Con Adelina capace che stavano una stagionata intera senza vedersi. Montalbano ogni settimana lasciava sul tavolo di cucina i soldi per la spisa, ogni trenta giorni la mesata. Però fra di loro si era stabilito uno spontaneo sistema di comunicazione, quando Adelina voleva più denaro per la spisa, gli faceva trovare sul tavolino il caruso, il salvadanaro di creta che lui aveva accattato a una fiera e che teneva per billizza; quando era necessario un rifornimento di calzini o di mutande, gliene metteva un paio sul letto. Naturalmente il sistema non funzionava a senso unico., magari Montalbano le diceva cose coi mezzi più strani che però l’altra capiva. Da qualche tempo il commissario s’era addunato che Adelina, se lui era teso, turbato, nirbùso. in qualche modo l’intuiva da come lui al matino lasciava la casa e allora gli faceva trovare piatti speciali che gli risollevavano il morale. Quel giorno Adelina era entrata in azione, sicché Montalbano trovò pronto in frigo il sugo di seppie, stretto e nero, come piaceva a lui. C’era o no un sospetto d’origano? L’odorò a lungo, prima di metterlo a scaldare, ma magari questa volta l’indagine non ebbe esito. Finito di mangiare, si mise il costume da bagno con l’intenzione di farsi una breve passiata a ripa di mare. Dopo avere solo tanticchia camminato si sentì stanco, gli dolevano i polpacci.
«Fùttiri addritta e caminari na rina / portanu l’omu a la ruvina».
Una sola volta aveva fottuto stando in piedi e dopo non si era sentito così distrutto come affermava il proverbio, mentre era vero che sulla sabbia, anche quella dura più vicina al mare, ci si stancava a camminare. Taliò il ralogio e si meravigliò: ca quale tanticchia! Aveva passeggiato per due ore! Crollò seduto.
«Commissario! Commissario!».
La voce veniva da lontano. Si susì affaticoso, taliò il mare, persuaso che qualcuno stesse chiamandolo da una barca o da un gommone. Il mare era invece vacante fino al filo d’orizzonte.
«Commissario, sono qua! Commissario!».
Si voltò. Era Tortorella che si sbracciava dalla provinciale che correva per un lungo tratto allato alla spiaggia.
Mentre si lavava e si vestiva di prescia, Tortorella gli disse che al commissariato avevano ricevuto una telefonata anonima.
«Chi la pigliò?» spiò Montalbano.
Se l’aveva pigliata Catarella chissà quali minchiate aveva capito e riferito.
«Nonsi» disse sorridendo Tortorella che aveva inteso il pinsèro del suo capo. «Lui era andato un momento al cesso e al centralino lo sostituivo io. La voce aveva un accento palermitano, metteva la i al posto della r, ma capace che lo faceva apposta. Ha detto che nella mannara c’era la carogna di un cornuto, dintra una machina verde».
«Chi c’è andato?».
«Fazio e Galluzzo, io sono venuto di corsa a cercare lei. Non so se feci bene, forsi la telefonata è uno sgherzo, una babbiata».
«Ma quanto ci piace babbiare a noi siciliani!».
Arrivò alla mannara alle cinque, ora che Gegè chiamava «cangiu di la guardia», il cambio della guardia consistendo nel fatto che le coppie non mercenarie e cioè amanti, adùlteri, ziti, se ne andavano dal posto, smontavano («in tutti i sensi» pensò Montalbano) per lasciare largo al gregge di Gegè, buttane bionde dell’est, travestiti bulgari, nigeriane come l’ebano, viados brasiliani, marchettari marocchini e via processionando, una vera e propria Onu della minchia, del culo e della fica. La macchina verde c’era, col portabagagli aperto, circondata da tre auto dei carabinieri. Quella di Fazio stava un poco discosta. Scese e Galluzzo gli si fece incontro.
«Tardu arrivammu».
Con quelli dell’Arma c’era un’intesa non scritta. Chi arrivava per primo sul loco di un delitto, gridava «tana!» e si pigliava il caso. Questo evitava interferenze, polemiche, colpi di gomito e facce lunghe. Magari Fazio era infuscato:
«Prima loro arrivarono».
«Ma che vi piglia? Che avete perso? Non siamo pagati a un tanto il morto, non travagliamo a cottimo».
Coincidenza curiosa, la macchina verde stava addossata allo stesso cespuglio presso il quale, un anno avanti, era stato trovato un cadavere eccellente, un caso che aveva intrigato assai Montalbano. Col tenente dell’Arma, ch’era di Bergamo e di nome faceva Donizetti, si diedero la mano.
