Da quando l’aveva conosciuta, nel corso d’una indagine nella quale Ingrid, del tutto innocente, gli era stata offerta, attraverso false piste, come capro espiatorio, fra il commissario e quella splendida donna era nata una curiosa amicizia. Di tanto in tanto Ingrid si faceva viva con una telefonata e passavano una serata a chiacchierare. A Montalbano la giovane rimetteva le sue confidenze, i suoi problemi, e lui fraternamente e saggiamente la consigliava: era una sorta di padre spirituale - ruolo che aveva dovuto imporsi a forza, Ingrid suscitando pensieri non precisamente spirituali - del quale la donna accuratamente disattendeva i consigli. In tutti gli appuntamenti avuti, sei o sette, mai che Montalbano fosse arrivato in anticipo su di lei, Ingrid aveva un culto addirittura maniacale per la puntualità.
Magari questa volta, fermata l’auto al posteggio del bar di Marinella, vide che già c’era la macchina della donna, accanto a una Porsche cabriolet, una sorta di bolide, pittata di un giallo offensivo per il gusto e per la vista.
Quando entrò nel bar, Ingrid era in piedi al bancone, stava bevendo un whisky e allato a lei, che confidenzialmente le parlava, un quarantenne vestito di giallo canarino, elegantissimo, Rolex e codino.
«Quando deve cangiarsi d’abito, cangerà magari macchina?» si spiò il commissario.
Appena lo vide, Ingrid gli corse incontro, l’abbracciò, lo baciò leggermente sulle labbra, era chiaramente contenta d’incontrarlo. Magari Montalbano era contento: Ingrid era una vera grazia di Dio, coi jeans pittati sulle gambe lunghissime, i sandali, la camicetta celeste trasparente che lasciava intravedere la forma del seno, i capelli biondi sciolti sulle spalle.
«Scusami» disse al canarino ch’era con lei. «Ci vediamo presto».
Andarono ad assittarsi a un tavolo, Montalbano non volle bere niente, l’uomo col Rolex e codino andò a finire il suo whisky sulla terrazza a mare. Si taliàrono sorridenti.
«Ti trovo bene» fece Ingrid. «Oggi invece in televisione mi eri parso sofferente».
«Già» disse il commissario e sviò il discorso. «Anche tu stai bene».
«Volevi vedermi per scambiarci complimenti?».
«Ti devo chiedere un favore».
«Sono qua».
Dalla terrazza, l’uomo col codino occhieggiava verso di loro.
«Chi è quello?».
«Uno che conosco. Ci siamo incrociati per strada mentre venivo qua, m’ha seguita, m’ha offerto da bere».
«In che senso dici di conoscerlo?».
Ingrid diventò seria, una ruga le increspò la fronte.
«Sei geloso?».
«No, lo sai benissimo e d’altra parte non c’è motivo. È che appena l’ho visto m’è stato sullo stomaco. Come si chiama?».
«Ma dai, Salvo, che te ne frega?».
«Dimmi come si chiama».
«Beppe... Beppe De Vito».
«E che fa per guadagnarsi il Rolex, la Porsche e tutto il resto?».
«Commercia in pellami».
«Ci sei stata a letto?».
«Sì, l’anno scorso mi pare. E mi stava proponendo di fare il bis. Però io di quell’unico incontro non ho un ricordo piacevole».
«Un degenerato?».
Ingrid lo taliò per un attimo, poi scoppiò in una risata che fece sobbalzare il barista.
«Che c’è da ridere?».
«Per la faccia che hai fatto, di bravo poliziotto scandalizzato. No, Salvo, al contrario. È privo totalmente di fantasia. Il ricordo che ho di lui è di un’asfissiante inutilità».
Montalbano fece ’nzinga all’uomo col codino d’avvicinarsi al loro tavolo e mentre quello avanzava sorridente, Ingrid taliò il commissario con aria preoccupata.
«Buonasera. Io la conosco, sa? Lei è il commissario Montalbano».
«Temo, purtroppo per lei, che dovrà conoscermi meglio».
L’altro s’imparpagliò, il whisky tremolò nel bicchiere, i cubetti di ghiaccio fecero tin tin.
«Perché ha detto purtroppo?».
«Lei si chiama Giuseppe De Vito e commercia in pellami?».
«Sì... ma non capisco».
«Capirà a tempo debito. Uno di questi giorni sarà convocato dalla questura di Montelusa. Ci sarò anch’io. Avremo modo di parlare a lungo».
L’uomo col codino, di subito diventato giarno di faccia, posò il bicchiere sul tavolino, non ce la faceva a tenerlo fermo in mano.
