi piaceva molto e dove avevo passato una volta una settimana, era solo a tre ore di macchina, troppo distante per andarci per una sera ma non certo da trascurare per i miei giorni di libertà.
Mi ci volle un’ora per arrivare a una decisione, poi telegrafai a Sidney Hetherton per dirgli che accettavo la sua offerta e che mi sarei presentato di lì a dieci giorni, perchè dovevo calcolare una settimana di preavviso prima di licenziarmi dalla banca.
E dieci giorni più tardi, nelle prime ore del pomeriggio, entravo in Mayville. Prima di andare in centro mi fermai a un motel, il La Fonda Motel, per ripulirmi un poco e per cambiarmi. Poi puntai dritto sul Sun. L’ufficio, con la tipografia sul retro, era più o meno quello che avevo immaginato: né più sporco né più pulito della maggior parte degli uffici dei settimanali di provincia.
Ma Hetherton era più pulito e più ordinato della maggior parte dei direttori di giornali di provincia. Sulla cinquantina, piuttosto magro, era alto poco più di un metro e cinquanta e doveva pesare, al massimo, una cinquantina di chili. Aveva capelli brizzolati alle tempie e piuttosto radi sul cranio, ma pettinati alla perfezione. Portava occhiali bifocali cerchiati d’oro. A prima vista, non mi riuscì né simpatico né antipatico. Durante quel primo colloquio, si comportò in modo asciutto e distaccato, ma non ostile.
Mi fece fare il giro della sua azienda e mi mostrò quello che c’era da mostrarmi. Nella sala macchine mi presentò ai due tipografi. (Uno sarebbe stato più che sufficiente per il giornale, come appresi poi, ma si trattava dell’unica stamperia di Mayville, che lavorava anche per i bottegai locali.) I due tipografi erano piuttosto anziani, come erano anziane la linotype, la macchina piana e tutte le altre attrezzature.
Poi tornammo nell’ufficio, ed egli mi mostrò quella che sarebbe stata la mia scrivania e mi presentò l’unica altra impiegata, una certa signorina Howell, che sbrigava il lavoro d’ufficio, teneva la contabilità e si interessava alla pubblicità. Doveva avere più o meno la mia età, ma aveva la pelle butterata, i capelli dritti e un viso da cavallo. Con la signorina Howell — seppi più tardi che si chiamava Alicia, ma la nostra intimità non giunse mai al punto di permettermi di chiamarla per nome — come unica rappresentante del gentil sesso al Sun, potevo essere almeno sicuro di non avere distrazioni romantiche sul lavoro. E, facendo un passo avanti, ella mi riuscì sempre meno simpatica con il passare del tempo. Era bisbetica, permalosa, maligna, caratteristiche, queste, che se erano comprensibili nel suo caso, non valevano certo a renderla bene accetta.
Poi Hetherton si mise a sedere alla sua scrivania e mi indicò una poltrona. Disse: «Ecco l’azienda, signor Spitzer. Piccola, certo. Ma questo, nelle vostre circostanze, è un vantaggio. Imparerete più presto qui perchè il lavoro sarà più vario. Mi spiace di potervi offrire soltanto trentacinque dollari, ma, naturalmente, non penso nemmeno che vi fermerete per sempre a questo stipendio. Comunque, si tratta di uno stipendio equo per chi vuole imparare il mestiere, e il vostro annuncio diceva che sareste disposto a fermarvi con me per un periodo di tempo ragionevole. Che ve ne pare di due anni?»
«Due anni?» Temo che la mia voce non avesse un accento troppo convinto. Se mi avesse chiesto che cosa intendevo per un «ragionevole periodo di tempo», avrei risposto sei mesi. «Volete dire due anni senza un aumento?»
«Precisamente questo intendo dire.»
Mi alzai. «Signor Hetherton, non era a questo che pensavo quando ho compilato il testo della mia inserzione. A questo stipendio, posso impegnarmi a restare, come massimo, per un anno. Capisco ora che, invece di telegrafarvi, avrei dovuto telefonarvi e discutere con voi questo punto.»
«Forse avreste dovuto farlo,» convenne, conciliante. «A me due anni sembrano ragionevoli, date le circostanze. Non siete obbligato ad accettare, naturalmente, e a me in fondo la cosa non interessa più di tanto. C’è un ragazzo che si diplomerà fra poche settimane e che sarebbe ben contento di assicurarsi il posto a uno stipendio anche inferiore. Il posto è ancora vostro, se lo volete, ma prima dovete promettermi formalmente che vi fermerete per due anni. E dovete anche promettermi che farete del vostro meglio. La vostra promessa di rimanere qui non avrebbe significato se non mi promettete anche di non costringermi a licenziarvi per… come dire… ostruzionismo, incapacità deliberata sul lavoro.»
Mi aveva battuto sul tempo; stavo pensando che proprio quello avrei potuto fare se, di lì a sei mesi o a un anno, mi fossi sentito in grado di andarmene per accettare una offerta migliore e più remunerativa. Ma ormai anche questa via d’uscita mi veniva chiusa.