«Siamo stati informati da una telefonata anonima» fece il tenente.
Quandi volevano essere più che sicuri che il cadavere venisse ritrovato. Il commissario osservò il morto rannicchiato nel portabagagli, pareva fosse stato sparato una sola volta, il proiettile gli era entrato dalla bocca, spaccandogli labbra e denti, ed era nisciùto dalla nuca, facendogli un pirtùso grande quanto un pugno. Non gli era di faccia cògnita.
«Mi dicono che lei conosce il tenutario di questo bordello all’aperto» s’informò con un certo disprezzo il tenente.
«Sì, è mio amico» disse Montalbano con chiara intenzione polemica.
«Sa dove posso trovarlo?».
«A casa sua, credo».
«Non c’è».
«Scusi, ma perché lo vuole sapere da me dove si trova?».
«Perché lei, l’ha detto lei stesso, è suo amico».
«Ah, sì? Il che significa che lei è in grado di sapere, in questo preciso momento, dove sono e cosa stanno facendo i suoi amici bergamaschi».
Dalla provinciale arrivavano continuamente automobili, imboccavano i vialetti della mannara, vedevano lo scarmazzo delle auto dei carabinieri, innestavano la retromarcia e rapidamente guadagnavano la strada dalla quale erano venute. Le buttane dell’est, i viados brasiliani, le nigeriane e compagnia bella arrivavano sul posto di lavoro, sentivano feto di bruciato e se ne scappavano. Quella sarebbe stata una serata assai tinta, per gli affari di Gegè.
Il tenente se ne tornò nei pressi dell’auto verde, Montalbano gli girò le spalle e senza salutarlo montò in macchina. Disse a Fazio:
«Tu e Galluzzo restate qua. Vedete che cosa fanno e cosa scoprono. Io vado in ufficio».
Fermò davanti alla cartolibreria di Sarcuto, l’unica che a Vigàta tenesse fede all’insegna, le altre due non vendevano libri ma zainetti, quaderni, penne. Si era ricordato che aveva finito il romanzo di Montalbàn e non aveva altro da leggere.
«C’è un nuovo libro su Falcone e Borsellino!» gli annunziò la signora Sarcuto appena lo vide tràsiri.
Non aveva ancora capito che Montalbano detestava leggere libri che parlavano di mafia, di assassinii e vittime della mafia. Non riusciva a capire perché, non si capacitava, ma non li accattava, non leggeva manco i risvolti di copertina. Comprò un libro di Consolo, che aveva vinto tempo addietro un importante premio letterario. Fatti pochi passi sul marciapiede, il volume gli scivolò da sotto l’ascella, cadde a terra. Montalbano si chinò a raccoglierlo, salì in auto.
In ufficio Catarella gli disse che non c’erano novità. Montalbano aveva la fissazione di mettere subito la firma su ogni libro che comprava. Fece per pigliare una delle biro che teneva sulla scrivania e l’occhio gli cadde sulle monete che Jacomuzzi gli aveva lasciato. La prima, di rame, del 1934, da una parte aveva il profilo del re e la scritta «Vittorio Emanuele III Re d’Italia», dall’altra una spiga di grano con la scritta «C. 5», centesimi cinque; la seconda era pure di rame, tanticchia più grande, da un lato la solita faccia del re con la stessa scritta, dall’altro c’era un’ape posata su un fiore con la lettera «C» e il numero «10», centesimi dieci, del 1936; la terza era di metallo ma di lega leggera, da un lato l’immancabile faccia del re con la scritta, dall’altro un’aquila ad ali spiegate dietro la quale s’intravedeva un fascio littorio. Su questo secondo lato le scritte erano quattro: «L. 1» che significava lire una, «Italia» che significava Italia, «1942» che era l’anno di coniazione e «xx» che stava a dire anno ventesimo dell’era fascista. E fu mentre stava a taliare quest’ultima moneta che Montalbano s’arricordò di quello che aveva visto mentre si calava a raccogliere il libro cadutogli davanti alla cartolibreria. Aveva visto la vetrina del negozio allato, una vetrina nella quale erano esposte monete antiche.
Si susì, avvertì Catarella che s’allontanava e che sarebbe tornato al massimo entro mezz’ora, a piedi si diresse verso il negozio. Si chiamava «Cose» e cose esponeva: rose del deserto, francobolli, candelieri, anelli, spille, monete, pietre dure. Trasì e una picciotta pulita e carina lo ricevette con un sorriso. Spiaciuto di deluderla, il commissario le spiegò che era venuto per non accattare niente, ma siccome aveva visto esposte in vetrina delle monete antiche, voleva sapere se nel negozio, o a Vigàta, ci fosse qualcuno che s’intendeva di numismatica.