«Non potrebbe cortesemente anticiparmi... spiegarmi...».
Montalbano fece la faccia di uno che viene travolto da un incontenibile slancio di generosità.
«Guardi, solo perché lei è amico della signora qui presente. Lei conosce un tedesco, un certo Kurt Suckert?».
«Glielo giuro: mai sentito» fece l’altro cavando dalla sacchetta un fazzoletto color canarino e asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Se lei mi risponde così, allora non ho altro da aggiungere» fece gelido il commissario. Lo squatrò, gli fece ’nzinga di farsi più vicino.
«Le do un consiglio: non faccia il furbo. Buonasera».
«Buonasera» rispose meccanicamente De Vito e, senza manco rivolgere una taliàta a Ingrid, se ne niscì di corsa.
«Tu sei uno stronzo» disse calma Ingrid «e anche una carogna».
«Sì, è vero, ogni tanto mi piglia e addivento accussì».
«Questo Suckert esiste davvero?».
«È esistito. Ma lui si faceva chiamare Malaparte. Era uno scrittore».
Sentirono il rombo della Porsche, la sgommata.
«Ora ti sei sfogato?» domandò Ingrid.
«Abbastanza».
«L’ho capito appena sei entrato, sai, ch’eri di cattivo umore. Che t’è successo, puoi dirmelo?».
«Potrei, ma non ne vale la pena. Rogne di lavoro».
Montalbano aveva suggerito a Ingrid di lasciare la sua macchina al posteggio del bar, sarebbero ripassati dopo a prenderla. Ingrid non gli aveva domandato né dove erano diretti né cosa andavano a fare. A un tratto Montalbano le spiò:
«Come va con tuo suocero?».
La voce d’Ingrid si fece allegra.
«Bene! Avrei dovuto dirtelo prima, scusami. Con mio suocero va bene. Da due mesi mi lascia in pace, non mi cerca più».
«Cos’è successo?».
«Non lo so, lui non me l’ha detto. L’ultima volta è stata al ritorno da Fela, eravamo andati a un matrimonio, mio marito non è potuto venire, mia suocera non si sentiva bene. Insomma, eravamo noi due soli. A un certo punto ha imboccato una strada secondaria, è andato avanti per qualche chilometro, s’è fermato in mezzo a degli alberi, m’ha fatto scendere, m’ha spogliata, m’ha gettata a terra e m’ha scopata con la solita violenza. Il giorno dopo sono partita per Palermo con mio marito, quando sono tornata, dopo una settimana, mio suocero era come invecchiato, tremante. Da allora quasi mi evita. Perciò ora posso trovarmi faccia a faccia con lui in un corridoio di casa senza timore d’essere sbattuta contro un muro con le sue due mani una sulle tette e l’altra sulla fica».
«Meglio così, no?».
La storia che Ingrid gli aveva appena contata, Montalbano la conosceva meglio di lei. Il commissario aveva saputo della facenna fra Ingrid e suo suocero fin dal primo incontro con la donna. Poi una notte, mentre discorrevano, improvvisamente Ingrid era scoppiata in un pianto convulso, non reggeva più la situazione con il padre di suo marito: lei, che era una donna assolutamente libera, si sentiva come sporcata, immiserita da quel quasi incesto che le veniva imposto, meditava d’abbandonare il marito e tornarsene in Svezia, il pane avrebbe trovato modo di guadagnarselo, era un ottimo meccanico.
Era stato allora che Montalbano aveva pigliato la risoluzione d’aiutarla, di cavarla fuori dall’impiccio. Il giorno appresso invitò a pranzo Anna Ferrara, l’ispettrice di polizia che lo amava e che era convinta che Ingrid fosse la sua amante.
«Sono disperato» esordì sistemandosi una faccia da grande attore tragico.
«Oh Dio, che succede?» disse Anna stringendogli una mano tra le sue.
«Succede che Ingrid mi tradisce».
Calò la testa sul petto, miracolosamente riuscì a farsi inumidire gli occhi.
Anna soffocò un’esclamazione di trionfo. Aveva sempre visto giusto, lei! Intanto il commissario nascondeva il volto tra le mani e la ragazza si sentì sconvolgere davanti a quella manifestazione di disperazione.
«Sai, non te l’ho mai voluto dire per non addolorarti. Ma ho fatto qualche indagine su Ingrid. Tu non sei il solo uomo».
«Ma questo lo sapevo!» fece il commissario sempre con le mani sulla faccia.
«E allora?».