Abbassai le palpebre per riflettere un momento. Non era neppure il caso di pensare di tornare a Kansas City. Forse avrei potuto continuare, fino a esaurimento del mio capitale, interrogando i direttori di tutte le cittadine che attraversavo e sperando in un colpo di fortuna, ma ricordavo quante poche risposte aveva ricevuto la mia inserzione sull’E. and P.
Chiesi: «Quanto tempo ho per prendere una decisione? Devo rispondere subito sì o no?»
Prese dal taschino un orologio e lo guardò. «Gradirei sapere qualcosa per l’ora della chiusura, le cinque. Adesso sono le due e mezzo. Vi basta?»
«D’accordo. Per le cinque vi darò una risposta.»
Uscii in un tiepido sole pomeridiano. Mayville in maggio. È forse il mese più bello dell’anno nell’Arizona del Sud. La stagione turistica è già finita, è vero, ma in genere i turisti capitano qui per evitare il freddo e la neve nei loro Stati, e maggio è un mese bellissimo quasi dappertutto.
Mi tolsi la giacca e la buttai nella macchina, ma lasciai la macchina dov’era e mi misi a camminare. Feci il giro della città, che mi piacque malgrado il mio disappunto e la mia indecisione. Mi sembrava che Mayville fosse simpatica, onesta. Niente di pittoresco, salvo che nel quartiere di Mextown, e là il pittoresco non era voluto: i messicani costruivano a quel modo e vivevano a quel modo perchè così erano sempre stati abituati a fare. E poi, Mextown è fuori dalla statale; i turisti che fanno una breve tappa in genere non la notano nemmeno. Ma io ci capitai per caso, e mi piacque.
Mi fermai in una cantina e ordinai una tequila, poi, accorgendomi che c’erano solo altri due clienti nel locale, aggiunsi por la casa. Il che, secondo i miei vaghi ricordi scolastici di spagnolo, è la traduzione letterale di «per la casa». Probabilmente l’equivalente spagnolo è diverso, ma il barista afferrò l’idea. E mi diede il resto del dollaro che avevo lasciato cadere sul banco. Naturalmente, risultò che tanto i due clienti quanto il proprietario parlavano inglese, e non potei cavarmela fino a quando ognuno di loro non mi ebbe ricambiato la cortesia.
Quattro tequila mi avevano messo in uno stato d’animo propizio, e Mayville mi sembrava ora ancora più bella. Tornai indietro e mi ritrovai sul corso, a mezzo isolato dagli uffici del giornale. Erano le quattro e non avevo ancora preso decisione alcuna.
Mi trovavo di fronte a un bar che recava l’insegna: BAR SINISTRO. Non cercai neppure di resistere. Volevo conoscere chi aveva avuto il fegato di dare un nome del genere al proprio locale. Entrai.
Fu così che conobbi Cass Phillips. Per caso non c’erano altri clienti, e Cass ed io cominciammo a parlare; pochi minuti più tardi ci chiamavamo già per nome. A Cass piaceva parlare; chiacchierammo del più e del meno, ma non gli confidai il mio problema e non gli piansi sulla spalla, come sentivo la tentazione di fare.
Era grande e grosso, Cass. Un metro e novanta circa, due spalle gigantesche, un petto che sembrava un armadio. Fitti capelli grigi che forse erano incanutiti prematuramente, perchè per il resto non gli si davano certo più di quarant’anni. E, come venni a sapere poi, era sorprendentemente cosmopolita e intelligente per essere il proprietario di un bar — sia pure un bar sinistro - in una cittadina come Mayville. Aveva fatto il cameriere-cantante a Chicago, aveva fatto il croupier a Las Vegas, era stato… bene, non ricordo più tutte le sue svariate professioni.
Mentre chiacchieravamo — in quel momento ero io a parlare, ma non rammento che cosa stavo dicendo — ci capitò di guardare tutti e due contemporaneamente fuori dalla vetrina mentre passava una ragazza. Forse non era la più bella ragazza del mondo, ma certo non scherzava. Camminava con l’eleganza di una indossatrice, ma senza la prosopopea di una indossatrice. I capelli nerissimi, pettinati alla paggio, le ricadevano sulle spalle e ondeggiavano a ogni passo. Accidenti, non sono capace di descriverla, non sono mai stato capace di descrivere le donne, sia pure le più comuni.
Notando con la coda dell’occhio che anche Cass l’aveva vista, chiesi: «Chi è quella?»
«Doris Jones. Lavora al centralino telefonico.» Sorrise. «No, non è sposata. E nemmeno fidanzata, che io sappia.»
«Ci sono molti tipi del genere qui da voi?»
«Quante ne volete?» mi chiese.
Non risposi. Diedi invece un’occhiata all’orologio e vidi che erano le quattro e mezzo. Avevo fatto durare un bicchiere mezz’ora e mi restava il tempo per un secondo. Dissi: «Un bis, Cass. Un altro bicchiere, voglio dire, non…» e indicai con un cenno del capo la vetrina. E, dato che ormai eravamo diventati quasi amici, aggiunsi: «E uno anche per voi.»