«Certo che c’è» disse la picciotta continuando a sorridere, era una delizia. «C’è mio nonno».
«Dove lo posso disturbare?».
«Non lo disturberà per niente, anzi sarà contento. E nella càmmara di dentro, aspetti che glielo dico».
Non ebbe manco il tempo di taliare una pistola senza cane di fine dell’Ottocento che la picciotta riapparve.
«Può accomodarsi».
Il retrobottega era un meraviglioso cafarnao di grammofoni a tromba, macchine da cucire preistoriche, presse da ufficio, quadri, incisioni, vasi da notte, pipe. La camera era tutta una libreria sulla quale stavano alla rinfusa incunaboli, tomi rilegati in cartapecora, paralumi, ombrelli, gibus. In centro c’era una scrivania, un vecchio era seduto dietro di essa, una lampada liberty gli faceva luce. Teneva con una pinzetta un francobollo e l’esaminava con una lente d’ingrandimento.
«Che c’è?» spiò sgarbato senza manco isare gli occhi.
Montalbano gli mise davanti le tre monete. Il vecchio distolse un attimo lo sguardo dal francobollo, le taliò distrattamente.
«Valgono zero».
Tra i vecchi che andava conoscendo nel corso dell’indagine sui morti del crasticeddru, questo era il più scorbutico.
«Bisognerebbe radunarli tutti in un ospizio» pensò il commissario «mi verrebbe più facile interrogarli».
«Lo so che non valgono».
«E allora che vuole sapere?».
«Quando sono andate fuori circolazione».
«Provi a sforzarsi».
«Quando è stata proclamata la repubblica?» azzardò esitante Montalbano.
Si sentiva come uno studente che non si è preparato per l’esame. Il vecchio rise, la sua risata parse il rumore di due scatole di latta vacanti sfregate l’una contro l’altra.
«Sbagliai?».
«Sbagliò, e di grosso. Gli americani qua da noi sbarcarono nella notte tra il nove e il dieci luglio del 1943. Nell’ottobre dello stesso anno queste monete andarono fuori corso. Vennero sostituite con le amlire, le monete di carta che l’Amgot, l’amministrazione militare alleata dei territori occupati, fece stampare. E dato che queste banconote erano come taglio di una, cinque e dieci lire, i centesimi scomparirono dalla circolazione».
Fazio e Galluzzo tornarono che era già scuro e il commissario li rimproverò.
«All’anima! Ve la siete pigliata comoda!».
«Noi?!» ribatté Fazio. «Non lo sa com’è fatto il tenente? Prima di mettere mano al morto ha aspettato l’arrivo del giudice e del dottor Pasquano. Loro sì che se la pigliarono comoda!».
«Allora?».
«Si tratta di un morto di giornata, fresco fresco. Pasquano ha detto che tra l’ammazzatina e le telefonate non è passata manco un’ora. Aveva in sacchetta la carta d’identità. Si chiamava Gullo Pietro, di anni quarantadue, occhi azzurri, capelli biondi, colorito roseo, nato a Merfi, abitante a Fela in via Matteotti 32, coniugato, segni particolari nessuno».
«Perché non t’impieghi allo stato civile?».
Fazio con dignità non raccolse la provocazione, proseguì.
«Sono andato a Montelusa, ho consultato l’archivio. Questo Gullo ha avuto una giovinezza niente d’eccezionale, due furti, una rissa. Poi ha messo la testa a posto, almeno pare. Commerciava in granaglie».
«Le sono veramente grato d’avermi voluto ricevere subito» fece Montalbano al preside ch’era venuto ad aprirgli la porta.
«Ma che dice? Non mi fa che piacere».
Lo fece tràsiri, lo guidò in salotto, l’invitò ad assittarsi, chiamò.
«Angilina!».
Si materializzò una vecchietta minuta, curiosa della visita inattesa, linda, curatissima, occhiali spessi dietro i quali sparluccicavano occhi vivi, attentissimi.
«L’ospizio!» disse a se stesso Montalbano.
«Mi permetta di presentarle Angelina, mia moglie».
Montalbano le fece un inchino ammirativo, sinceramente gli piacevano le fìmmine anziane che magari in casa tenevano alle apparenze.
«Vorrà perdonarmi se le ho portato scompiglio all’ora di cena».
«Ma quale scompiglio! Anzi, commissario, ha qualche impegno?».
«Nessuno».
«Perché non resta a mangiare con noi? Abbiamo cose da vecchi, dobbiamo tenerci leggeri: tinnirume e triglie di scoglio a oglio e limone».