«Questa volta è diverso! Non è un’avventura come le tante, che io posso magari perdonare! Si è innamorata ed è ricambiata!».
«Lo sai di chi è innamorata?».
«Sì, di suo suocero».
«Oh Gesù!» fece Anna sobbalzando. «Te l’ha detto lei?».
«No. L’ho capito io. Lei, anzi, nega. Nega tutto. Ma io ho bisogno di una prova che sia sicura, da sbattergliela in faccia. Mi capisci?».
Anna si era offerta di fornirgliela quella prova sicura. E tanto aveva fatto che con una macchina fotografica era riuscita a fissare le immagini della scena agreste nel boschetto. Le aveva fatte ingrandire da una sua amica fidata della Scientifica e le aveva consegnate al commissario. Il suocero di Ingrid, oltre ad essere il primario dell’ospedale di Montelusa, era magari un uomo politico di primo piano: alla sede provinciale del partito, all’ospedale e a casa Montalbano gli aveva spedito una prima, eloquente documentazione. Dietro ad ognuna delle tre foto c’era scritto soltanto: ti abbiamo in pugno. La raffica l’aveva evidentemente scantato a morte, in un attimo aveva visto in pericolo carriera e famiglia. Per ogni evenienza, il commissario di foto ne aveva un’altra ventina. A Ingrid non aveva detto niente, quella era capace d’attaccare turilla perché la sua svedese privacy era stata violata. Montalbano accelerò, era soddisfatto, ora sapeva che la complessa strumentiazione che aveva messo in atto aveva raggiunto lo scopo prefisso.
«La macchina portala dentro tu» disse Montalbano scendendo e principiando ad armeggiare con la saracinesca del garage della polizia. Quando l’auto fu entrata, accese le luci e abbassò nuovamente la saracinesca.
«Che devo fare?» spiò Ingrid.
«Li vedi i rottami di quella Cinquecento? Voglio sapere se i freni sono stati manomessi».
«Non so se riuscirò a capirlo».
«Provaci».
«Addio camicetta».
«Ah no, fermati. Ho portato qualcosa».
Dai sedili posteriori della sua auto pigliò un sacchetto di plastica, ne tirò fuori una camicia e un paio di jeans suoi.
«Mettiti questi».
Mentre Ingrid si cambiava, andò in cerca di una lampada portatile, quelle da officina, la trovò sul bancone, inserì la spina. Senza dire niente Ingrid pigliò la lampada, una chiave inglese, un cacciavite e strusciò sotto il telaio distorto della Cinquecento. Le bastarono una decina di minuti. Uscì da sotto la macchina sporca di polvere e di grasso.
«Sono stata fortunata. La cordicella dei freni è stata in parte troncata, ne sono sicura».
«Che vuol dire in parte?».
«Vuol dire che non è stata tagliata tutta, hanno lasciato quel tanto che bastava per non mandarlo a sbattere subito. Ma alla prima forte trazione la cordicella si sarebbe sicuramente spezzata».
«Sei certa che non si sia rotta da sola? Era una macchina vecchia».
«Il taglio è troppo netto. Non c’è sfilacciamento, o almeno c’è solo in minima parte».
«Ora stammi bene a sentire» disse Montalbano. «L’uomo che era al volante è partito da Vigàta per Montelusa, è stato un pezzo fermo lì, poi ha fatto ritorno a Vigàta. L’incidente è successo nella discesa ripida che c’è per entrare in paese, la discesa della Catena. È andato a fottersi contro un camion, restandoci. Chiaro?».
«Chiaro».
«Allora io ti domando: questo bel lavoretto, secondo te, glielo hanno fatto a Vigàta o a Montelusa?».
«A Montelusa» disse Ingrid. «Se glielo avessero fatto a Vigàta sarebbe andato a sbattere assai prima, sicuramente. Vuoi sapere altro?».
«No. Grazie».
Ingrid non si cambiò, non si lavò nemmeno le mani.
«Lo faccio a casa tua».
Al posteggio del bar Ingrid scese, pigliò la sua macchina, seguì quella del commissario. Non era ancora mezzanotte, la serata era tiepida.
«Vuoi farti una doccia?».
«No, preferisco fare un bagno a mare, semmai dopo».
Si levò gli abiti allordati di Montalbano, si sfilò le mutandine: e il commissario dovette fare un qualche sforzo nel contemporaneo rivestirsi dei sofferti panni del consigliere spirituale.
«Dai spogliati, vieni anche tu».
«No. Mi piace starti a taliàre dalla veranda».
