«Parli col dottori, dottori, per tilifono» sentì che Catarella diceva.
«Montalbano? Siccome passavo da qua al ritorno dal crasticeddru...».
«Ma dove sei?».
«Come dove sono? Nella stanza accanto alla tua».
Montalbano santiò, si poteva essere più imbecilli di Catarella?
«Vieni da me».
La porta si raprì, trasì Jacomuzzi, allordato di sabbia rossa e di pruvulazzo, spettinato e in disordine.
«Perché il tuo agente voleva farmi parlare con te solo per telefono?».
«Jacomù, chi è più stronzo, carnevale o chi ci va appresso? Non lo sai com’è fatto Catarella? Gli davi un calcio in culo ed entravi».
«Ho finito l’esame della grotta. Ho fatto setacciare la rena: guarda, manco i cercatori d’oro delle pellicole americane. Non abbiamo trovato niente di niente. E questo sta a significare una cosa sola, dato che Pasquano m’ha fatto sapere che le ferite avevano un foro d’entrata e uno d’uscita».
«Che i due sono stati sparati in un altro posto».
«Giusto. Se fossero stati ammazzati nella grotta avremmo dovuto trovare le pallottole. Ah, una cosa strana. La rena della grotta era frammista a gusci di chiocciole frantumate minutissimamente, devono essercene state a migliaia lì dentro».
«Gesù!» mormorò Montalbano. Il sogno, l’incubo, il corpo nudo di Livia sul quale scivolavano i vavaluci. Che senso aveva? Portò una mano alla fronte, si trovò in un bagno di sudore.
«Stai male?» spiò preoccupato Jacomuzzi.
«Niente, un giramento di testa, mi sento solo stanco».
«Chiama Catarella e fatti portare un cordiale dal bar».
«Catarella? Vuoi babbiare? Quello una volta che gli ho detto di portarmi un espresso, se n’è tornato con un francobollo».
Jacomuzzi posò sul tavolo tre monete.
«Sono di quelle ch’erano nella ciotola, le altre le ho mandate in laboratorio. Non ti serviranno a niente, tienile come ricordo».