«Grazie, adesso no,» replicò. Poi, per scusarsi: «Di norma bevo qualcosa quando è quasi l’ora di chiusura, ma mai così presto.» Prima che prendessi il bicchiere, pescò di tasca un nichelino e me lo fece scivolare attraverso il banco. «Mettetelo nel juke box. Numero dodici, magari, a meno che non ci sia qualcosa che preferite.»
Odio i juke box, ma non potevo mostrarmi scortese, dato soprattutto che il nichel era suo. Mi lasciai scivolare giù dallo sgabello e andai accanto al grammofono automatico. Il numero dodici era «Torna a Sorrento», il che era già qualcosa, perchè non si trattava almeno di un rock and roll o di una canzone della prateria. Infilai la moneta e premetti il pulsante. Mentre il meccanismo entrava in azione, guardai gli altri titoli. E rimasi sorpreso, quasi sbalordito. Era tutta roba buona, classici o semiclassici della musica leggera. Alcuni erano notissimi, come Night and Day e Stardust. In genere, erano per sola orchestra, come Torna a Sorrento.
E quando la musica attaccò ebbi una seconda sorpresa: niente di assordante, ma una musica in sordina che ricordava molto da vicino quella dell’alta fedeltà. E la terza sorpresa la ebbi quando, terminata l’introduzione, echeggiò una voce. Ma non veniva dal juke box: si levava dietro le mie spalle.
«Guarda il mare quanto è bello!
Spira tanto sentimento,
Come il tuo soave accento…»
E che voce! Un baritono poderoso, dolce e splendido come la melodia che stava cantando. Una voce naturale, come era stata quella di Caruso.
Non era, come capii più tardi, quella voce meravigliosa che mi era sembrata al primo momento; in una sala da concerto, quasi non si sarebbe sentita. Ma in un locale delle dimensioni del Bar Sinistro… mio Dio! Mi misi a sedere davanti al bicchiere che mi aspettava e ascoltai con reverenza. Non bevvi neppure un sorso fino a quando non ebbe terminato e il juke box si fermò con uno scatto.
«Bellissimo!» esclamai. «Lo fate spesso?»
«Ogni volta che qualcuno desidera sentirmi. Mi piace cantare.»
Spinsi una moneta verso di lui perchè me la cambiasse. «Datemi qualche nichel allora, accidenti.»
«Ah, Marì! Ah, Marì!
Quanto suonno aggio perso pe’ te…»
E poi:
«Ah! Ay! EL CHOCLO cumpliste, fiel, fielmente…»
«Mio Dio!» esclamai. «Ma quante lingue sapete, Cass?»
Rise. «Tre soltanto, italiano, francese e spagnolo, e non troppo bene. Quanto basta per sbrogliarmela e per cantare. Oh, e un poco di tedesco, per cantare lieder, ma sembra che la mia pronuncia sia spaventosa.»
Abbassai gli occhi sul bicchiere ed era vuoto. Ma era entrato un altro cliente e Cass si era spostato per servirlo. Guardai l’orologio e vidi che erano le cinque meno dieci. Avevo pochi minuti, pochi minuti soltanto per decidermi.
Volevo restare a Mayville. Non era soltanto l’effetto de! whisky dopo tre tequila. Non era soltanto la tiepida bellezza di un pomeriggio nell’Arizona. Non era soltanto la ragazza che era passata e che, a detta di Cass, si chiamava Doris Jones e non aveva legami affettivi o altro. Non erano soltanto il Bar Sinistro e Cass e la voce di Cass. Non era soltanto l’atmosfera dominante, il fatto che la cittadina (Hetherton escluso) mi era sembrata accogliente ed amichevole. Non era soltanto l’offerta di lavoro che avevo ricevuto, per poco allettante che potesse sembrare. Erano tutte queste cose assieme. Volevo rimanere lì, se appena mi fosse stato possibile.
E potevo rimanere, se solo lo volevo. Sarei riuscito a vivere con trentacinque dollari la settimana; avevo già in programma di mantenermi con quella cifra per sei mesi, più o meno. Avrei dovuto trovare una stanza non troppo cara, mangiare in locali economici. I vestiti non mi davano pensiero; avevo un guardaroba abbastanza ben fornito. La mia macchina era in buone condizioni e sarebbe durata per altri due anni con qualche piccola riparazione occasionale; le gomme erano quasi nuove. E avevo da parte circa un migliaio di dollari, ai quali avrei potuto attingere in caso di emergenza… o di appuntamenti con Doris Jones. Al termine di due anni sarei stato al verde, ma certo avrei acquistato una più che discreta esperienza, avrei trovato abbastanza facilmente un lavoro più redditizio in un giornale più importante, avrei cominciato la mia vera carriera.
Uscii dal bar di Cass e raggiunsi gli uffici del Sun. Andai a fermarmi davanti alla scrivania di Hetherton. Dissi: «Accetto il posto. E prometto di far del mio meglio per due anni.»
Annuì freddamente. «Presentatevi qui domani mattina alle otto, Spitzer.»