«M’invita a nozze».
La signora se n’uscì felice.
«Mi dica» disse il preside Burgio.
«Sono riuscito a localizzare il periodo nel quale è avvenuto il doppio delitto del crasticeddru».
«Ah. E quando è successo?».
«Sicuramente tra l’inizio del 1943 e l’ottobre dello stesso anno».
«Come ha fatto ad arrivarci?».
«Semplice. Il cane di terracotta, come ci ha detto il ragioniere Burruano, venne venduto dopo il Natale del ’42, quindi presumibilmente passata la Befana del ’43; le monete trovate nella ciotola andarono fuori corso nell’ottobre di quell’anno».
Fece una pausa.
«E questo significa una sola cosa» aggiunse.
Ma non la disse, la cosa. Aspettò pazientemente che Burgio si raccogliesse in se stesso, si susisse, facesse qualche passo nella càmmara, parlasse.
«Ho capito, dottore. Lei mi vuole significare che in quel periodo la grotta del crasticeddru era di proprietà del Rizzitano».
«Proprio questo. Già da allora, me l’ha detto lei, la grotta era chiusa dal masso, perché i Rizzitano ci tenevano la roba da vendere al mercato nero. I Rizzitano per forza dovevano conoscere l’esistenza dell’altra grotta, quella dove sono stati portati i morti».
Il preside lo taliò imparpagliato.
«Perché mi dice portati?».
«Perché sono stati ammazzati in un altro posto, questo è sicuro».
«Ma che senso c’è? Perché metterli lì, composti, come se dormissero, col bùmmolo, la ciotola coi soldi, il cane?».
«E quello che mi domando magari io. L’unica persona che può dirci qualcosa è forse Lillo Rizzitano, il suo amico».
Trasì la signora Angelina.
«È pronto».
Il tinnirume, foglie e cime di cucuzzeddra siciliana, quella lunga, liscia, di un bianco appena allordato di verde, era stato cotto a puntino, era diventato di una tenerezza, di una delicatezza che Montalbano trovò addirittura struggente. Ad ogni boccone sentiva che il suo stomaco si puliziava, diventava specchiato come aveva visto fare a certi fachiri in televisione.
«Come lo trova?» spiò la signora Angelina*.
«Leggiadro» disse Montalbano. E alla sorpresa dei due vecchi arrossì, si spiegò. «Mi perdonino, certe volte patisco d’aggettivazione imperfetta».
Le triglie di scoglio, bollite e condite con oglio, limone e pitrosino, avevano la stessa leggerezza del tinnirume. Solo alla frutta il preside ripigliò la questione che gli aveva posto Montalbano, ma non prima d’avere terminato di parlare del problema della scuola, della riforma che il ministro del nuovo governo aveva deciso d’attuare, abolendo tra l’altro il liceo.
«In Russia» disse il preside «al tempo degli zar il liceo c’era, magari se si chiamava in modo russo. Liceo da noi lo chiamò Gentile quando fece la sua riforma che idealisticamente metteva sopra tutto gli studi umanistici. Bene, i comunisti di Lenin ch’erano i comunisti ch’erano, il liceo non hanno avuto il coraggio d’abolirlo. Solo un arrinanzato, un parvenu, un semianalfabeta e mezza calzetta come questo ministro può pensare una cosa simile. Come si chiama, Guastella?».
«No, Vastella» disse la signora Angelina.
Propriamente si chiamava in un terzo modo, ma il commissario s’astenne dal precisare.
«Con Lillo eravamo compagni in tutto, non per la scuola però perché lui era più avanti di me. Quando io facevo il terzo liceo, lui si era appena laureato. Nella notte dello sbarco la casa di Lillo ch’era ai piedi della montagna del Crasto, venne distrutta. Da quanto sono riuscito a sapere, una volta passata la bufera, quella notte Lillo era solo nella villa e rimase gravemente ferito. Un contadino lo vide mentre dei militari italiani lo mettevano su un camion, perdeva molto sangue. Questa è l’ultima cosa che so di Lillo. Da allora non ne ho avuto più notizie e sì che ne ho fatto di ricerche!».
«Possibile che non ci sia un superstite di quella famiglia?».
«Non lo so».
Il preside notò che la moglie s’era persa darrè un suo pensiero, stava con gli occhi socchiusi, assente.
«Angilina!» fece il preside.
La vecchia signora si scosse, sorrise a Montalbano.
«Mi deve perdonare. Mio marito dice che sono sempre stata una femmina fantastica, ma non vuol essere un elogio, vuole significare che ogni tanto mi lascio pigliare dalla fantasia».