La luna piena faceva magari troppa luce. Montalbano restò sulla sdraia a godersi la sagoma d’Ingrid che arrivava a ripa di mare e dintra l’acqua fridda principiava una sua danza di saltelli a braccia allargate. La vide tuffarsi, seguì per un tratto il puntolino nero ch’era la sua testa e poi, di botto, s’addrummiscì.
Si svegliò che già faceva la prima luce. Si susì, tanticchia infreddolito, si preparò il caffè, ne bevve tre tazze di seguito. Prima d’andare via, Ingrid aveva puliziato la casa, non c’era traccia del suo passaggio. Ingrid valeva oro a peso: aveva fatto quello che lui le aveva chiesto e non gli aveva domandato nessuna spiegazione. Dal punto di vista della curiosità, fìmmina certamente non era. Ma solo da quello. Sentendo una punta d’appetito, raprì il frigorifero: le milinciane alla parmigiana che a mezzogiorno non aveva mangiate non c’erano più, se l’era fatte fuori Ingrid. Dovette contentarsi di un pezzo di pane e di un formaggino, meglio addubbare così che niente. Si fece la doccia e indossò gli stessi vestiti che aveva prestato a Ingrid, sottilmente ancora odoravano di lei.
Com’era d’abitudine, arrivò al commissariato con una decina di minuti di ritardo: i suoi uomini erano pronti, con una macchina di servizio e la Jeep prestata dalla ditta Vinti piena di pale, zappuna, picuna, vanghe, parevano braccianti che si andavano a guadagnare la iurnata, travagliando la terra.
La montagna del Crasto, che da parte sua montagna non si era mai sognata d’essere, era una collina piuttosto spelacchiata, sorgeva a ovest di Vigàta e distava dal mare manco cinquecento metri. Era stata accuratamente bucata da una galleria, ora chiusa con assi di legno, che doveva essere parte integrante di una strada che partiva dal nulla per portare al nulla, utilissima per la fabbricazione di tangenti non geometriche. Si chiamava infatti la tangenziale. Una leggenda contava che dintra le viscere della montagna c’era nascosto un crasto, un ariete, tutto d’oro massiccio: gli scavatori della galleria non l’avevano trovato, quelli che avevano bandito l’appalto invece sì. Attaccato alla montagna c’era, dalla parte che non taliava il mare, una specie di fortilizio roccioso, detto «u crasticeddru»: lì le ruspe e i camion non erano arrivati, la zona aveva una sua bellezza selvaggia. Fu proprio verso il crasticeddru che le due auto si diressero dopo aver percorso strade impervie per non dare nell’occhio. Era difficile proseguire senza una trazzera, un sentiero, ma il commissario volle che le macchine arrivassero proprio fino alla base dello sperone di roccia. Montalbano ordinò a tutti di scendere.
L’aria era frisca, la matinata sirena.
«Che dobbiamo fare?» spiò Fazio.
«Taliate tutti u crasticeddru. Attentamente. Girateci torno torno. Datevi da fare. Da qualche parte deve esserci l’entrata d’una grotta. L’avranno ammucciata, mimetizzata con pietre o frasche. Occhio. Dovete scoprirla. Vi assicuro che c’è».
Si sparpagliarono.
Due ore dopo, scoraggiati, si ritrovarono vicino alle macchine. Il sole batteva, erano sudati, il previdente Fazio aveva portato dei thermos di caffè e tè.
«Riproviamo» disse Montalbano. «Ma non guardate solo verso la roccia, taliate magari per terra, capace che c’è qualcosa che non quatra».
Ricominciarono a cercare e dopo una mezzorata Montalbano sentì la voce lontana di Galluzzo.
«Commissario! Commissario! Venga qua!».
Il commissario raggiunse l’agente che per la ricerca si era assegnato a quel lato dello sperone più vicino alla provinciale per Fela.
«Guardi».
Avevano tentato di far sparire le tracce, ma in un certo punto erano evidenti le impronte lasciate sul terreno da un grosso camion.
«Vanno da quella parte» disse Galluzzo e indicò la roccia.
Mentre diceva quelle parole, si fermò, a bocca aperta.
«Cristo di Dio!» disse Montalbano.
Come avevano fatto a non addunarìsinni prima? C’era un grosso masso situato in una posizione strana, da dietro sbucavano stocchi d’erba inaridita. Mentre Galluzzo chiamava i suoi compagni, il commissario corse verso il masso, afferrò una troffa d’erbaspada, la tirò con forza. A momenti cadde all’indietro: il cespuglio non aveva radici, era stato infilato lì, assieme a mazzi di saggina, per mimetizzare l’entrata della grotta.